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Difficoltà di apprendimento e motivazione: un intervento sulle strategie di studio

Negli ultimi anni si va sempre di più delineando un approccio che consideri le componenti emotive e motivazionali dell’apprendimento: emozioni, attribuzioni, convinzioni, motivazione e autopercezione. Questo lavoro considera alcuni aspetti dell’apprendimento che riguardano gli stili motivazionali e le componenti emotive dello studio.

Introduzione

Sono ormai numerose le ricerche che mostrano l’importanza fondamentale degli aspetti metacognitivi nello studio (De Beni, Moè e Rizzato, 2003). Il termine metacognizione, come ha suggerito Flavell a partire dagli anni ‘70, indica la capacità di riflettere sui propri processi mentali (memoria, attenzione, ecc..), comprenderne il funzionamento, esercitando un controllo su di essi e ottimizzando le risorse (Flavell, 1978). Questa definizione è stata per molto tempo applicata a quegli aspetti della cognizione che riguardano l’attenzione, la memoria, la comprensione, il ragionamento e il problem solving.

Negli ultimi anni si va, invece, sempre di più delineando un approccio che consideri, oltre agli aspetti sopra citati, anche le componenti emotive e motivazionali dell’apprendimento: emozioni, attribuzioni, convinzioni, motivazione e autopercezione (De Beni, Moé, 200).

Questo lavoro considera alcuni aspetti dell’apprendimento che riguardano gli stili motivazionali e le componenti emotive dello studio:

  • L’importanza di un atteggiamento strategico funzionale e flessibile:
  • Le teorie implicite sull’intelligenza e sulla personalità;
  • Gli obiettivi di apprendimento e le diverse percezioni di abilità che possono svolgere un ruolo determinante nella motivazione allo studio.

Tali aspetti sono stati indagati nella presente ricerca mediante la somministrazione di una batteria di prove.

Per quanto riguarda il primo punto è importante ricordare che, come confermato da diversi autori (Moè, De Beni, 1995; Weinstein, Hume, 1998), gli aspetti strategici dello studio sono elementi fondamentali per il raggiungimento del successo scolastico. Infatti, secondo il modello proposto da Pressley, Borkowsky e O’Sullivan (1985), noto come GSU (Good Strategy User), lo studente strategico non solo conosce le strategie, ma ne comprende l’utilità, sa come e quando utilizzarle, selezionarle e controllarne l’efficacia durante l’esecuzione.

Secondo questo modello lo sviluppo strategico precede lo sviluppo motivazionale, in quanto la capacità di affrontare strategicamente le situazioni di apprendimento conduce a risultati positivi, che sono alla base della motivazione.

In riferimento al secondo punto, una delle autrici più importanti è sicuramente Carol Dweck. Nelle sue ricerche (Dweck et. al., 1995; Dweck & Leggett, 1998; Molden & Dweck, 2006) vengono definite teorie implicite tutte quelle convinzioni che riguardano la modificabilità delle capacità personali. Vengono così formulate teorie implicite sulla propria intelligenza e sulla propria personalità che possono essere di due tipi:

  • Entitario: chi ritiene che la sua intelligenza e/o la sua personalità siano un insieme di tratti fissi, difficilmente modificabili e migliorabili.
  • Incrementale: chi considera sua l’intelligenza e/o la sua personalità come un’abilità modificabile, che può crescere e svilupparsi nel tempo.

Gli studenti che appartengono a questa seconda categoria tendono a ricercare obiettivi di apprendimento che possano incrementare la loro competenza (Dweck, Legget, 1988).

Infine, per quanto riguarda il terzo punto, è da prendere in considerazione un ulteriore aspetto della motivazione, che è la percezione di sé. Quest’ultima consiste in un insieme di rappresentazioni che riguardano:

  • Il sé attuale, dato dalla rappresentazione che un individuo ha di se stesso e delle qualità che pensa di avere effettivamente;
  • Il sé ideale, che si riferisce a come l’individuo spera, desidera o vorrebbe essere, alle caratteristiche che vorrebbe possedere e alle situazioni che desidererebbe realizzare.

In relazione alla psicologia dell’apprendimento è possibile affermare che chi possiede una più coerente percezione di sé come studente si sente più efficace nelle situazioni di apprendimento e ottiene migliori prestazioni scolastiche. Tuttavia, inadeguate o discrepanti percezioni di sé possono invece costituire situazioni demotivanti che portano ad evitare e abbandonare le situazioni di studio in funzione della difesa del sé (De Beni, Moé, 2000).

Lo Studio

Obiettivi, metodo, Campione

Lo studio si pone due obiettivi, il primo è quello di valutare le abilità e la motivazione allo studio in un gruppo di minori con difficoltà scolastiche e il secondo è quello di avviarli a un percorso di potenziamento delle abilità metacognitive e strategiche, nonché a una riflessione sul proprio sistema di convinzioni. L’ipotesi di partenza è che un intervento di potenziamento, strutturato su queste componenti dell’apprendimento, possa contribuire a migliorare le abilità di studio.

Il modello di intervento qui proposto si declina in tre successive fasi di attuazione:

  • Una fase di valutazione delle abilità e della motivazione allo studio, mediante la somministrazione della batteria Amos. Abilità e motivazione allo studio: prove di valutazione e orientamento per la scuola secondaria di secondo grado e l’università – nuova edizione (De Beni, Moè, Corndoldi, 2014). Le prove sono state somministrate nel mese di Ottobre 2014 durante l’orario scolastico.
  • Una fase di training, con attività mirate al potenziamento delle componenti metacognitive-strategiche dello studio e a una riflessione sul proprio sistema di convinzioni. L’intervento è iniziato nel mese di Novembre 2014, sono stati programmati due incontri settimanali di un ora e mezza ciascuno per un tempo totale di almeno due mesi.
  • Un’ultima fase di valutazione finale, basata anche sulle osservazioni quotidiane del corpo docenti, al fine di valutare l’efficacia del periodo di intervento sulle abilità metacognitive e strategiche.

I ragazzi che hanno partecipato allo studio frequentano gli ultimi anni di una scuola superiore della provincia di Cosenza. All’inizio dell’anno scolastico 2014/2015 è stato distribuito ai genitori dei ragazzi, il consenso informato alla ricerca. All’interno del consenso informato sono stati esplicitati gli obiettivi della ricerca-intervento e le prove che sarebbero state somministrate ai ragazzi.

La prima fase di valutazione delle abilità e della motivazione allo studio è stata condotta su 3 casi (età:17 anni), segnalati dai docenti per la bassa motivazione e le difficoltà di apprendimento.

Nella seconda fase, condotta su un singolo caso, è stato programmato un periodo di potenziamento delle componenti metacognitive-strategiche dello studio e una riflessione sul suo sistema di convinzioni.

Risultati

Nella prova PS1 (Prova di studio) della batteria Amos viene chiesto allo studente di studiare un testo e dopo un intervallo di tempo (30′), di svolgere una serie di esercizi finalizzati a misurare la comprensione e il ricordo dei contenuti.

Nel compito frasi chiave viene chiesto agli studenti di individuare le frasi o le parole chiave, lasciando a disposizione il testo. Nell’esercizio successivo scelta e ordine eventi viene chiesto allo studente di scegliere tra una lista di eventi, le nove frasi che meglio indicano le informazioni più rilevanti del testo e di ordinarle cronologicamente. Gli altri due esercizi comprendono domande aperte e domande vero/falso.

Dai risultati ottenuti nella prova di studio PS1 è emersa un’importante difficoltà nella selezione delle informazioni rilevanti di un testo. Nonostante nel compito frasi chiave sia stata data la possibilità di consultare il testo per annotare le informazioni principali, gli studenti non hanno individuato le aree tematiche più importanti.

Nei compiti scelta e ordine di eventi, domande aperte e domande vero/falso l’obiettivo è stato principalmente quello di misurare la capacità di ricordare i contenuti del testo. Complessivamente i risultati hanno mostrato una generale difficoltà nel memorizzare le informazioni di un testo con l’obiettivo di eseguire una prova. Gli studenti non hanno risposto alle domande aperte e hanno mostrato una preferenza per le domande vero/falso o a risposta multipla.

Successivamente è stato somministrato il questionario QSS (Questionario sulle strategie di studio) della batteria Amos. Il questionario misura l’atteggiamento strategico che lo studente mette in pratica nei compiti di apprendimento, fornendo tre indici. Il primo indice è la valutazione d’efficacia, che si riferisce alla convinzione sull’efficacia dell’uso di strategie di studio. Il secondo indice è la valutazione d’uso, che esprime la misura in cui lo studente ritiene effettivamente di saper usare le varie strategie. Il terzo indice è chiamato incoerenza strategica e si riferisce alla differenza esistente tra una dimensione associata al sé ideale (quello che lo studente pensa si dovrebbe fare, esplicitato dalla valutazione d’efficacia) e una dimensione associata al sé reale (quello che lo studente ritiene di fare realmente, esplicitato dalla valutazione d’uso).

I risultati ottenuti dal questionario sulle strategie di studio hanno mostrato come gli studenti presi in considerazione tendano complessivamente a dichiarare di possedere una buona conoscenza delle strategie di studio più efficaci, sovrastimando l’utilizzo che fanno di queste strategie. In realtà, come è emerso dalle prove di studio, l’atteggiamento strategico è risultato essere piuttosto basso.

Nonostante nel questionario abbiano valutato positivamente strategie come farsi schemi e diagrammi e scrivere a fianco del testo delle idee guida, nessuno dei 3 ragazzi le ha messe in pratica durante lo svolgimento delle prove di studio, mostrando una difficoltà significativa nella comprensione, oltre che nella memorizzazione del materiale. Il questionario sulle convinzioni QC (Questionario sulle convinzioni) della batteria Amos indaga alcuni aspetti motivazionali implicati nell’apprendimento: le credenze, le percezioni di abilità, la fiducia e gli obiettivi di apprendimento che influenzano direttamente l’autoregolazione dello studente.

Le prime due parti del questionario riguardano le convinzioni dello studente sull’intelligenza e sulla personalità. Il questionario misura fino a che punto lo studente percepisce la propria intelligenza e la propria personalità come modificabile, quindi capace di trarre profitto dalle situazioni di apprendimento, oppure è legata a teorie entitarie dell’intelligenza e della personalità che invece non sostengono la motivazione all’apprendimento.

Dai risultati delle prime due parti del questionario è emerso come i ragazzi ottengano un punteggio che tende a collocarsi nella fascia di prestazione tendenzialmente entitaria o non orientata né all’entitaria né all’incrementale. Questo risultato indica che i 3 studenti presi in considerazione nel presente studio percepiscono la propria intelligenza come un insieme di abilità difficilmente modificabili.

Nella terza e quarta parte del questionario è stata valutata rispettivamente la fiducia nella propria intelligenza e la fiducia nella propria personalità. Nella quinta parte invece è stata valutata la percezione di abilità dello studente rispetto allo studio. Fiducia e percezione di abilità offrono informazioni sull’autostima e sulla percezione di auto-efficacia dello studente.

Dai risultati è emerso che i ragazzi tendono ad avere un buon livello di autostima, ottenendo punteggi alti o sufficienti sia nel questionario fiducia nella propria intelligenza che in quello fiducia nella propria personalità. Ciò che è sembrato essere sotto la media sono, invece, i punteggi del questionario percezione di abilità che hanno fornito una valutazione dell’autoefficacia degli studenti. I ragazzi si sono collocati nella fascia di prestazione bassa e molto bassa.

Nell’ultima parte del questionario sono stati indagati gli obiettivi di apprendimento. É possibile distinguere: obiettivi di prestazione, in cui lo studente appare interessato a mostrare le proprie abilità ed evitare situazioni in cui ci sia pericolo di fallimento, e obiettivi di apprendimento, in cui lo studente assegna priorità all’effettiva acquisizione di competenze nuove rispetto alla semplice dimostrazione di abilità e considera positivamente anche la possibilità di sbagliare. Due ragazzi su tre hanno dichiarato di studiare per raggiungere obiettivi di prestazione. Il ragazzo (che chiameremo F.) che ha dichiarato di perseguire obiettivi di padronanza è lo stesso che, nelle prove precedenti, si è differenziato dal gruppo per aver ottenuto punteggi leggermente più alti nel questionario sulle strategie di studio e nel questionario sulla teoria dell’intelligenza.

Nella seconda fase dello studio era previsto un periodo di training con attività mirate al potenziamento delle componenti metacognitive e strategiche dello studio. Le attività sono state svolte su un singolo ragazzo (F.). Considerate le caratteristiche dello studente emerse dalle prove di studio, si è ipotizzato che un intervento finalizzato a potenziare le abilità metacognitive sul metodo di studio e sulle proprie strategie, oltre che una riflessione sulle proprie convinzioni, avesse potuto aiutarlo a migliorare le sue abilità di studio e ottenere prestazioni migliori.

Il training, programmato per la durata di due mesi, è iniziato in data 10 Novembre 2014 e si è concluso in data 17 Gennaio 2015. I due incontri settimanali previsti si sono svolti il lunedì e il mercoledì dalle 9 alle 10:30 (durante l’orario scolastico). Di seguito vengono riportate le attività svolte.

Nelle prime due settimane sono stati discussi i risultati delle prove PS, QSS e QC.

Nelle settimane successive abbiamo lavorato su alcune schede dell’area 1 (Strategie di apprendimento) del programma Imparare a studiare 2 (Cornoldi, De Beni, Gruppo MT, 2001). Partendo dalle criticità emerse dalle Prove di studio abbiamo scelto di considerare quelle schede che avrebbero permesso a F. di riflettere sulle criticità emerse:

  • Le schede C ci hanno permesso di lavorare sull’uso dei sussidi associati al testo, con l’obiettivo di far ragionare F. su quando e come utilizzarli. Alcuni compiti erano focalizzati sull’uso del vocabolario. È stato chiesto a F. di leggere un testo e sottolineare le parole che non conosceva, cercando di capirne il significato dal contesto o in alternativa usare il vocabolario. Abbiamo preso in considerazione l’utilizzo di un sussidio come il registratore, strumento utile e flessibile anche per quanto riguarda lo svolgimento di compiti diversi come l’autovalutazione e la memorizzazione del materiale.
  • Le schede D ci hanno permesso di lavorare su diverse tipologie di testi e sull’elaborazione attiva del materiale. È stato chiesto a F. di costruire uno schema dopo aver letto un testo e successivamente è stato svolto lo stesso compito prendendo in considerazione alcuni articoli di giornale.
  • Le schede E ci hanno permesso di lavorare sulle strategie di lettura e sulle strategie per memorizzare. Successivamente abbiamo preso in considerazione le diverse strategie elencate nella scheda E8 cercando di applicarle a diversi materiali di studio. Durante lo svolgimento degli esercizi contenuti nelle schede D ed E, ho chiesto a F. di prevedere quanto tempo avrebbe impiegato per leggere gli articoli e i materiali proposti. È emerso che F. tende a sovrastimare il tempo necessario per lo svolgimento dei suoi compiti.

Nelle settimane successive abbiamo preso in considerazione l’area 3 (Metacognizione e Studio) del programma Imparare a studiare 2. Di seguito vengono riportate le attività che abbiamo svolto in queste giornate:

  • Le schede N ci hanno permesso di riflettere su come inquadrare l’argomento e come individuare le condizioni personali e ambientali idonee per raggiungere un buon livello di concentrazione nello studio.
  • Le schede O ci hanno permesso di lavorare sulla selezione degli aspetti principali di un testo. I’obiettivo è stato quello far riflettere F. sull’utilità di sottolineare gli aspetti principali di un testo, in relazione alle diverse tipologie di testo e ai diversi tipi di compito. F. ha mostrato molta resistenza nell’affrontare compiti di sottolineatura per via delle sue convinzioni sulla scarsa efficacia di questa strategia.
  • Le schede dell’area P, Q e R ci hanno consentito di lavorare sulla capacità di autovalutazione e le strategie di preparazione a una prova. Gli aspetti che abbiamo preso in considerazione sono stati quelli che si riferiscono a una riflessione più accurata sulla natura dei processi mentali connessi ai compiti di apprendimento.

Riflessioni conclusive

La somministrazione della batteria Amos ha permesso di ottenere una valutazione di tipo metacognitivo che può essere considerata come una presa di consapevolezza da parte degli studenti sul proprio funzionamento mentale e su alcuni dei processi cognitivi coinvolti in compiti di apprendimento.

Nel caso preso in considerazione, il profilo emerso dalle prove Amos è quello di un ragazzo potenzialmente capace di riconoscere delle buone strategie di studio, ma convinto di non essere in grado di metterle in pratica. Flavell parla di deficit di produzione, riferendosi proprio a quegli studenti che non usano spontaneamente le strategie mnemoniche più efficaci, ma sono in grado di usarle nel caso in cui qualcuno gliele insegni (Flavell, 1970).

Gli insuccessi scolastici e la mancanza di atteggiamento metacognitivo hanno fatto si che F. sviluppasse un sistema di convinzioni poco funzionale sulle proprie abilità e competenze con gravi ripercussioni sulla motivazione. Nel caso preso in considerazione, lo studente probabilmente, non è riuscito a sperimentare quel desiderio di apprendere descritto da Pressley, Borkowski e O’Sullivan nel modello GSU (1985), che è sostenuto dall’uso efficace di strategie e che conduce a prestazioni soddisfacenti.

Nonostante la diffidenza iniziale di F. sull’utilità dei compiti proposti, penso che questo tipo di attività lo abbia aiutato a considerare diversamente non solo le strategie prese in considerazione ma anche tutte le convinzioni sbagliate sul suo modo di apprendere. Alcune di queste, come l’inutilità della sottolineatura e della ripetizione ad alta voce, sono state esaminate tramite gli esercizi proposti nelle schede, utilizzati anche come pretesto per poter riflettere insieme sul suo modo di approcciarsi allo studio. Il ragazzo ha affermato di non aver mai ragionato sul proprio modo di studiare e di memorizzare il materiale scolastico, e si è mostrato particolarmente interessato all’uso di strategie mnemoniche che avrebbero potuto aiutarlo anche in piccoli compiti pratici della vita quotidiana.

