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Si può incrementare la felicità con dei semplici esercizi?

 

Lo psicologo Martin Seligman, insieme ad altri colleghi, ha condotto una ricerca in cui ha misurato empiricamente l’efficacia di alcuni esercizi per aumentare la felicità e diminuire la depressione.

Quando si parla di felicità, crediamo subito di sapere di cosa stiamo parlando, finché non proviamo a definirla: viene fuori che ognuno ha una sua concezione. Fermatevi un momento prima di continuare a leggere e chiedetevi cosa significa per voi essere felici.

Anche nella letteratura psicologica non esiste un concetto univoco di felicità, ma ben tre filoni di significato (Seligman, 2002):

  • le emozioni positive e il piacere (la vita piacevole);
  • l’impegno (la vita impegnata);
  • il senso (la vita piena di significato).

Secondo Seligman le persone soddisfatte sono quelle che si orientano verso tutti e tre tipi di obiettivi, con il maggior peso trasportato all’impegno e al significato (Peterson, Parco, e Seligman, 2005b).

Lo psicologo Martin Seligman, insieme ad altri colleghi, ha condotto una ricerca pubblicata sulla rivista American Psychologist (Positive Psychology Progress, 2005), in cui ha misurato empiricamente l’efficacia di alcuni esercizi per aumentare la felicità e diminuire la depressione, verificando i risultati attraverso la somministrazione, prima e dopo 6 mesi, di un test per misurare la felicità – Steen Happiness Index (SHI) e di uno per misurare la depressione (Beck Depression Inventory).

Uno degli esercizi era focalizzato sulla costruzione della gratitudine, due erano focalizzati sulla crescente consapevolezza di ciò che è risultato più positivo di se stessi, e due erano concentrati sull’individuazione dei propri punti di forza. La ricerca è stata randomizzata e prevedeva un gruppo di controllo che effettuava un esercizio placebo.

Gli esercizi erano i seguenti:

  • Esercizio di controllo placebo: i partecipanti sono stati invitati a scrivere i loro primi ricordi ogni sera per una settimana.
  • Esercizio di gratitudine: ai partecipanti è stato assegnato il compito di scrivere e poi consegnare una lettera di ringraziamento a una persona che era stata particolarmente gentile con loro, ma non era mai stata adeguatamente ringraziata.
  • Tre cose belle: ai partecipanti è stato chiesto di scrivere per una settimana ogni sera tre cose che sono andate bene durante il giorno e perchè.
  • Al tuo meglio: i partecipanti sono stati invitati a scrivere di un tempo in cui erano al loro meglio, di rileggere una volta al giorno la storia e quindi di riflettere sui punti di forza personali individuati.
  • Utilizzare i punti di forza in un modo nuovo: i partecipanti sono stati invitati a fare un test on-line sull’inventario dei punti di forza e a ricevere un feedback personalizzato per il loro primi cinque punti di forza (Peterson et al., 2005a). Si chiedeva successivamente di utilizzare uno di questi primi punti di forza in una nuova situazione e in modo diverso ogni giorno per una settimana.
  • Identificare i punti di forza: simile al precedente, ai partecipanti veniva chiesto di individuare i cinque punti di forza con il questionario e di utilizzarli più spesso durante la settimana.

Tanti dei partecipanti hanno continuato a fare gli esercizi anche dopo la settimana di prova e sono stati monitorati dal gruppo di ricerca. Due degli esercizi – Utilizzare i punti di forza in un modo nuovo e Tre cose belle – hanno avuto come effetto l’aumento della felicità e la diminuzione dei sintomi depressivi per sei mesi. L’esercizio della gratitudine ha generato grandi cambiamenti positivi, ma solo per un mese. Gli altri due esercizi e il controllo con placebo hanno creato effetti positivi ma comunque transitori sulla felicità e sui sintomi depressivi.

Quindi, se volete essere felici, provate a scrivere ogni sera tre cose positive capitate durante la giornata per un periodo minimo di sei mesi, oppure, dopo averli individuati, cominciate a utilizzare i vostri punti di forza in modi nuovi.

Se qualcuno pensa che sia più facile fare gli esercizi insieme agli altri, per Tre belle cose esiste un evento su Facebook a cui si può partecipare condividendo ogni giorno le proprie belle cose. Un modo per utilizzare il social in maniera intelligente, ispirando e lasciandosi ispirare.

E visto che voglio dare il buon esempio, scrivere questo articolo è stato per me una bella cosa. Sapere che qualcuno è diventato più felice sarebbe la seconda…la terza è l’attesa dei vostri risultati!

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Seligman, M. E. P., Steen, T. A., Park, N.,  Peterson, C.,(2005), Positive Psychology Progress. Empirical Validation of Interventions.  American Psychologist, 60(5), 410-421. DOWNLOAD

Stimolazione transcranica con correnti dirette per il trattamento dei deficit cognitivi nella schizofrenia

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

L’applicazione di una lieve stimolazione elettrica al cervello dei pazienti con schizofrenia migliora alcuni aspetti del loro funzionamento cognitivo, secondo un recente studio condotto dagli psicologi della Gertrude Conaway Vanderbilt University e pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

I network cerebrali che coinvolgono la corteccia frontale ci consentono di adattare il nostro comportamento alle richieste che provengono dall’ ambiente in cui siamo inseriti e ad aggiustare la nostra modalità di elaborare le informazioni in caso di errori. Una disfunzione a questo livello può interessare una varietà di disturbi psichiatrici, tra cui la schizofrenia, in cui i deficit di controllo del comportamento adattivo costituiscono un sintomo centrale. Un indice di controllo adattivo rilevabile in laboratorio e compromesso nei pazienti con schizofrenia è la presenza di un riduzione quasi impercettibile della velocità di risposta a seguito di un errore.

La mancanza di questo rallentamento esemplifica il comportamento rigido, perseverante e maladattivo che caratterizza questi pazienti, dotati generalmente di scarse capacità di automonitoraggio. Il correlato neurofunzionale del controllo adattivo è costituito dalla presenza di onde theta (oscillazioni elettriche a bassa frequenza rilevabili attraverso l’elettroencefalogramma) a livello della corteccia fronto-mediale, tramite cui il sistema esecutivo invia dei segnali alle funzioni cognitive subordinate (percezione, attenzione etc) per regolarne il funzionamento.

In uno studio precedente, il Dr. Robert M.G. Reinhart, primo autore della ricerca, è riuscito a potenziare le capacità di monitoraggio dell’errore in soggetti sani applicando alla loro corteccia fronto-mediale una stimolazione elettrica a basso voltaggio. Si tratta della cosiddetta ‘stimolazione transcranica con correnti dirette’ o tDCS (dall’inglese ‘transcranial Direct Current Stimulation’), una metodica di stimolazione cerebrale non invasiva capace di indurre cambiamenti funzionali nella corteccia cerebrale. Questa tecnica consiste essenzialmente nell’applicare sullo scalpo degli elettrodi eroganti una corrente continua di bassa intensità, in grado di raggiungere il cervello e influenzarne in funzionamento.

Dopo il successo ottenuto sui soggetti sani, il nuovo obiettivo che si ponevano i ricercatori era dunque di valutare la possibilità di replicare un simile miglioramento anche nei pazienti con schizofrenia. Dai risultati ottenuti è emersa innanzi tutto la presenza, tanto nei soggetti sani, quanto nei pazienti, di un’attività a bassa frequenza a livello della corteccia fronto-mediale, che, mentre nei primi era regolare e sincronizzata, nei secondi si mostrava debole e disorganizzata. A livello comportamentale, inoltre, i pazienti non presentavano, come ipotizzabile, il classico rallentamento nella velocità di risposta a seguito della commissione di errori. Subito dopo aver applicato la stimolazione elettrica, tuttavia, si è osservata una normalizzazione della prestazione comportamentale dei pazienti, che li rendeva indistinguibili dai soggetti di controllo.

[blockquote style=”1″]Questi risultati indicano che tramite tDCS è possibile ripristinare il monitoraggio dell’errore negli schizofrenici, con importanti implicazioni per il trattamento dei loro deficit cognitivi[/blockquote] spiegano gli autori. Chiaramente c’è ancora molto lavoro da fare prima di essere certi che la tDCS possa essere proposta come trattamento standard. È infatti necessario approfondire la comprensione dei processi attraverso i quali avviene il miglioramento, identificare la durata dei benefici e la possibile presenza di altri effetti non preventivati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Reinhart, R. M., Zhu, J., Park, S., & Woodman, G. F. (2015). Synchronizing theta oscillations with direct-current stimulation strengthens adaptive control in the human brain. Proceedings of the National Academy of Sciences, 201504196.  DOWNLOAD

Il Mobbing – Introduzione alla Psicologia Nr. 25

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 25)

 

 

Con mobbing si indica solitamente una forma di terrore psicologico esercitata sul posto di lavoro da parte di colleghi o superiori ed è caratterizzato da comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti nei confronti di un collega o di un sottoposto.

 

Mobbing è un termine preso in prestito dall’inglese to mob, che significa assalire, aggredire, affollarsi attorno a qualcuno, circondarlo.

Con mobbing, dunque, si indica solitamente una forma di terrore psicologico esercitata sul posto di lavoro da parte di colleghi o superiori ed è caratterizzato da comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti nei confronti di un collega o di un sottoposto.

La vittima si vede emarginata, calunniata, criticata; gli sono affidati compiti dequalificanti, ed è sistematicamente messa in difficoltà di fronte a clienti o superiori, attraverso critiche, diniego e svalutazione. Nei casi più gravi si arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni poco lecite per riuscire a mandar via definitivamente il mal capitato.

La messa in atto di tale comportamento può essere di varia natura, ma sempre volto all’annientamento dell’altro. Lo scopo è eliminare una persona divenuta in qualche modo scomoda, per motivi non sempre concreti, spesso si tratta di problematiche inerenti alla sfera emotiva. In questo modo la persona è indotta a rassegnare le proprie dimissione, perché stremata dalle vessazioni, o in alcuni casi lo stress ripetuto provoca problematiche lavorative tali che portano inevitabilmente al licenziamento.

Il Mobbing consiste in azioni ripetute per un lungo periodo di tempo e compiute in maniera sistematica. Il mobbizzato è letteralmente accerchiato, soggiogato, e aggredito intenzionalmente dal o dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale. L’invettiva diventa il principale lavoro quotidiano esercitato nei confronti del mobbizzato, fino alla distruzione mentale e corporale.

Il Mobbing provoca effetti devastanti, poiché mira a danneggiare a menomare volutamente le sua capacità lavorativa e la fiducia in se stesso pian piano cede il posto alla tristezza più totale.

Per questo, il mobbizzato non riuscendo a smaltire lo stress mostra manifestazioni psicosomatiche, stati depressivi o ansiosi, tensione continua e incontrollata. Le ricerche hanno dimostrato che il Mobbing può portare a un danno psichico o psicofisico permanente, tale da consentire una regolare richiesta di risarcimento per invalidità professionale.

Il Mobbing ha quindi effetti deleteri e distruttivi, acuiti dalle scarse possibilità di difesa, perché la paura prepotente e costante di perdere il lavoro e di non avere più altre possibilità, porta la vittima a subire gli attacchi in maniera indefessa.

La vittima, dunque, è sempre in una posizione inferiore, inteso come status, rispetto ai suoi avversari e gradualmente perde la sua posizione lavorativa, il rispetto degli altri, il suo potere decisionale, la salute psichica, la fiducia in se stesso, l’entusiasmo nel lavoro e, soprattutto, la propria dignità.

I più coraggiosi ricorrono alla legge ma, in merito a tale materia, è scarsa e ambigua, di fatto il confine tra lecito esercizio del comando in termini lavorativi e puro arbitrio aggressivo è impalpabile e molto flebile.

Purtroppo, è ancora difficile far riconoscere il Mobbing come una vera malattia professionale risarcibile e come pratica criminale punibile penalmente. Di recente comincia a muoversi qualcosa, ma la luce in fondo al tunnel è ancora lontana.

Ricordiamo, però, che il Mobbing vero e proprio è un abuso vero, che dovrebbe essere combattuto, denunciato, e riconosciuto, non solo a livello individuale ma anche sociale nella speranze possa essere anche punito in futuro.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Open source per il sociale: arriva Symhelper, il software per facilitare la creazione degli In-Book

logo SymHelper

Comunicato Stampa

Grazie ad una campagna di crowdfunding è stato possibile realizzare l’applicativo, completamente gratuito, utile per l’apprendimento dei bambini con disabilità nella comunicazione

Milano, 22 luglio – Dopo due anni di sviluppo e collaborazione tra tecnici informatici e utenti finali, è finalmente pronta la versione 1.0 di Symhelper. Il software, completamente gratuito, facilita l’importante operazione di riquadratura per gli In-Book: libri i cui testi sono tradotti in simboli, utilizzati all’interno di percorsi di Comunicazione Aumentativa Alternativa (C.A.A.).

