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La Terapia Gestalt nelle disfunzionalità di coppia

 

Questo articolo vuole, nella sua brevità e semplicità, proseguire in questo processo motivato e creativo, proponendo di applicare la terapia Gestaltica in un campo tecnicamente complesso, terapeuticamente impegnativo e umanamente coinvolgente come la terapia di coppia.

Introduzione

La terapia della Gestalt nel corso degli ultimi due decenni ha progressivamente integrato ulteriori e differenti costrutti teorici con conseguenti sviluppi dei suoi strumenti terapeutici, ampliando il tradizionale approccio individuale e di gruppo, vi è stata una crescita entro e oltre l’iniziale intuizione e cornice costruita da Fritz Perls (1951). Questo articolo vuole, nella sua brevità e semplicità, proseguire in questo processo motivato e creativo, proponendo di applicare la terapia Gestaltica in un campo tecnicamente complesso, terapeuticamente impegnativo e umanamente coinvolgente come la terapia di coppia.

Definizione teorico- clinica del setting

La tecnica Gestaltica ha come obiettivo e peculiarità tecnica di:

  • Permettere uno spazio d’incontro e di consapevolezza del piano emotivo, inteso come vissuto personale, intimo, profondo, irripetibile dell’individuo.
  • La verifica, ed eventuale, messa in discussione dei fondamenti e processi cognitivi dell’individuo alla luce delle sue concrete esperienze.
  • L’espressione e la comprensione – in una condizione protetta ed in una modalità specificatamente commisurata – del proprio vissuto, non soltanto attraverso il veicolo verbale.

Da questo è possibile evincere come, nel caso specifico della terapia di coppia, la tecnica Gestaltica offra un interessante spazio di manovra (Zinker, 1977).

Stili emotivi nella coppia

La coppia che si appresta a sperimentare un setting terapeutico presenta un vissuto emotivo molto variegato, che può essere suddiviso nei tipi (Nardone, 2010):

  • Depressivo/Aggressivo: predomina un ciclo emotivo riassumibile, in sostanza, nella modalità di tipo Frustrazione – Rabbia – Risentimento/Colpa. Questo ciclo, apparentemente chiuso, mina la capacità di riconoscere, incontrare ed attivare le risorse interne come anche verso le possibili risorse esterne. In questo caso l’evento disfuzionale che presenta la coppia ha funzione di problema/soluzione.
  • Ambivalente/Schizoide: predomina un ciclo emotivo rappresentabile nella modalità di tipo Manipolativa con un conseguente binomio richiesta/sfiducia, difesa/attacco, amore/odio. Il sentire l’emozione è considerato pericoloso e quindi vi è un meccanismo di auto-negazione e auto-mistificazione per cui il mondo interno emotivo è costantemente posto in una condizione di squalifica e tensione proiettando sul coniuge. In questo caso l’evento disfuzionale della coppia ha funzione di ridefinire, di volta in volta, i confini interni ed esterni nonché il potere individuale nella coppia stessa.
  • Ansiogeno/Ossessivo: predomina un ciclo emotivo rappresentabile nell’interazione di una modalità sia Depressa che Manipolativa e, nel comportamento manifesto, il binomio diviene: controllo/resistenza cui segue limite/collusione. Il bisogno di controllo verso l’esterno poggia su un vissuto di totale assenza di risorse – sia esse interne che esterne – provocando un effetto ansiogeno esponenziale, ove è richiesto progressivamente più controllo sino ad un evento risolutivo paradossale che evoca uno stallo nella quale nessun controllo è il massimo controllo. A questo punto, l’evento disfuzionale della coppia, è come una fonte di sedazione, come fonte di ristrutturatore interno. A questo vi è un ulteriore aspetto da aggiungere, ovvero che l’evento disfuzionale diviene capitale nell’economia della coppia tanto da divenirne l’unico tema possibile, tanto da essere poi percepito come risoluzione definitiva verso l’ansia relazionale.

I temi esistenziali della coppia

La coppia può presentare un variegato elenco di temi e situazioni, ma ognuno di questi è riconducibile a due elementari tematiche esistenziali:

  • Ossessivo/Aggressivo: i processi cognitivi e i loro contenuti hanno come presupposto funzionale e caratteristica saliente una ricorrenza e continuità molto serrata ed ossessiva che, in questo lavoro specifico e nella terapia di coppia, definirei come mind looping. L’obiettivo strategico di questi contenuti, nell’economia comunicativa della coppia, è la coazione a ripetere di concetti ritenuti aperti o non pienamente soddisfatti e l’elemento abbinato a questi processi e contenuti è l’aspetto aggressivo implicito.
  • Paradossale/Schizoide: le affermazioni fatte all’interno (verso se stessi e verso il proprio vissuto relazionale) e all’esterno (verso la realtà e le risorse disponibili) seguono una logica paradossale, nella quale la definizione delle cose e i rapporti tra le cose stesse riconducono ad uno schema rappresentabile come doppio legame e necessità di agire un potere all’interno e all’esterno dello spazio/coppia.