Il ragazzo nel corso dei nostri incontri ha mostrato un atteggiamento sempre più collaborativo e autonomo, mostrando una maggiore consapevolezza dei processi coinvolti nell’apprendimento, come la memoria e l’attenzione.
È possibile affermare che il lavoro sulle strategie e sull’approccio metacognitivo svolto con F. ha prodotto risultati positivi in termini di motivazione ai compiti proposti.

F. era il ragazzo meno motivato, descritto dai professori come uno degli studenti più problematici del gruppo di lavoro preso in considerazione. Nel corso degli incontri F. ha mostrato un crescente interesse, dovuto anche al fatto che, col tempo, abbiamo avuto la possibilità di conoscerci e di instaurare una buona relazione. Successivamente, grazie alla tipologia dei compiti presi in considerazione, è stato possibile offrire al ragazzo un diverso punto di vista dal quale poter esaminare le sue convinzioni sull’inutilità dello studio.

In conclusione, dal presente studio si evince come ogni studente, con difficoltà o meno, necessiti di un intervento didattico che sia il più possibile vicino alle sue caratteristiche personali e che miri ad affrontare un percorso di consapevolezza delle proprie risorse e di accettazione dei propri limiti. A tal proposito, tutti gli operatori scolastici così come tutti gli adulti di riferimento che si confrontano con gli studenti, dovrebbero collaborare e motivare gli studenti a sfruttare il più possibile le proprie risorse offrendo loro gli strumenti adeguati.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO: 

Schema di sé, confronto sociale e prestazioni cognitive: i paradigmi sociali del processo di insegnamento – apprendimento

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bandura A., 1997, Autoefficacia: teoria e applicazioni, Tr. it. Erikson, Trento, 2000.
  • Cornoldi C., De beni R., 2001, Imparare a studiare 2, Erickson, Trento.
  • De Beni R., Moè A., 2000, Motivazione e apprendimento, Il Mulino, Bologna.
  • De Beni R., Moè A., Rizzato R., 2003, Lo studio all’università. Caratteristiche e modalità di promozione. In Giornale Italiano di Psicologia, vol. 30(2), pp. 63-81.
  • De Beni R., Moè A., Cornoldi C., Meneghetti C., Fabris M., Zamperlin C., De Min Tona G., 2014, Test AMOS – Abilità e motivazione allo studio: prove di valutazione e orientamento per la scuola secondaria di secondo grado e l’università, Erickson, Trento.
  • Dweck C. S., Chiu C., Hong Y., 1995, Implicit theories and their role in judgments and reactions: A world from two perspectives in Psychological Inquiry, vol. 6, pp. 267–285.
  • Dweck C. S., Leggett E. L., 1988, A social-cognitive approach to motivation and personality in Psychological Review, vol. 95, pp. 256–273.
  • Flavell J.H. (1978) Metacognitive Development, in J.M. Scandura & C.J. Brainerd (Eds) Structural/Process Theories of Complex Human Behavior, pp. 34-78. Alphen aan den Rijin: Sijthoff & Noorddhoff
  • Moe’ A., De Beni R. (1995) Metodo di studio: Dalle strategie ai programmi metacognitivi in Metacognizione ed educazione. Vol.4, pp. 121-140.
  • Molden D. C., Dweck C. S. (2006). Finding “meaning” in psychology: A lay theories approach to self-regulation, social perception, and social development. American Psychologist, Vol. 61, pp.192–203.
  • Pressley M., Borkowski J.G., O’Sullivan J.T. (1985). Children’s metamemory and the teaching of memory strategies in D.L. Forrest-Pressley, G.E. MacKinno, T.G. Waller (Eds.), Metacognition, cognition, and human peformance, Vo. 1, pp. 111-153, Orlando, FL, Academic Press.
  • Weinstein C., Hume L. M. (1998). Study strategies for lifelong learning in Psychology in the classroom, Vol. 7, pp. 9-94, Washington, DC, US: American Psychological Association.

Congresso EABCT 2015 di Gerusalemme – il report di State of Mind

Dal Congresso annuale dell’EABCT, European Association of Behavioural and Cognitive Therapies

 

Lunedì 31 agosto è iniziato a Gerusalemme il 45esimo congresso dell’associazione europea delle terapie cognitive e comportamentali (EABCT, European Association of Behavioural and Cognitive Therapies) e continuerà fino a giovedì 3 settembre. 

 

Purtroppo salto il primo giorno e inizio a seguirlo mercoledì 2 settembre alle 8.30 del mattino, ascoltando un simposio sulla terapia metacognitiva, condotto dagli israeliani Rosanna Black Josman e Samuel Myers. Scopro che si tratta di un workshop di apprendimento che non ha volutamente nulla di nuovo. Va bene lo stesso, mi esercito a fare un utile ripasso delle tecniche di addestramento attenzionale –che pare essere la tecnica più popolare di terapia metacognitiva- e mindfulness distaccata.

 

Il simposio successivo ha una presentazione di alta originalità: “Targeting Biases of Emotional Attention as a Dynamic Process in Time: Attention Feedback Awareness & Control Training (A-FACT)” di Amit Bernstein dell’Università di Haifa in Israele. Bernstein ci da un’analisi puntiforme dei processi attenzionali, con una suddivisione per microintervalli delle oscillazioni dell’attenzione. L’impressione è che ora sia possibile individuare i micromomenti al di sotto della durata del secondo di massima vulnerabilità attenzionale agli stimoli minacciosi, micromomenti dai quali si può precipitare in stati ansiosi prolungati. Non ancora chiarissimo quali siano di fattori in gioco durante questi attimi di vulnerabilità. Amit Bernestei ha promesso di spedirmi quattro articoli sull’argomento, probabilmente molto complessi e sostanziosi. Le altre presentazioni sono meno originali e confermano il crescente interesse per i processi patologici a scapito del lavoro sui contenuti.

 

Seguono le keynote di due pesi massimi del passato: David Barlow e Paul Salkovskis. Deludenti, purtroppo. I due vecchi dinosauri non hanno più nulla da aggiungere, ed è giusto così. Salkovskis è più celebrativo, parla dell’ansia della salute, quella antica paura d’ammalarsi che un tempo di chiamava ipocondria. Rivendica a sé e a David Clark il merito di avere costruito il protocollo di terapia cognitiva definitivo per questo disturbo.

Riscatta in parte la celebrazione di se stesso con un po’ d’ironia (non troppa), poi si lancia in un’analisi dei costi in cui dimostra che la sua cura fa risparmiare soldi allo stato britannico. Da qualche tempo queste vecchie glorie della scienza si sono riciclate in tanti Quintino Sella e si compiacciono del bene che fanno alle casse dello stato. La crisi incombe sui nostri cuori un tempo giovani e incoscienti; oggi ci teniamo a giustificare i nostri giocattoli e – prima di chiedere altri soldi (che non arrivano più)- dichiariamo alla Mamma/Stato che siamo cresciuti e che non siamo più i giovani spendaccioni di un tempo. Peccato che lei non ci caschi.

Barlow è più dimesso dello scoppiettante Salkovskis. Vorrebbe essere più sostanzioso e si lancia in un tentativo di modello integrato che mette insieme decenni di sviluppo della terapia cognitiva. Purtroppo salta fuori l’ennesimo assemblaggio eclettico che mette insieme un po’ di tutto, con le solite sortite nei campi delle neuroscienze e delle discipline evolutive.

È proprio vero: tutte le terapie quando arrivano al loro limite estremo di sviluppo tentano di allearsi con forze non psicologiche: il cervello (le neuroscienze) e i genitori (le teorie evolutive). Sviluppi che tradiscono un affaticamento della spinta innovativa.

 

Dopo le due keynote segue il nostro simposio sui processi di pensiero ripetitivo negativo: rimuginio e ruminazione. La partecipazione è numerosa, la sala è piena, a testimoniare la crescita d’interesse per i processi metacognitivi. Il simposio avviene con la formula dello Special Interest Group (SIG), una discussione libera e informale invece della solita sfilata di presentazioni con pochissimi minuti per le domande. Si discute per un’ora e mezza e la libertà di parola fa capire come la maggior parte degli ascoltatori –malgrado il successo della “terza ondata”- ignori ancora come si conduca una terapia focalizzata solo sui processi. I terapisti sembrano ancora molto spaventati da queste terapie in cui non si parla di contenuti. C’è ancora molta strada da coprire.

 

LE SLIDE DEL SIMPOSIO: Worry, Rumination and Repetitive Thinking: Special Interest Group

LETTURE CONSIGLIATE: Archivio dei reportage dai congressi EABCT

 

Congresso EABCT 2015 di Gerusalemme

SLIDES DAL SIMPOSIO:

Worry, Rumination and Repetitive Thinking: Special Interest Group

 

 

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Il ruolo dell’attaccamento madre-bambino nella regolazione emotiva

Mancini Raffaella e Monica Mascolo – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi San Benedetto Del Tronto

 

Perché la qualità dell’attaccamento è importante nello sviluppo della regolazione emotiva? Diverse sono le ricerche che hanno approfondito il legame tra regolazione emotiva e attaccamento, molte delle quali sono giunte alla conclusione che la capacità di regolare in modo più o meno efficace le emozioni potrebbe derivare dall’esperienza delle nostre relazioni di attaccamento primario.

In particolare, si ipotizza che la regolazione emotiva possa essere influenzata dalla relazione di attaccamento attraverso le aspettative del bambino circa il comportamento del genitore.

La regolazione delle emozioni è una componente importante della competenza emotiva, che si sviluppa nei primi anni di vita e ha particolare importanza per lo sviluppo di un adeguato e flessibile comportamento sociale (Eisenberg et al., 1996; Eisenberg, Murphi, Maszk, Smith et al., 1995; Thompson, 1994, citato in Fox e Calkins, 2003).

Nel tempo sono state date varie definizioni riguardo questo concetto. Frijda (1986) è stato tra i primi ad occuparsi di regolazione, e afferma che le persone oltre a provare le emozioni, le manipolano nella misura in cui assumono una certa posizione verso le proprie emozioni e verso le conseguenze delle proprie azioni di tipo emotivo; le giudicano positive o negative e si comportano di conseguenza (Frijda, 1986, citato in Grazzani Gavazzi, 2009).

Successivamente Thompson ha definito la regolazione emotiva come quel processo che, consciamente o inconsciamente, esercita un’azione di monitoraggio, valutazione, modificazione, e più in generale, di mediazione della risposta emotiva (Thompson, 1994, citato in Barone, 2007). Gross, che insieme a Thompson è uno tra i più significativi studiosi dell’argomento, definisce la regolazione emotiva come quell’insieme dei processi attraverso i quali le emozioni sono esse stesse regolate. I processi possono essere di tipo intrinseco, quando è il soggetto che agisce autoregolandosi (regulation in self), o di tipo estrinseco (regulation in other), quando qualcuno agisce per regolare le emozioni dell’altro.

Tali processi entrano in gioco sia in relazione a emozioni positive che negative. Gross ritiene che l’attività di regolazione avviene a diversi livelli del processo emotivo e gli atti regolatori hanno il loro impatto principale in differenti punti. Le principali tipologie di processi regolatori, presenti nel suo modello di regolazione emotiva, sono: selezione della situazione, modificazione della situazione, direzione selettiva dell’attenzione (o focalizzazione), cambiamento cognitivo e modulazione della risposta. I primi quattro sono focalizzati sull’antecedente, mentre l’ultimo è centrato sulla risposta ed è successivo alle reazioni emotive (Gross, 2008, citato in Grazzani Gavazzi, 2009).

La regolazione delle emozioni inizialmente è mediata dal caregiver, successivamente nel corso dello sviluppo si presenta come una modalità maggiormente autonoma e consapevole.

Volendo tracciare le principali fasi dello sviluppo della regolazione emotiva possiamo individuarne la prima che copre il primo anno di vita in cui è fondamentale il ruolo esterno dell’adulto per dare significato alle esperienze del bambino, ad esempio rispondendo prontamente al pianto o ai sorrisi. Tuttavia sono presenti anche condotte autoregolatorie, come la suzione del pollice per calmarsi o il distogliere lo sguardo da uno stimolo eccitante. Inizialmente tali condotte sembrano automatiche per poi divenire sempre più consapevoli nel corso del primo anno.

Tra i 12 e i 36 mesi le strategie di regolazione emotiva sono prevalentemente di tipo comportamentale, infatti si osservano condotte di evitamento di situazioni indesiderate, la ricerca attiva di alcune persone, la richiesta di vicinanza e il contatto fisico per ottenere conforto, sicurezza e consolazione. Inoltre grazie alla capacità di gioco simbolico e di finzione i bambini iniziano ad utilizzare l’attività ludica per rielaborare e dare un senso ad esperienze emotive intense. In tale periodo il caregiver, pur avendo un ruolo minore nella regolazione emotiva, continua comunque a svolgere una funzione fondamentale, soprattutto fornendo sostegno durante esperienze emotive intense e di lunga durata.

Alla fine del primo anno di vita compare anche il fenomeno del riferimento sociale in cui il bambino usa l’emozione espressa dal genitore per regolare il proprio stato emotivo e il proprio comportamento.

Successivamente, nel periodo prescolare (3-5 anni circa), matura gradualmente la capacità di autoregolazione emotiva. Anche in questa fase la mutua regolazione tra bambino e genitore è importante ma in maniera diversa. La figura del genitore è usata come base per contenere gli impulsi, definire i limiti e le regole, mentre il bambino assume gradualmente un ruolo più attivo e promotore di iniziativa. Il pieno sviluppo della capacità di giocare e di utilizzare gli oggetti e le persone in modo simbolico rappresenta una forma fondamentale di regolazione emotiva che, utilizzata insieme al linguaggio, aiuta nella gestione delle emozioni. Inoltre la conoscenza di una gamma più estesa e articolata di emozioni gli consente di incrementare le proprie capacità espressive e di indirizzare la richiesta emotiva in maniera finalizzata.

Dopo i 5-6 anni i cambiamenti nell’ambito dello sviluppo cognitivo, sociale e morale comportano l’adozione di strategie regolatorie più mirate e complesse che consentono al bambino di mettere in atto meccanismi di appraisal più specifici e strategie di coping appropriate ai diversi contesti sociali (Saarni, 1999, citato in Barone, 2007). Il bambino utilizza, in maniera più continua ed efficace, varie strategie di regolazione emotiva in sé e negli altri, ad esempio non pensando alle fonti di sofferenza, ma anche spingendo l’altro a non pensare per aiutarlo nei momenti di stress.

Le acquisite abilità metacognitive gli consentono inoltre di riflettere esplicitamente sulle emozioni e sui modi di regolarle.

In preadolescenza e in adolescenza, dagli 11 anni in poi, le esperienze emotive si fanno particolarmente intense, dovute anche allo sviluppo ormonale e neurologico. In tale periodo iniziano a prendere forma stili di regolazione emotiva molto personali, per far fronte alle richieste dell’ambiente sul piano sia dell’apprendimento che delle relazioni sociali, particolarmente importanti in questo periodo. Tuttavia le abilità regolatorie negli adolescenti sembrano essere ancora immature rispetto a quelle degli adulti, infatti uno dei loro compiti evolutivi sarà proprio quello di sviluppare modalità regolatorie flessibili e congruenti con le richieste provenienti dall’ambiente.

A contribuire allo sviluppo della regolazione emotiva e all’origine delle differenze individuali nell’apprendimento delle strategie di regolazione vi sono sia i fattori intrinseci che estrinseci. Anche se i fattori biologici, temperamentali e cognitivi (fattori intrinseci) giocano un ruolo importante per la nascita e lo sviluppo della regolazione emotiva, quest’ultima è influenzata, in misura diversa, da numerosi fattori esterni (Cicchetti, Ganiban e Barnett, 1991;Thompson, 1994,1998, citato in Fox e Calkins, 2003).

Primo fra tutti è la qualità dell’interazione con il caregiver (Cassidy, 1994; Field, 1994, citato in Fox e Calkins, 2003) e successivamente gli insegnamenti espliciti grazie ai quali il bambino impara a comportarsi in accordo con le norme e con le aspettative dei genitori (Thompson, 1998 citato in Fox e Calkins, 2003).

Bowlby teorizza l’attaccamento come un sistema motivazionale primario, ovvero una predisposizione biologica del bambino verso chi si prende cura di lui. La sua funzione biologica è quella di garantire la sopravvivenza mentre quella psicologica è di ottenere un senso di sicurezza interna, attraverso il contatto e la prossimità fisica. Secondo Bowlby esiste un periodo sensibile, nei primi 2-3 anni di vita, durante il quale vi è lo sviluppo del rapporto affettivo, tra bambino e caregiver, suddivisibile in quattro fasi. Nella prima fase, definita di preattaccamento, il bambino orienta i propri segnali senza discriminazione verso gli adulti con cui interagisce.

Nella seconda fase, invece, rivolge i propri segnali verso una o più persone discriminate. Verso il sesto-ottavo mese inizia la fase di attaccamento vera e propria in cui il bambino protesta per la separazione dalla figura di attaccamento e utilizza quest’ultima come base sicura per esplorare l’ambiente. Infine l’ultima fase, a partire dai 18 mesi del bambino, è caratterizzata dalla costruzione da parte di quest’ultimo dei Modelli Operativi Interni, ossia rappresentazioni mentali di se stesso e dell’altro che riflettono la storia relazionale del bambino con l’adulto di riferimento (Bretherton, 1985, citato in Simonelli e Calvo, 2002).

Il metodo maggiormente utilizzato nella valutazione dell’attaccamento nella prima infanzia è la Strange Situation (Ainsworth, Blehar, Waters e Wall, 1978; Ainsworth e Witting, 1969, citato in Simonelli e Calvo, 2002), una procedura osservativa che può essere somministrata a bambini di età compresa tra i 12 e i 24 mesi. Tale procedura mette il piccolo in una condizione di stress moderato ma crescente che lo spinge a manifestare i propri comportamenti di attaccamento nei confronti dell’adulto di riferimento. La Strange Situation conduce a una classificazione dell’attaccamento sulla base di quattro categorie: attaccamento sicuro (B), attaccamento insicuro-evitante (A), attaccamento insicuro-ambivalente (C) e disorganizzato (D) (Simonelli e Calvo, 2002).