 

Symhelper permette di velocizzare e semplificare la creazione di pagine con simboli già riquadrati, in maniera che autori o genitori possano concentrarsi sull’impaginazione, sulla disposizione dei simboli oppure sull’inserimento di immagini, invece che sull’operazione meccanica di riquadratura dei simboli svolta fino ad ora manualmente. Symhelper è capace di riconoscere in maniera automatica i simboli non riquadrati del file PDF che analizza, producendo un documento con simboli riquadrati in formato ODF (Open Document Format) per successive modifiche o integrazioni tramite LibreOffice o OpenOffice.

L’idea di realizzare Symhelper nasce da Luca Errani (membro della Comunità dell’Arca L’Arcobaleno) e dall’esperienza diretta con sua figlia Chiara, una ragazza che comunica e apprende da sempre tramite la C.A.A.

I libri in simboli – spiega Luca Errani – hanno una particolare importanza per il singolo bambino o ragazzo con difficoltà nella comunicazione, perché, attraverso un codice più accessibile, consentono di avere maggiori strumenti in entrata per arricchire la propria esperienza, il proprio vocabolario e la lettura di ciò che vivono. Anche numerose esperienze per l’inserimento di bambini stranieri testimoniano l’efficacia della C.A.A. come mezzo di apprendimento della nuova lingua. Fino ad ora – continua Errani – noi genitori non avevamo a disposizione un software che consentisse una riquadratura automatica dei simboli e lo dovevamo fare manualmente, è per questo che mi è venuta l’idea di crearne uno ad hoc. Idea che è stata subito sostenuta dal Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa del Policlinico di Milano, dall’Ausilioteca di Bologna e dall’Associazione Territoriale per L’integrazione Il Volo Onlus di Fiscaglia (FE).

La realizzazione del software nasce dallo sforzo di tutto il gruppo di sviluppo ed è stata possibile grazie a una campagna di crowdfunding, che ha permesso di raccogliere i fondi necessari. Il coordinamento tecnico del progetto è stato seguito dalla società VNS, attiva da tempo nel mondo Open Source, che ha contribuito donando due risorse tecniche per questo importante contributo nel sociale.

La versione Symhelper 1.0 è scaricabile gratuitamente al seguente indirizzo.

 

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Il figlicidio materno: caratteristiche e fattori di rischio

Maura Crivellenti – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Milano

L’essere madre porta con sé, accanto alla gioia, molte angosce, paure, difficoltà, rabbia, insofferenza, che le donne da sole non sempre possono affrontare, soprattutto quando questi sentimenti diventano insormontabili, arrivando a travolgerle. Perché queste donne sono spesso lasciate sole nelle loro paure, nonostante siano nella maggior parte dei casi circondate da familiari o da mariti, che pur essendoci in realtà non sono presenti affettivamente.

È il 24 Giugno del 2002 quando Simona decide di portare i suoi due bambini al laghetto, Davide di ventuno giorni e Matteo di quattro anni. Mentre passeggia coi bambini Simona pensa: Io a casa non ci torno…io in quella situazione non ci torno, perché dirà poi Sarei rimasta ancora sola…mio marito non poteva capire niente dei miei desideri. Fa caldo e chiede al più grande se vuole rinfrescarsi un po’. La mamma lo aiuta ad entrare in acqua, poi entra lei con Davide. Il più piccino scivola dalle sue braccia e Simona non fa nulla per trattenerlo. Anche Matteo va a fondo, riemergendo poco dopo privo di sensi. Simona si mette sulla schiena e fa il morto nell’acqua. Mi sono sentita andare via (Pannitteri, 2006).

Nessun crimine come l’omicidio di un figlio da parte della propria madre ci lascia così inermi. Di fronte a fatti come questi la domanda che nasce spontanea in ognuno di noi è: Come può una madre riuscire ad uccidere un figlio? Quali sono i motivi che la spingono a compiere questo orribile gesto?. La risposta che tranquillizza la società di fronte a certi casi è senza dubbio quella di attribuire alle madri una patologia mentale, giustificando il gesto come pazzia, perché non è normale che una madre abbia il desiderio di uccidere il proprio bambino. Attribuire questo gesto alla follia ha uno scopo rassicurante, sia perché funge da spiegazione, sia perché allontana da noi l’ipotesi di poterlo commettere in quanto soggetti sani.

Come scrive McKee (2006), questi fatti evocano nella memoria la nostra infanzia, quando avevamo paura della rabbia dei nostri genitori, domandandoci oggi se le nostre madri possono aver avuto l’intenzione o il solo pensiero di ucciderci in quei momenti, di farci del male o d’abbandonarci; per i genitori, rievocano invece episodi della vita in cui si sono sentiti così arrabbiati nei confronti dei figli tanto che la loro reazione è andata oltre i limiti consueti, accettati, spaventati dalla capacità di tale violenza, mai conosciuta prima.

Nel profondo della mente di padri e madri si insinua un pensiero pericoloso e segreto che riguarda la paura che possano anche loro, prima o poi, commettere un atto impulsivo nei confronti del proprio bambino. A volte, però, la patologia non sta solamente nella persona, ma anche nell’ambiente familiare e nelle sue dinamiche. Lo psichiatra americano First e altri suoi collaboratori (Peccarisi, 2004) hanno parlato di sindrome chiamata Disturbo Relazionale (Relational Disorder), nella quale non è considerato malato il singolo individuo, ma un gruppo di soggetti e la relazione che intercorre tra loro. Può quindi accadere che un soggetto con tale disturbo se osservato da solo non riveli nulla di patologico. È il modo con cui alcune persone interagiscono all’interno di specifiche relazioni che può risultare disturbato, con modalità del tutto simili a quelle che caratterizzano la malattia mentale.

La maternità è un periodo spesso idealizzato, dove il male deve essere allontanato. La collettività dipinge, infatti, il periodo della gestazione, del parto e dei primi periodi di vita del neonato come un periodo idilliaco, come un momento che deve appartenere a tutte le donne, un desiderio innato che non si apprende. Ma si può davvero parlare di istinto materno? In realtà, sarebbe meglio parlare di sentimento materno, in quanto culturalmente e non biologicamente determinato (Merzagora, 2003). Così come tutti i momenti della propria vita, la maternità si caratterizza per la compresenza di spinte aggressive e spinte libidiche, se vogliamo parlare coi termini di Freud. È il giusto equilibrio tra queste due spinte emotive a renderci sani. L’essere madre porta con sé, accanto alla gioia, molte angosce, paure, difficoltà, rabbia, insofferenza, che le donne da sole non sempre possono affrontare, soprattutto quando questi sentimenti diventano insormontabili, arrivando a travolgerle. Perché queste donne sono spesso lasciate sole nelle loro paure, nonostante siano nella maggior parte dei casi circondate da familiari o da mariti, che pur essendoci in realtà non sono presenti affettivamente, che ignorano e minimizzano quanto la neo mamma sta attraversando.

I cosiddetti momenti bui, come spesso sono definiti nei racconti successivi al fatto dalle mamme che hanno commesso figlicidio, arrivano senza che nessuno se ne accorga. I sentimenti negativi non possono essere espressi o comunicati perché diventare madre deve essere bellissimo.

Il figlicidio: una definizione e classificazione

Comunemente si tende ad associare il figlicidio materno ad una patologia mentale (tenendolo ben differenziato dal figlicidio commesso dai padri, perché assume caratteristiche differenti). Eppure, il figlicidio non è solo un atto di natura patologica, non sempre deriva da una mano dominata da allucinazioni e deliri psicotici e la nostra società non è nuova a queste vicende. Basta ripercorrere brevemente la storia dell’umanità per rendersene conto.

 L’infanticidio o l’esposizione prolungata dei neonati al freddo (inteso come abbandono) erano metodi comunemente utilizzati ed accettati nella Roma e nella Grecia antica. Al pater familias era lasciato pieno diritto di decisione sulla vita o la morte di ogni figlio che nasceva. Le deformazioni, in particolare, erano considerate un peccato e quando un bambino nasceva sfortunato la sua vita era subito troncata. È solo nel 374 d.C. che la legge Romana decreta che l’uccisione di un infante è considerato omicidio (Palermo, 2002). Gli omicidi dei più piccoli però continuarono, perché nel 400 d.C. ancora si credeva che i bambini che non smettevano di piangere fossero posseduti dal demonio, possibile causa scatenante ancora oggi dell’atto omicida (Palermo, 2002). L’infanticidio, quindi, è stato utilizzato spesso come strumento di controllo demografico, dove anche i fattori culturali hanno un grande peso. Basti pensare che nell’infanticidio il sesso del nascituro è importante, soprattutto in determinate culture, come ad esempio la Cina o l’India.

Una definizione dei termini usati dalla letteratura è di fondamentale importanza per essere consapevoli di cosa intendiamo con la parola figlicidio, rispetto alla parola neonaticidio e infanticidio. Il diritto distingue solamente tra infanticidio e omicidio. Si parla di infanticidio, secondo l’articolo 578 c.p., quando l’uccisione del feto avviene durante o dopo il parto, in condizioni di abbandono materiale e morale. Al contrario si parla di omicidio, in particolare nell’articolo 575 c.p., quando un genitore, non necessariamente la madre, uccide il figlio che può essere anche un neonato, ma senza le condizioni previste nell’articolo precedentemente citato, che spesso risultano di difficile individuazione. In questo contesto è possibile applicare inoltre le aggravanti del caso (Bramante, 2005).

La criminologia, rispetto alla giurisprudenza, fa una distinzione sulla base dell’età della vittima. L’uccisione entro le 24 h dalla nascita è chiamata neonaticidio, l’infanticidio va dal primo giorno di vita al compimento del primo anno di età ed infine il termine figlicidio si utilizza per i bambini uccisi dal primo anno di vita in poi. Anche Resnick (1969), uno tra i più importanti studiosi dell’argomento, preferisce distinguere il neonaticidio dal figlicidio propriamente detto, termine che egli utilizza dalle 24 h di vita in poi (Bramante, 2005). Il motivo di questa distinzione sta proprio alla base della motivazione che porta a commettere il neonaticidio rispetto al figlicidio. Nel primo caso la principale motivazione è quella di impedire l’inizio della vita del feto, per lo più non voluto, e l’istaurarsi quindi di un legame affettivo. Nel secondo caso, invece, il rapporto è già iniziato e le motivazioni possono essere di gran lunga più numerose. Questa prima definizione criminologica sull’età funge anche come prima classificazione, ma presenta diverse limitazioni. Infatti una suddivisione che si basa solo sull’età della vittima, non permette di individuare gli eventuali fattori di rischio e di attuare strategie preventive (McKee, 2006).

La prima importante revisione della letteratura sul figlicidio è stata fatta dallo psichiatra Philip Resnick nel 1969, il quale trovò 155 riferimenti pubblicati dal 1751 al 1967. Egli sviluppò una classificazione del figlicidio basandosi sulle maggiori motivazioni che possono sottostare all’agito materno, suddividendole in cinque categorie:

  • Figlicidio altruistico, nel tentativo di alleviare una sofferenza immaginata o reale al bambino o nel desiderio di evitare una sofferenza futura.
  • Figlicidio psicotico, comprende quelle madri che uccidono sotto l’influenza di un chiaro e grave disturbo psicopatologico, come una schizofrenia o una psicosi post-partum.
  • Figlicidio del bambino non voluto, quando la madre non lo ha desiderato e il legame non si è mai istaurato.
  • Figlicidio accidentale, è una morte non intenzionale causata dalla negligenza della madre o da un abuso fisico per un’eccessiva punizione.
  • Figlicidio come vendetta verso il coniuge, quando l’impulso omicida è diretto verso il bambino nel tentativo di provocare una sofferenza nel proprio partner, come rivendicazione.

Dalla prima classificazione di Resnick ne sono susseguite molte altre. In tutte queste classificazioni non si notano grandi differenze, cambiano le denominazioni delle categorie ma le definizioni sono per lo più molto simili.

Un’importante innovazione nella stesura di un modello di spiegazione del figlicidio è stato effettuato da Ania Wilczynski, nel 1997. L’autrice decide di proporre una classificazione sulla base di motivi primari e secondari, perché spesso le ragioni che spingono il genitore a questo crimine possono essere ricondotte a diverse categorie. Il motivo primario è quello dominante, ragione o causa del figlicidio; il motivo secondario è una ragione con meno importanza nella spiegazione del figlicidio. Per esempio, una madre che sente delle voci allucinatorie che la esortano a punire il figlio, il quale muore a causa delle eccessive percosse, ha come motivo primario senza dubbio la psicosi mentre come motivo secondario la disciplina. Ovviamente se la psicosi è tenuta sotto controllo con i farmaci le due motivazioni saranno invertite: primaria sarà la disciplina, secondaria sarà la psicosi (McKee, 2006).