Abbiamo sempre e comunque due aspetti salienti da dover considerare, ossia una capacità comunicativa ed espressiva specifica:

  • Verbale: la comunicazione schiettamente verbale risente degli aspetti strutturali e funzionali che nella coppia sono sperimentati, di volta in volta, dai partners sia come egosintonici che egodistonici rispetto alle reazioni dell’altro. In tutti e due i casi abbiamo, quindi, una relativa verbalizzazione dei pensieri e un’ambivalenza fortissima nel definire e comunicare i sentimenti e le emozioni, sia proprie che altrui.
  • Non verbale: sono marcati gli atteggiamenti di chiusura estrema o di aperta sfida reattiva che si determinano in una vera e propria ristrutturazione sia degli atteggiamenti, sia della ripartizione degli spazi/potere.

Modalità di resistenza al contatto nella coppia disfunzionale

Da un punto di vista strettamente legato alla problematica della resistenza al contatto in Gestalt (Naranjo, 2009), la coppia disfunzionale si muove all’interno di uno spazio mai veramente definito e mai interamente vissuto, che comprende quattro aspetti distinti:

  • lo spazio d’intimità
  • lo spazio sociale
  • lo spazio della trasgressione
  • lo spazio della collusione

La coppia disfunzionale non vive in modo consapevole nessuno di questi spazi o, per meglio dire, il vissuto è presente ma è distorto e condizionato dai presupposti, dalle tematiche e dai giochi impliciti nella coppia stessa. Non riuscendo a vivere di volta in volta in modo funzionale questi diversi spazi, la coppia vive l’evento disfunzionale e problematico come unica realtà capace di concretizzare un qualche tipo di vissuto ed idea futura di coppia. In questo caso definiamo l’elemento disfunzionale come il mediatore e driver di ogni possibile vissuto emotivo e cognitivo e di ogni possibile atto sia esso agito che mancato.

La coppia disfunzionale è un tipo di evenienza clinica complessa, proteiforme e pluriforme che mantiene, sempre e comunque, delle precise costanti. Queste costanti sono gli elementi e i temi che esplicano la disfunzionalità relazionale della coppia stessa; l’evento, o gli eventi, disfunzionali non sono da considerarsi come un punto di inizio della problematica sistemico/relazionale, ma sono invece un punto di arrivo e di concretizzazione di tutta una serie di vissuti e fattori che hanno determinato come risoluzione di compromesso l’evento disfunzionale che è, al contempo, l’aspetto problematico, ma anche l’aspetto risolutorio di un processo disfunzionale alla base.

In questo senso la terapia della Gestalt aiuta a identificare tre processi salienti di contatto interno ed esterno della coppia disfunzionale:

  • Retroflessione: negazione della problematica disfunzionale o sua totale presa in carico da parte di un solo elemento della coppia. L’elemento strategico preponderante è la squalifica dell’elemento responsabilità e della contrattazione delle risorse disponibili.
  • Deflessione: il focus problematico e disfunzionale è riferito ad elementi che volutamente esulano dalla coppia. L’elemento strategico preponderante è la mistificazione delle responsabilità e delle risorse.
  • Confluenza: l’elemento problematico è posto in una modalità collusiva estrema. L’elemento strategico preponderante è l’aggressività come paradossale assunzione di responsabilità ma inutilizzo delle risorse da contrattare.

Metodo

Prendiamo ad esempio una coppia con problematica di etilismo. Sia che la coppia presenti tutti e due gli elementi come problematici o anche uno solamente, comunque vi sono delle evidenze ricorrenti che sono specifiche di questo sistema relazionale.

La coppia è un sistema a tre (Minuchin, 1974). In questo sistema l’Io incontra e sperimenta un Tu, in questo incontrare e sperimentare l’altro l’individuo percepisce, sperimenta, proietta, agisce/reagisce in un nuovo livello che è ben di più della semplice somma delle parti Io /Tu e tale livello nella sua qualità e quantità prende il nome di Noi.

L’Io che incontra il Tu lo fa a tutti i livelli del proprio essere accorpando ognuno dei seguenti sistemi integrati:

  • Fisiologico-Corporeo
  • Cognitivo-Comportamentale
  • Ideativo-Emotivo
  • Sistemico Relazionale

coinvolgendo, in modo diretto o indiretto, conscio o inconscio, tutto ciò che riguarda l’aspetto pregresso evolutivo dell’individuo stesso: i suoi condizionamenti; le distorsioni più o meno evidenti della personalità; i piccoli o grandi disturbi di personalità; i processi di inferenza sulla Realtà Presente e Futura; la manipolazione e l’interazione de facto di se stesso con l’ambiente a breve e lungo termine.