Relativamente al legame tra attaccamento e regolazione emotiva Jude Cassidy (1994) sostiene che il bambino regola le proprie emozioni al fine di mantenere la vicinanza con la figura di attaccamento.

Ella giunge a questa tesi prendendo in considerazione da un lato la teoria dell’attaccamento di Bowlby, secondo la quale uno degli obiettivi primari del bambino è quello di mantenere una certa vicinanza con la figura dell’attaccamento (Bowlby, 1969/1982, 1973, 1980, citato in Cassidy, 1994) e dall’altro l’idea di Thompson, il quale sottolinea la natura adattiva della regolazione emotiva: le emozioni possono essere regolate al fine di raggiungere i propri obiettivi in un contesto dato.

Secondo Cassidy il bambino, fin da piccolo, fa uso delle risposte della figura di attaccamento nell’adattare le proprie strategie che gli servono per favorire la stretta vicinanza a quest’ultima. I pattern di regolazione emotiva, quindi, svolgono la funzione per il bambino di mantenere la vicinanza con la figura di attaccamento. Non tutti i caregiver però rispondono allo stesso modo ai segnali affettivi del bambino, quindi quest’ultimo metterà in atto la strategia di regolazione più efficace e più appropriata per mantenere il rapporto con la propria figura di attaccamento. Numerosi studi sostengono che i bambini le cui madri rispondono in modo sensibile ai loro segnali avranno maggiori possibilità di sviluppare un attaccamento sicuro (Ainsworth et al, 1978; Beisky, Rovine e Taylor, 1984; Egeiand e Farber, 1984, citato in Cassidy, 1994).

La strategia del bambino sicuro in riposta a queste esperienze materne è quella di utilizzare la madre come base sicura da cui partire per esplorare l’ambiente, quando non vi è alcuna minaccia da quest’ultimo, e come rifugio in presenza di pericolo (Ainsworth et al, 1978; Main e Solomon, 1986, citato in Cassidy, 1994). Il bambino sicuro, convinto che i suoi segnali emotivi riceveranno una risposta sensibile, segnalerà apertamente i propri desideri e le proprie emozioni con il genitore, inoltre, nella maggior parte dei casi, ci si aspetta che sperimenti poche emozioni negative con quest’ultimo. Tuttavia quando fa esperienza di un’emozione negativa, la strategia maggiormente utilizzata prevede l’espressione aperta, diretta e attiva nei confronti del genitore. Il bambino, quindi, in tale situazione chiederà aiuto e non nasconderà il distress. D’altro canto, quando le esperienze con un caregiver sensibile danno luogo a sensazioni piacevoli, le espressioni aperte di felicità hanno la funzione di mostrare interesse nel mantenere il rapporto.

La comunicazione affettiva tra genitore e bambino fornisce il contesto in cui quest’ultimo arriva a capire ed organizzare l’esperienza affettiva. Poiché il genitore è sensibile ai segnali del bambino, l’affetto verrà vissuto come utile per avvisare il genitore durante i periodi di distress. La riposta sensibile del genitore a sua volta migliorerà la percezione del bambino nel modulare le sue emozioni (Bell e Ainsworth, 1972, citato in Cassidy, 1994). L’idea che l’accettazione delle emozioni sia associata con l’attaccamento sicuro coincide con una serie di prospettive teoriche, tra cui quella di Bretherton (1990, citato in Cassidy, 1994) riguardo la comunicazione aperta.

Ella sostiene che la comunicazione tra i due partner ha importanti conseguenze per la sicurezza/insicurezza della relazione. Ha descritto la comunicazione diadica aperta, fluida e coerente come caratteristica delle diadi sicure, in cui entrambi i partner esprimono le emozioni in modo chiaro e apertamente, con la certezza che dall’altro lato ci sia qualcuno che le comprenda e con il quale condividerle.

Anche Stern (1985, citato in Cassidy, 1994) con la sua sintonizzazione affettiva converge con queste idee. Egli descrive la madre sensibile come colei che riconosce i segnali affettivi del suo bambino, accetta questi segnali e li condivide con quest’ultimo. Attraverso queste esperienze il bambino apprende che una serie di emozioni sono accettabili e che possono essere vissute e condivise all’interno delle relazioni sociali. Le difficoltà emergono quando la madre sottovaluta o sopravaluta i segnali emotivi del suo bambino.

I bambini insicuro-evitanti tendono a minimizzare gli affetti. Durante la Strange Situation, nella riunione, mostrano poco interesse alla prossimità e al contatto fisico con il genitore e lo evitano attivamente. Tali bambini sembrano affettivamente neutri, non mostrano apertamente né distress alla separazione e né piacere alla riunione con il caregiver. Ci si domanda quale esperienza di attaccamento possa aver contribuito allo sviluppo di una strategia in cui i bambini tendono a minimizzare le emozioni.

Main e Solomon (1986, citato in Cassidy, 1994) propongono che, le situazioni in cui l’attivazione del sistema di attaccamento ha avuto sempre come conseguenza un rifiuto, portano i bambini a sviluppare delle strategie che riducono l’attenzione sulla relazione di attaccamento e che minimizzano l’importanza del caregiver come fonte di conforto.

Diversi studi suggeriscono che i bambini insicuri-evitanti hanno sperimentato il rifiuto costante da parte dei genitori, soprattutto nei momenti di difficoltà in cui avevano cercato conforto, volte in cui il loro sistema di attaccamento è stato altamente attivato (Ainsworth et al., 1978; Grossmann, Grossmann, Spangler, Suess, e Unzner, 1985, citato in Cassidy, 1994). Quindi la tendenza del bambino evitante a minimizzare le emozioni negative come la rabbia, la tristezza e l’angoscia consente a quest’ultimo la possibilità di garantirsi la prossimità con il caregiver (Main, 1981, citato in Cassidy, 1994).

La strategia di regolazione emotiva, in questi casi, sembra essere: la mamma starà con me se eviterò qualsiasi trambusto, proprio perché l’obiettivo ultimo è quello di mantenere la vicinanza alla figura di attaccamento. L’evitamento e il mascheramento delle emozioni riducono il livello di eccitazione del bambino (Bowlby, 1980, citato in Cassidy, 1994) e quindi prevengono la diretta e possibile espressione pericolosa di rabbia verso la figura di attaccamento, in modo da non distruggere il legame con quest’ultima (Cassidy, 1994).

Il mascheramento di emozioni negative protegge il bambino sia dal rifiuto rispetto ai suoi tentativi di cercare il contatto della figura di attaccamento e sia dalla dolorosa paura di allontanarsi dalla figura di attaccamento, da cui dipende per la sopravvivenza (Bowlby, 1980; Main, 1981, citato in Cassidy, 1994). E’ necessario sottolineare come l’avversione per gli affetti negativi non indica che l’attivazione emozionale non è sperimentata, quanto che non viene espressa, e pertanto si caratterizza come una modalità di sovra-regolazione. Non solo le emozioni negative, ma anche le altre emozioni sono minimizzate dal bambino insicuro-evitante. Ad esempio la gioia potrebbe essere ridotta perché segnala l’apertura e la disponibilità per l’interazione. Inoltre se la strategia di minimizzazione delle emozioni negative può risultare adattiva nel contesto del rapporto con la figura di attaccamento, può essere disadattiva in altri contesti.

Numerosi studi hanno rilevato che le madri dei bambini evitanti, durante le interazioni con i loro bambini, esprimono una gamma più ristretta di emozioni, rispetto alle madri dei bambini sicuri (Ainsworth et al., 1978; Main, Tomasini e Tolan, 1979; Malatesta et al., 1989, citato in Cassidy, 1994). Tali risultati suggeriscono che i bambini evitanti tendono a minimizzare le emozioni non solo in risposta alla tendenza del caregiver a rifiutare i loro bisogni affettivi e a scoraggiare il contatto fisico, ma anche per imitazione diretta di un modello, in questo caso il caregiver.

Un altro studio in cui è stata utilizzata una situazione di gioco libero tra madre e bambino ha mostrato come le madri dei bambini evitanti giocavano con questi ultimi nelle situazioni in cui erano contenti, mentre si ritiravano quando i loro bambini esprimevano emozioni negative (Escher-Graueb e Grossmann, 1983, citato in Cassidy, 1994); tale allontanamento da parte delle madri insegnava ai bambini che le emozioni negative in quella determinata situazione erano fuori luogo. Atteggiamento opposto avevano le madri dei bambini sicuri, le quali interagivano e partecipavano al gioco del loro bambino quando quest’ultimo esprimeva emozioni negative.

Se i bambini insicuro-evitanti tendono a minimizzare le emozioni, gli insicuro-ambivalenti tendono a incrementare gli affetti. Questi ultimi vengono espressi in misura maggiore rispetto all’intensità con cui sono sperimentati, quindi in questo caso vi è una sotto-regolazione emozionale. I bambini insicuro-ambivalenti durante la Strange Situation manifestano forte disagio alla separazione mentre alla riunione sono inconsolabili. Anche in questo caso ci si domanda quale esperienza di attaccamento abbia portato il bambino ambivalente a sviluppare una strategia in cui intensifica le sue emozioni. Generalmente il caregiver è imprevedibile nel rispondere alle richieste del bambino: manifesta un comportamento molto affettivo o rifiutante del tutto scollegato alle esigenze del figlio.

Questa disponibilità irregolare da parte della madre porta il bambino a sviluppare una strategia in cui aumenta le sue richieste di attenzione. Egli intensifica l’emotività negativa per attirare l’attenzione della madre, infatti spesso accade che tali bambini, anche di fronte a stimoli benigni, manifestano spavento, proprio perché ritengono che tale strategia sia funzionale per aumentare la probabilità di ottenere l’attenzione da parte di un genitore spesso non disponibile (Main e Hesse, 1990, citato in Cassidy, 1994). Tuttavia Bowlby (1973, citato in Cassidy, 1994) ritiene che tale strategia, se è pervasiva, può risultare disfunzionale in quanto può minacciare l’esistenza della relazione e, inoltre, può interferire con gli altri compiti di sviluppo, come l’esplorazione.

Esistono delle prove che dimostrano come i bambini insicuro-ambivalenti siano più timorosi degli altri. La Ainsworth (1992, citato in Cassidy, 1994) attraverso analisi post-hoc del suo studio a Baltimora ha riferito che i bambini classificati come insicuro-ambivalenti mostravano una chiara paura nell’episodio della Strange Situation prima che entrasse l’estraneo. Si è anche scoperto che questi bambini erano più timorosi rispetto ai bambini sicuri nelle procedure di laboratorio anche all’età di 7 mesi (Miyake, Chen e Campos, 1985, citato in Cassidy, 1994) e all’età di 2 anni (Calkins e Fox, 1992, citato in Cassidy, 1994). Inoltre erano spaventati anche nell’esplorare un nuovo ambiente (Hazen e Durret, 1982; Jacobs e Wille, 1986, citato in Cassidy, 1994) e mostravano spavento e ritiro nelle interazioni con i pari (Pastor, 1981; Renken, Egeland, Marvinney, Mangelsdorf et al., 1989, citato in Cassidy, 1994).

Oltre all’incostante disponibilità del caregiver alle richieste e ai bisogni del bambino ambivalente, vi sono altre caratteristiche del genitore che contribuiscono ad aumentare l’emozionalità negativa dei bambini.

Una di queste può essere il fallimento nell’aiutare il bambino a regolare le emozioni negative, ad esempio nella Strange Situation anziché consolarlo lo reinteressa al gioco (Ainsworth et al., 1978, citato in Cassidy, 1994). Tale comportamento può contribuire a rendere relativamente più intenso e prolungato il distress dei bambini.

Cassidy, dunque, nella sua ipotesi teorica sottolinea l’importanza della qualità dell’attaccamento nella regolazione emotiva del bambino. A tal proposito sono stati condotti degli studi in cui è stato indagato come la qualità dell’attaccamento possa influire sullo sviluppo delle strategie di regolazione emotiva.

Roque, Verissimo, Fernandes e Rebelo (2009), hanno condotto uno studio su 55 bambini di età compresa tra i 18 e i 26 mesi, in cui è stato utilizzato il paradigma di regolazione emotiva di Diener e Mangelsdorf (1999). I bambini partecipavano a tre episodi che elicitavano rispettivamente rabbia, paura e affetto positivo attraverso la presentazione di tre giochi distinti. Ogni episodio durava sei minuti: nei primi tre la madre veniva istruita a non avviare l’interazione con il proprio bambino (episodio passivo), mentre nei successivi tre minuti poteva interagire liberamente con il figlio (episodio attivo).

Tra gli obiettivi dello studio vi era quello di indagare la relazione tra il legame di attaccamento e le strategie di regolazione emotiva dei bambini durante differenti contesti situazionali (paura, affetto positivo e rabbia) e sociali (madre passiva e madre attiva). Le strategie di regolazione emotiva del bambino sono state codificate attraverso 19 categorie divise in quattro domini: strategie legate alla madre, disimpegno delle strategie attentive, occuparsi dello stimolo e ridirezionamento delle azioni. La qualità dell’attaccamento è stata valutata tramite l’Attachment Q-Sort (Waters, 1995, citato in Roque, Verissimo, Fernandes e Rebelo, 2009).

Dai risultati è emerso che le strategie comportamentali dei bambini differivano in funzione del contesto situazionale (episodi) e sociale (coinvolgimento materno) ma soprattutto in funzione della qualità dell’attaccamento. Si è osservato che durante gli episodi di paura i bambini con attaccamento sicuro e insicuro aumentavano la frequenza delle loro strategie comportamentali quando le loro madri erano attive. Tale risultato è coerente con la prospettiva di Bowlby (1969/1982, citato in Roque et al., 2009), secondo cui i comportamenti di prossimità e contatto fisico con la figura di attaccamento vengono esibiti soprattutto durante le situazioni stressanti e pericolose, dove il caregiver viene utilizzato come rifugio sicuro (Bowlby, 1969/1982; Ainsworth, 1967; Ainsworth et al., 1978, citato in Roque, Verissimo, Fernandes e Rebelo, 2009).

Nei contesti di affetto positivo, quando la possibilità di aumentare la vicinanza emotiva con la madre è possibile attraverso il gioco, solo i bambini sicuri mostravano strategie comportamentali, soprattutto negli episodi in cui la madre era attiva ed interagiva con loro, mentre durante gli episodi che elicitavano rabbia non mostravano differenze significative tra i periodi in cui le madri erano attive e quelle in cui erano passive. Ciò potrebbe dipendere dalla presenza di un modello operativo interno positivo della figura di attaccamento, basato su esperienze passate durante le quali la partecipazione attiva e l’intervento delle madri è stato benefico e ha aiutato il bambino a regolare le proprie emozioni e a raggiungere i propri obiettivi.

Al contrario i bambini insicuri, non avendo sviluppato un modello operativo interno basato sull’aiuto sensibile delle madri, devono aumentare le strategie per richiamare l’attenzione del caregiver alle loro esigenze (Bowlby. 1973, 1980; Ainsworth et al., 1978; Acque et al., 1995, citato in Roque, Verissimo, Fernandes e Rebelo, 2009).

A differenza di ciò che si aspettavano gli autori, ovvero che i bambini sicuri mostrassero maggiori strategie comportamentali in tutti e tre gli episodi, è emerso che differenze significative tra i bambini sicuri e insicuri nell’uso delle strategie di regolazione emotiva emergono principalmente nei contesti di affetto positivo, quando la mamma è disponibile all’interazione e in cui il distress non è presente, mentre negli episodi di paura e di frustrazione sia i bambini sicuri che insicuri coinvolgevano la madre allo stesso modo, dalla quale potevano trovare protezione per il pericolo (episodio paura) e conforto (episodio frustrazione). Tale risultato è coerente con la tesi di Bowlby (1969/1982, citato in Roque, Verissimo, Fernandes e Rebelo, 2009) secondo la quale il legame di attaccamento è un sistema comportamentale regolatorio caratterizzato non solo dalla ricerca di un rifugio sicuro ma anche dalla formazione di un legame d’amore, caratterizzato dalla capacità di cercare e mantenere la vicinanza emotiva tra i partner durante i contesti emozionali positivi.

Diener, Mangelsdorf, McHale e Frosch (2002) hanno condotto uno studio su 85 bambini in cui hanno analizzato la relazione tra le strategie comportamentali di regolazione emotiva e l’espressione emotiva del bambino con la qualità dell’attaccamento madre-bambino e padre-bambino. La sicurezza dell’attaccamento è stata valutata tramite la Strange Situation (Ainsworth et al., 1978, citato in Diener, Mangelsdorf, McHale e Frosch, 2002). All’età di 12 mesi i bambini sono stati sottoposti a tale procedura con i padri, mentre all’età di 13 mesi con le loro madri. Subito dopo la Strange Situation veniva creata in laboratorio una situazione in cui il bambino provava un leggero distress, in modo da poter valutare le strategie comportamentali utilizzate da quest’ultimo per regolare le proprie emozioni.

Le strategie di regolazione emotiva identificate e codificate per ciascun genitore sono le seguenti: coinvolgimento della madre, riferimento sociale, distrazione, auto-consolazione, agitazione diretta, disimpegno passivo e congedo. L’espressione emotiva è stata codificata in: distress, affetto positivo e altro. I risultati hanno indicato che le strategie di regolazione emotiva utilizzate dai bambini con i loro padri erano simili a quelle che sono state documentate negli studi con le madri (Buss e Goldsmith, 1998; Diener et al., 1999, citato in Diener, Mangelsdorf, McHale e Frosch, 2002). In particolare, i bambini hanno favorito con i padri le stesse strategie che hanno utilizzato con le madri, e le strategie comportamentali hanno mostrato associazioni simili con l’espressione emozionale, indipendentemente dal contesto del genitore.