Nel 2006 un’ulteriore classificazione è stata presentata da McKee, il quale ha condotto lunghe interviste a madri, adolescenti e adulte, accusate di aver ucciso il proprio figlio. La classificazione elaborata da McKee presenta queste categorie: Madri Distaccate; Madri Abusive/Negligenti; Madri Psicotiche/Depresse; Madri Vendicative; Madri Psicopatiche.

Il figlicidio e le sue caratteristiche

Resnick (1969) ha definito il figlicidio propriamente detto come l’atto omicida attuato dalla madre nei confronti del figlio dal primo giorno di vita in poi. Diversamente dal neonaticidio, la madre che commette figlicidio ha già istaurato, più o meno profondamente, un rapporto con il bambino e di conseguenza anche le motivazioni sottostanti sono differenti. Resnick è dell’opinione che il rischio per un bambino di essere ucciso dai propri genitori diminuisce con l’aumentare della sua età. In altre parole, il bambino è più vulnerabile quando il rapporto madre-figlio non ha ancora raggiunto un legame solido e un solido attaccamento materno. Il figlicidio può essere suddiviso in una serie di tipologie non solo motivazionali, ma anche situazionali in un continnum che va dall’assenza di patologia fino alla patologia più grave (Merzagora, 2003).

La porzione più piccola nei campioni riportati nella letteratura è rappresentata dalla Sindrome o Complesso di Medea, dove l’omicidio del figlio è compiuto per vendetta, e richiama il mito greco di Medea. Il fattore scatenante è la conflittualità con il marito. In altre parole, il bambino è utilizzato come un vero e proprio strumento, al fine di creare sofferenza o di attirare l’attenzione di chi è il vero oggetto di ostilità, spesso acuita prima dell’atto omicida da un ulteriore lite con il marito (Merzagora, 2003).

Un altro tipo di figlicidio riguarda quello accidentale, in cui non vi è l’intento di uccidere, ma è l’atto estremo come risultante dell’evoluzione della Sindrome del Bambino Maltrattato, la Batter Child Sindrome, un comportamento impulsivo spesso in risposta al pianto, alle urla o all’applicazione della disciplina. La categoria del figlicidio accidentale è la più grande o la seconda più grande nei campioni studiati in letteratura insieme ad un’altra tipologia di figlicidio caratterizzata da una patologia psichiatrica (McKee, 2006). Le madri che commettono un figlicidio di tipo accidentale hanno spesso un disturbo di personalità, una modesta intelligenza, irritabilità e un’incapacità a mantenere un lavoro stabile (Merzagora, 2003). Sono anche donne che provengono da famiglie numerose e/o che a loro volta sono state più probabilmente vittime di maltrattamenti nella loro infanzia. Queste esperienze possono condurre all’incapacità di sviluppare un sicuro legame di attaccamento nei confronti dei propri figli, fino a portarle nei casi estremi a commettere l’omicidio. Arshad e Anasseril (1984) hanno affermato che esiste una sostanziale differenza tra le madri figlicide e quelle abusanti. Le prime infatti, soffrono di un grave disturbo psichiatrico al momento dell’atto e hanno avuto più frequentemente in passato una malattia mentale, facendo rientrare i figli nei propri deliri. Raramente, inoltre, hanno abusato del figlio prima di ucciderlo e loro stesse hanno meno probabilmente una storia di abuso alle spalle. Al contrario, le madri abusanti hanno una significativa assenza di un disturbo mentale sia al momento della valutazione, sia nel loro passato. Sono spesso però già segnalate ai servizi, sia nel presente come madri abusanti, sia nel passato come vittime di abuso da parte dei propri genitori.

Tra i casi di maltrattamento velato troviamo la Sindrome di Munchausen per Procura, in cui la madre inventa sintomi o segni che il bambino non ha o che lei stessa gli procura somministrandogli farmaci ad esempio, esponendolo di conseguenza ad una serie di accertamenti od operazioni, più o meno invasive, fino a procurargli la morte nei casi estremi (Bramante, 2005). Il comportamento adottato da queste madri è amichevole, collaborante e cordiali e difficilmente portano i medici a pensare di trovarsi di fronte ad una madre maltrattante. Il padre in questi casi è una figura piuttosto debole, ai margini della scena, assente sia fisicamente che emotivamente (Bramante, 2005). La letteratura (Rosen et al. 1984; Bools et al. 1993; Merzagora, 2003) sembra essere concorde nel negare una grave patologia mentale in queste madri, più spesso portatrici di un disturbo di personalità (Borderline, Istrionico, Paranoide) come accade per le altre mamme maltrattanti. Nell’anamnesi si possono poi ritrovare condotte autolesive, utilizzo di sostanze, abusi o maltrattamenti.

Il profilo della madre che commette figlicidio è stato più volte elaborato. L’età media individuata nei studi va dai 25 anni ai 30. Una buona parte presenta un basso quoziente intellettivo, influenzato probabilmente anche dal livello di istruzione più basso. Per quanto riguarda lo stato coniugale la maggioranza di queste donne sono sposate o con una relazione al momento della morte del figlio, ma vivono in una situazione socioeconomica caratterizzata da difficoltà finanziarie. Nella loro infanzia è frequente trovare una storia di abuso, ma è stata rilevata un’alta prevalenza di violenza domestica anche al momento dell’omicidio. Queste madri presentano una percentuale decisamente maggiore di disturbi psichiatrici, sia nell’anamnesi personale che familiare.

Nell’anamnesi familiare non è infrequente trovare una malattia mentale in uno o più familiari della madre, mentre rispetto all’anamnesi personale la letteratura è concorde nel riportare una precedente storia di malattia mentale e di trattamento; infatti, la maggior parte di queste madri era stata antecedentemente ospedalizzata o aveva ricevuto cure psichiatriche in concomitanza al periodo in cui era stato ucciso il bambino. Grande attenzione è stata rivolta alla diagnosi clinica, i disturbi mentali infatti sono individuati in molte review della letteratura. Nonostante le differenze i disturbi più frequenti sono senza dubbio quelli psicotici e quelli dell’umore, oltre a disturbi dell’adattamento, abuso o dipendenza da sostanze e ai disturbi di personalità.

La prevenzione e i fattori di rischio

La prevenzione in casi drammatici come il figlicidio materno riveste un ruolo fondamentale. Cercare di anticipare i comportamenti omicidi o semplicemente gli stati di sofferenza a cui una madre può andare incontro durante la maternità potrebbe salvare la vita di un bambino. Per poter fare prevenzione è necessario sapere innanzi tutto quale comportamento vogliamo evitare e quali sono i segnali premonitori, cioè i fattori di rischio. La letteratura riporta diversi studi in cui si è cercato di fornire un quadro degli aspetti che fanno rientrare una madre in una condizione di rischio e che dovrebbe destare attenzione e allarme sia nella società che nei servizi di salute mentale. I fattori di rischio sono caratteristiche, condizioni, segnali e circostanze ambientali associate a un’elevata probabilità che si manifesti un determinato target. La fonte del rischio può essere individuale, come le caratteristiche demografiche della madre, familiare, cioè legata alle caratteristiche o alle interazioni tra i membri della propria famiglia d’origine, e infine situazionale, associata alle circostanze immediate al fatto. Ovviamente esistono anche dei fattori protettivi, cioè un qualsiasi fattore di rischio mancante, un suo opposto oppure un giusto mezzo tra due estremi di un aspetto.

 Una recente matrice dei fattori di rischio è stata elaborata da McKee, organizzata secondo due dimensioni: il dominio (individuale, familiare, situazionale) e le fasi della maternità (pre-natale, perinatale, primo post-partum, tardo post-partum e tarda infanzia). Sicuramente il figlicidio materno è un evento multifattoriale, cioè è determinato da diverse cause, che potremmo chiamare concause, perché un singolo fattore di rischio non comporta necessariamente un atto omicida verso il figlio: solo la presenza congiunta di diversi fattori rende possibile il suo verificarsi. Inoltre, non possiamo considerare i fattori indipendenti tra loro. Più probabilmente i diversi aspetti si intrecciano e si influenzano l’un l’altro, aumentando la complessità del fenomeno. Il figlicidio materno quindi è un fenomeno composito, caratterizzato da un gruppo di madri molto eterogenee tra loro. È possibile che gruppi di madri figlicide che rientrano in categorie differenti (ad es. figlicidio accidentale e figlicidio con patologia psichiatrica) possano avere fattori di rischio molto differenti.

Tra i fattori di rischio individuali che la letteratura riporta troviamo:

  • età della madre inferiore a 16 anni o superiore a 35 anni
  • profilo intellettivo basso o ritardo mentale
  • livello istruzione basso
  • livello socioeconomico basso, impiego con ridotto profitto o non stabile
  • stato medico della madre (malattia terminale, utilizzo di sostanze)
  • diagnosi di depressione, psicosi, abuso o dipendenza da sostanze psicoattive, disturbo di personalità (Paranoide, Antisociale, Narcisistico e Borderline).
  • presenza di un trauma infantile (abuso fisico o sessuale o negligenza, perdita della madre, divorzio dei genitori o violenza domestica)
  • attitudine materna verso il nascituro (ad esempio gravidanza indesiderata).

Tra i fattori di rischio familiari troviamo:

  • madre poco supportava dal punto di vista materiale ed emotivo, che soffre di malattia mentale o abusa di sostanze illegali
  • presenza di un padre abusante o abusa di sostanze illegali o che soffre di malattia mentale
  • instabilità familiare caratterizzata da separazioni, divorzio, violenza, difficoltà finanziarie o trasferimento.

Tra i fattori di rischio situazionali troviamo:

  • assenza del partner oppure presenza di un partner abusante e coercitivo; bassa soddisfazione e adattamento coniugale
  • condizioni di povertà o dipendenza dall’assistenza sociale
  • più figli da accudire da sola e avere gravidanze ravvicinate nel tempo perché a sua volta aumenta il rischio di depressione post partum
  • bambino con temperamento difficile.

Il maggior rischio per il figlicidio, secondo la letteratura, si ha durante il primo anno di vita del bambino, perciò diventa importante riconoscere i sintomi dei disturbi tipici del post-partum, come la depressione o la psicosi ma anche l’abuso di sostanze, meno tipico ma allo stesso modo molto pericoloso per la possibilità di slatentizzare un disturbo psichiatrico. Quindi diventa necessaria una preparazione anche rispetto ai fattori di rischio dei disturbi puerperali (Craig, 2004).

Gli studi hanno dimostrato che l’aver presentato una depressione precedente al parto è un rischio per lo sviluppo di una depressione post-partum nel periodo del puerperio. Alcune ricerche hanno evidenziato la presenza o l’assenza di pregressi stati psicopatologici al parto e il ruolo del contesto familiare e sociale (Verkerk et al. 2005). Infatti, il funzionamento sociale, insieme alla gravità dei pregressi stati depressivi e al livello di accudimento ricevuto dai genitori durante l’infanzia, sono dei fattori altamente predittivi dell’evoluzione dei disturbi puerperali (King et al. 1997).

Friedman e colleghi (2005) hanno riportato che uno tra i diversi fattori di rischio per i casi di figlicidio-suicidio, in cui la madre oltre a uccidere il figlio si suicida, era un precedente contatto con i servizi di salute mentale, così come i precedenti tentativi di suicidio, confermato anche da studi più recenti (Lysell, 2014). Inoltre, è stato evidenziato che dopo la nascita del primo figlio una condizione depressiva stabile è influenzata dall’abuso di sostanze e da tratti borderline o antisociali di personalità (Lewinsohn et al. 2000).

Grande attenzione è stata data quindi ai disturbi psichiatrici nella ricerca rivolta a individuare i fattori di rischio per il figlicidio. Gli autori tendono a precisare però che sebbene i disturbi psichiatrici siano un fattore di rischio per il figlicidio, la maggioranza delle donne malate non uccide o aggredisce il proprio bambino e alcune delle donne che compiono figlicidio non hanno nessun disturbo (Craig, 2004).

Oltre alla patologia mentale, sono stati citati in letteratura anche altri importanti fattori di rischio, come ad esempio l’eccessiva dipendenza dagli altri e i conflitti presenti all’interno del nucleo familiare. I fattori di rischio per il figlicidio, rispetto a quelli del neonaticidio, offrono maggiori possibilità di prevenzione, attraverso non solo la clinica prenatale, ma anche con follow-up nel post-partum che permettono di seguire i casi ad alto rischio. Diversi interventi sono possibili quando dopo il parto si manifestano sintomi d’ansia e dell’umore.