Se l’Io porta con sé tutto questo, la stessa cosa compie il Tu. Il Noi allora non è solamente un contenitore ove vanno a collocarsi ed agire le istanze e i processi individuali ma, paradossalmente, assume la funzione di un terzo elemento che è ben più della semplice somma delle parti, come dire: 1+1= 3, dove 1 e 1 stanno per un Io e per un Tu che interagiscono sia a livello proiettivo che concreto e dove 3 sta per un Noi e tutto ciò che concerne l’esperienza della coppia.

Questo 3, il Noi, è da considerarsi come un nuovo elemento, definito con caratteristiche strutturali e processuali assolutamente nuove ed impreviste. Il Noi va inteso come sinergia di strutture e di tratti di personalità, quindi non può essere considerato come semplice somma di elementi, tanto meno è possibile pensare agli elementi costituenti come elementi a loro volta linearmente riconducibili ai separati contesti di Io e Tu.

Il Noi come una struttura che, per la sua complessità e funzionalità, obbliga ad un processo irreversibile o meglio parzialmente reversibile: dall’Io al Tu sino al Noi, ma da Noi all’Io ed al Tu si viene a perdere qualcosa, il processo inverso è funzionalmente carente. Prendete come esempio generico il processo di combustione in natura.

Il metodo di contatto e di lavoro con la coppia, quindi, prevede di:

  • Individuare quali sono i meccanismi di resistenza al contatto, chi li attua, quando e come.
  • Individuare quali sono, specularmente, i meccanismi di contatto, chi li attua, quando e come.
  • Come, attraverso il linguaggio non verbale ed il vissuto corporeo, è ulteriormente espresso e rappresentato il reciproco vissuto.
  • I giochi di potere, i vantaggi primari e secondari, impliciti nelle modalità di resistenza al contatto e nelle modalità di contatto vere e proprie.
  • Il ruolo eventuale dei figli – sia essi reali e presenti nella coppia e sia immaginativi in un futuro progetto – e la loro ripartizione sia implicita che esplicita nella dinamica di coppia.
  • Il rispettivo imprinting della famiglia di appartenenza e quindi: la storia famigliare, i temi esistenziali prevalenti nella famiglia di origine.
  • L’interazione reciproca tra le famiglie di origine – se questo evento accade nella realtà o anche se è ad un livello immaginativo.
  • Chi altro c’è nella stanza: le produzioni fantasmatiche psicodinamiche consce ed inconsce, che ognuno dei due termini della coppia porta con sé e che agisce nel setting: Produzioni fantasmatiche su di sé; Produzioni fantasmatiche sul compagno\a; Produzioni fantasmatiche sul terapeuta o la coppia di terapeuti; Le aspettative verso la terapia e verso una vita senza l’elemento alcool.

Tecnica

Nella terapia di coppia il termine terzo (Minuchin, 1974) è quanto di più evidente da riconoscere e, contemporaneamente, difficile da gestire. Ogni coppia che si reca da un consulente specializzato porta con sé ed attua il proprio terzo elemento e di più ancora questo fanno le coppie dove uno o entrambi i termini siano legati ad un evento disfunzionale o ad un aspetto di un preciso evento o sequela di eventi disfunzionali.

Questo perché già di per sé il Noi è un terzo elemento risultante da un sistema di relazione. Questo Noi si presta facilmente ad essere il contenitore non solo dei processi creativi e sani degli individui, ma diviene il contenitore preferenziale e l’agente primario anche di tutto ciò che concerne la patologia relazionale della coppia.

Come dire che è il Terzo che assume su di sé e contemporaneamente determina le regole, la qualità e l’intensità delle relazioni per poi retroattivamente determinare le regole, la qualità e l’intensità delle relazioni di ambedue i singoli individui. Stando così le cose, non è possibile definire il problema disfunzionale di una coppia come specifico di un termine solo e relativo per l’altro, ma ciò riguarda la coppia come sistema ed ambedue gli individui come reciprocamente interagenti.

Vanno considerati in modo specifico e motivato ambedue i termini della coppia come disfunzionali distinguendo in:

  • Disfunzionale Diretto: l’individuo che agisce attivamente la problematica.
  • Disfunzionale Indiretto: l’individuo che è agito passivamente dall’altrui problematica ovvero il compagno\a.

Da un punto di vista strettamente analitico rivediamo la consueta relazione Sadico-Masochista (Fromm, 1973) ove sia l’uno che l’altro agiscono, in turni paradossalmente già ben stabiliti, un comportamento di volta in volta aggressivo-passivo.

  • Per il disfunzionale diretto è l’aggressività cognitivo-emotiva delle proprie frustrazioni interne elaborate, poi, esternamente nella realtà in una aggressività egosintonica con ripercussioni dirette verso l’esterno.
  • Per il disfunzionale indiretto è la passività cognitivo-emotiva delle proprie frustrazioni e di impotenza innanzi al comportamento del compagno/a.