La coerenza nell’uso delle strategie con le madri e con i padri era significativamente correlata alla qualità dell’attaccamento che il bambino aveva con ciascun genitore. In linea con le aspettative degli autori la strategia maggiormente utilizzata dai bambini con attaccamento insicuro-evitante era la distrazione, strategia utilizzata con meno frequenza dai bambini sicuri. Inoltre è emerso che vi erano delle differenze, collegate alla qualità dell’attaccamento, nel livello di distress provato dai bambini di tale studio. Coerentemente con l’ipotesi teorica di Cassidy (1994, citato in Diener, Mangelsdorf, McHale e Frosch, 2002), i bambini insicuro-ambivalenti mostravano alti livelli di distress sia con le madri che con i padri, rispetto ai bambini sicuri. Ciò dimostra come tali bambini intensificano le proprie emozioni per attirare e mantenere l’attenzione di un caregiver imprevedibilmente responsivo.

I risultati di entrambi gli studi sopra citati sono in linea con l’ipotesi teorica di Cassidy (1994), la quale sottolinea come le differenze individuali nelle strategie di regolazione emotiva del bambino siano collegate alla qualità dell’attaccamento: il bambino regola le proprie emozioni al fine di mantenere la vicinanza con la figura di attaccamento. Ciascun bambino, dunque, sulla base della modalità con cui il caregiver risponde ai propri segnali affettivi, metterà in atto la strategia più efficace e più appropriata per mantenere la vicinanza con quest’ultimo.

Alla luce di quanto detto emerge quanto sia importante, sin dai primi mesi di vita del bambino, promuovere un’interazione positiva tra genitore e figlio e un legame di attaccamento sicuro al fine di avere degli effetti positivi sullo sviluppo socio-emotivo corrente e futuro del bambino. Nonostante la rilevanza teorica del legame tra regolazione emotiva e attaccamento, pochi sono gli studi che hanno verificato empiricamente questa relazione. E’ auspicabile, dunque, che in futuro la ricerca continui ad indagarla con il fine di comprendere maggiormente il fenomeno e utilizzare tali informazioni in ambito clinico per costruire nuovi strumenti di indagine e protocolli di intervento.

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Gli effetti dei mass media su di noi: danno o beneficio?

Al giorno d’oggi, in quest’epoca dove la tecnologia è in continua evoluzione, è ormai risaputo che i media hanno un effetto diretto nel condizionare gli atteggiamenti e le credenze del loro pubblico. Ma cosa sono esattamente i mass media?

Una corretta definizione li etichetta come “Mezzi di diffusione di massa attraverso cui è possibile diffondere un messaggio, secondo le caratteristiche proprie del mezzo, ad una pluralità di destinatari, senza necessaria interazione tra i due poli”.
I principali mezzi di comunicazione di massa sono rappresentati dalla stampa, dalla televisione, dal telefono, dal cellulare e, negli ultimi anni, da internet e strumenti che utilizzano applicazioni di comunicazione digitale, quali smartphone, tablet, blog, social website, web tv.

È innegabile che l’intera popolazione mondiale passi gran parte del suo tempo a contatto con i mass media e difficilmente potrebbe farne a meno. Tali mezzi, per la loro stessa struttura comunicativa, influenzano la cultura e la percezione della realtà, proponendo modelli e stili di vita che fanno leva sulla desiderabilità sociale.

In quest’ottica si pensi al ruolo chiave che essi assumono nel campo pubblicitario. La promozione pubblicitaria attraverso i media ha però introdotto anche una serie di bisogni che vanno al di là dei beni di prima necessità, e non si può negare che fattori quali i comportamenti, gli atteggiamenti e le credenze sono influenzati dai media e dai canali attraverso cui vengono veicolati tali messaggi.

Per comprendere l‘efficacia dei messaggi pubblicitari è necessario tenere presente il ruolo fondamentale rivestito dalle emozioni. Le emozioni giocano un ruolo cruciale nel modo in cui la mente funziona. Sulla loro base viene focalizzata l’attenzione, si determina ciò che si è ricordato, si formano le credenze e le motivazioni che portano la persona ad agire. Gli annunci più efficaci suscitano emozioni e una volta suscitata la reazione emotiva questa viene collegata al messaggio (Aronson e all, 1997).

Numerose ricerche condotte negli Stati Uniti hanno indagato gli effetti dei modelli proposti dai media sui comportamenti delle persone. Solitamente i soggetti tendono a imitare i comportamenti di coloro che vedono e che ammirano in televisione. Tale tendenza imitativa, che può nel migliore dei casi condurre ad assumere comportamenti prosociali, può talvolta produrre effetti negativi e distruttivi. È da tempo risaputo che molti bambini tendono ad imitare comportamenti aggressivi osservati in televisione (Bandura 1973, cit. in Mucchi Faina, 1996). Tale effetto non si limita però solo all’infanzia. Si è constatato che è sufficiente avvertire anticipatamente i soggetti del fatto che assisteranno a un film aggressivo affinché si manifesti in loro una propensione all’aggressività.

La televisione sembra avere la capacità di proporre modelli che vengono imitati per tre principali motivi: per prima cosa fornisce informazioni dettagliate riguardo a un determinato comportamento e ai risultati a cui questo può condurre; in secondo luogo induce a credere che i vantaggi che la persona – modello ottiene assumendo determinati comportamenti possono essere ottenuti da chiunque agisca in tal modo; e poi suggerisce che certi comportamenti sono legittimi.

Ma gli individui sono realmente consapevoli dell’influenza esercitata dai media sulla loro mente?

Una famosa teoria elaborata da Davidson nel 1983 asserisce che le persone sottostimano l’effetto che i mass media hanno su di loro e al contempo sovrastimano l’effetto che hanno sugli altri. Tale fenomeno prende il nome di “effetto terza persona”, e sembra dipendere dal bisogno di percepire le proprie azioni come libere da qualsiasi forma di controllo al fine di accrescere la propria autostima.

Si è inoltre constatato che i mass media condizionano anche l’attività immaginativa. Se da un lato promuovono i sogni ad occhi aperti fornendo alla persona un supporto informativo che può essere utilizzato a questo scopo, dall’altro inibiscono l’immaginazione creativa, ossia la capacità di generare idee nuove e originali, poiché guardare la tv è un’attività che sottrae tempo all’immaginazione (McLead, 1991).

Un’ulteriore attenzione è da porre ai famosissimi “messaggi subliminali”, definiti come “parole o immagini che, seppur non percepiti consciamente, influenzano il giudizio, gli atteggiamenti e le credenze delle persone a livello inconscio”. È innegabile che essi hanno degli effetti considerevoli sulle persone, anche se sostanziosi studi asseriscono che tali messaggi hanno conseguenze molto meno potenti rispetto a quelle pubblicità percepite a livello conscio.

In sintesi si può quindi affermare che i mass media hanno notevoli effetti sul modo di pensare degli individui, effetti non sempre positivi e non sempre consapevoli ed è per tale motivo che sarebbe opportuno soffermare attenzione soprattutto ai messaggi e ai modelli che effettivamente trasmettono esempi positivi, prosociali e creativi, tralasciando invece quei messaggi inutili e inopportuni, i quali indurrebbero nelle persone atteggiamenti negativi e inappropriati.

 

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Correlazioni genetiche tra Binge Eating Disorder e obesità

Vanessa Schmiedt

L’Università del Queensland, in una recente ricerca, ha dimostrato che il BED negli adolescenti può essere collegato alla variazione di un gene: le variazioni genetiche associate con il rischio di obesità, infatti, potrebbero anche prevedere il binge-eating.

Il Binge Eating Disorder (BED) è uno dei più comuni disturbi alimentare nella popolazione generale. E’ caratterizzato da episodi di eccessiva ingestione di cibo con perdita di controllo (che si verificano in media una volta alla settimana da oltre tre mesi) accompagnati da angoscia ed è molto più frequente negli individui che sono sovrappeso. Il BED è stato recentemente riconosciuto come categoria diagnostica nel DSM-5.

L’Università del Queensland, in una recente ricerca, ha dimostrato che il BED negli adolescenti può essere collegato ad una variazione di un gene. I ricercatori hanno analizzato i dati di 6000 adolescenti di età compresa tra i 14 e i 16 anni e hanno scoperto che le variazioni genetiche associate con il rischio di obesità potrebbero anche prevedere il binge-eating.

Questo disturbo è stato valutato attraverso due domande; prima ai partecipanti è stato chiesto di descrivere se fossero stati presenti, e in quale frequenza, episodi in cui hanno mangiato una grande quantità di cibo nell’ultimo anno, a coloro che hanno risposto affermativamente hanno chiesto se si sentivano fuori controllo durante questi episodi, ovvero se non riuscivano a smettere di mangiare anche quando avrebbero voluto fermarsi. Agli adoloscenti che hanno risposto sì ad entrambe le domande è stato diagnosticato il BED.

I ricercatori hanno scoperto che i giovani che avevano una particolare variazione della posizione del gene FTO (fat mass and obesity associated gene ) un fattore genetico da tempo indicato come potenziale base ereditaria nell’obesità, avevano tra il 20% e il 30% in più di probabilità di presentare il binge eating disorder.

I ricercatori sostengono che trovare la variazione del gene potrebbe portare ad una migliore comprensione del perché i giovani hanno sviluppato la tendenza ad abbuffarsi in modo incontrollato; inoltre questa scoperta può anche aiutare a creare strategie per identificare gli adolescenti a rischio prima che arrivino al punto di essere sovrappeso o obesi e affrontare tutti i problemi di salute associati.

Mentre è noto che la causa dei disturbi alimentare è una combinazione di fattori genetici e ambientali, fin’ora non vi era stata una ricerca limitata sul modo in cui geni specifici aumentino la probabilità di comportamenti di abbuffata incontrollata in adolescenza che possono portare all’obesità.

Il Professore Evans ammette la complessità del lavoro poiché il Bed è un comportamento influenzato da molti fattori genetici e ambientali differente, nonostante ciò afferma:

E ‘ancora presto per la ricerca ma stiamo ottenendo una migliore comprensione di come questi comportamenti avvengono.

Questo studio suggerisce dunque un’associazione positiva tra un polimorfismo del gene FTO e il BED in adoloscenti, soprattutto nelle ragazze. Analizzando questi risultati insieme con le ricerche precedenti sembra che le varianti all’interno o vicino al locus FTO siano associati con una preferenza per alimenti ad alta densità energetica, una maggiore assunzione di cibo, meno sensibilità alla sazietà, ed episodi di perdita di controllo nel mangiare, tutti fattori che caratterizzano il binge eating disorder. Studi futuri dovrebbero mirare a capire i meccanismi alla base del rapporto tra FTO, binge eating, e l’obesità.

 

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Meth-Amorphosis: Metamorfosi da Metanfetamine

Gli effetti dell’abuso cronico di sostanze stupefacenti scolpiti nell’argilla

In questo video lo scultore francese Philippe Faraut mostra gli effetti devastanti dovuti all’uso di sostanze stupefacenti, in particolare di metanfetamine, attraverso un busto di argilla.

L’artista ha concentrato l’attenzione sull’emaciazione del viso dovuta alla mancanza di appetito e sulle modificazioni progressive dell’espressione facciale, dovuta alla diminuzione delle ore di sonno, alla prolungata mancanza di riposo e all’esaurimento delle risorse psico-fisiche.

Le immagini hanno un’ impatto visivo notevole e il messaggio che vuole trasmettere è molto diretto, per questo può essere utile proporre il video a giovani e adolescenti, in contesti scolastici e nell’ambito dei programmi di prevenzione dell’uso di sostanze stupefacenti.

 

FONTE: Philippe Faraut Official Website.

 

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S.P.I.M. Settimana di Prevenzione dell’Invecchiamento Mentale

Al via l’VIII edizione dell’iniziativa promossa in tutta Italia da Assomensana.

Dal 21 al 26 settembre 2015 è possibile richiedere un check-up gratuito per valutare lo stato di salute delle proprie abilità mentali.
Per prenotare l’appuntamento è sufficiente mettersi in contatto direttamente con l’esperto più vicino al proprio territorio consultando l’elenco suddiviso per regioni e città sul sito www.assomensana.it.

Gli specialisti aderenti alla S.P.I.M. (psicologi, neuropsicologi e geriatri) effettueranno il controllo gratuitamente fornendo al termine utili informazioni sul proprio funzionamento neuropsicologico (memoria, attenzione, linguaggio ecc.) e sulle strategie più efficaci per mantenerlo in buona salute.

Secondo le evidenze scientifiche, infatti, esercizi mentali specifici e un corretto stile di vita consentono di conservare buone prestazioni cognitive.

 

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Due partite (film, 2008): la femminilità a confronto tra 2 generazioni

RUBRICA I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM – Due partite (Nr. 04)

 

REGIA: Enzo Monteleone

ANNO DI USCITA: 2008

TEMI PSICOLOGICI TRATTATI: femminilità, emancipazione della donna, maternità, relazioni di coppia, rapporto madre-figlia

TRAMA:

Con il film Due partite del 2008, il regista Enzo Monteleone ha voluto trasporre nella dimensione cinematografica il testo teatrale di Cristina Comencini.

Il film è diviso in due parti, tutte al femminile: nella prima parte, ambientata negli anni ‘60, quattro madri si incontrano ogni giovedì pomeriggio con la scusa di una partita a carte, in realtà trascorrono il tempo a confrontarsi su diverse tematiche, come il matrimonio, la cura dei figli, i bisogni frustrati a scapito della famiglia, gli amori nascosti e i segreti di un passato lontano. Tutta la prima parte ha un’unica ambientazione, richiamando l’atmosfera della pièce teatrale. Grazie all’immutabilità dell’ambiente i dialoghi assumono una posizione centrale, così come le caratteristiche delle personalità delle protagoniste.

 

CONTINUA DOPO IL VIDEO DEL TRAILER:

Beatrice (Elena Ferrari) è la figura più ingenua e sognatrice del gruppo, ama la lettura e idealizza in modo romantico il marito, che invece di parlarle le scrive dei biglietti. Claudia (Marina Massironi) rappresenta la donna perfetta per la società medio-borghese dell’epoca, attenta al decoro e all’immagine sociale, e a mantenere in piedi un matrimonio con un marito fedifrago. Gabriella (Margherita Buy) è una donna che ha abbandonato il proprio talento per tutelare la carriera del marito e la crescita di sua figlia, è quindi in costante lotta con se stessa, divisa tra l’amore per la famiglia e il rimpianto di sogni mai realizzati. Infine c’è Sofia (Claudia Cortellesi), donna cinica e aspra, ammette l’infelicità coniugale che cerca di alleviare con una relazione clandestina.

I dialoghi sono incalzanti, accesi, fino a diventare taglienti, esprimono rabbia verso una società in cui non c’è spazio per gli interessi e le aspirazioni delle donne. Emerge il dolore, la frustrazione e la rabbia taciuta, alla quale solo Sofia avrà il coraggio di dar voce, in un indimenticabile monologo di Paola Cortellesi.

CONTINUA DOPO IL VIDEO DEL MONOLOGO:

 

Nel frattempo, le loro quattro figlie sono in un’altra stanza a giocare, non compaiono mai di fronte alla telecamera, se non trent’anni dopo, per il funerale di una delle madri. Da qui inizia la parte più dinamica del film, la seconda. Le quattro giovani donne si ritrovano attorno a un tavolo, ora davanti a una tazza di thè, e si confrontano a loro volta su temi appartenenti alla società in cui vivono: i ritmi di vita incalzanti, i problemi coniugali, le ambizioni professionali e il bisogno di maternità.

Pur avendo abbandonato i pizzi e i merletti degli anni ‘60, i simili tratti di personalità metteranno le giovani donne di fronte agli stessi schemi di comportamento e allo stesso modo di affrontare gli eventi di vita delle loro madri. Dal punto di vista psicologico, questo è l’aspetto più interessante del film.

E’ una commedia leggera ma raffinata, che affronta il tema della femminilità in due epoche diverse, i mutamenti del ruolo sociale della donna e il tema complesso del rapporto madre-figlia.

 

 

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Vedere una perdita come un guadagno: conoscere il contesto di scelta fa cambiare i circuiti cerebrali che elaborano l’esito delle nostre decisioni

Dott. Giorgio Coricelli

 

Vedere una perdita come un guadagno: conoscere il contesto di scelta fa cambiare i circuiti cerebrali che elaborano l’esito delle nostre decisioni.
Lo rivela uno studio dei ricercatori del CIMeC apparso oggi sulla rivista Nature Communications. 

TRENTO (Italia) – Tramite punizione o ricompensa? Il dibattito su quale sia la strategia di apprendimento più efficace continua. Come reagiamo all’esito delle nostre azioni e delle nostre scelte, sociali o squisitamente economiche, infatti, influenza le nostre decisioni future. È dunque naturale che si indaghino questi meccanismi, con l’obiettivo di capire anche quale sia la strategia di apprendimento più rapida ed efficace. Di questo si è occupato uno studio appena apparso su Nature Communications del neuroeconomista Giorgio Coricelli del Centro Mente/Cervello dell’Università degli Studi di Trento e collaboratori che hanno cercato di affrontare i due principali problemi irrisolti dell’apprendimento per punizione che è tanto efficace quanto quello per ricompensa.

I due aspetti da chiarire: computazionale e anatomico

Negli ultimi anni si sono fatti moltissimi progressi nella comprensione delle basi neuronali e computazionali dell’apprendimento per rinforzo basato sulle ricompense (reinforcement learning). Di contro, i meccanismi computazionali e neuronali dell’apprendimento per punizione, in cui bisogna apprendere il modo migliore per evitare la perdita maggiore, non sono ancora stati chiariti.