Sicuramente si può attivare un intervento educativo rivolte alle madri nel tentativo di fornire loro informazioni sulla genitorialità, sulle cure e lo sviluppo del bambino. Si può agire anche all’interno di un supporto empatico o con terapie cognitivo-comportamentali indirizzate sia alle madri che alle coppie di genitori. Ancora ci sono terapie di gruppo pre e post-natali, che aiutano le madri a trovare rassicurazioni nella condivisione delle stesse difficoltà con altre donne, oltre che visite domiciliari, che nei casi di negligenza e di abuso hanno avuto in particolare un grande successo (Olds et al. 1997). Diversi autori hanno esteso questo approccio a tutto il campione di madri figlicide, mentre Overpeck e colleghi (1998) hanno proposto un cross-training per i professionisti della salute per permettergli di individuare la violenza domestica. Ancora molto c’è da fare in questo ambito, perché non bastano solo nuove ricerche che possano ulteriormente confermare i fattori che portano a considerare un caso ad alto rischio, ma è necessaria anche una adeguata formazione professionale per coloro che sono più a diretto contatto con le madri, dai pediatri ai medici di base, così che possano essere messi nella condizione di inviare casi allarmanti a servizi specializzati, in una prospettiva di intervento di rete.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Philip Zimbardo: My journey from evil to heroism – Report Pt. 2

Nel 1971 il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Standford creò una prigione simulata reclutando 24 studenti per impersonare guardie e carcerati. I risultati dell’esperimento condotto da Philip Zimbardo scioccarono il mondo intero.

L’esperimento, da cui è stato fedelmente tratto il film di cui vi abbiamo mostrato il trailer, aveva inizialmente lo scopo di studiare l’influenza dell’autorità sul comportamento umano e sarebbe dovuto durare due settimane. Fu interrotto dopo soli 6 giorni perché gli studenti, persone “normali” (cioè senza alcun tratto psicopatologico) che erano stati assegnati random al ruolo di carcerati o guardie, si erano talmente calati nella parte da dar vita ad uno scenario a dir poco agghiacciante.

Leggendo i primi capitoli del libro “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?” di Zimbardo, in cui viene descritto giorno per giorno l’esperimento, si viene invasi da un profondo senso di frustrazione, impotenza e claustrofobia. Le guardie pian piano cominciano ad esercitare sempre di più il loro potere e ad umiliare, anche gratuitamente, i detenuti, che vengono privati del cibo, denudati, derisi, costretti ad estenuanti ed inutili esercizi fisici, sottoposti a vessazioni di carattere sessuale e a violenza psicologica.

Dall’altra parte i carcerati sono talmente influenzati dal loro ruolo, appunto, di carcerati dall’assumere ben presto un atteggiamento remissivo, rassegnato, impotente. 5 di loro furono forzati ad abbandonare l’esperimento, il primo dei quali dopo sole 36 ore, a causa di gravi crolli psicologico-emotivi. Ciò che più colpisce è che sebbene l’esperimento fosse diventato un inferno, nessuno di loro si appellò alla clausola che gli avrebbe permesso di andarsene in qualsiasi momento. Sebbene nessuno li costringesse a restare lì, non erano più studenti che stavano partecipando ad un esperimento, ma si sentivano e si comportavano come veri carcerati.

Lo studio di Zimbardo dimostrò come il contesto può influenzare in maniera rilevante il comportamento delle persone: un ambiente che favorisce la deumanizzazione, l’esercizio di potere e controllo, la diffusione della responsabilità, la pressione del gruppo, il disimpegno morale, l’anonimato (es. indossare occhiali a specchio), la deindividualizzazione dell’altro (assegnare un numero al posto del nome) può trasformare una brava persona in una cattiva persona.

Ciò non significa, però, giustificare gli atti dell’individuo, bensì riconoscere il contributo che ambiente e sistema possono offrire.
Non tutti, infatti, si comportano in maniera cattiva in determinate situazioni. Quali fattori possono spingere, pertanto, una persona a commettere buone azioni, a comportarsi da eroe? Purtroppo, afferma Zimbardo, non lo sappiamo perché le ricerche in merito sono molto scarse. Per questo motivo Zimbardo ha fondato un’associazione che si pone come obbiettivo quello di insegnare nelle scuole, attraverso programmi psicoeducativi basati sulla ricerca, ad essere degli EROI NEL QUOTIDIANO, insegnando a riconoscere e a lavorare su quei fattori che possono indurre una persona a comportarsi male. Perché oggi più che di supereroi abbiamo bisogno di eroi nella vita di tutti i giorni, perché anche non fare nulla di fronte al male è comunque una forma di male ed è tempo di trasformare la compassione in azione per creare un futuro in cui il male sia sempre meno presente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Zimbardo P.G. (2008). L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? Raffaello Cortina Editore: Milano.

Trust (2010): l’adescamento online di minori – Cinema & Psicologia

Scritto e diretto dall’attore David Schwimmer, “Trust” è un film drammatico che racconta una delle piaghe sociali attuali più dolorose: l’adescamento on line di minori.

Il film si apre con la festa di compleanno della protagonista, Annie, un’adolescente quattordicenne che sta per iniziare il primo anno di scuole superiori. Chattando la ragazza conosce un sedicente adolescente, Charlie, con il quale sembra condividere non solo la passione per la pallavolo, ma anche i primi turbamenti e le prime curiosità sessuali. La conoscenza virtuale prosegue, i due diventano sempre più intimi e Charlie inizia a svelare la sua reale identità dichiarandosi prima ventenne e poi venticinquenne. Quando Annie decide di incontrarlo di persona, in occasione di una temporanea assenza dei genitori, è costretta a constatare con sconcerto che si tratta invece di un trentacinquenne il quale non esita, con fare manipolatorio, a portarla ad avere un rapporto sessuale con lui. Da quel momento in poi le sue tracce reali e virtuali si dileguano e, a seguito della segnalazione del reato da parte di un’amica di Annie, inizia un lungo calvario che coinvolge la vittima e la sua famiglia e i servizi sociali.

Se nella prima parte del film, dunque, lo sguardo si sofferma a osservare la subdola dinamica dell’adescamento on line della minore nelle sue varie fasi (primo contatto, instaurazione di un rapporto di fiducia, seduzione esplicita, incontro reale), nella seconda seguono parallelamente le diverse reazioni dei personaggi e la loro evoluzione nel corso della vicenda: il faticoso percorso di elaborazione del trauma da parte della ragazza che, se inizialmente non riesce a vedere lucidamente l’evento, si rende gradualmente conto, anche grazie ad un sostegno psicologico, di essere una delle tante vittime di un adescatore seriale; l’incapacità del padre di accettare l’esperienza traumatica della figlia con la conseguente difficoltà nel sostenerla emotivamente come risulta evidente dall’impegno attivo focalizzato sulla ricerca del delinquente.

Ed è proprio la fiducia (“Trust”) la chiave di lettura di questa pellicola. Fiducia che il molestatore si conquista abilmente ad ogni chat condividendo i vissuti di insicurezza della giovane, divenendo per lei un importante punto di riferimento; fiducia che ingenuamente l’adolescente rinnova allo sconosciuto nonostante le reiterate menzogne sulla sua reale età e fiducia dei genitori nella figlia che non permette loro di cogliere il suo disorientamento adolescenziale prima, e le prime avvisaglie di malessere dopo.

Nell’età adolescenziale l’agile dimestichezza nella navigazione in rete, spesso non compensata da una completa maturità cognitiva ed emotiva, aumenta il rischio di ricerca di relazioni virtuali con sconosciuti che possano facilmente soddisfare il crescente bisogno di intimità e il fisiologico interesse per l’area sessuale.
Parlare dell’adescamento on line, anche tramite la visione condivisa di un film, può costituire un primo passo nel favorire nei giovani il riconoscimento di un pericolo reale e non solo virtuale e, dunque, nel prevenirlo.

 

TRAILER:

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Cartoni animati & alimentazione dei bambini: gli effetti della visione di protagonisti sovrappeso sul consumo di cibi grassi

FLASH NEWS

Secondo uno studio recentemente effettuato da un team dell’Università del Colorado, i bambini tenderebbero a consumare cibi più grassi se appassionati di cartoni i cui protagonisti sono sovrappeso.

La ricerca, pubblicata online sul Journal of Consumer Psychology, dimostra per esempio che i bambini sono influenzati dalle rotondità di Grimace, un “ingombrante” personaggio amante dei milk-shake creato da McDonald negli anni Settanta. La dottoressa Margaret Campbell, docente di marketing presso l’Università del Colorado, afferma: [blockquote style=”1″]I ragazzi che seguono questo cartone consumano una doppia quantità di “cibo-spazzatura” rispetto a coloro che ammirano personaggi più sani o che non ne ammirano affatto.[/blockquote]

La prima scoperta interessante in merito è che i bambini tendono ad applicare gli standard umani di valutazione della massa corporea anche a personaggi immaginari. In altre parole, classificherebbero anche le figure dei cartoni animati, per cui non esistono degli standard definiti, come sottopeso, sovrappeso o sane.

Oltre a ciò, sembra proprio che affezionarsi a un personaggio “paffutello” renderebbe i ragazzi più indulgenti nella scelta del tipo di cibi da consumare. Lo studio coinvolgeva 300 bambini e ragazzi di 8, 12 e 13 anni, testati in gruppi suddivisi per età, ai quali era innanzitutto data la possibilità di esprimere le loro personali credenze sul tema della salute, scegliendo tra sei coppie di figure e parole legate a comportamenti quotidiani più o meno sani (per esempio giocare all’aria aperta vs guardare la tv, oppure latte vs coca-cola) prima di iniziare il test vero e proprio. Questo per cercare di capire in che misura le credenze personali e l’esperienza pregressa potessero influenzare i risultati dei test. Poi si procedeva alla visione di cartoni animati scelti proprio sulla base della forma fisica dei loro protagonisti, e in seguito si somministrava un test del gusto per indagare in che modo le scelte dei bambini si fossero modificate.

Come già accennato, la ricerca dimostra che la scelta dei ragazzi cambia in senso negativo, orientandosi verso scelte meno salutari, in seguito alla visione di questo tipo di cartoni animati. Lo studio ha risvolti importanti, considerando che viviamo in un mondo in cui i bambini si confrontano costantemente con personaggi di svariato genere (nei fumetti, nei videogames, nei film e nei programmi TV). Per questo motivo, sarebbe fondamentale che le grandi aziende facessero scelte di marketing più responsabili.

La dottoressa Campbell aggiunge: [blockquote style=”1″]Credo che i genitori dovrebbero essere consapevoli del modo in cui i loro figli associano cibo e divertimento. Il marchio Kellogg è l’esempio di una scelta responsabile in questo senso: anni fa, la figura della tigre Tony è stata modificata secondo standard più sani, rendendola un personaggio atletico e snello che richiama alla mente idee più salutari sul consumo di cibo.[/blockquote]

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il manicomio chimico: cronache di uno psichiatra riluttante di Piero Cipriano (2015) – Recensione

Il libro del collega psichiatra Piero Cipriano si inserisce in un filone di (auto)denuncia sulla psichiatria di oggi, che in parte trae ispirazione dalle opere del giornalista americano Whitaker, citato a più riprese nel volume.

Cipriano, che si definisce un basagliano, svolge la propria attività in un SPDC di Roma e ha accumulato anni di esperienza nella “trincea” psichiatrica, fino a diventare riluttante all’attuale sistema di cura, che si avvale purtroppo ancora troppo spesso della contenzione fisica, per non parlare di quella farmacologica. Il libro è una sorta di confessione abbastanza confidenziale in cui l’autore racconta in modo critico la sua pratica clinica, arricchendo la narrazione con riferimenti a libri che ha letto, a film che ha visto, a convegni a cui ha partecipato.

Direi un racconto psichiatrico molto umanistico e umano, dove emerge fortemente l’amore dell’autore per la letteratura (in particolare Bolano) e l’interesse per le persone e la loro storia. Cipriano scrive bene, anche se a tratti indugia un po’ troppo sull’autocelebrazione dello psichiatra controcorrente, senza macchia e senza paura, paladino dei poveri pazienti indifesi, spesso vittime di colleghi sadici. Le parti più riuscite sono a mio avviso i racconti delle storie dei pazienti incontrati nell’SPDC romano, ottimo osservatorio dell’attuale patologia psichiatrica metropolitana, con tutti i risvolti sociologici del caso (tra le altre cose si parla anche di rom ed etnopsichiatria, di psicanalisti psicotici, di deliri da cannabis e cocaina, etc.).