Nell’aggressività dell’etilista attivo, rimanendo sull’esempio precedente, vi è tutta la passività di fondo di chi agisce schemi comportamentali inadeguati all’elaborazione del disagio esistenziale e, di contro, nella passività del compagno/a chiaramente, identifichiamo, l’aggressività di difesa tipica di chi deve agire primariamente non tanto verso l’individuo in sé, ma verso il comportamento e le conseguenze del comportamento che l’altro significa. Il quadro è notevolmente complesso, ma è proprio ora che l’elemento terzo – il Noi – entra così chiaramente.

Tutto questo non avviene a carico esclusivo di un Io o di un Tu, ma avviene nel sistema relazionale della coppia, che è struttura e contesto significativo che agisce ed è agita dalla disfunzionale stessa. E ciò avviene in modo così forte e cementato che il paradosso della coppia disfunzionale è il seguente: avrebbe senso di esistere questa coppia, così come essa è, rimosso il problema che la assilla?

Ovvero: è la relazione di coppia ad essere patologica e la problematica presentata è solamente l’ennesimo approdo di un processo degenerativo a livello relazionale, o è l’elemento problematico contingente, con la sua capacità destabilizzante e demolitrice, a disintegrare una relazione invece potenzialmente sana?

Quindi la tecnica terapeutica avrà come obiettivi primari:

  • Incontrare e valutare l’aggressività e la rabbia presente nei rispettivi individui.
  • Incontrare e valutare la passività – la resistenza al cambiamento – e la frustrazione presente nei rispettivi individui.

Successivamente, se possibile, incentrare il lavoro sulla modalità di coppia:

  • Presenza e gestione delle responsabilità di coppia.
  • Valutazione e ricorso alle risorse interne ed esterne della coppia stessa.
  • Livello di manipolazione e gestione del potere presente nella coppia.

Un altro passo sarà valutare il senso della coppia, ovvero:

  • Come questa coppia è insieme e come è quando non si è insieme.
  • Quando questa coppia è insieme e quando non è insieme.
  • Quale obiettivo ha questa coppia nel rimanere insieme o nello sciogliersi..
  • Con chi si sta in questa coppia.

Vi è un doppio binario terapeutico da seguire e a cui attenersi: le emozioni e i concetti che individualmente vengono vissuti ed esperiti all’interno della coppia.

La tecnica Gestaltica è particolarmente utile in questo contesto poiché, pur non negando il valore profondo del passato come esperienza ed identità, centra l’individuo nel suo presente reale e sulle sue possibili risorse rispetto ad una problematica che rappresenta sofferenza e che provoca un blocco evolutivo.

Fondamentale sarà una linea di colloquio tesa a restituire alla coppia, e non tanto al singolo esclusivo individuo, le idee, le emozioni e gli aspetti non verbali che di volta in volta si presenteranno. In questo modo il terapeuta potrà:

  • Essere in una condizione di ascolto attivo significativo per sé e per la coppia.
  • Agire da terzo terapeutico con funzione di agente attivo e suppletivo nell’esame di realtà.
  • Evitare il proprio coinvolgimento, anche involontario, nel gioco delle parti o in assetti di potere.
  • Monitorare e facilitare, come Io ausiliario, l’espressione e gli eventuali blocchi nei livelli cognitivo-emotivo e corporeo.
  • Agire sulla coppia in una vera e propria terapia di coppia e non, erroneamente, come in una terapia individuale in coppia: agendo sul sistema in modo globale e completo, proteggendo, salvaguardando e valutando attentamente le risorse e le resistenze al cambiamento dei due individui.

 

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La comunicazione terapeutica: gli strumenti e le strategie per renderla efficace

La comunicazione connota le relazioni fra gli esseri umani. Il bisogno di comunicare è frutto, secondo Habermas, dell’agire sociale. In esso, un posto di rilievo lo occupa l’interazione fra curante e curato, che si concretizza nella comunicazione terapeutica. Esistono strumenti – strategie che la implementano e la rendono più efficace.

Intelligenze multiple, agire relazionale e pragmatica della comunicazione umana

Ogni essere umano è caratterizzato dal possesso di intelligenze multiple (Gardner, 1994). Fra queste, si trova l’intelligenza interpersonale, ovvero quella dimensione cognitiva che nel rapporto con l’alterità si impianta e si ipertrofizza. La comunicazione connota le relazioni fra gli esseri umani. Secondo Habermas (1997) il bisogno di comunicare nasce dal fatto che l’agire umano è sempre frutto di una coordinazione sociale, cioè si comunica per direzionare l’agire, conseguenza di interazioni sociali (agire comunicativo o relazionale).