Il primo problema è computazionale, infatti, l’apprendimento basato sulla punizione presenta un apparente paradosso [blockquote style=”1″]Quando si evita una punizione con successo, la risposta strumentale (cioè l’azione che permette di evitare la punizione) non è più rinforzata. Come conseguenza, i modelli teorici d’apprendimento di base predicono una performance migliore per l’apprendimento per ricompensa (dove l’azione che conduce ad una ricompensa viene scelta con maggiore probabilità in futuro, i.e. rinforzo positivo) rispetto all’apprendimento per evitamento della punizione, contrariamente al fatto che i soggetti umani mostrano la stessa performance di apprendimento nei due contesti[/blockquote] spiega il professor Giorgio Coricelli.
Il secondo problema è neuroanatomico [blockquote style=”1″]Un dibattito aperto nelle neuroscienze cognitive riguarda il fatto che le stesse aree cerebrali (lo striato e la corteccia ventrale prefrontale) rappresentino sia valori positivi che negativi, o alternativamente che l’apprendimento e la codifica dell’apprendimento per punizione avvenga in un sistema neuronale opposto (“opponent system”, composto dall’insula e la corteccia dorso mediana prefrontale) a quello della ricompensa.[/blockquote]

L’ipotesi di lavoro: tutto dipende dal contesto

I ricercatori hanno ipotizzato che una soluzione dei due problemi possa venire considerando la contestualizzazione del valore, in altre parole dalla capacità del cervello di contestualizzare le opzioni di scelta, cioè di valutarle in modo relativo alle altre opzioni presenti nel contesto decisionale. Quindi, per esempio, una perdita minore in un contesto di perdite potrebbe essere considerata come un risultato positivo, alla stregua di una ricompensa. Inoltre [blockquote style=”1″]risultati divergenti di studi di risonanza magnetica funzionale relativi alle differenze tra apprendimento per ricompensa vs. apprendimento per punizione potrebbero essere riconciliati dal fatto che in assenza di informazione contestuale, la punizione e le ricompense potrebbero essere computate da due sistemi separati; mentre, in seguito all’ acquisizione dell’informazione contestuale (cioè l’identificazione chiara del contesto di scelta) la rappresentazione del valore assegnato ad ogni opzione di scelta convergerebbe su un unico sistema composto dalla corteccia frontale e dallo striato.[/blockquote]

Lo studio

Nel corso dell’esperimento, partecipanti sani sono stati sottoposti alla risonanza magnetica funzionale durante un compito comportamentale di apprendimento, riguardante una serie di scelte tra due opzioni (due simboli che indicavano due slot machines, un compito chiamato in inglese: two-armed bandit), in cui una delle due opzioni è migliore rispetto all’altra, e seguito da un compito di verifica dell’apprendimento dei valori di ogni opzione di scelta.

Nel contesto delle ricompense, con l’opzione migliore si poteva vincere 0.5€ il 75% delle volte o altrimenti ottenere 0€ e con l’altra opzione si vinceva 0.5€ solo il 25% delle volte; mentre nel contesto delle punizioni, con l’opzione migliore si perdeva -0.5€ il 25% delle volte e 75% si otteneva 0€ e con l’opzione più sfavorevole si perdeva -0.5€ il 75% e 0€ per il 25% delle volte in cui si sceglieva tale opzione.
Il compito presentava due caratteristiche fondamentali: in primo luogo il compito confrontava l’apprendimento per ricompensa (in cui i risultati possibili erano 0.5€ o 0€) con quello per punizione (in cui i risultati possibili erano -0.5€ o 0€); in secondo luogo, in contesti di scelta specifici, venivano presentati i risultati dell’opzione scelta e di quella rifiutata, questo per indurre una valutazione relativa del risultato ottenuto con quello che si sarebbe potuto ottenere con la scelta alternativa (outcome controfattuale). Questa procedura sperimentale (cioè il confronto tra informazione parziale e informazione completa) è stata introdotta per indurre l’apprendimento del valore medio del contesto di scelta (cioè il valore del contesto, “context value”).

Risultati: dall’insula allo striato

[blockquote style=”1″]Abbiamo trovato evidenza comportamentale e neuronale coerente con l’idea che presentare sia il risultato dell’opzione scelta sia quello dell’opzione non scelta (outcome controfattuale) favorisca l’apprendimento di un “reference point” specifico del contesto[/blockquote] hanno spiegato il responsabile dello studio Giorgio Coricelli e il primo autore dello studio Stefano Palminteri dell’Institute of Cognitive Neuroscience (ICN) dell’University College London (UCL). [blockquote style=”1″]A conferma delle predizioni del nostro modello computazionale dei valori relativi, i risultati comportamentali illustrano come i partecipanti abbiano imparato ugualmente bene nei contesti di ricompense o punizioni. [/blockquote]

Inoltre, il circuito che elabora l’esito della nostra scelta cambia e diventa quello della ricompensa perché, anche se di fatto non vinciamo, non perdiamo tanto quanto avremmo potuto. Inoltre, i dati di risonanza hanno permesso di riconciliare dati sperimentali di studi precedenti che erano considerati contraddittori. [blockquote style=”1″] Infatti, l’aumento osservato della discriminazione tra i due contesti (di ricompense e di punizioni) nella condizione di informazione completa si è visto essere associato ad uno spostamento dell’elaborazione neuronale dell’outcome negativo (i.e. punizione) dall’insula verso lo striato ventrale, a dimostrazione della codifica della punizione e delle ricompense nella stessa struttura neuronale.[/blockquote]
Quindi il cervello è in grado di contestualizzare le opzioni di scelta e di utilizzare efficientemente un’unica procedura di apprendimento sia nel contesto delle ricompense che in quello delle punizioni.

 

GIORGIO CORICELLI
Giorgio Coricelli è professore associato in Economia e Psicologia presso la University of Southern California a Los Angeles e professore ordinario del Centro Interdipartimentale Mente/Cervello (CIMeC) dell’Università degli Studi di Trento, dove è responsabile di un progetto di ricerca Europeo (ERC), un consolidator grant di quasi 2 milioni di euro dal titolo “Transfer learning within and between brains”. Il professor Coricelli si occupa di neuroeconomia, un approccio multidisciplinare (economia, psicologia e neuroscienza) allo studio del comportamento economico. La sua ricerca riguarda il ruolo delle emozioni, come il rimpianto, e dei processi cognitivi in contesti di scelte individuali e sociali. I sui studi sono stati pubblicati in importanti riviste internazionali come Science, Nature Neuroscience e PNAS.

Il professor Giorgio Coricelli si trova a Los Angeles per lavoro ed è disponibile unicamente via mail [email protected] o via skype giorgiocoricelli.

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L’alessitimia come disturbo della regolazione affettiva e sua origine

Giorgia Di Fabio

Esistono persone che hanno una profonda difficoltà nel contattare le proprie emozioni, nel riconoscerele e metterle in parole; non si tratta di persone ‘semplicemente fredde o riservate ma di persone che soffrono di una sindrome detta Alessitimia (dal greco a-:  mancanza, lexis: parola e thymos: emozione; letteralmente non avere le parole per le emozioni).

Il concetto di regolazione affettiva è recentemente entrato in forma compiuta nella ricerca sulle emozioni, tuttavia sin dalla teoria psicoanalitica emerge il concetto dell’esigenza di una struttura matura che sappia dare forma, controllare e regolare il magma emozionale dell’uomo e allo stesso tempo permetta l’espressione di un qualcosa di primitivo e grezzo in origine.

Le emozioni si presentano a tre dimensioni: fisiologica, motorio-comportamentale e cognitivo-esperenziale e si esprimono attraverso una forma di comunicazione interpersonale molto complessa.

Il soggetto alessitimico risulta carente soprattutto nella componente cognitivo-esperenziale e nella comunicazione interpersonale dell’emozione: i livelli fisiologico e motorio-comportamentale rimangono privi di una regolazione cosciente, cognitiva, verbale a livello individuale, inoltre sono deficitari della possibilità di usare i rapporti interpersonali nella regolazione affettiva ed è soprattutto questa carenza di condivisione sociale che impedisce di identificare le emozioni: l’alessitimia viene dunque ad essere concettualizzata come un disturbo della regolazione affettiva (Taylor e al., 1991).

La maggior parte delle teorie di orientamento psicoanalitico più recenti sostengono che la regolazione, il contenimento di esperienze primitive, avvengano nei primissimi anni di vita del bambino all’interno del rapporto con l’accudente primario (Bion 1962, Winnicott, 1965, Kohut, 1976; Bowlby, 1989; Main, & al. 1985).

Il filone dell’Infant Reserch ha poi posto l’accento sulla specificità della regolazione reciproca madre-bambino: non solo il caregiver regola gli stati emotivi primitivi del bambino, ma viceversa i segnali affettivi provenienti dal bambino regolano l’affettività e il comportamento della madre (Stern, 1984,1985; Emde e al. 1991) ponendosi in parallelo col concetto di sintonizzazione.

Bion (1962) evidenziava il bisogno che le protoemozioni, sensazioni primitive prive di elaborazioni significanti (gli elementi β) derivati dall’esperienza, venissero trasformati, attraverso la funzione α, in rappresentazioni mentali di emozioni, sogni, fantasie, pensieri coscienti (elementi α), metabolizzati attraverso il contenimento (la funzione di reverie) della madre perché potessero emergere come rappresentazioni mentali del mondo interno del bambino, altrimenti in qualità di elementi β, indigeriti, non sarebbero pensabili ed evacuate come cose attraverso il corpo e la sensorialità o tramite l’azione.

Il modello bioniano aiuta a comprendere anche perché un soggetto alessitimico possa arrivare a piangere senza capirne il motivo: il pianto può avere due funzioni molto diverse, quella di esprimere un’emozione quindi come tale percepita e vissuta, e quella di evacuare una cosa dolorosa di cui in realtà non si conosce origine e significato (elemento beta).

Nella concettualizzazione di Bion lo sviluppo della funzione alfa nel rapporto di accudimento, che poi verrà gradualmente interiorizzata dal bambino, collega il concetto di regolazione/disregolazione affettiva con quello di un disturbo della relazione con l’oggetto regolatore e in tal senso Bion anticipa, e in parte vi si pone in parallelo, la posizione di Winnicott (1965) sull’origine e sulla natura della capacità di regolazione affettiva del bambino a proposito del concetto di holding e poi di oggetto transizionale come fase intermedia dell’interiorizzazione della regolazione.

In Kohut (1976) la regolazione affettiva si realizza nel rapporto con l’oggetto-sé e la possibilità di acquisire questa regolazione si verifica mediante l’interorizzazione trasmutante pur restando necessario il rispecchiamento con oggetti-sé maturi.

Grotstein & al. (1997) attribuisce alla buona riuscita o meno della regolazione affettiva e fisiologica, realizzata inizialmente nella reciprocità dello scambio tra il soggetto accudente e il bambino e poi in via autonoma, i fondamenti della salute e della patologia di un individuo; i disturbi psicofisici sono considerati, allora, come carenze di tale regolazione dell’organismo e le stesse pulsioni della teoria psicoanalitica vengono così interpretati alla luce del tentativo di ripristinare tale regolazione affettivo-fisiologica ottimale.

Grotstein (1986) sostiene che una carenza di contenimento, di sintonizzazione, un disturbo comunque nelle relazioni primarie, farebbe sì che l’emozione rimanga ad uno stadio estremamente primitivo e pericoloso: per evitare di essere travolto da una valanga di emozioni ingestibili, il soggetto alessitimico metterebbe in atto meccanismi difensivi massicci contro l’affettività. Soggetti con elevati livello di alessitimia possono presentare sia un’espressione emotiva scarsa che un’espressione emotiva esagerata, non calibrata rispetto alle circostanze: questa sarebbe la differenza tra emozione elaborata ed emozione non elaborata come per l’ansia ed il panico, con valore adattivo la prima, immediato e terrificante il secondo.

Infine Fonagy e coll. (1991) ritengono che la capacità di regolazione affettiva sia indispensabile allo sviluppo della teoria della mente ovvero il modo in cui ciascuno di rappresenta il funzionamento mentale proprio ed altrui e reciprocamente considera la capacità di rappresentare mentalmente un’emozione come fondamentale per evitare che l’emozione stessa diventi dilagante, annientante. Entrambe le due capacità risultano gravemente danneggiate se il soggetto è stato sottoposto ad esperienze traumatiche, specie se prolungate (Fonagy & Target, 1996).

Per quanto concerne la riflessione sulle cause e sulle origini del disturbo, si pensa che nell’eziologia dell’alessitimia siano in gioco diversi fattori, tra cui: le variabili socioculturali (vedi la maggior prevalenza nei maschi e nei ceti svantaggiati), i deficit neurobiologici, le variazioni nell’organizzazione cerebrale (ad esempio una disfunzione dell’emisfero destro – tradizionalmente connesso alla neurobiologia delle emozioni o un deficit del trasferimento interemisferico). In particolare è stata messa in luce l’influenza critica, estremamente significativa, delle prime esperienze relazionali e di attaccamento.

Studi osservativi condotti su neonati nell’interazione con il loro caregiver principale (solitamente la madre), mostrano che nel bambino è rintracciabile, fin dai suoi primi mesi di vita, un’attività comunicativa centrata sull’espressione delle emozioni (Crugnola & Baioni, 2002). Se è quindi dimostrata la presenza di emozioni innate di base, espresse fin dall’inizio dal punto di vista comportamentale e fisiologico, l’aspetto soggettivo-esperenziale delle emozioni di base e le emozioni più complesse (amore, vergogna, invidia, orgoglio, colpa) si sviluppano durante la prima infanzia.

Quelli che nel neonato sono stati indifferenziati di soddisfazione e disagio, pian piano si differenziano in una complessa gamma di emozioni specifiche e conoscono una progressiva desomatizzazione: le acquisizioni, nel secondo anno di vita, della capacità rappresentativa e del linguaggio hanno un impatto fondamentale nella sviluppo della consapevolezza emotiva soggettiva e nella capacità di identificare e regolare gli affetti, sia a livello intrapersonale che nelle relazioni con gli altri.

La madre ha, secondo la concezione di Bion (1962) un ruolo di contenitore, cioè ha la funzione di assorbire, contenere, elaborare e interpretare gli stati affettivi del suo bambino, soprattutto quelli disturbanti (Taylor & al., 2000); laddove questa funzione di contenitore e regolatore fallisce, il bambino (e poi l’adulto) sviluppa un contenitore interno difettoso, le emozioni non sono trasformate in rappresentazioni mentali e oggetti di pensiero, ma rimangono a livello di percezioni, sensazioni, impulsi all’azione (di qui l’alto rischio di disturbi psicosomatici).

Tutte queste riflessioni hanno una rilevanza particolare per il costrutto di alessitimia, in quanto forniscono una concettualizzazione originale e interessante dell’importanza evolutiva delle primissime relazioni di attaccamento, in cui il soggetto impara a regolare non solo il suo funzionamento interpersonale, ma anche quello mentale ed emotivo. Grazie ad un legame di attaccamento sicuro e ad una buona sensibilità, responsività e sintonizzazione del caregiver, il bambino impara a utilizzare la valutazione cognitiva per modulare gli affetti e gli affetti per arricchire la cognizione.

Secondo la Teoria dell’Attaccamento (Main & al.,1985) i problemi di inibizione o disregolazione affettiva nascono da stili di attaccamento insicuri; questi si associano con schemi interni e modelli di rappresentazione che riflettono un mancato processo di integrazione delle informazioni affettive con quelle cognitive. In particolare, il bambino con attaccamento insicuro-evitante (il cui caregiver risulta rifiutante, emotivamente non disponibile e scarsamente espressiva) tende a sviluppare dei problemi di riconoscimento ed espressione degli affetti e impara a basarsi esclusivamente sulla cognizione; il bambino con attaccamento insicuro-ambivalente (il cui caregiver fornisce risposte affettive incoerenti, fuorvianti, non prevedibili) non sviluppa la capacità di usare la cognizione per modulare gli affetti e funziona sulla base di affetti non regolati.

In conclusione, quello dell’alessitimia e più in generale dei problemi della regolazione affettiva, è un argomento importante in quanto fornisce una nuova chiave di lettura del disagio psichico (come conseguenza di un deficit dello sviluppo affettivo), e mette in luce la necessità di rivedere i classici modelli concettuali psicoanalitici (basati sulla concezione del sintomo come manifestazione di conflitti intrapsichici irrisolti); approfondisce e problematizza l’importante influenza dei legami di attaccamento sul funzionamento della mente nel corso dell’intero ciclo vitale; sottolinea la connessione intima e quasi indissolubile esistente tra affetti e cognizione, e come le emozioni, anche se radicate nella biologia, includano una fondamentale dimensione cognitiva e soggettivo/esperienziale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Trauma e memoria: il misinformation effect

Ilenia La Rocca, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

La memoria può generare una vera e propria ricostruzione del ricordo quando influenzata da differenti fattori di tipo cognitivo, emotivo e motivazionale. Gli studi condotti nell’ambito della memoria autobiografica dimostrano, infatti, il ruolo centrale esercitato dall’emozione sulla memoria e la direzione di tale influenza vede generalmente far corrispondere ad un aumento dell’intensità emotiva una maggiore vividezza del ricordo.

Nella vita quotidiana raramente ci possiamo aspettare di avere accesso, dopo alcuni anni, all’originale della nostra percezione o esperienza passata. Molto spesso, infatti, la memoria non è la semplice riproposizione di una percezione antica bensì il resoconto di un’esperienza, ovvero il risultato di una ricerca di significato che apporta un “valore aggiunto” all’accadimento originale, creato dalla nostra reinterpretazione soggettiva (Jedlowski, 1994).

Tre sono le fonti di distorsione del ricordo:
1. Interne, cioè legate esclusivamente alle caratteristiche dell’osservatore;
2. Esterne, quando le informazioni successive all’evento incidono sulla fissazione del ricordo del soggetto;
3. Relazionali, cioè nella testimonianza la rievocazione può essere influenzata da aspetti relazionali e comunicativi con l’interlocutore.

La memoria, dunque, può generare una vera e propria ricostruzione del ricordo quando influenzata da differenti fattori di tipo cognitivo, emotivo e motivazionale. Gli studi condotti nell’ambito della memoria autobiografica dimostrano, infatti, il ruolo centrale esercitato dall’emozione sulla memoria e la direzione di tale influenza vede generalmente far corrispondere ad un aumento dell’intensità emotiva una maggiore vividezza del ricordo.

La letteratura descrive delle tipologie di ricordi che si formano in condizioni di alta attivazione emozionale: ricordi emozionali (Reisberg, Heuer, 1992), ricordi vividi (Rubin, Kozin, 1984), ricordi traumatici (Christianson, Loftus, 1987) e ricordi fotografici (Brown, Kulik, 1977). Una serie di studi conferma che i ricordi di esperienze traumatiche si presentano vividi, ricchi di dettagli centrali e alquanto stabili nel tempo.