Come altri libri del genere la parte di denuncia critico-distruttiva al sistema attuale è di gran lunga superiore a quella propositiva fatta di soluzioni reali e possibilmente efficaci per risolvere alcuni dei problemi della cura della patologia mentale più grave (schizofrenia e dintorni). C’è qualche accenno ad alcune soluzioni ispirate al modello triestino (zero contenzioni, SPDC aperti, Centri di salute mentale aperti 24 ore), che paiono sicuramente affascinanti, ma non hanno mostrato dove applicare queste rivoluzioni in termini di risultati terapeutici.

La denuncia desta sicuramente più clamore rispetto al racconto delle cose che funzionano, all’impegno silenzioso di tanti operatori che fanno del loro meglio per compiere il proprio dovere, spesso in condizioni lavorative difficili. Il problema delle contenzioni è sicuramente vitale e desta sempre molto clamore mediatico, ma pensandoci bene non è forse il problema principale della psichiatria di oggi, come possono esserlo lo stigma, l’esclusione sociale o una riabilitazione psichiatrica realmente efficiente che riporti la persona che soffre di un problema psichiatrico grave a un funzionamento e una qualità della vita accettabili.

Il manicomio chimico è un racconto sicuramente autentico, che a tratti ti fa arrabbiare non tanto per la questione delle contenzioni, quanto perché fa trasparire un certo senso di impotenza che abbiamo di fronte alla follia e alla sua cura.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Gli estremi contano fin dalla nascita: i neonati sfruttano la prima e l’ultima sillaba per riconoscere le parole

SISSA (Scuola Internazione Superiore di Studi Avanzati) – Comunicato Stampa

Il sistema cognitivo codifica meglio la prima e l’ultima sillaba delle parole. Un gruppo di ricercatori della SISSA, in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera di Udine, ha dimostrato per la prima volta che questo meccanismo cognitivo è presente fino dalla nascita.

La ricerca è stata pubblicata sulla rivisita scientifica Developmental Science. Forse pensate che i neonati, quei deliziosi fagottini che sembrano intenti solo a dormire, ciucciare e piangere, non siano troppo coscienti di quanto accade intorno a loro. Vi stupirete dunque a sapere che i loro cervelli sono invece in piena e febbrile attività e che riescono già a cogliere informazioni importanti nel mondo intorno a loro. Per esempio sono attentissimi a ogni parola che sentono e già a soli due giorni dalla nascita elaborano il suono linguistico con processi tipici dell’adulto. Per esempio, come ha dimostrato un gruppo della SISSA, sono già più sensibili alla parte più importante delle parole, gli estremi, un meccanismo cognitivo più volte osservato negli   adulti e nei bambini più grandi.

L’effetto di “supremazia” degli estremi è ben noto a chi studia la memoria in generale e il linguaggio: quando dobbiamo ricordare e riconoscere delle parole il cervello dà un maggior peso all’informazione contenuta all’inizio e alla fine della sequenza di sillabe. Si tratta infatti di una regolarità generale nell’analisi del linguaggio: [blockquote style=”1″]l’informazione contenuta agli estremi è molto importante, e si riflette in molti fenomeni associati al linguaggio. Per esempio le particelle che nelle parole contengono informazione, quelle che denotano il genere, il numero, le declinazioni dei sostantivi e dei verbi, sono quasi tutte contenute all’inizio o alla fine delle parole, in tutte le lingue conosciute[/blockquote] spiega Alissa Ferry ricercatrice della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste primo autore della ricerca.

[blockquote style=”1″]È un fenomeno pervasivo e con il nostro studio dimostriamo che è presente già alla nascita. Qui alla SISSA erano già stati fatti degli esperimenti con bambini in età prelinguistica, di 7-­8 mesi, ma noi siamo andati ancora oltre e abbiamo lavorato con neonati di soli 2-­3 giorni di vita[/blockquote] commenta Ana Flo, ricercatrice SISSA coinvolta nello studio.

[blockquote style=”1″]I neonati hanno ascoltato una sequenza continua di 6 sillabe e sono in grado di distinguerla da un’altra molto simile in cui vengono scambiati gli estremi, mentre lo stesso non avviene quando si spostano le sillabe all’interno della parola[/blockquote] spiega Perrine Brusini, ricercatrice SISSA fra gli autori dello studio.

Nel linguaggio reale ci sono tanti segnali che segmentano il discorso in parole diverse, e che potrebbero aiutare a ricordare le parole da discorsi molto lunghi.  

[blockquote style=”1″]In un’altra serie di esperimenti poi abbiamo cercato di capire se è possibile fare in modo che il cervello dei neonati elabori anche le sillabe all’interno della sequenza. Abbiamo dunque introdotto una piccola discontinuità nelle sequenze, una pausa brevissima, quasi impercettibile anche all’ascolto più attento. Anche se si trattava solo di 25 millisecondi questa pausa divide la parola lunga in due parole corte, e grazie a questo trucco il cervello riusciva a distinguere le parole con le sillabe scambiate al loro interno[/blockquote] continua Ferry.

La supremazia degli estremi è dunque presente fino dalla nascita, e si manifesta senza alcuna esperienza o apprendimento da parte del neonato, concludono le ricercatrici della SISSA.  

Più in dettaglio…Come si fa a capire cosa succede nel cervello di un neonato (senza disturbarlo troppo, si intende)? Non è semplice, ma esistono metodologie sperimentali che sfruttano il fenomeno dell’ “abituazione”. Si usano per i bambini ancora incapaci di parlare: quando viene loro mostrato uno stimolo sempre uguale, ripetitivo, la risposta del cervello a questo stimolo cala rapidamente. Usando la spettroscopia a raggi infrarossi (un esame  non invasivo) possiamo misurare l’attività cerebrale: [blockquote style=”1”]Sapevamo quando una parola suonava diversa al cervello del neonato quando osservavamo un picco di attività cerebrale[/blockquote] ha spiegato Flo.

 

Sissa

Link  all’articolo  originale  su  Developmental  Science

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Terapia cognitiva in soggetti con disabilità intellettiva. Quali possibilità?

Laura Pizzacani – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi

La disabilità intellettiva rappresenta un disturbo complesso con esordio nel periodo dello sviluppo, che compromette in modo duraturo la conquista delle funzioni cognitive più elevate e di quelle adattive, specie negli ambiti concettuali, sociali e pratici.

Attualmente, tra i clinici, è ancora aperto il dibattito rispetto alla possibilità di considerare la disabilità intellettiva come una sindrome nucleare unica, il cui core è riconducibile ad un deficit dell’intelligenza, intesa anche come capacità di rispondere agli stimoli e di adattarsi all’ambiente circostante, o se si possa considerare come una sindrome eterogenea, ipotesi che sembra resa ancor più confermabile dalla varietà di cause che la determinano e di sintomi con cui si presentano i soggetti con tale disabilità.

Questi sintomi pervadono tutte le sfere evolutive non compromettendole mai allo stesso modo, creando così quadri sintomatologici di volta in volta diversi, che riguardano sia aspetti cognitivi, che affettivi ed adattivi, includendo: difficoltà di assimilazione delle esperienze, deficit comunicativi e di linguaggio, difficoltà ad accedere al pensiero astratto e disomogeneità cognitiva, adattamento più lento e difficile, deficit nello sviluppo della personalità e alterazioni della condotta.

Secondo la definizione del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), tre sono i criteri fondamentali che consentono di diagnosticare la disabilità intellettiva:

  • Deficit nelle funzioni intellettive come ragionamento, problem solving, pianificazione, pensiero astratto, capacità di giudizio, apprendimento scolastico e apprendimento dall’esperienza, confermati sia da valutazione clinica sia da test di intelligenza individualizzati, standardizzati;
  • Deficit del funzionamento adattivo che porta al mancato raggiungimento degli standard di sviluppo e socioculturali di autonomia e responsabilità sociale. Senza un supporto costante, i deficit adattivi limitano il funzionamento in una o più attività della vita quotidiana, come la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita autonoma, attraverso molteplici ambienti quali casa, scuola, ambiente lavorativo e comunità.
  • Esordio dei deficit intellettivi e adattivi durante il periodo di sviluppo.

I livelli di gravità del disturbo, distinti in lieve, moderato, grave ed estremo, vengono definiti sulla base del funzionamento adattivo, e non più esclusivamente sui punteggi relativi al quoziente intellettivo (QI), perché è stato valutato come sia proprio la capacità di adattamento, in particolare nelle aree della socializzazione e delle attività pratiche, a determinare il grado di sviluppo necessario per mantenere una condizione di vita accettabile e, di conseguenza, a stabilire il livello di assistenza richiesta dal soggetto.

Cenni relativi alla comorbilità

Secondo il DSM-5, e come confermato da numerose ricerche (Cooper et al., 2007), i soggetti con disabilità intellettiva hanno una prevalenza di disturbi mentali in comorbilità, che si stima da tre a quattro volte superiore rispetto al resto della popolazione. Le procedure di valutazione possono richiedere delle variazioni a causa dei disturbi associati, e sono da considerare fonti di informazioni attendibili per identificare sintomi quali irritabilità, alterazioni del tono dell’umore, aggressività, problemi dell’alimentazione e del sonno, e per la valutazione del funzionamento adattivo nei vari contesti di comunità.

I più comuni disturbi mentali e del neurosviluppo concomitanti sono: disturbi da deficit di attenzione/iperattività; disturbi depressivo e bipolare, disturbi d’ansia; disturbi del controllo degli impulsi (frequente il comportamento autolesivo e aggressività o comportamenti dirompenti).

Trattamento

Nonostante la presenza di disabilità intellettiva nella popolazione generale si assesti intorno all’1% circa, e vi sia un alto livello di comorbilità con altri disturbi, ad oggi la maggior parte dei servizi risultano essere creati per rispondere in maniera differenziata alle esigenze, ritenute prettamente assistenziali, di soggetti con disabilità intellettiva, o terapeutico/assistenziali per soggetti con patologie psichiatriche. Ciò contribuisce a favorire ulteriormente l’esclusione dei primi da interventi di tipo psicoterapeutico, limitando lo sviluppo di realtà in cui si trattino pazienti in doppia diagnosi, e nelle quali si renderebbe necessaria l’associazione, alle classiche strategie di intervento farmacologico, riabilitativo ed educativo, anche di attività terapeutiche.

 

Le finalità degli interventi tradizionalmente proposti, pur convergendo in un unico grande obiettivo riconducibile al miglioramento globale della qualità della vita del soggetto e alla promozione della salute mentale (Castellani, 2010), sono molteplici: da un punto di vista farmacologico, l’obiettivo è quello di trattare le eventuali alterazioni neurologiche connesse al disturbo e di ridurre i comportamenti problema, quali auto ed etero aggressività, stereotipie, iperattività; a livello riabilitativo, ci si concentra sul rafforzamento di abilità cognitive e metacognitive, che in questi soggetti risultano deficitarie, e che difficilmente si sviluppano e/o consolidano spontaneamente; a livello educativo, invece, si utilizzano frequentemente interventi di matrice comportamentale che consentono di correggere i comportamenti disadattavi, favorendo contemporaneamente la riproduzione di quelli più funzionali. Tra queste tecniche, che fino ad oggi sono state utilizzate come uno dei pochi strumenti di intervento efficaci per il paziente con disabilità intellettiva troviamo (Cavagnola, 1994):

  • Shaping, detto anche modellamento, consiste nel rendere possibile l’apprendimento di una abilità attraverso graduali passaggi che avvicinano alla meta;
  • Prompting, consiste nel fornire un aiuto fisico, gestuale o verbale per portare a termine un’attività;
  • Fading, detto anche attenuazione degli aiuti, rappresenta l’insieme di procedure che portano ad una riduzione degli aiuti e delle facilitazioni necessarie al conseguimento del compito.

Alla luce di queste considerazioni, emerge come su questa tipologia di pazienti siano stati utilizzati separatamente due diversi approcci, e di come l’attenzione si sia concentrata prevalentemente su uno di essi anziché sulla loro integrazione: il primo, comunemente utilizzato, riguarda l’insegnamento di abilità specifiche e le attività volte al loro mantenimento, specialmente per ciò che concerne il comportamento; il secondo è invece relativo alle tecniche terapeutiche specifiche del modello cognitivo e cognitivo-comportamentale, che consentono di trattare i disturbi emotivi e comportamentali presenti in associazione alla disabilità intellettiva.

TCC e trattamento di soggetti con disabilità intellettiva in comorbilità

La terapia cognitivo-comportamentale deve molto all’opera di Beck ed Ellis, le cui tecniche convergono rispetto all’idea di indagare sistematicamente quelle rappresentazioni che precedono, accompagnano e seguono immediatamente uno stato emotivo problematico, al fine di comprendere le ragioni della sofferenza emotiva del soggetto e del suo perpetuarsi nel tempo.