La pragmatica della comunicazione umana, attraverso gli assiomi che governano il comunicare, ha stabilito che l’uomo non può non comunicare, anche il silenzio che si instaura in una relazione è frequentemente il prodotto di un’intenzionalità comunicativa. In altri termini, il silenzio trasmette il desiderio di non comunicare (Watzlawick, Beavin e Jackson, 1971, pag.41). D’altra parte, l’uomo parla continuamente. Lo fa esternando le sue parole ad un interlocutore, lo fa con se stesso attraverso il self – talk o linguaggio interiore. In entrambe le situazioni, dal punto di vista neuroscientifico, sono attivati gli stessi meccanismi neuronali, come dimostra una recente ricerca (Magrassi et al., 2015).

La teoria dell’informazione

Nell’ambito della teoria dell’informazione, il comunicare è il risultato di una relazione che si instaura fra emittente e ricevente. In pratica, l’emittente invia delle informazioni al ricevente, attraverso un canale (aria, ecc.). Laddove queste informazioni sono espresse in un codice conosciuto da entrambi diventano dei messaggi, che hanno la capacità di influire sui partecipanti alla comunicazione. [blockquote style=”1″]Quanto maggiore è la condivisione di codici (linguistico, affettivo, cognitivo) tanto maggiore è la possibilità di una comprensione del messaggio e di una risposta adeguata[/blockquote] (de Mennato, 1998, pag. 98).

Mappa cognitiva, sistema di significazione, identità culturale

Ogni persona percepisce la realtà in base alla mappa cognitiva che possiede. È proprio questo sistema di significazione che orienta la comunicazione, attraverso un’attenzione selettiva per quello che si sta ascoltando, per quello che dice l’interlocutore. In altre parole, è la mappa cognitiva che interviene nella selezione e nell’elaborazione dell’informazione. La mappa concettuale costituisce l’identità culturale dell’individuo. Solitamente <i soggetti…comunicano con minore tasso di fraintendimento nel momento in cui riconoscono reciprocamente l’appartenenza alla stessa identità culturale> (de Mennato, op. cit., pag. 99).

Comunicazione, relazione e contesto

La comunicazione fra gli esseri umani è sempre inserita nell’ambito di una relazione ed è proprio questo aspetto relazionale che la contraddistingue e la ipoteca, come affermato dal secondo assioma della pragmatica della comunicazione umana (Watzlawick, Beavin e Jackson, op. cit., pag. 44). In altre parole, laddove ci si sente a proprio agio nel rapporto con l’altro, la comunicazione diventa fluida, cosa che non succede in una situazione di disagio. In pratica,

[blockquote style=”1″]ogni atto comunicativo…non è comprensibile al di fuori del proprio contesto e della sequenza di atti comunicativi all’interno dei quali si colloca[/blockquote] (de Mennato, op. cit., pag. 101).

Le nostre conversazioni, il più delle volte, hanno come argomento principale noi stessi e il nostro mondo. È un modo per consolidare i legami sociali, attraverso la condivisione delle soggettività. Sembra che parlare di sé obbedisca ad un bisogno primordiale dell’essere umano. Infatti, una ricerca compiuta da Tamir e Mitchell della Harvard University ha dimostrato che quasi la metà delle nostre conversazioni ha per oggetto i vissuti relazionali, sia quelli che sperimentiamo nel rapporto con noi stessi che con l’alterità. I ricercatori paragonano questo bisogno, alla luce delle attivazioni cerebrali prodotte, al bisogno di mangiare. Di fatto, entrambi i bisogni incrementano l’attività del sistema dopaminergico mesolimbico (Tamir e Mitchell, 2012).

L’implementazione della comunicazione terapeutica

Alla luce dei costrutti delineati, la comunicazione terapeutica ha il paradigma fondante nella relazione che si instaura fra curante e curato. In altri termini, è proprio questa interazione che ipoteca al positivo o al negativo il comunicare. La comunicazione terapeutica si implementa attraverso alcuni strumenti e strategie, quali:
– l’essere il più concreti possibile per evitare fraintendimenti;
– mettersi sempre nell’ottica di comunicare con piuttosto che contro;
– “considerare ogni interlocutore degno di una storia che non possiamo conoscere se non è lui a narrarla” (de Mennato, op. cit., pag. 103);
– debellare ogni analfabetismo emozionale, ovvero essere coscienti delle emozioni provate e di quanto esse influiscono sui processi comunicativi (Contini, 1997).
– saper superare il proprio egocentrismo cognitivo/affettivo, ossia “decentrarsi” sull’altro per capire il suo messaggio (de Mennato, op. cit., pag. 106);
– implementare le abilità empatiche, cioè quelle competenze che ci permettono di “sentire il mondo personale” del nostro interlocutore, con l’obiettivo di capire il suo valore e il significato (Rogers, 1970, pag. 57).