Tuttavia si potrebbero anche generare dei falsi ricordi, distorsioni della memoria che vengono create quando le persone qualche volta sviluppano una serie di ricordi vividi e dettagliati di eventi che non hanno mai esperito; oppure, le persone confondono gli eventi che si sono verificati prima o dopo l’evento target con l’evento stesso (Gallo e Roediger, 2004; Loftus, 2003; Scarry e Schacter, 2000).

A volte ci si riferisce ad essi come pseudo – memoria o ricordi illusori. Diversamente dal mentire, le persone che hanno dei falsi ricordi credono in buona fede che gli eventi non esperiti si siano verificati. Dal 1970 c’è stato un enorme interesse per gli studi empirici sui falsi ricordi (McDaniel e Roediger, 2007). Oggi la ricerca sui falsi ricordi è applicativa in diversi ambiti, come l’accuratezza e l’attendibilità della memoria del testimone nel setting legale; l’autenticità della memoria dei bambini abusati; i cambiamenti nell’atteggiamento e nel comportamento causati dai falsi ricordi; le tecniche di suggestione in marketing e nella pubblicità; la scoperta della pseudo – memoria indotta dall’ipnosi o dall’interpretazione del sogno nella psicoterapia (Cahill e Loftus, 2007).

Molti ricercatori hanno proposto delle teorie sulla natura dei falsi ricordi, come quella del monitoraggio della fonte, la fuzzy – trace theory, la teoria della memoria costruttiva, la fluency – misattribution perspective, l’activation – monitoring account (Brainerd e Reyna, 2005; Gallo, 2006; Mecklenbrauker e Steffens, 2007). I falsi ricordi sono stati creati nei setting sperimentali usando una varietà di paradigmi.

Tra questi, il misinformation method (creando ricordi di dettagli di eventi passati che non si sono verificati) (Loftus, 2003), il Deese – Roediger – McDermott (DRM) paradigm (creando falsi ricordi di parole che non erano state presentate) (McDermott e Roediger, 1995), e il rich false memory approach (“impiantando” interamente falsi ricordi di eventi che non sono mai avvenuti) (Loftus, 2005).

Tra questi, il misinformation e il DRM paradigm sono usati maggiormente. Il classico misinformation paradigm include tre fasi standard: l’aver esperito un evento, l’aver ricevuto la misinformation dopo l’evento e l’esser testati sul ricordo dell’evento (Loftus, 2005). Anche se diversi paradigmi possono tutti indurre falsi ricordi, ci sono controversie circa la natura di alcuni falsi ricordi (Lam e Pezdek, 2007; Wade et al., 2007) e circa la possibilità che i processi che portano alla formazione dei falsi ricordi siano simili nei vari paradigmi.

Alfred Binet, divenuto famoso come il creatore (assieme a Theodore Simon) del primo test di intelligenza di successo (Fancher, 1985), è stato uno dei principali studiosi del misinformation effect sulla memoria. Il misinformation effect corrisponde all’introduzione di un’informazione inaccurata nella propria rievocazione e, in ambito legale, alle conseguenze sulla testimonianza delle informazioni post – evento acquisite dal testimone attraverso i colloqui con agenti di polizia, gli interrogatori precedenti o le discussioni informali con amici e parenti.

Dunque, il post – event misinformation effect non è altro che l’effetto sul ricordo di un’informazione fuorviante fornita dopo l’evento (Loftus, 2005). Questo effetto può avvenire in situazioni sociali (Brainerd e Reyna, 2005; Ercolin e Gulotta, 2004; Gabbert et al., 2004; Justice, Self e Wright, 2000) e non sociali (Lindsay, 1990; Loftus e Palmer, 1974).

 

 

Studi pioneristici condotti da Loftus (Burns, Loftus e Miller, 1978) hanno messo in luce come i ricordi riportati dai testimoni oculari siano facilmente modificabili ed influenzati dall’esposizione, in seguito all’evento, ad informazioni scorrette (post – event misinformation effect). In un classico studio condotto da Burns, Loftus e Miller (1978), ai partecipanti veniva mostrato un filmato che riguardava un incidente stradale avvenuto nei pressi di un segnale di stop, in seguito venivano poste diverse domande sull’evento. Tra queste, una si riferiva erroneamente ad un segnale di precedenza anziché al segnale di stop (leading questions). Quando successivamente veniva chiesto ai partecipanti se avessero visto un segnale di stop o un segnale di precedenza nei pressi dell’incidente stradale, quelli che avevano ricevuto l’informazione scorretta tendevano a rispondere in maniera sbagliata più frequentemente dei partecipanti del gruppo di controllo. A partire da questo paradigma, una serie di studi ha dimostrato come le informazioni a cui l’individuo inevitabilmente è esposto dopo aver vissuto un evento emozionale possono modificare il ricordo rendendolo meno accurato e, di conseguenza, meno attendibile (Loftus, 1980).

Diversi studi di laboratorio hanno cercato di analizzare i meccanismi che portano a modificare i ricordi. Un interessante studio è stato condotto da Crombag, Van Koppen e Wagenaar (1996) in merito allo scontro avvenuto tra un Boeing 747 e un palazzo di undici piani, ad Amsterdam nell’ottobre del 1992. La televisione olandese riportò tutti i momenti dell’evento ma non trasmise alcuna immagine del momento dello schianto. I telegiornali riportarono la notizia del disastro per alcuni giorni. La ricerca, tesa a sondare il ricordo del terribile evento, evidenziò che 61 dei 93 studenti che parteciparono all’esperimento risposero in modo affermativo alla domanda: “Hai visto in televisione il filmato del momento in cui l’aereo ha colpito il palazzo?”. Tale domanda in realtà conteneva una falsa informazione, ovvero che il filmato dello schianto fosse stato mostrato in televisione; inoltre, molti testimoni fornirono numerosi dettagli dell’inesistente video dell’impatto dell’aereo.

Sono state elaborate numerose teorie sugli effetti del misinformation, basate sul ricordo di stimoli neutri o lievemente stressanti. Quando un evento è molto stressante l’aspetto principalmente stressante (stressor) è quello più ricordato a causa dei processi e degli innalzati processi di attenzione e della più rilevante prova e ampio consolidamento. Molti studi teorici ed empirici confermano che l’informazione centrale che elicita reazioni emozionali fortemente negative tendono a essere conservate con particolare accuratezza (Bahrick, Fivush, Goldberg, Parker e Sales, 2004; Berntsen e Thomsen, 2005; Christianson e Hubinette, 1993).

Gli studi sull’attivazione dell’amigdala supportano alcuni di questi risultati (Cahill e McGaugh, 2003; LeDoux, 2000; Phelps, 2006). Al contrario, relativamente a eventi non stressanti, i dettagli periferici dello stressor sono ricordati spesso in modo meno accurato rispetto ai dettagli degli eventi neutrali (Burke, Heuer e Reisberg, 1992; Burns e Loftus, 1982; Brown, 2003; Goodman e Paz-Alonso, 2006). Comunque, Bornstein, Deffenbacher, McGorty e Penrod (2004) sostengono che questi studi non hanno incluso eventi traumatici tali da produrre una reazione difensiva per poter interferire con la memoria (ad esempio un pericolo di vita).

Pertanto un ricordo particolarmente accurato dell’informazione centrale rispetto a quella periferica priva di eventi stressanti non è necessariamente un fenomeno stabile o generalmente accettato (Merckelbach, Van der Kooy e Wessel, 2000). Oltretutto, la valenza e la stimolazione possono corrispondere a diversi processi neurali distinti tra loro. Ciononostante, informazioni con valenza negativa anche se non stimolanti (emotivamente), sono ricordati meglio di quelle neutrali (Corkin e Kensinger, 2004a, 2004b).

Il dibattito sul distress (angoscia, pena) e sulla memoria è rilevante nel momento in cui ci si chiede se eventi traumatici e stressanti sono immuni da effetti di misinformation. In particolare, se caratteristiche focali di eventi altamente negativi sono ricordate con particolare accuratezza potrebbero essere resistenti al misinformation effect post – evento specialmente dopo un intervallo temporale breve dall’evento al momento della sollecitazione del ricordo (ad esempio con un test). I pochi studi che hanno esaminato gli effetti del misinformation sulla memoria di alcuni eventi hanno preso in considerazione “incidenti pubblici” che poi sono diventati oggetto di principale discussione e dibattito dei media.

Ad esempio, Bernstein, Loftus e Nourkova (2004) hanno sperimentato se sia possibile contaminare, a livello sperimentale, il ricordo di eventi traumatici. Nel loro studio, degli adulti russi hanno riportato il loro ricordo sia sui bombardamenti terroristici del 1999 alle costruzioni di Mosca sia sugli attacchi del World Trade Center (WTC) di New York del 2001. Dopo sei mesi hanno ricordato separatamente gli eventi sopra descritti. Sul secondo evento ricordato i ricercatori hanno fornito delle informazioni sbagliate indicando che i partecipanti avevano visto un animale ferito negli attacchi al WTC e l’ hanno menzionato nei loro report iniziali. Circa il 13% di coloro che erano stati testati sull’episodio di Mosca avevano accettato l’informazione fuorviante. Questo gruppo ha soppesato la significatività personale dei bombardamenti terroristici di Mosca come più rispetto a coloro che avevano resistito alla suggestione. Al contrario, nessuno di quelli che fu interrogato sull’evento al WTC fu suggestionato dall’influenza ricevuta (probabilmente era meno plausibile immaginare un animale ferito durante gli attacchi al WTC rispetto al bombardamento di Mosca), (Hodge e Pezdek, 1999; Kirsch, Mazzoni, Relyea e Scoboria, 2004).

Sebbene queste ricerche supportino l’idea che il ricordo di eventi traumatici sia a volte malleabile e influenzabile, la domanda sulla misinformation (il ricordo di informazioni sbagliate) post – evento traumatica fu sicuramente più focalizzata sul ricordo precedente all’evento dei partecipanti al test piuttosto che all’evento traumatico di per sé. In un altro studio relativo agli effetti della misinformation, Birt, Porter e Spencer (2003) hanno presentato fotografie raffiguranti adulti che esprimevano emozioni altamente positive o negative o neutrali seguiti da un test di memoria dopo un intervallo temporale di un’ora. Non furono evidenziate significative differenze tra le varie condizioni emotive sul ricordo corretto nonostante la misinformation. La misinformation ha mostrato un effetto negativo sulla memoria di dettagli periferici fuorvianti rispetto ai dettagli centrali. Comunque, per quanto riguarda la falsa informazione sul ricordo della presenza di un animale ferito nella scena (incidente a WTC o attacco a Mosca) l’emozione negativa fu associata con suscettibilità più frequente/più crescente alla informazione fuorviante. Questi studi indicano che la memoria di eventi stressanti può essere contaminata dalla misinformation. Ciononostante, la maggior parte degli studi ha enfatizzato come non ci siano differenze tra le informazioni centrali e periferiche.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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Fulvio Giardina eletto membro del Comitato Scientifico sulle tematiche LGBT- Comunicato stampa

Il presidente del Cnop, Fulvio Giardina, eletto membro nel Comitato Scientifico sulle tematiche LGBT presso il dipartimento delle Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri

Roma, 5 agosto 2015 – Il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, Fulvio Giardina, è stato nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, membro del Comitato scientifico sulle tematiche LGBT. Il Comitato avrà il compito di fornire una validazione scientifica dei contenuti del Portale LGBT, favorendo il confronto, lo scambio e la divulgazione delle conoscenze e dei saperi scientifici delle tematiche LGBT.

L’idea di creare uno staff di lavoro su questi argomenti è nata dopo l’istituzione del Portale, con il quale si intende prevenire le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, assicurare una corretta informazione, affidabile e scientifica.

Il progetto è stato lanciato dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dall’ Unar, Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, e dal Comune di Torino. [blockquote style=”1″]L’obiettivo è quello di abbattere i pregiudizi e le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale attraverso la conoscenza. Il Portale, infatti, offre a tutti un patrimonio internazionale fatto di ricerche, articoli, banche dati, video e interviste sull’identità di genere[/blockquote] afferma il presidente Giardina.

Il Comitato scientifico composto da esperti di elevata qualifica professionale e esperienza sul campo dei diritti, della cultura e delle scienze nell’ambito delle tematiche LGBT lavorerà anche per stimolare l’opinione pubblica alla conoscenza dell’argomento, allontanando pregiudizi e discriminazioni che purtroppo, ancora, sono all’ordine del giorno.

Dopo l’estate ci saranno altre novità in tal senso. Il presidente Giardina ha infatti annunciato una iniziativa che coinvolgerà accademici, professionisti, associazioni e istituzioni che lavoreranno per coinvolgere anche i cittadini in un percorso di conoscenza e diritti. Perché dietro ogni diritto negato c’è l’individuo. E, perciò, il ruolo delle Pubbliche amministrazioni deve essere quello di garantire a tutti la possibilità di vivere con libertà la propria vita.

Il Comitato scientifico che cura anche il Portale è composto, oltre che dal presidente del Cnop, Fulvio Giardina, anche dallo scienziato Umberto Veronesi, dal magistrato Francesco Crisafulli, dal giurista Stefano Rodotà, dai professori, Marilisa D’Amico, Nicla Vassallo, Giovanni Bachelet, Maurizio Calipari, Giuseppina De Simone, Vittorio Lingiardi, Sebastiano Maffettone e Maria Michela Marzano, dal teologo Vito Mancuso, dal presidente dell’IPA (International Psychoanalytical Association), Stefano Bolognini, dal professor Aldo Morrone, dalla sociologa Chiara Sacco, dal Garante nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, Vincenzo Spadafora, dal prefetto, Fulvio Della Rocca.

L’Ufficio stampa CNOP

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Nuovo trattamento per la depressione grave: alta efficacia e minori effetti collaterali cognitivi

Irene Rossi

 

Una nuova ricerca della UNSW (University of New South Wales) ha rilevato che una stimolazione ad impulsi ultra-brevi è quasi altrettanto efficace della TEC standard, ma con molti meno effetti collaterali cognitivi.

La Terapia Elettro Convulsiva (TEC) rimane a tutt’oggi uno dei trattamenti più efficaci per la depressione grave resistente alla terapia farmacologica, nonostante determini spesso effetti collaterali a livello cognitivo.

Una nuova ricerca della UNSW (University of New South Wales) ha rilevato che una stimolazione ad impulsi ultra-brevi è quasi altrettanto efficace della TEC standard, ma con molti meno effetti collaterali cognitivi.

Lo studio, pubblicato pochi giorni fa su The Journal of Clinical Psychiatry costituisce la prima revisione sistematica che è andata ad esaminare e confrontare l’efficacia e gli effetti collaterali sul funzionamento cognitivo del trattamento TEC standard, che prevede una stimolazione ad impulsi brevi, rispetto al più recente trattamento, conosciuto come TEC ad impulso ultra-breve unilaterale destro.

La TEC standard rilascia, mediante elettrodi applicati sullo scalpo, una corrente elettrica altamente controllata sulla corteccia prefrontale del cervello, che risulta ipoattivata nelle persone che soffrono di depressione. La stimolazione ultra-breve rilascia impulsi di elettricità con una durata più breve di quella standard e separati da delle piccole pause, in questo modo la stimolazione del tessuto cerebrale viene ridotta di un terzo rispetto alla stimolazione standard.

La ricerca in oggetto arriva in letteratura dopo una serie di prove che hanno portato a risultati contrastanti e permette di far luce sulle potenzialità di questo nuovo trattamento. Sono stati comparati sei studi internazionali sulla TEC, analizzando i dati di 689 pazienti con età media di 50 anni.

In questo modo è stato trovato che la TEC standard è leggermente più efficace per il trattamento della depressione richiedendo quindi in media una seduta in meno di trattamento rispetto alla terapia ad impulsi ultra-brevi. Tuttavia questi vantaggi hanno come rovescio della medaglia una maggior incidenza di effetti collaterali sul versante cognitivo, in particolare sulle funzioni mnestiche.

La stimolazione ultra-breve invece diminuisce significativamente il rischio potenziale di distruzione delle memorie formate prima del trattamento ed è efficace quasi allo stesso livello della TEC standard. Per questo motivo questo nuovo trattamento, che si sta gradualmente inserendo nella pratica clinica in Australia, costituisce uno dei più significativi sviluppi nel trattamento clinico della depressione severa degli ultimi 20 anni. È stato stimato che più di 10.000 Australiani che soffrono di depressione, e non sono responsivi alla terapia farmacologica, potrebbero beneficiare di questo nuovo trattamento che ad ora è svolto solo in alcune strutture ospedaliere.

Nonostante i benefici della stimolazione ultra-breve siano significativi, gli autori dello studio sottolineano come la TEC standard non possa essere accantonata, anzi debba sicuramente esse considerata come via terapeutica nei casi che richiedono una risposta più veloce al trattamento a causa di condizioni di urgenza ed emergenza.

 

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Elettroshock. Sono ancora vivo. E la chiamano depressione (2014) – Recensione

 

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Addio a Oliver Sacks: il neurologo con la sensibilità dello scrittore

Una notizia improvvisa, il 30 agosto 2015, ha colpito la comunità scientifica e non solo: Oliver Sacks è morto per una grave forma di cancro.

La notizia, seppur improvvisa, non può dirsi inaspettata: lo stesso Sacks aveva annunciato in una sua lettera, pubblicata sul New York Times a febbraio, di aver scoperto la sua malattia e di dover scegliere il modo migliore in cui vivere i suoi ultimi mesi di vita.

Oliver Sacks è stato un neurologo e scrittore, ha lavorato come professore di Neurologia e Psichiatria presso importanti Università, quali la Columbia University e la New York University School of Medicine. Ha dedicato gran parte del suo lavoro allo studio di particolari condizioni neurologiche e psichiatriche (fino a battersi per favorire una maggiore conoscenza delle sindromi di Tourette e di Asperger nel panorama scientifico e non solo).

Oliver Sacks ha manifestato una grande dedizione nel lavoro e nella ricerca sulle encefaliti letargiche e nella cura di pazienti con lesioni cerebrali, ed è proprio di questi che racconta, nel 1985, in una delle sue opere più importanti e più conosciute: L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello.