Secondo Semerari (2006), è indispensabile valutare prima di tutto, nel corso dell’intervento, il contenuto problematico del soggetto, ossia i significati personali rilevanti per il suo disturbo e le sue emozioni, nonché le tendenze d’azione più di frequente connesse a questi significati.

Per far ciò si utilizza la tecnica dell’ABC (Ellis, 1977), attraverso la quale è possibile identificare, a partire da un evento, detto anche antecedente, una conseguenza a livello emotivo o comportamentale, che a sua volta si lega a specifici pensieri o credenze rispetto all’accaduto.

Affinché il soggetto possa utilizzare questa tecnica è necessario che sappia identificare e distinguere, a partire da un evento, pensieri o credenze presenti e le rispettive conseguenze emotive o comportamentali. Solo in questo modo sarà possibile riconoscere che le conseguenze prodotte da un determinato evento sono connesse prevalentemente ai propri pensieri e/o credenze disfunzionali, piuttosto che all’antecedente stesso, e procedere con la disputa di pensieri e credenze emersi. Ovviamente per procedere in questo percorso, è necessaria anche una valutazione delle risorse metacognitive del paziente e del loro livello di sviluppo, ossia delle funzioni mentali con cui egli riesce a comprendere e padroneggiare i propri contenuti problematici.

Attualmente non si riscontrano con frequenza terapeuti che lavorino con soggetti con disabilità intellettiva, proprio a causa dell’idea secondo cui queste persone abbiano abilità cognitive e comunicative ristrette, che limitano la loro capacità di comprensione del proprio mondo mentale, nonché la capacità di collaborare attivamente al lavoro svolto dal terapeuta, tutti fattori che apparentemente li escluderebbero dal poter trarre giovamento dalla terapia.

In realtà, le tre abilità di base considerate, a partire dai lavori di Beck ed Ellis, come indispensabili per accedere ad un intervento in ottica cognitiva, ossia il saper identificare, a partire da un evento, pensieri o credenze e le rispettive conseguenze emotive o comportamentali; il riconoscere che le conseguenze sono più connesse ai pensieri che all’antecedente e il poter procedere con la disputa di questi pensieri/credenze, sono state riformulate da diversi autori (Hutton, 2002; Bruce et al., 2010) in relazione al lavoro con soggetti con disabilità intellettiva. Le nuove abilità ritenute necessarie per fare in modo che anch’essi possano procedere al lavoro cognitivo diventano quindi: la presenza di capacità cognitive di base quali memoria, linguaggio e comunicazione; abilità ad identificare le differenti emozioni; abilità di comprendere le basi del modello cognitivo, ossia il ruolo chiave dei pensieri nello sviluppo degli stati emotivi.

Nonostante inizialmente le basi teoriche su cui poggia il modello, in particolare il legame tra pensieri, emozioni e comportamenti, possano essere poco accessibili per utenti con ritardo mentale, è possibile che uno specifico training possa aiutarli a comprendere meglio questi elementi di fondo indispensabili all’attività clinica. Il compito del terapeuta sarà quindi quello di fornire una sorta di educazione a quei pazienti che sembrino carenti in queste specifiche abilità, e di adattare le tecniche base della terapia cognitiva alle caratteristiche di questo tipo di utenza.

Questo allenamento potrebbe iniziare con un intervento psicoeducativo di alfabetizzazione emotiva, finalizzato a migliorare la capacità di riconoscere ed esprimere le emozioni, indispensabile quando la persona non è in grado di riconoscere espressioni di affettività in sé o negli altri perché non sa riconoscerli (Castellani, 2010).

Successivamente, si potrebbe procedere con attività volte a rafforzare l’abilità di discriminare, e successivamente collegare tra loro, pensieri ed emozioni. A tal fine, in uno studio proposto da Bruce e collaboratori (2010), è stato evidenziato come anche una sola sessione di training abbia portato significativi miglioramenti nella capacità dei partecipanti alla ricerca di distinguere tra pensieri ed emozioni e di collegarli tra loro, capendo così come siano i primi a determinare l’assetto emotivo delle persone.

Attraverso l’uso di questi strumenti, gli autori hanno contribuito a dimostrare come sia possibile per soggetti con disabilità intellettiva apprendere l’abilità di connettere pensieri ed emozioni, e successivamente di generalizzare questa acquisizione su nuovo materiale.

Questa ricerca può essere considerata come un primo tentativo concreto di utilizzo della terapia cognitiva con questi pazienti, soprattutto nel caso in cui sia presente una doppia diagnosi, che coinvolga in particolare, oltre alla disabilità intellettiva, problemi comportamentali, ansia, depressione o sintomi psicotici, trattati con efficacia secondo le tecniche dalla terapia cognitivo comportamentale standard, riviste alla luce dei bisogni di questa specifica utenza.

Per concludere, è necessario considerare che fattori importanti per il successo di un intervento psicoterapeutico non sono determinati solo dalla comprensione del ruolo di pensieri ed emozioni, ma coinvolgono anche le caratteristiche specifiche dei partecipanti alla terapia, così come la loro relazione e il grado di alleanza sviluppato. Evidenze dimostrano come l’aumento della compliance nella terapia possa migliorare significativamente il risultato degli interventi (Azam, 2012), favorendo ulteriormente la spinta al cambiamento.

Gli elementi che devono essere osservati, in quanto indispensabili a rendere realmente efficace un intervento sono, in sintesi, tre (Hassotis et al., 2011): gli obiettivi del trattamento, la loro definizione e il percorso da fare per raggiungerli devono essere chiari e condivisi; da parte del paziente deve esserci una comprensione reale di ciò che sta accadendo nella terapia, e per valutarla è possibile osservare quanto il paziente sviluppi il materiale proposto dal terapeuta, come homework ecc. (può essere utile fornire ai familiari o agli operatori delle strutture in cui i pazienti risiedono, informazioni aggiuntive che consentano loro di essere di supporto al soggetto per muoversi con successo nel programma di trattamento, favorendo il mantenimento di un buon livello di motivazione e di impegno); infine, dovrà esserci un buon livello di attivazione da parte del paziente, in quanto se anche il trattamento fosse stato definito e compreso, non potrebbe essere efficace se egli non parteciperà attivamente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il dolore acuto e prolungato nei neonati: ricerca esplorativa presso l’Unità Operativa Intensiva Patologia Neonatale di Padova

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Il dolore acuto e prolungato nei neonati: ricerca esplorativa presso l’Unità Operativa Intensiva Patologia Neonatale di Padova

Autore: Francesca Babetto 

 

PAROLE CHIAVE: Dolore, Prematuri, EDIN, FLACC, DAN

INTRODUZIONE:

[blockquote style=”1″]Il dolore che abbiamo sofferto in passato ha molto a che fare con ciò che siamo oggi[/blockquote] è da questa considerazione dello psichiatra americano William Glasser che ha preso origine questo mio progetto di tesi. Il dolore sofferto in passato ha un’influenza prepotente sulla nostra vita, sul nostro comportamento e sulle nostre relazioni.

E se il dolore fosse la prima esperienza che proviamo appena venuti al mondo? Se il momento tanto magico quanto fondamentale per lo sviluppo psico-motorio della nascita si trasformasse nella nostra prima esperienza di dolore e di abbandono? Come si riesce a capire se i neonati provano dolore vista la loro impossibilità ad una comunicazione verbale? Queste le domande che mi sono posta prima di iniziare quest’esperienza di tirocinio e di tesi.

Nella prima parte del mio elaborato ho infatti voluto evidenziare quali fossero le conoscenze attuali sul dolore: l’evoluzione della sua definizione nel tempo, gli aspetti biologici che lo determinano, i differenti tipi di dolore e, infine, l’evoluzione della diagnosi di dolore nel DSM. Successivamente ho voluto approfondire quelle che sono le conoscenze relative al dolore provato dai neonati, ed in particolare dai neonati prematuri, che si trovano quotidianamente ad essere sottoposti ad un gran numero di procedure dolorose.

Successivamente ho voluto compiere una ricerca bibliografica sull’evoluzione della valutazione del dolore in ambito medico, anche alla luce della recente normativa (Legge n. 38 del 15 marzo 2010) che prevede, assieme ai parametri vitali, l’inserimento della valutazione del dolore nella cartella clinica sia infermieristica, sia medica. Successivamente ho proseguito la mia ricerca individuando e confrontando tra loro i principali strumenti utilizzati ed utili per la valutazione del dolore in ambito pediatrico e neonatale.

Nell’ultimo capitolo, ho esposto obiettivi, ipotesi, caratteristiche dei partecipanti, strumenti utilizzati, analisi dei dati e discussione della ricerca che ho condotto, nel periodo compreso tra marzo e giugno 2014, presso l’Unità Operativa di Terapia Intensiva e Patologia Neonatale dell’Azienda Ospedaliera di Padova.

Nella mia ricerca ho concentrato l’attenzione su due aspetti del dolore, procedurale e prolungato, provato dai neonati ricoverati presso quell’Unità Operativa. Da un lato ho voluto osservare la differente percezione del dolore dei neonati sottoposti a prelievo venoso piuttosto che a puntura sul tallone, nel caso in cui queste procedure fossero associate o meno a suzione non nutritiva. Dall’altro lato ho voluto valutare il dolore prolungato provato dai piccoli pazienti, conducendo una prima indagine sulle proprietà psicometriche di uno strumento osservativo mai utilizzato prima con bambini così piccoli, la scala FLACC. (Merkel, Voepel-Lewis, Shayevitz e Malviya, 1997).

L’obiettivo principale della analisi esplorativa che ho condotto è stato quello di apportare un contributo alla ricerca nell’ambito dello studio del dolore nei neonati prematuri. Le ipotesi che hanno guidato la presente ricerca si sono mosse in due ambiti principali, uno relativo al dolore acuto e uno relativo al dolore prolungato. Per quanto riguarda il dolore acuto ho voluto indagare se vi fosse una differente risposta comportamentale, nel caso in cui il bambino venisse sottoposto a venipuntura o a puntura da tallone, previa o meno somministrazione di saccarosio. Per raccogliere i dati di queste osservazioni ho utilizzato la scala DAN (Douleur Aigue du Nouveau-né, Carbajal, Paupe, Hoenn, Lenclenr & Olivier-Martin, 1997).

La decisione di concentrarmi su queste due procedure dolorose è data dal fatto che, durante la giornata, i neonati ricoverati vengono sottoposti anche più volte a questo tipo di controlli decisamente dolorosi, come evidenziato all’interno delle linee guida per la prevenzione e il trattamento del dolore nel neonato: “Considerare l’uso della venipuntura piuttosto che il prelievo dal tallone nei neonati a termine e nei prematuri di maggior peso, perché meno dolorosa e più efficace in mani esperte”(Lago, Merazzi & Garetti, 2008). Mi aspetto quindi che il neonato percepisca meno dolore quando viene sottoposto a venipuntura, rispetto alla puntura da tallone. Mi aspetto inoltre che percepisca meno dolore quando gli viene somministrato saccarosio prima del prelievo, qualsiasi sia la locazione della puntura, e che il ritorno allo stadio basale sia più rapido se gli viene somministrato il saccarosio prima del prelievo. Mi aspetto infine che vi sia una relazione tra i giorni di vita del bambino e la sua percezione del dolore: bambini che sono stati sottoposti ad un maggior numero di procedure dolorose manifesteranno, a mio avviso, un comportamento di dolore più evidente. Relativamente al dolore prolungato ho invece voluto provare a validare la scala FLACC (Face, Legs, Activity, Cry, Consolability, Merkel, Voepel-Lewis, Shayevitz e Malviya, 1997), uno strumento già utilizzato per valutare il dolore nei bambini ma validata solo per bambini dai 2 mesi di età in poi.

Per capire se questa scala potesse essere utilizzata con i neonati prematuri, l’ho confrontata con lo strumento attualmente utilizzato per la valutazione del dolore prolungato presso l’Unità Operativa di Terapia Intensiva e Patologia Neonatale, ossia la scala EDIN (Echelle Douleur Inconfort Nouveau-né, Debillion, Zupan, Ravault, Magny & Dehan, 2001).

 

 

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

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L’effetto della povertà sulle credenze e sulle emozioni dei più piccoli

FLASH NEWS

Una review della University of Massachusetts ha cercato di analizzare come la povertà e le condizioni economiche svantaggiose possano lasciare traccia su rappresentazioni e valutazioni cognitive che i bambini hanno di sé.

Sembra paradossale, ma la maggior parte degli studi si è focalizzata sui fattori esterni correlati alla povertà (ad esempio conflittualità nella coppia o depressione nei genitori) e che possono influire sulle credenze dei figli. Pochi studi hanno invece avuto il coraggio di analizzare gli aspetti interni cognitivo-emotivi dell’esperienza di vivere in situazioni economiche difficili. E di come questi aspetti cognitivi rappresentazionali possano essere mediatori dell’impatto dello svantaggio economico sui comportamenti.