 

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La comunicazione emotiva: un ponte tra linguaggio e musica

 

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Credenze autocriticiste: la tecnica Directed Abstraction può modificare l’ idea negativa di noi stessi

FLASH NEWS

Faticoso quanto vero il fenomeno per cui le persone che hanno credenze negative su di sé mantengono- quasi involontariamente- tali assunti pessimistici a dispetto di contrarie evidenze concrete. In un nuovo articolo viene descritta una tecnica definita Directed Abstraction che può aiutare nel cambiamento delle proprie credenze autocriticiste.

Faticoso quanto vero il fenomeno per cui le persone che hanno credenze negative su di sé mantengono- quasi involontariamente- tali assunti pessimistici a dispetto di contrarie evidenze concrete: è un deficit di generalizzazione del successo, da un singolo evento positivo è difficile generalizzare a un tratto stabile della propria persona. E’ frequente inoltre generalizzare e legare gli effetti di una prestazione negativa a tratti stabili del sé e del valore personale.

In un nuovo articolo viene descritta una tecnica definita Directed Abstraction che può aiutare nel cambiamento delle proprie credenze autocriticiste.

In un primo studio i partecipanti dovevano stimare il numero di puntini proiettati su uno schermo; in seguito venivano forniti loro dei feedback estremamente positivi sulle loro performance, non sempre aderenti alle reale performance ma comunque convincenti e realistici. In seguito gli studenti sono stati divisi in due gruppi:

  • ad alcuni è stato chiesto di spiegare in che modo hanno portato a termine il compito, condizione che mantiene le credenze a un livello concreto e specifico (il come);
  • ad altri veniva richiesto di completare la frase Sono stato in grado di eseguire bene il compito perché sono…., condizione che stimola l’astrazione delle credenze relative al sé (il perché)

Secondo i risultati la condizione in cui si stimola l’astrazione delle credenze partendo da un successo (o evento positivo) darebbe particolare beneficio – che cioè si traduce in una maggiore autostima – proprio a quei partecipanti con delle credenze negative e pessimiste su sé stessi.

Similmente lo stesso trend di risultati si mantiene anche in un secondo esperimento in cui i soggetti sono sottoposti a public speaking.

Questa semplice tecnica, utilizzata frequentemente secondo diverse declinazioni in psicoterapia, trova un piacevole riscontro empirico in questo studio su campione non patologico.

 

 

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La profezia che si auto-avvera – Introduzione alla Psicologia Nr.09

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Manca un’adeguata assistenza psicologica ai detenuti nelle carceri

Caos carceri, Aupi denuncia: dieci minuti di assistenza psicologica all’anno ai detenuti, 1500 casi di tentato suicidio, agenti penitenziari in difficoltà, “esperti” esterni chiamati a lavorare per poche ore a settimana. 

[blockquote style=”1″]Ci sono 1500 casi di tentato suicidio all’anno all’interno dei penitenziari italiani. Molti finiscono bene, perché si riesce a intervenire in tempo. Altri, come dimostra la cronaca di questi giorni, purtroppo, hanno un tragico epilogo. Non possiamo tacere di fronte a questa situazione perchè coinvolge anche noi psicologi.[/blockquote] Così il segretario generale di AUPI (Associazione Unitaria Psicologi Italiani), Mario Sellini, sui due suicidi a distanza di poche ore nel carcere romano di Regina Coeli.

[blockquote style=”1″]Nessuno sa che i detenuti hanno mediamente dieci minuti di assistenza psicologica all’anno. Questo perché il Ministero della Giustizia non ha previsto all’interno delle strutture penitenziarie il riconoscimento di questa professione. In pratica, nelle carceri lavorano poche centinaia di cosiddetti “esperti”, personale esterno che ha un contratto di poche ore mensili e, dunque, non è nelle condizioni di poter fare assistenza psicologica. E oltre il danno la beffa: due anni fa il Ministero ha diramato una circolare dove faceva sapere che non venivano rinnovati gli incarichi dei vecchi “esperti”, per lasciare entrare nuove professionalità, con pochissima esperienza e impreparati a lavorare in un luogo tanto problematico.[/blockquote] continua Sellini.

Ma c’è un altro dato che fa riflettere e riguarda le condizioni di lavoro degli agenti penitenziari.

[blockquote style=”1″]Noi vogliamo dare sostegno agli agenti di polizia penitenziaria perché il personale è stato ridotto del 20 per cento e i turni sono massacranti. Oltre al fatto che trovarsi di fronte ad un suicidio mina la stabilità psicologica anche di queste persone che dovrebbero svolgere il proprio lavoro in condizioni appropriate, considerata la delicatezza del settore in cui operano[/blockquote] conclude Sellini.

 

Angela Corica
Ufficio stampa AUPI
333 9892161

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Pazzia o delinquenza: cosa si nasconde dietro a un crimine?