Grazie alle sue risapute doti di scrittore, attraverso il racconto di alcuni casi clinici seguiti, egli pone l’attenzione sul paziente e sul tentativo di quest’ultimo di conservare la sua identità, nonostante la malattia.

Altra pietra miliare dei suoi scritti è il saggio del 1973 Risvegli, raccolta di riflessioni e osservazioni personali nate dalla sua attività professionale svolta presso una struttura che ospitava pazienti in lungodegenza, affetti da patologie neurologiche, da cui è stato tratto l’omonimo film con Robin Williams e Robert De Niro.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO DEL TRAILER:

Il tatto con cui Sacks scrive della malattia mentale, l’empatia e l’ironia che usa per descrivere l’altro in quanto persona prima che paziente, sono il riflesso di un professionista che ha svolto il suo lavoro con rispetto per la sofferenza altrui e con una sensibiità riconosciutagli da tutti i suoi pazienti e colleghi.

Forse ‘merito’ della storia personale di Sacks: un fratello schizofrenico e l’aver sofferto in prima persona di prosopoagnosia, hanno portato il neurologo a sentirsi più vicino alla realtà di chi soffre. Sacks ha inoltre fondato un’associazione non profit, impegnata nel migliorare la comprensione del cervello umano e della mente attraverso il potere della narrativa non fiction e dei casi di studio, mission della Fondazione era ridurre lo stigma della malattia mentale e neurologica, supportando un approccio umano alla neurologia e alla psichiatria.

La morte è giunta improvvisa, dunque, ma non inaspettata: eppure per chi conosceva e seguiva Sacks, le sue opere, la sua professionalità, è stato difficile prepararsi a una notizia del genere. Egli ha scritto:

Non riesco a fingere di non avere paura, ma il sentimento predominante è la gratitudine: sono stato un essere senziente, un animale pensante, su questo splendido pianeta, e questo è stato un privilegio e un’avventura.

Eppure, oggi, ciò che viene spontaneo scrivere è come sia stato un privilegio per questo splendido pianeta avere un animale pensante come te.

 

Di seguito, la raccolta degli omaggi delle maggiori testate giornalistiche resi al Neurologo:

Sacks è stato soprattutto apprezzato per la sua attività divulgativa, tanto da essere spesso definito un ‘poeta’ della medicina moderna. I suoi libri, molti diventati bestseller, generalmente erano scritti in forma di aneddoti: i suoi pazienti più famosi sono quelli descritti nel libro ‘Risvegli’, pubblicato nel 1973 e successivamente adattato in un film di Penny Marshall, candidato all’Oscar.

da Il Post: E’ morto Oliver Sacks

 

A dispetto di una serie disparata di problemi medici e chirurgici che includevano un cancro allora superato, gravi problemi di vista e alle ossa, Sacks scriveva di essere ‘felice di essere vivo’. Felice ‘di aver provato tante cose – alcune meravigliose, altre orribili – di aver saputo scrivere decine di libri e di aver ricevuto innumerevoli lettere da amici, colleghi e lettori. Di aver goduto quella che Nathaniel Hawthorne aveva definito ‘una comunione col mondo”.

da Repubblica.it: È morto Oliver Sacks, neurologo e autore di ‘Risvegli’

 

…si considerava «un naturalista o un esploratore» del cervello: così’ aveva scritto lui stesso in «Su Una Gamba Sola» … Attirando l’attenzione su sindromi fino ad allora poco note, l’autismo, Tourette o Asperger, umanizzandole e smitizzandole, Sacks aveva raggiunto un livello di popolarità raro tra i suoi colleghi scienziati

da La Stampa: Addio a Oliver Sacks, il neurologo scrittore

 

Infine l’omaggio video reso dal New York Times, giornale al quale Oliver Sacks ha affidato i pensieri e le riflessioni legati alla malattia da poco diagnosticata:

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L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) di Oliver Sacks – Recensione

Psychiatry’s identity crisis: commento all’articolo di Richard Frieman pubblicato sul New York Times

Non è la prima volta che il New York Times propone ai suoi lettori una riflessione critica sullo stato della psichiatria. Il 17-7-2015 è stato pubblicato un articolo dal titolo Psychiatry’s identity crisis. L’autore è Richard Friedman, psichiatra e psicofarmacologo, docente di Psichiatria Clinica al Weill Cornell Medical College.

La tesi che sostiene è duplice, una riguarda la terapia e l’altra la natura stessa dei disturbi psichiatrici. In primo luogo, Friedman avanza il dubbio che tanti anni di ricerca e enormi investimenti non abbiano prodotto la scoperta di farmaci veramente innovativi rispetto a quelli disponibili già da anni, e nemmeno abbiano identificato le cause neurologiche delle malattie mentali.

Forse, suggerisce Frieman, è arrivato il momento di dare più spazio alla psicoterapia. Le ragioni sono riassumibili in tre. Innanzitutto, per molti disturbi, l’efficacia della psicoterapia, o meglio di alcuni interventi psicoterapici, è maggiore dei farmaci. In secondo luogo, non sembra proprio che disturbi molto diffusi, come i disturbi di personalità, siano curabili con i farmaci, mentre lo sono con la psicoterapia. Infine, scrive Friedman, [blockquote style=”1″]in molti casi non c’è un sostituto per la conoscenza di sé che si ottiene con la psicoterapia. Certamente come psichiatri, possiamo controllare l’ansia del paziente, migliorarne l’umore e schiarire la psicosi con appropriati interventi farmacologici. Ma non c’è una pillola – e forse non ci sarà mai – per molti problemi dolorosi e emotivamente distruttivi, come la rabbia narcisistica o l’ambivalenza paralizzante, solo per citarne due.[/blockquote]

Aggiungerei un’altra considerazione. La ricerca ha certamente approfondito le nostre conoscenze sui meccanismi d’azione farmacologica e ormai disponiamo di nozioni molto raffinate sulle modalità con cui gli psicofarmaci incidono sul sistema nervoso centrale interagendo con i diversi recettori. Tuttavia, appare carente la spiegazione del meccanismo d’azione psicologico degli psicofarmaci. Perché e come un farmaco che, ad esempio, aumenta la serotonina disponibile nel cervello, può migliorare il tono dell’umore, far riprendere gli interessi e aumentare i livelli di motivazione? La depressione maggiore è un fenomeno complesso che si manifesta con sintomi numerosi e diversi fra loro. Altrettanto complessi sono i processi psicologici di mantenimento e aggravamento del disturbo. Su quale di questi fattori e processi incidono le variazioni biochimiche indotte dal farmaco?

Il paziente assume il farmaco antidepressivo e questo aumenta la serotonina disponibile ma quali cambiamenti psicologici, fra i tanti possibili, sono prodotti dall’ aumento della serotonina, e quali di questi, a loro volta, migliorano il quadro clinico complessivo? Qual è il cambiamento psicologico causato dal farmaco? Una risposta possibile, stando ad alcune ricerche (vedi i lavori della Hammer), è che una dose anche minima di serotoninergico orienti l’attenzione verso le informazioni positive e la distolga da quelle negative. Questo fenomeno è osservabile anche nelle persone non depresse. Una risposta, quindi, che sembrerebbe dare ragione al modello cognitivo della depressione di Beck. Tuttavia la ricerca farmacologica segue prevalentemente due direzioni: lo studio degli effetti cerebrali degli psicofarmaci e la misurazione del cambiamento dei sintomi. Le conoscenze degli effetti dei farmaci sui meccanismi psicologici alla base dei singoli disturbi, invece, sono a tutt’oggi poco sviluppate e pertanto non si è in grado di rispondere ad alcune domande piuttosto ovvie: perché, ad esempio, i serotoninergici sono efficaci sia nella depressione sia nel disturbo ossessivo, sia in diversi disturbi d’ansia? Quale effetto psicologico indotto dai farmaci si rivela utile per ridurre sintomatologie così diverse fra loro? Perché l’effetto dei serotoninergici è selettivo sul piano psicologico, ma non lo è su quello neurale? Intendo dire, ad esempio, che i serotoninergici, quando sono efficaci, possono ridurre anche del 70% la paura che un paziente ossessivo ha di aver lasciato il gas aperto e il conseguente investimento in controlli prudenziali. Ma perché non riducono del 70% la paura e la prudenza nei domini non sintomatici, ad esempio la prudenza con cui lo stesso paziente guida l’automobile? Cioè, non si osserva che il paziente ossessivo riduce del 70% il rispetto del codice stradale.

Forse la ricerca farmacologica sarebbe avvantaggiata se tenesse conto dei solidi modelli psicologici prodotti dalla cosiddetta Experimental Psychopathology.

In secondo luogo, Friedman avanza l’idea che, negli ultimi decenni la psichiatria, supportata dalle neuroscienze, sia stata orientata dalla tesi che “The diseases that we treat are diseases of the brain,” come esplicitamente sostenuto nell’editoriale apparso nel numero di maggio dell’influente e prestigioso JAMA Psychiatry. Ciò, secondo Friedman, avrebbe implicato la sottovalutazione del ruolo eziologico dei traumi psicologici precoci, dei maltrattamenti, degli abusi, dell’incuria affettiva, della deriva sociale e della solitudine. Davvero si può pensare ai disturbi psicopatologici più diffusi come a malattie del cervello? Molti dubbi analoghi erano stati sollevati dal Prof Bentall, noto esperto di psicosi, che pochi mesi fa, in occasione del II° Roman Workshop on Experimental Psychopathology, ha esaminato in modo critico la letteratura su cause genetiche ed ambientali della schizofrenia, dimostrando l’importanza cruciale delle esperienze negative sociali ed interpersonali e le carenze delle tesi genetiche della schizofrenia. (La video registrazione della main relation è disponibile nel sito www.apc.it nella sezione Cognitivvù. Nello stesso sito, nel blog, sono disponibili i commenti di Elena Bilotta e di Maurizio Brasini).

Prendendo spunto dall’articolo di Friedman, vorrei ora sollevare alcune questioni teoriche riguardanti la tesi “The diseases that we treat are diseases of the brain”. Le obiezioni a questa tesi, come quelle di Friedman e di Bentall, di solito sono risolte facendo appello al modello biopsicosociale: cause biologiche, psicologiche e sociali interagirebbero nel determinare i disturbi psicopatologici. Non trovo del tutto convincente questa soluzione, pur non potendole negare alcuni meriti diplomatici. Non la trovo del tutto convincente per diverse ragioni. Innanzitutto è banale perché può valere per qualunque fenomeno: anche la tubercolosi è multifattoriale. Per sviluppare la malattia, infatti, serve il bacillo di Koch, un calo delle difese immunitarie, magari facilitato da cause psicologiche, un ambiente sociale degradato, cioè promiscuo e insalubre, ed entra in gioco un fattore genetico: ad esempio, i longilinei sono più a rischio di tubercolosi perché ventilano di meno gli apici polmonari facilitando la permanenza del bacillo di Koch, ed essere longilinei è geneticamente determinato. In secondo luogo, a differenza di quanto accade per la tubercolosi, il modello biopsicosociale, applicato alla psicopatologia, non mette in chiaro i modi dell’interazione fra variabili biologiche, psicologiche e sociali, perché è prevalentemente fondato su correlazioni fra variabili che non consentono di definire la direzione e la qualità dei nessi fra le variabili. Il modello biopsicosociale, poiché privilegia la ricerca basata su correlazioni, non è in grado di differenziare tra cause necessarie e/o sufficienti e semplici fattori di vulnerabilità, e, quindi, può consentire tutt’al più previsioni probabilistiche ma non spiegazioni.

Tuttavia il vero limite della tesi “The diseases that we treat are diseases of the brain” è che si presta ad alcuni equivoci. Due, in particolare, connessi fra loro ma ben distinti. Il primo equivoco riguarda non solo la psichiatria ma anche le neuroscienze nel loro complesso e nasce dall’idea, del tutto condivisibile, che mente e cervello siano la stessa cosa e che parlare di mente e cervello significhi utilizzare due piani di descrizione diversi. Il primo equivoco sorge se si ritiene che assumere la riducibilità della mente al cervello implichi l’inutilità delle descrizioni e delle spiegazioni mentali. Cioè l’idea che la ricerca sul cervello renderà superflua la psicologia. Assumere una posizione materialista, cioè che mente e cervello siano la stessa cosa, non implica assumere che la ricerca sul cervello renderà ragione dei fenomeni mentali soppiantando le spiegazioni psicologiche, che si riveleranno superflue.

Sulla presunzione che le descrizioni mentali siano inutili ci sono, infatti, delle perplessità. La crosta terrestre è indiscutibilmente composta di atomi e, dunque, ogni cambiamento della crosta terrestre è riducibile a un cambiamento dei suoi atomi, la cui dinamica è conoscibile e prevedibile grazie alle leggi della fisica atomica. Ma se il problema è prevedere i terremoti, forse il piano di descrizione della fisica atomica non è il più adatto. Tentare di descrivere, spiegare e prevedere i movimenti della crosta terrestre ricorrendo alle sole leggi della fisica atomica, appare un’impresa a dir poco assai complicata ma soprattutto con il rischio di lasciarsi sfuggire fenomeni che si svolgono ad un livello assai più macroscopico, ad esempio il tempo necessario perché due parti della crosta terrestre arrivino a toccarsi.

Siamo sicuri che la conoscenza del cervello sia il piano ottimale per spiegare, ad esempio, come gli esseri umani traggono inferenze, come calcolano le probabilità di un evento, le condizioni alle quali cambiano opinione, provano vergogna, costruiscono o rompono relazioni? Un’accurata indagine psicologica, ad esempio, può consentire di prevedere e spiegare le specifiche circostanze in cui una persona proverà vergogna e quelle, apparentemente simili, in cui non proverà vergogna. Una indagine neurale può arrivare a tanto? Difficile da credere. Ma ammesso che lo sia, sarebbe vantaggioso o non sarebbe più utile il linguaggio mentalistico?

La questione a mio avviso va ribaltata. La conoscenza del cervello, finalizzata alla spiegazione della mente, dovrebbe essere guidata dalle conoscenze psicologiche. Se non si tiene conto di quanto la ricerca psicologica ci ha fatto capire delle relazioni fra emozioni e processi cognitivi, che senso potremmo dare alle scoperte sulla interazione fra amigdala, corteccia prefrontale e ippocampo?
Certamente la conoscenza del cervello è utile per mettere alla prova ipotesi psicologiche. Ad esempio, si tende a dare per scontato che il senso di colpa sia una emozione unitaria, in realtà la ricerca sul cervello suggerisce la opportunità di distinguere almeno due sensi di colpa, e ci mostra anche che uno dei due è strettamente connesso al disgusto. Ma senza una adeguata analisi psicologica del senso di colpa, che significato potremmo dare ai risultati delle neuroscienze?

Connesso col precedente, ma distinto da esso, è il problema della natura neurologica o psicologica dei disturbi mentali. Ovviamente il problema è empirico, tuttavia alcuni equivoci inquinano l’interpretazione dei risultati della ricerca. Esistono malattie psichiatriche che sono malattie del cervello, l’esempio più chiaro è la paralisi progressiva. Si tratta di una grave forma di lesione del cervello causata dal treponema della sifilide che si manifesta, tra l’altro, con alterazioni dell’umore e con deliri, a volte di grandezza. La sintomatologia è prevalentemente psichiatrica e la causa è esclusivamente neurologica, in particolare infettiva.

Consideriamo un caso diverso. È ben noto che l’incidenza di psicopatologia nelle persone con ritardo mentale sia più elevata che di norma. Difficile mettere in discussione che alla base del ritardo mentale vi sia un danno del cervello causato da noxae infettive, metaboliche, traumatiche o genetiche. È altrettanto evidente che gli esiti cognitivi di questi danni interagiscono con variabili psicologiche, ad esempio con una maggiore difficoltà a regolare le emozioni, e con variabili sociali, ad es. l’emarginazione, che a sua volta interagisce con variabili psicologiche come l’autostima, producendo sintomi psichiatrici. Anche in questo caso esiste un danno neurologico, ma la lesione cerebrale e le sue conseguenze cognitive sono un fattore di vulnerabilità psicopatologica e non la causa necessaria e sufficiente, come invece accade nella paralisi progressiva.

Il cervello delle persone con paralisi progressiva e con ritardo mentale è diverso da quello di altre persone senza sintomi psichiatrici.
Anche il cervello dei pianisti professionisti è diverso da quello di altre persone ma non nello stesso senso dei due casi precedenti, nei quali i neuroni sono patologici cioè anomali rispetto alle leggi della anatomia e della fisiologia. Nel caso della paralisi progressiva e nel ritardo mentale i neuroni sono lesionati, anche se lo sono in modi diversi e per ragioni diverse. Nel caso dei pianisti, i neuroni sono diversi da quelli dei non pianisti ma non sono lesionati piuttosto sono ben funzionanti rispetto alle leggi della neuroanatomia e della neurofisiologia.

Analogamente, possiamo supporre che un appassionato ed esperto di calcio abbia una struttura e un funzionamento cerebrale diverso da una persona del tutto disinteressata al calcio. Anche in questo caso possiamo parlare di diversità ma non possiamo dire che il cervello del tifoso sia anomalo rispetto alle leggi biologiche che definiscono un cervello sano e lo differenziano da uno patologico.
È evidente che non basta osservare una diversità per parlare di neuropatologia.

Consideriamo, ora, il caso di una persona che è mossa da una passione che non è per la musica o per una squadra di calcio ma è per la pulizia ed è esperta non di pianoforti e nemmeno di schemi di gioco ma di prevenzione e neutralizzazione di contaminazioni.
Osserviamo che il suo cervello è diverso da quello di altre persone. Supponiamo ora che uno psichiatra ci dica che è affetto da Disturbo Ossessivo Compulsivo, cioè da una psicopatologia.
Questa diagnosi sarebbe sufficiente per affermare che la diversità osservata sia analoga a quella del paziente affetto da paralisi progressiva o da ritardo mentale? No, a meno di non osservare condizioni anatomo funzionali che siano anomale rispetto alle leggi biologiche, quelle che discriminano un sistema nervoso sano da uno patologico, ad esempio lesioni degenerative, esiti di traumi, segni di infezione o di reazioni autoimmunitarie.
Intendo dire che non è legittimo inferire una neuropatologia solo perché si osserva una diversità, anche se la diversità osservata nel cervello corrisponde a una psicopatologia.