Nella review dunque, la parte più interessante evidenzia due aspetti cognitivo-emotivi che potrebbero avere un ruolo nel mediare gli effetti delle difficoltà economiche sul funzionamento socio-comportamentale del bambino. I due fenomeni sono: una maggiore vulnerabilità all’ansia di stato e una maggiore probabilità di credenze stereotipiche e performances ridotte quando vengono esplicitate la condizione povertà in soggetti in età di sviluppo che vivono in situazioni economiche svantaggiate.

Questi fenomeni innescherebbero circoli viziosi in cui ad esempio, difficoltà scolastiche probabilmente originano e si correlano a credenze negative sul sé e sfiducia nelle proprie capacità.

Dal punto di vista prettamente cognitivo già dall’età di cinque anni i bambini occidentali sono in grado di comprendere e utilizzare le categorie concettuali e gli stereotipi relativi alle disuguaglianze sociali. Ad esempio, si è notato che bambini di classe socio-economica media utilizzano principalmente stereotipi (mediocre, meno bravi a scuola, con minori probabilità di realizzare le proprie ambizioni) per descrivere un bambino povero, mentre i bambini di classe socio-economica svantaggiata descrivono maggiormente le emozioni provate da chi è in difficoltà economica.

Secondo il ragionamento degli autori, crescere da poveri può porre ostacoli non solo materiali ma anche cognitivo- rappresentazionali, e di conseguenza emotivi, al benessere e a un buon adattamento della persona; per questo ancora una volta il lavoro preventivo sulla modificazione delle credenze stereotipiche e disfunzionali con l’obiettivo di interrompere circoli viziosi assume un valore importante a livello individuale e comunitario.

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Interventi evidence based contro il bullismo e il cyberbullismo: un confronto in Europa

 

Durante il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP), tenutosi a Milano dal 7 al 10 luglio scorso, è stato organizzato un simposio sugli interventi evidence based contro il bullismo e il cyberbullismo utilizzati in alcune nazioni europee.

La recente letteratura ha mostrato come i comportamenti aggressivi agiti dai pari possono essere sperimentati sia faccia a faccia che attraverso le interazioni on-line; per questo motivo l’adozione di un focus specifico sia sul bullismo che sul cyberbullismo sembra essere la direzione più promettente per l’intervento con i giovani studenti.

La prima presentazione ha riguardato un modello di intervento attuato in Italia, denominato “NONCADIAMOINTRAPPOLA!”, rispetto al quale è stata valutata l’efficacia e i possibili processi di mediazione. Il progetto “Noncadiamointrappola” nasce con l’obiettivo di realizzare un intervento nelle scuole superiori volto al contrasto e alla prevenzione del bullismo e del cyberbullismo che sia fondato su prove empiriche di efficacia. L’intervento è basato su un modello di peer education-peer support ed è strutturato in fasi che coinvolgono attivamente alcuni studenti chiamati “peer educators”. Essi diventano gli agenti di cambiamento all’interno della classe, portando avanti attività faccia a faccia con i loro compagni (ad esempio role-playing, discussioni, problem solving e lavoro cooperativo) e attività online interagendo con studenti di altre scuole e con tutti coloro che sono interessati a ricevere un aiuto o un consiglio.

Durante il simposio è stato mostrato come tale modello di coinvolgimento dei pari abbia dimostrato una crescente validità ed efficacia nel ridurre i fenomeni di bullismo tradizionale e cyberbullismo. In particolare c’è stata una riduzione dei sintomi internalizzati, un’efficacia indipendentemente dal genere e una stabilità degli effetti a sei mesi dal termine del programma.

In un altro contributo, proveniente dal Belgio, è stato presentato il progetto “Friendly ATTAC”, che mira allo sviluppo di un gioco contro il cyberbullismo. Nello specifico è stato progettato un video-game in cui gli studenti, tra i 12 e i 14 anni, sono coinvolti in scenari di bullismo e sono chiamati ad agire in esso. A seguito dei loro comportamenti gli studenti ricevono un feedback e, a seguito di ciò, il bullo presente nel videogioco interrompe o meno il suo attacco. Inoltre il gioco prevede che in alcuni casi gli studenti, prima che agiscano, possano osservare la reazioni di altre persone coinvolte nello scenario. L’intervento si è dimostrato efficace e ha il vantaggio di essere svolto in un ambiente sicuro ed individuale, sebbene comunque gli studenti l’abbiano trovato poco divertente.

Infine, è stato presentato il gioco educativo “FearNot!” attivato nel Regno Unito, basato sulla teoria di Folkman e Lazarus (1985) e sull’”Experimental Learning” di Bandura. Tale gioco ha l’obiettivo di aumentare le strategie di coping delle vittime di bullismo. All’inizio del gioco viene inserito nome ed età del partecipante; in seguito un narratore presenta uno scenario in cui una bambina vuole giocare con delle coetanee le quali però non la accettano e la insultano. A questo punto al giocatore viene chiesto di scrivere cosa consiglierebbe di fare alla protagonista della scena, iniziando al contempo un vero e proprio dialogo con lei che si mostra inizialmente titubante ma successivamente segue il consiglio di cercare altri amici.

Questo gioco di simulazione si è dimostrato efficace nel diminuire il numero di vittime di bullismo anche a distanza di tempo dalla sua attuazione. Il punto di forza del “FearNot!” è l’avere personaggi autonomi, credibili e interattivi i quali possiedono anche capacità emotive e cognitive. Inoltre il narratore è sia scritto che orale.

Le diverse presentazioni del simposio hanno quindi fornito una panoramica dei diversi modelli di intervento sul bullismo e cyberbullismo, basandosi su interventi faccia a faccia e giochi di simulazione.

 

LEGGI ANCHE: Linking technology and psychology: feeding the mind, energy for life – Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia

La psicologia va in vacanza: i consigli per l’estate di libri e film – Rubrica

RUBRICA: I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM 

 

Le tanto attese vacanze estive sono ormai arrivate. Siamo in molti ad attendere l’estate per gustarci quel libro che avevamo messo da parte, per pigrizia o mancanza di tempo, o per vedere quel film che in inverno siamo riusciti a vedere solo a metà, prima di addormentarci sul divano stremati dalle corse della giornata.

In questa rubrica troverete dei consigli per la lettura di libri che trattano tematiche psicologiche, ma con un taglio a “misura di ombrellone”: romanzi contemporanei e grandi classici che affrontano argomenti psicologici in modo divulgativo e accessibile a un pubblico vasto: esperti del settore e non, adolescenti e adulti, alcuni utili da proporre ai pazienti quando il terapeuta è in vacanza. Anche le proposte cinematografiche avranno un taglio psicologico, questa volta a “misura di condizionatore”.

Questa settimana: Il giocatore di Dostoevskij – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 01

LEGGI LA RUBRICA I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM 

Il giocatore di Dostoevskij – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 01

RUBRICA I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM – Il giocatore di Dostoevskij (Nr. 01)

TITOLO: Il giocatore
AUTORE: Fedor Dostoevskij
TEMI PSICOLOGICI TRATTATI: gioco d’azzardo patologico
CONSIGLIATO A: adulti amanti dei grandi classici, psicologi e psicoterapeuti che si occupano di gambling, studenti.

Aleksei Ivanovic, protagonista e narratore, nonché giocatore incallito di roulette, è il precettore dei figli di un generale russo, anch’egli sul lastrico. Aleksei è perdutamente innamorato di Polina, alla quale dedicherà tutte le sue puntate di gioco per procurarle ingenti somme di denaro, finalizzate a risollevarla dalle gravi condizioni economiche in cui si trova insieme al generale, suo patrigno. Quest’ultimo è a sua volta innamorato di Mademoiselle Blanche, una giovane e spregiudicata donna francese, interessata non tanto al corteggiamento del generale, quanto alla possibilità che lui possa entrare in possesso dell’eredità della nonna. Sarà proprio la nonna, figura indimenticabile grazie alle descrizioni dell’autore, che con un colpo di scena riuscirà a cambiare le sorti di tutti i personaggi, quando farà capolino al tavolo da gioco per scialacquare l’ambìto patrimonio. Il giocatore è un memorabile classico della letteratura straniera, che regala una fotografia vivida, reale quanto grottesca della Russia perbenista e vanitosa dell’epoca ottocentesca.

I personaggi hanno in comune l’idealizzazione dell’immagine sociale, il bisogno di vantare successi e talenti attraverso la mistificazione della realtà, e trovano nel gioco d’azzardo la possibilità di redimersi da una condizione di mediocrità e fallimenti. Lo stile narrativo rende il libro avvincente, grazie a un susseguirsi di cambi repentini di scena che vanno dalla tragedia al tragicomico, dove l’unica costante è l’imprevedibilità del destino, riposto ciecamente nelle mitizzate virtù della roulette.

Si narra che il libro fu scritto da Dostoevskij in soli ventotto giorni, con l’intento di ricavare il denaro che gli era necessario per ripagare i suoi debiti di gioco. Un grande libro che avvicina alla cultura del gioco e all’atmosfera dei casinò, molto simile per certi aspetti alla nostra realtà contemporanea.

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Sex addiction: il paradosso di una condizione teoricamente invisibile ma praticamente riscontrabile

Marina Morgese, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Cosa si intende con il termine Sex Addiction? Il dibattito è ancora aperto… spesso il sesso è associato a qualcosa di positivo per l’essere umano, basti pensare all’ indispensabile funzione evoluzionistica che riveste, per capire come sia parte fondamentale di ogni specie.

Il sesso è visto come uno degli aspetti principali della vita di coppia e dell’individuo, un collante per i partner, un gioco relazionale in cui trovare intimità e complicità con l’altro.

Cosa ci sarebbe di male dunque nel fare tanto, troppo sesso? E’ proprio questo il punto: parlando di Dipendenza da Sesso, il confronto con altri tipi di dipendenze è inevitabile e la maggior parte degli esperti in tema di dipendenza ha avanzato diversi tipi di attacchi al concetto di Sex Addiction (Goodman, 1992):
– sociologico – il termine dipendenza non è altro che un’etichetta per un comportamento che si discosta dalle norme sociali (Levine & Troiden, 1988);
– convenzionale – la dipendenza è una condizione fisiologica e quindi ogni dipendenza deve essere definita fisiologicamente (Levine & Troiden,1988);
– scientifico – l’uso gratuito della parola dipendenza ha reso il termine senza senso e quindi facilmente utilizzabile per condizioni che non indicano una vera e propria dipendenza (Coleman, 1986);
– morale – vedere il comportamento sessuale come una dipendenza potrebbe minacciare il senso di responsabilità di ciascun individuo verso il proprio comportamento.

E nel DSM come è inquadrata la Sex Addiction?

Il DSM-III-R concettualizzò tale dipendenza come un Disagio dovuto a un pattern di conquiste sessuali ripetute o altre forme di dipendenza sessuale non-parafiliaca, che coinvolgono le altre persone, viste solo come cose da usare. Nel DSM-IV-TR la dipendenza sessuale non è stata inclusa come un disturbo mentale e sé ma è stata fatta rientrare nei Disturbi sessuali non altrimenti specificati, descrivendola come un disagio per un pattern di rapporti sessuali ripetuti che coinvolgono una serie di amanti visti dall’individuo solo come cose da usare. L’inclusione della dipendenza sessuale nel DSM-5 è stata respinta: Darrel Regier, vice-presidente della task force del DSM-5, ha detto che
[blockquote style=”1″]Anche se l’ipersessualità è stata proposta come una nuova dipendenza… non si è arrivati al punto in cui tutti erano pronti a chiamarla dipendenza[/blockquote]

Questo è scaturito soprattutto dalla scarsa ricerca in tema di criteri diagnostici per il comportamento sessuale compulsivo.
Nonostante una posizione accademica piuttosto negativa verso il concetto di dipendenza dal sesso, questo non ha frenato la crescita di ricerche in questo settore.

Uno tra gli studi più importanti, effettuato proprio con l’intento di influenzare la decisione della commissione del DSM-5 sull’ inclusione dell’ ipersessualità tra i disturbi mentali, è stato effettuato da Rory Reid nel 2012. Tale ricerca, effettuata con l’aiuto di altri esperti psicologi su un campione di 207 individui, ha testato la presenza di alcuni criteri utilizzabili per una diagnosi di Dipendenza sessuale, in individui i cui comportamenti sessuali assumevano effettivamente i connotati di una dipendenza.