Inside Out: la psicoeducazione al cinema nel nuovo lungometraggio Pixar

 

Quest’anno la Pixar Animation Studios porta al cinema un vero e proprio laboratorio di psicoeducazione sulle emozioni, per insegnare simpaticamente a tutti come esse guidano i nostri agiti quotidiani.

Presa positivamente dalla Walt Disney Pictures, che ne promuove la distribuzione, l’idea prende certamente le mosse dal crescente bisogno di formare i bambini, oltre che alle materie della scuola, anche a quelle della vita, sperando in una crescita interiore che possa favorire uno sviluppo più sano. Non sono pochi nel mondo infatti gli istituti che hanno già preso seriamente la cosa, inserendo laboratori psicoeducativi all’interno dei propri programmi, numerose anche le ricerche a sostegno degli effetti positivi che una tale prospettiva possa apportare, e dunque benvenuto a questo simpatico lavoro che vedremo prossimamente nei cinema italiani.

Protagoniste sono le cinque emozioni primarie: gioia, tristezza, rabbia, paura e disgusto. Esse sono personificate da simpatici personaggi che vivono ovviamente nel cervello della giovane Riley (la protagonista reale) e delle persone che interagiscono con lei, e ne guidano le interazioni sociali. In questi apparentemente semplicissimi elementi si rintraccia già un atto psicoeducativo certamente non da poco.

È infatti riconosciuto che alla base di molti disturbi ansiosi c’è spesso un basso livello di metacognizione, e dunque un mancato riconoscimento del legame tra emozioni e azioni, o meglio tra emozioni e loro correlato fisiologico. Ecco perché non è certamente da poco portare al cinema, in un formato così appetibile, divertente e facilmente comprensibile, un film che ne insegni le basi. Così, allo stesso modo come farebbe un laboratorio sulle emozioni, il nuovo film della Pixar insegna molto più di quanto sembra, perché quello che porteranno a casa gli spettatori, non sarà solo una bella morale, ma un vero e proprio effetto terapeutico.

Punti di forza del film a mio avviso sono certamente i personaggi che rappresentano le emozioni. Fatti di tratti semplici ma che rappresentano perfettamente, nella loro fisionomia, gli stati d’animo di cui sono protagonisti. Essi esaltano ironicamente e a ritmo calzante le cinque emozioni, permettendo all’osservatore di riconoscerle facilmente ogni qualvolta esse si presentano; anche questo è un aiuto certamente basilare, nell’ottica psicoeducativa di cui parlavamo. Dunque davvero complimenti agli ideatori di questo interessantissimo lavoro, che potrà essere utilizzato certamente anche in contesti educativi, laddove esistano progetti scolastici o extrascolastici a riguardo.

TRAILER:

 

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L’ABC delle mie emozioni: programma di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il modello REBT (2014) – Recensione

Prevenzione dello stupro: attuato un programma nei college canadesi

Con la partecipazione di studenti frequentanti 3 college canadesi, è stato implementato un programma di prevenzione dello stupro.

Stupri e violenze sessuali che vedono le donne come vittime preferite sono purtroppo argomenti e notizie di cronaca all’ordine del giorno. Alcune di queste violenze è stato dimostrato che si consumano presso i college frequentati da giovani ragazzi: dalle stime emerge come una donna su 5 sia stata vittima di violenze nei college e le vittime segnalate siano spesso studentesse del primo anno.

Per questo, Charlene Y. Senn, autrice di questo studio canadese e psicologa sociale presso l’Università di Winsor, ha pianificato questo programma di prevenzione che ha coinvolto studenti del primo anno di 3 college canadesi.

Lo studio sembra aver riscontrato numerose resistenze da parte degli studenti; tuttavia, si sostiene essere stato un primo tentativo per sensibilizzare gli studenti all’argomento. Durante l’esperimento sono state insegnate delle strategie per proteggere se stessi ed evitare di diventare facilmente preda di violenze.

Charlene Y. Senn, the lead author of the Canadian study and a social psychologist at the University of Windsor, did not disagree. “It gives women the knowledge and skills they need right now, but the long-term solution is to reduce their need to defend themselves,” said Dr. Senn, who also supervises a campus bystander program.

College Rape Prevention Program Proves a Rare SuccessConsigliato dalla Redazione

Immagine: Fotolia_76240962_prevenzione dello stupro: attuato un programma di prevenzione presso college canadesi
A program that trained first-year female college students to avoid rape substantially lowered their risk of being sexually assaulted, a rare success against a problem that has been resistant to many prevention efforts, researchers reported Wednesday. (…)

Tratto da: New York Times

 

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La realtà virtuale in ambito clinico – Psicoterapia

Chiara Rotasperti – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Milano

Gli ambienti ricreati mediante realtà virtuale rappresentano un ulteriore contesto di interazione sociale grazie al quale si rende possibile per l’utente sperimentare emozioni, azioni, mettersi in gioco con le proprie paure, le difficoltà, i comportamenti disfunzionali, facendo così emergere, nel contesto protetto di un laboratorio sperimentale, il materiale cognitivo che ne sta alla base.