Se non si ammette questo vincolo, si rischia un paradosso. Vediamolo. Possiamo presumere, per i nostri fini attuali, che il cervello di una persona omosessuale sia diverso da quello di un eterosessuale. Nessuno, oggigiorno, direbbe che l’omosessualità sia una forma di psicopatologia, dunque la diversità osservata appare analoga a quella riscontrata nei pianisti: diversi interessi, diversi modi di essere che corrispondono a diversi cervelli.
Ora supponiamo di tornare indietro nel tempo, a sessant’ anni fa. L’omosessualità era considerata una forma di psicopatologia. Questo avrebbe implicato che la diversità del cervello degli omosessuali fosse analoga a quella del paziente affetto da paralisi progressiva?
Cioè, può una diversità cerebrale essere neuropatologica o cessare di esserlo, soltanto come conseguenza di decisioni convenzionali su cosa è o non è psicopatologico?
In conclusione, sembra che l‘affermazione dell’editoriale di JAMA “The diseases that we treat are diseases of the brain” sia molto spesso frutto di un equivoco che non è sciolto dall’approccio biopsicosociale il quale, al contrario, lo nasconde.

Francesco Mancini,
Medico, specialista in Neuropsichiatria Infantile
Scuola di Psicoterapia Cognitiva, SPC srl, Roma
Università Guglielmo Marconi, Roma

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Come il worry e la rumination influenzano la nostra funzionalità cardiovascolare

Camilla Bongiovanni, OPEN SCHOOL MODENA

Worry e rumination sono processi generalmente definiti come pensieri perseverativi (Brosschot & Thayer, 2004), intendendo con questa espressione l’attivazione ripetuta o cronica della rappresentazione cognitiva di uno o più fattori di stress.

Solitamente sono coinvolti in molti stati emozionali negativi, come ansia e depressione, e hanno delle conseguenze sulla salute, essendo associati all’attività di molti sistemi fisiologici, tra cui quello cardiovascolare, e in particolare prolungando l’attivazione di questi ultimi (Brosschot & Thayer, 2004; Thayer & Siegel, 2002).

Brosschot, Gerin e Thayer (2006) hanno presentato la loro ipotesi sul pensiero perseverativo:

grafico pensiero perseverativo e funzionalità cardiovascolare

Figura 1. Modello di base dell’ipotesi del pensiero perseverativo come mediatore dello stress sul disturbo somatico. La differenza tra le due risposte allo stress riflette l’idea che la risposta prolungata ipotizzata duri molto più a lungo rispetto la risposta durante e immediatamente dopo un evento stressante

Il pensiero perseverativo, così come si manifesta nel worry e nella rumination, rappresenta una comune risposta allo stress, in particolare media le conseguenze dei fattori di stress sulla salute, prolungando l’attivazione fisiologica ed affettiva legata allo stress, sia prima che dopo l’esposizione a tali fattori (Figura 1). Sulla base dell’associazione evidenziata fra il worry, la rumination, lo stress anticipatorio e un’aumentata attività cardiovascolare, endocrina, immunologica e viscerale, è stato suggerito che il pensiero perseverativo possa agire direttamente sullo sviluppo dei disturbi somatici attraverso un’attivazione aumentata del sistema cardiovascolare, endocrino, immunitario e neuroviscerale. Quindi, questa modalità di pensiero prolunga le conseguenze degli stressors sotto forma rappresentativa, questo continua a sollecitare l’organismo, sottoponendo l’individuo ad un livello costante di vigilanza e quindi di attivazione moderata ma cronica. Da questa prospettiva è facile individuare nello stile di pensiero perseverativo un possibile fattore di coocorrenza del rischio cardiovascolare.

Inoltre, gli autori hanno sottolineato che la letteratura fino ad oggi ha dedicato l’attenzione esclusivamente alla fase di reattività allo stress, non considerando invece quella di recovery, ovvero il momento successivo la scomparsa dello stress. Questo viene fortemente criticato, alla luce dell’idea che soltanto un’attivazione prolungata o cronica possa portare alla malattia, che a sua volta può poi condurre alla nascita di disturbi organici. Recentemente si è iniziato a esaminare la fase di recovery e si è tentato di comprendere i fattori responsabili della persistenza dell’attivazione fisiologica durante questa fase. La rumination, ovvero il fatto di ripensare ad un’esperienza stressante, sembra che contribuisca, insieme ad altri fattori, al mancato ritorno ai livelli di baseline. Quindi, questa modalità di pensiero può portare ad una successiva riattivazione del sistema cardiovascolare ed influenzare, insieme ad altri fattori, la fase di recovery cardiovascolare.
Sulla base di questa ipotesi, Pieper, Brosschot, van der Leeden e Thayer (2010) hanno condotto uno studio sull’insorgenza del rischio cardiovascolare in soggetti incapaci di arrestare il pensiero perseverativo legato a situazioni ambientali. In particolare è stato dimostrato che il worry, in risposta ed eventi momentanei percepiti come stressanti, esercita degli effetti prolungati sull’attività del sistema cardiovascolare, che si possono riscontrare anche dopo qualche ora dall’evento.

Come agisce questo stile di pensiero sulla nostra attività cardiovascolare?
A partire dai pioneristici lavori di Friedman e Thayer (1998) e da quelli di Porges (1995), sono stati chiariti i rapporti fra attivazione del sistema nervoso autonomo e rischio cardiovascolare. Il modello teorico elaborato da Porges, chiamato “Teoria polivagale”, descrive lo schema che contribuisce alla regolazione, a partire dal nervo vago, di numerose attività viscerali incluse quelle cardiache. Questa teoria è stata introdotta per spiegare le differenti funzioni dei due nuclei del vago, chiamati “nucleo ambiguo” e ”nucleo dorsale motorio”. In particolare viene enfatizzata la prospettiva filogenetica e ipotizzato che l’organizzazione del tronco encefalico sia caratterizzata da un complesso vagale-ventrale che comprende il nucleo ambiguo collegato a processi quali l’attenzione, il movimento, l’emozione e la comunicazione. Il modello predice che la competizione fra nucleo ambiguo e nucleo motorio dorsale sia legata allo sviluppo di diversi stati patologici e comunque di numerosi livelli di rischio.

A partire da questa ipotesi generale, sono state sviluppate negli ultimi anni numerose ricerche centrate sul ruolo dell’alterazione di processi mentali superiori sul disturbo cardiovascolare.

Ad esempio, Sowden e Huffman (2009) hanno analizzato il ruolo di processi psicologici disadattavi nell’insorgenza e nell’aggravamento di patologie cardiovascolari. Gli autori sostengono che accanto ai tradizionali fattori di rischio cardiaco quali il fumo, l’ipertensione e l’obesità accettati in maniera consolidata, devono essere considerati anche espressioni sia psicopatologiche che di alterazione del processamento cognitivo ed emotivo di eventi ambientali e soprattutto di una esagerata preoccupazione per le attese di ciò che possa accadere nel prossimo futuro. Gli autori sottolineano inoltre che accanto ad un opportuno trattamento farmacologico basato sulla somministrazione di antidepressivi e benzodiazepine, appaia di particolare rilievo un trattamento psicologico di tipo cognitivo comportamentale privo tra l’altro di potenziali effetti collaterali.

La tematica è ripresa con particolare enfasi da Thayer e Lane (2009), i quali hanno costruito un modello di integrazione neuro viscerale nel quale un set di strutture neurali coinvolte nella regolazione cognitiva affettiva ed autonomica sono collegate con la Variabilità Cardiaca Interbattito e la performance cognitiva. Gli autori, utilizzando tecniche di neuro immagine, hanno dimostrato l’esistenza di strutture neurali che collegano il sistema nervoso centrale con la variabilità cardiaca interbattito negli umani. Le conclusioni degli autori dimostrano l’esistenza di un’importante relazione fra performance cognitive, variabilità cardiaca interbattito e funzioni neurali prefrontali, capaci di determinare importanti implicazioni sia per la salute fisica che per quella mentale.

A partire dai modelli di integrazione fra i sistemi sopra ricordati, si sono sviluppate numerose ricerche sia di tipo neuropsicologico che neuroendocrino, tutte finalizzate a descrivere attività di sincronizzazione/desincronizzazione dei sistemi neurali e viscerali come fattori eziologici di patologie o anche semplicemente di rischi di patologie.
Per quanto riguarda gli aspetti neuropsicologici, Fang, Huang e Tseng (2013) hanno dimostrato che rimuginare, attivando in particolare il ramo simpatico del sistema nervoso autonomo, determinerebbe una serie di sintomi capaci di interferire sulla funzionalità cardiovascolare.
Studi simili sono stati condotti sull’alterazione della pressione arteriosa e del disturbo gastroenterico (Mayer, Nabiloff, & Craig, 2006).

Inoltre, Tully, Cosh, e Baune, (2013) hanno riscontrato che esiste una letteratura sempre più vasta sull’associazione tra il worry e lo sviluppo della malattia coronarica, e che il legame tra il worry, il disturbo d’ansia generalizzato e i fattori di rischio della malattia coronarica (come la pressione sanguigna), insieme all’HRV (heart rate variability; variabilità cardiaca interbattito) sono i meccanismi principali di cardiopatogenesi in grado di influire sulla funzione cardiovascolare. In particolare, da molti studi emerge un’associazione tra worry e HRV diminuita, così come tra il disturbo d’ansia generalizzato e HRV più bassa, e ciò suggerisce una minore influenza del parasimpatico e una maggiore attività del simpatico.

Infine, rispetto agli aspetti neuroendocrini, Goldman-Mellor, Hamer e Steptoe (2012) hanno esaminato l’associazione fra le risposte del cortisolo a stressor psicologici indotti in laboratorio e la progressione della calcificazione nell’arteria coronaria, in soggetti sani. Lo stress psicosociale è uno dei possibili fattori di rischio per i disturbi coronarici. E’ stato suggerito che una disfunzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, di cui la reattività del cortisolo è un indice, possa rappresentare un possibile meccanismo attraverso cui lo stress influenza il rischio di disturbo coronarico. I risultati hanno infatti dimostrato tale associazione, in particolare tra un’ aumentata reattività del cortisolo allo stress e la progressione della calcificazione, supportando così l’idea alla base di questo studio.

Anche in un altro studio è stata esaminata l’associazione fra disagio psicologico, la risposta del cortisolo allo stress indotto in laboratorio e la calcificazione subclinica nell’arteria coronaria, in soggetti sani. Il disagio psicologico è infatti collegato al disturbo coronarico ed è stata nuovamente ipotizzata una disfunzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene come meccanismo alla base. Dai risultati emersi è stata confermata l’associazione fra disagio psicologico a lungo termine e una calcificazione severa nei soggetti più anziani, in particolare quei soggetti, sia con disagio psicologico che con un’aumentata risposta del cortisolo, sono a rischio di calcificazione severa (Seldenrijk, Hamer, Lahiri, Penninx, & Steptoe, 2012).

Concludendo, sulla base di tutte le ricerche esposte e dei risultati emersi è possibile confermare l’ipotesi che individua nello stile di pensiero di tipo perseverativo un fattore di co-occorenza del rischio cardiovascolare.
Infatti, tali modalità di pensiero rappresentano potenti fattori di attivazione dell’autonomo e di alterazione dei livelli di cortisolo, con importanti effetti a livello del funzionamento cardiovascolare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La comunicazione con il medico in un contesto di cura non tradizionale: un’analisi qualitativa di interviste a pazienti oncologici

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

La comunicazione con il medico in un contesto di cura non tradizionale: un’analisi qualitativa di interviste a pazienti oncologici

Autore: Claudia Rosetti (Università La Sapienza)

Abstract

Parallelamente alla continua evoluzione della disciplina medica come teoria e tecnica della conoscenza riguardante il funzionamento del corpo umano, il rapporto tra l’ammalato e il suo curante si è configurato nel tempo come rapporto in cui l’aspetto relazionale ed interpersonale, prima ancora che tecnico, costituisce una componente fondante la disciplina medica stessa.

 Considerando tali premesse, l’obiettivo della presente ricerca è  indagare il ruolo della comunicazione tra medico e paziente nello specifico ambito oncologico e, in particolare, indagare i bisogni comunicativi e relazionali rilevanti nell’interazione con il medico da parte di pazienti che si rivolgono ad una terapia alternativa alle cure tradizionali. Al fine di rilevare il punto di vista dei pazienti in relazione ai vissuti e alle esperienze di malattia, si è fatto ricorso ad una metodologia di tipo qualitativo, la quale ha compreso l’osservazione partecipante del contesto,  interviste ai pazienti e  intervista al medico, al fine di cogliere anche il punto di vista dello specialista cui i pazienti si rivolgono. Per l’analisi delle interviste ci si è riferiti alla prospettiva dell’Analisi della Corversazione (AC) e, in particolare, per quanto riguarda le analisi dei contenuti delle risposte degli intervistati, ci si è rifatti ai principi metodologici e alle risorse analitiche disponibili nell’Analisi del Discorso (AD). Lo studio ha permesso di identificare dei repertori relativi al ruolo e alle funzioni del medico, utili ad incoraggiare l’indagine , dal punto di vista dei pazienti, su cosa un medico può fare e comunicare al paziente.

English Abstract

With the development of medical discipline such as theory and technique about functioning of human body, the relationship between patient and physician is configured as a connection where the relational and interpersonal feature is a key component. Considering these assumptions, the purpose of this research was to investigate the role of the communication between patient and physician in oncology and, in particular, in a non-traditional care setting. In this research was chosen a qualitative methodology: participant observation of the context, interviews with patients and with physician. More specifically was chosen Conversation Analysis and Discourse Analysis. The survey identified repertories related to the role and tasks of physician.

Keyword: rapporto medico-paziente, bisogni comunicativi e relazionali, curare e prendersi cura, oncologia, cura alternativa.

 

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Identity Development and Knowledge Construction in the Dual Learning Model

 

In a system of school autonomy, educational institutions have to interpret cognitive needs, social breaks and cultural aspirations of the community in which school works; reason why, the construction of educational processes cannot happen without a trait d’union with the working environment.

The education and pedagogical system should completely reflect the contemporary society in which it is integrated, to ensure appropriateformative and socialization processes for younger generations.

Clause 4 of the Law n° 53, of the 28 March 2003, introduces, in Italy, a didactics option that provides the opportunity for students to gain experience in a real working environment. Therefore, school world starts to confer importance to the world of work, to planning and realise integrated pathways of concreate experiences (Fig1).

 

Figure 1_ Dual Learning Model
Figure 1

 

In Italy, Legislative Decree n° 77/2005, also establishes that the student, who has turned fifteen, can earn a vocational qualification; student can reach this title following a full-time school, or opting for an educational program that alternates school lessons and work experiences, in private or state companies.

Seeing as, education based on experience is necessary for the human being, to coherently adapt to his context, the dual training model becomes an opportunity for social, cultural and educational renewal, both in the high school and in the system of vocational training. Students, followed by business and school mentors, have the opportunity to perform work activities in the company, carrying out tasks related to their course of study. Dual training model, or, as it is defined in Italy, Alternanza scuola-lavoro, is regulated by the Legislative Decree n° 77/2005 (definition of general rules concerning work related learning) and by the D.P.R. (Presidential Decree) n° 87, 88, 89/2010 (Reorganization regulations about vocational schools, technical institutes and high schools) represents, therefore, the connection between school and the world of work; nevertheless, this work experience does not establish a business relationship between student and company.

Tacconi (2012) says that:

The encounter with the company represents an additional incentive for studying and scholastic commitment; it is a way of learning to find a job, through a strong and targeted professional preparation.

The dual training model is a support for pedagogical and didactics action, useful to promote motivation, research ability and for studied argument deepening.

In this sense, working reality,including the relationship between individuals, groups, tools and practice communities, gives to the adolescent that learn, the possibility to achieve different levels of expertise, which in turn influence his professional and social identity. Staying in a classroom and staying in a company represent for the student a formative moment for the construction of his identity, through the development of self-assessment competences, in relation to the experience done (Pozzi&Pocaterra, 2007).

The process of identity construction is characterized by the close connection between self-consciousness and social recognition made by the other, that, in the specific case of the dual training model, for the student is realized through the duty- participation dyad. Duty is the set of tasks and procedures that the student implements to perform his educational experience; participation, however, is the student’s ability to organize his work, including through the group interaction. It is clear that the synergy between duty and participation is the central idea, useful for collaboration and democratic participation (Prilleltensky& Nelson, 2000).

Dual learning model allows that activities planned by the school together with the company, will be assessed and certified as skills acquired by the student. In this sense, the labor market’s supply and demand proceed to an intersystemic construction, where work becomes means for the personal development, that remains the end (Bertagna, 2003). School and work together promote experiential learning (Kolb, 1984) in practices communities, that allow students to learn tools and strategies, useful to do a work of which they have not yet knowledge. (Fig. 2)

 

Figure 2_Dual Learning Model
Figure 2

 

Experiential learning is an approach, internationally known, that assumes experience as a crucial criterion for training. Dual training model, or job education, does not fosters only learning, but it offers a contribution to the community, in terms of well-trained human resources. Moreover, dual training model stimulates educational talents and excellences, promoting healthy competition. Cooley (1902) says that, the self-discovery and development is closely related to the interaction with the other; then it could say, as Vygotsky asserts, that we become ourselves through others, and this refers not only to the personality as a whole, but also in each function’s history. With the dual training model and the experiential learning, student builds meanings transforming the reflective observation in active experimentation. (Fig. 3)

 

Figure 3_Dual Learning Model
Figure 3

 

Thanks to the synergy between theory (at school) and practice (in a company), continuous processes of cognitive, learning and biopsychosocial transformation are born, in a shared dimension, where all are actors, protagonists and partial directors of the community learning process, as well as their own. In the dual training model, student reflecting on his own experience, develops forms of self-awareness training and lateral thinking, useful cognitive and social processes to become true knowledge worker.

 

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REFERENCES:

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