I criteri definiti dai ricercatori erano: fantasie sessuali ricorrenti; impulsi e comportamenti promiscui per un periodo di sei mesi o più, che non siano causati da altri problemi, come ad esempio l’abuso di sostanze, un’altra condizione medica o episodi maniacali associati al disturbo bipolare. Inoltre deve essere presente uno schema di attività sessuale in risposta a stati d’animo spiacevoli (es. sentirsi depressi) o uno schema ripetitivo di comportamenti che utilizzi il sesso come modalità di risposta allo stress. I comportamenti sessuali devono inoltre essere fonte di disagio per chi li attua, tanto da interferire con le relazioni, il lavoro o ad altri aspetti importanti della vita personale. Per questo motivo tra i criteri sono inclusi i tentativi compiuti dal soggetto al fine di ridurre o interrompere le attività sessuali vissute come problematiche.

I ricercatori hanno così scoperto che i criteri proposti classificavano accuratamente l’ 88% dei pazienti con una dipendenza sessuale, stessa accuratezza per i risultati negativi, avutasi nel 93% dei casi. In altre parole, i criteri sembravano adatti a discriminare tra i pazienti che soffrono di dipendenza sessuale.

Già nelle ricerche degli anni ’80 veniva suggerito che circa il 3/5% della popolazione adulta stesse lottando contro una qualche forma di dipendenza sessuale. Tuttavia gli individui studiati a quel tempo erano per lo più auto-selezionati e di sesso maschile. Le più recenti analisi sul tema, indicano però che il problema della dipendenza sessuale si stia aggravando, soprattutto tra i più giovani e si mostra equamente distribuita tra uomini e donne. Dalla fine degli anni ’90, la letteratura clinica ha indicato che questo aumento dei comportamenti sessuali è strettamente correlato alla maggiore velocità di accesso a materiali con contenuto pornografico: non solo i numerosi siti internet con video e foto hard, ma anche siti di escort o app in grado di trovare, tramite GPS, i partner più vicini disposti ad avere un incontro sessuale (Weiss, 2012).

In più facciamo una breve riflessione…oltre alla mole di contenuti facilmente accessibili, cosa c’è di diverso rispetto al passato? Ricordo una scena del film “Jack” con Robin Williams, il protagonista è un bambino, Jack appunto, che per una condizione fisica sembra già un uomo, e, sfruttando questo aspetto, i suoi coetanei gli danno il compito di comprare una rivista vietata ai minori: Jack chiede molto velocemente la rivista alla cassiera ma, giratosi, vede una suora in fila dietro di lui. Prontamente Jack, rivolgendosi di nuovo alla cassiera, chiede un poster del Papa. Cosa voglio dire con questo? Prima, quando appunto bisognava comprare riviste o noleggiare videocassette per vedere qualche nudità o delle scene hard, interveniva la vergogna dell’individuo a frenare l’accesso al materiale vietato (Cosa penserà il giornalaio? E il titolare della videoteca?). Ora, protetti da uno schermo e in assoluto anonimato, possiamo sbarazzarci della vergogna e accedere in qualsiasi momento a contenuti pornografici e sessuali.

In Italia la Dipendenza da Sesso è presente e ha una prevalenza del 5,8%; i dati, raccolti da Franco Avenia e Annalisa Pistuddi (Presidente e Segretaria del AIRS – Associazione Italiana per la Ricerca in Sessuologia), non vanno trascurati poiché, come lo stesso Avenia afferma:
[blockquote style=”1″]Il dipendente da sesso reca a se stesso gravi danni economici e relazionali, quanto i soggetti con altre dipendenze (droghe, gioco d’azzardo, ecc.). Ma, aspetto ancor più rilevante, commette frequentemente reati a sfondo sessuale (esibizionismo, pedofilia, stupri). Negli Stati Uniti il 55% dei reati a sfondo sessuale sono commessi da soggetti con Dipendenza da sesso ed è lecito stimare che anche in Italia non ci si discosti da una così allarmante correlazione.[/blockquote]

Che cosa si prova ad essere un Sex Addicted?

Gli individui dipendenti dal sesso sperimentano un’alta attivazione neurochimica autoindotta, nel momento in cui fantasticano e si preparano per un atto sessuale. Questo è un momento intenso in cui la fantasia anticipatoria e il richiamo euforico inducono una scarica di adrenalina, un rilascio di dopamina e una visione-tunnel durante la quale è sempre meno possibile pensare in modo chiaro e prendere lucide decisioni. Questo stato emotivo (che provoca tachicardia, respirazione poco profonda, sudorazione, dilatazione della pupilla, sensazioni di euforia, etc.) rende quasi impossibile l’attivazione del lobo prefrontale e si sperimenta una sensazione simile a quella dei tossicodipendenti poco prima di incontrare il loro pusher, tanto che non si sa se sono già eccitati ancor prima che qualsiasi sostanza entri nel loro corpo.

Questo arousal permette all’individuo di staccarsi emotivamente da depressione, ansia e sensazioni di disagio legate a traumi passati o ad altri fattori di stress. In realtà l’orgasmo non è l’obiettivo primario, il meta-obiettivo è perdersi il più a lungo possibile in questo stato di dissociazione (Weiss, 2012). Dopo l’atto sessuale le alterazioni neurochimiche ritornano alla baseline, e insieme al loro riassetto generale si torna all’ansia, allo stress e alla depressione, il tutto aggravato dal senso di colpa di aver commesso un atto impulsivo e a volte minatorio per una sana percezione di Sé e una sana vita relazionale con il proprio partner (quasi sempre all’oscuro di tutto questo).

Chi è un Sex Addicted?

Essere dipendente dal sesso non è correlato positivamente con l’essere maschio o femmina, gay o etero, ricco o povero, o qualsiasi altra cosa.
Robert Weiss, direttore del Sexual Recovery Institute e direttore del Sexual Disorders Services for Elements Behavioral Health, ci aiuta nel capire come si presentano le persone dipendenti dal sesso.

Essi non riescono a frenare la loro dipendenza, nemmeno se instaurano un rapporto serio e duraturo con un partner (per lo meno non ci riescono a lungo), né riescono a fermarsi se diventano genitori. Un tipico esempio di pensiero da Sex Addiction è “Questa è l’ultima volta che ho intenzione di andare in quel sex shop/ scaricare le app sex-finder/ vedere il mio compagno di letto o perdere tempo su quel sito porno”.

Ma in definitiva la loro scarsa capacità di controllo, li riporta alle stesse situazioni sessuali, nonostante le conseguenze negative sulla vita, che allora si sdoppia, mantenendo la dipendenza fuori da una vita normale, fatta di amici e famiglia. Come tutte le persone tossicodipendenti, si crea così una rete di continue bugie, segreti, manipolazione, e negazione. Questo stile di vita disintegrato porta spesso a disturbi dell’umore, problemi relazionali e crisi esistenziali.

Sempre Weiss offre una serie di comportamenti tipici di chi mette in atto comportamenti connotati da iper-sessualità:
– Molteplici rapporti occasionali e poche o brevi relazioni serie;
– Ore interminabili passate su Internet e su siti pornografici;
– Masturbazione compulsiva, con o senza la pornografia;
– Partecipazione ricorrente (e di nascosto) in strip club, librerie per adulti, incontri con prostitute o operatori di massaggi sensuali;
– Rapporti di sesso anonimo o casuale con persone incontrate on-line o tramite applicazioni per smartphones;
– Pratiche sessuali non sicure e/o fisicamente pericolose;
– Coinvolgimento in ambienti connessi a determinate pratiche sessuali (sex club, club scambisti, stabilimenti balneari, ecc).

La ricerca di sesso avviene indipendentemente dalle potenziali conseguenze immediate o a lungo termine per sé o per altri.
Tra le conseguenze più frequenti ci sono:
– Perdita di controllo sulle crescenti fantasie e comportamenti sessuali
– Aumento di frequenza e intensità di pensieri e comportamenti sessuali nel corso del tempo (escalation)
– Impoverimento della creatività, l’intimità e /o il tempo libero
– Irritabilità e rabbia quando si cerca di smettere con i comportamenti sessuali
– Isolamento sociale ed emotivo
– Disturbi dell’umore
– Conseguenze negative più ampie a livello relazionale, emotivo, fisico, finanziario, legale, ecc. , legate ai comportamenti sessuali

Un modello di terapia

Patrick J. Carnes, nel 2000, pubblica un articolo in cui viene delineato un protocollo di intervento per i casi di dipendenza sessuale, esso prevede tre fasi: intervento, trattamento iniziale e terapia estesa.

La prima fase prevede un intervento del ciclo compulsivo di mantenimento del disturbo. Il terapeuta deve indagare la storia sessuale del paziente per conoscere tutti gli aspetti del comportamento problematico. Questa indagine è importante sia perché paziente e terapeuta prendono consapevolezza della portata del problema, sia per evitare al terapeuta infelici sorprese nel corso della terapia (molto frequenti, qualunque siano gli obiettivi accordati). Questa prima fase è soprattutto psico-educazionale: si informa il paziente sul disturbo, in modo tale da avere una visione più obiettiva del problema.

Quando il paziente inizia a fidarsi del terapeuta e acquista più familiarità con il disturbo, è il momento di iniziare a confrontarsi con le aree più problematiche del paziente, sarebbe auspicabile iniziare con la più frequente e la più pericolosa, ad es. il sesso non protetto con le prostitute: il terapeuta sviluppa un contratto comportamentale con il paziente che si asterrà da alcuni comportamenti durante la terapia. Ad esempio, se il rivolgersi a prostitute si verifica in una determinata zona della città, il paziente si impegna non solo ad astenersi da questi comportamenti, ma ad evitare di andare da solo in questi luoghi. Il paziente si impegna inoltre a segnalare eventuali problemi riscontrati in questa gestione del comportamento.

Quando questo punto è raggiunto, ha inizio la seconda fase di trattamento, in cui vengono impiegate alcune strategie:
Partecipazione a un gruppo terapeutico con persone che condividono lo stesso problema
Accordo scritto di astinenza, in tre parti: i comportamenti distruttivi da cui il paziente si impegna ad astenersi; cosa è necessario fare per evitare quei comportamenti; una dichiarazione completa dei comportamenti sessuali che il paziente desidera coltivare (discussi poi nella terapia e nei gruppi di sostegno).
Piano di prevenzione delle ricadute. Con l’aiuto del terapeuta, il paziente si prepara un piano globale per prevenire le ricadute, tra cui la comprensione dei trigger (Oggetti /eventi specifici che attivano le compulsioni sessuali del paziente), un elenco degli eventi attivanti (ad esempio stress estremo, una lite con il coniuge, ecc), nonché l’esecuzione di “esercitazioni antincendio” (vale a dire risposte automatiche per prevenire le ricadute).
Periodo di astinenza, che comprende anche la masturbazione, dalle 8 alle 12 settimane. Se la persona ha un partner, anch’egli deve impegnarsi in questo processo. Questo periodo è progettato per ridurre il “caos sessuale” e per esplorare ciò che concettualmente costituisce la salute sessuale (spesso, durante questo periodo, al paziente riaffiorano ricordi della prima infanzia come abusi sessuali e fisici).
• Al termine del periodo di astinenza, terapeuta e paziente creano un piano di sesso, che sottolinea ulteriormente la differenza tra sessualità sana e distruttiva.
Coinvolgimento della famiglia. I partner e membri della famiglia hanno bisogno di essere ascoltati in terapia per un lavoro su se stessi e per non screditare le piccole conquiste terapeutiche del paziente.
Riduzione della vergogna. Il terapeuta lavora con il paziente utilizzando diverse strategie per ridurre sia la vergogna sessuale che la vergogna per il comportamento passato.

Dopo la seconda fase, e se un periodo libero da ricadute è stato mantenuto, si passa alla terza fase del trattamento. Questa fase si concentra su questioni legate allo sviluppo e alla famiglia d’origine, e a quei problemi qui sorti che si sono poi riflessi nella sfera sessuale del paziente. In questa fase si potrebbe venire a contatto con dolori non risolti e questo richiederà particolare tatto e attenzione, poiché si potrebbe avere una ricaduta.
Nonostante la ricerca continui e, come abbiamo visto, alcuni esperti abbiano avanzato proposte di trattamento per la dipendenza da sesso, questa è ben lontana dall’essere riconosciuta ufficialmente tra i disturbi mentali. Tutto ciò crea non pochi problemi a terapeuti, psicologi e psichiatri che hanno in carico pazienti con comportamenti di ipersessualità molto simili a una dipendenza. Si spera dunque che il panorama scientifico possa lasciare uno spazio sempre maggiore alle ricerche in tema di sex addiction: una condizione che, seppure legata a uno degli aspetti più naturali e piacevoli della vita, potrebbe, a lungo andare, trasformare tale piacere in vera e propria patologia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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