Sono i primi anni ’90 quando la Realtà Virtuale inizia ad affacciarsi nel mondo della psicologia. Dopo i primi lavori base di ricerca, che per molti aspetti furono veri e propri tentativi pionieristici nella costruzione di nuove strade o poco più che stretti sentieri sconnessi, si iniziarono ad intravedere le interessanti possibilità di sviluppo di questo medium comunicativo nell’ambito della psicologia clinica.

Prese così vita una piccola comunità scientifica, caratterizzata da ricercatori di diversa origine geografica e culturale, ma tutti accomunati dalla curiosità verso ciò che man mano si rivelava sempre più uno strumento potenzialmente utile anche in campo psicologico.

Da allora sono stati fatti passi da gigante in quella e in altre direzioni: gli ambienti ricreati mediante le nuove tecnologie della realtà virtuale rappresentano un ulteriore contesto di interazione sociale grazie al quale si rende possibile per l’utente sperimentare emozioni, azioni, mettersi in gioco con le proprie paure, le difficoltà, i comportamenti disfunzionali, facendo così emergere, nel contesto protetto di un laboratorio sperimentale, il materiale cognitivo che ne sta alla base.

Cosa è virtuale?  Trasformazione da una modalità dell’essere a un’altra risponde Pierre Lévy (Lévy, 1995), cartografo della mappa del virtuale nel suo libro Qu’est-ce que le virtuel? del 1995 e prosegue dicendo: uno dei possibili modi di essere, contrapponibile non alla realtà ma alla attualità. Sì, perché Levy contrappone virtuale ad attuale e possibile a reale, definendole modalità dell’essere contemporaneamente presenti.

Possibile e virtuale hanno chiaramente un tratto in comune, ed è il motivo per cui spesso vengono confusi: sono entrambi latenti, non manifesti. Il reale e l’attuale invece sono entrambi presenti, manifesti.

Il virtuale quindi, visto con gli occhi di Levy, non è affatto il contrario del reale, ma:

un modo di essere fecondo e possente, che concede margine ai processi di creazione, schiude prospettive future, scava pozzi di senso al di sotto della piattezza della presenza fisica immediata.

Michel Serres (Serres, 1994), nel suo libro Atlas, descrive il tema del virtuale come fuori dal ci, fuori dall’esser-ci. Essere quindi svincolati da qualsiasi ci, per esempio:

Dove ha luogo una conversazione telefonica? Dove è una comunità virtuale? Essa vive senza un vero e proprio luogo di riferimento fisico, risiedendo ovunque si trovino i suoi membri erratici e quindi.. in nessun luogo.

Ciononostante il virtuale non può dirsi non reale. Sebbene non si sappia dove, la conversazione telefonica ha luogo, la comunità virtuale esiste, c’è. Ecco il fuori dal ci di cui parla Serres. Pensiamo ad una telefonata: il telefono separa la voce dal corpo fisico e la trasmette a distanza. Il mio corpo fisico è qui ma il mio corpo sonoro si sdoppia rendendosi presente contemporaneamente qui e altrove. Virtualizzandosi quindi il corpo si moltiplica, allo stesso modo nel quale i potenti strumenti diagnostici a disposizione della medicina (pensiamo a radiografie, risonanze magnetiche, TAC..) è come se aggiungessero strati sotto il nostro derma rendendoli visibili. Potremmo dire che hanno creato altri strati, derma nascosti, aree insospettate che emergono dal fondo dell’organismo. Ogni nuovo strumento, svelando un tipo di pelle, aggiunge un corpo visibile a quello attuale. Virtuale? Reale? Ecco perché questi due significati non sono sovrapponibili.

Non sempre la virtualizzazione è legata a uno scomparire, ma nei casi riportati finora, potremmo, al contrario parlare di una materializzazione: svincolando ciò che era solo qui e ora, essa apre nuovi spazi e altre velocità.

Come può, la realtà virtuale essere utilizzata in ambito psicoterapico? Quali sono gli aspetti che potrebbero venirci in aiuto, secondo la logica per la quale la tecnica propone e l’uomo dispone?

La realtà virtuale è uno strumento il cui apporto principale può essere cercato nell’importanza che in psicoterapia viene data all’immaginazione e alla memoria, aspetti entrambi che dipendono molto dal soggetto che ci potremmo trovare di fronte: Quanto è in grado di immaginare? Di ricordare? Quanto è disposto a farlo? E a rifarlo nella seduta dopo? E in quella dopo ancora?. Tutte domande e problematiche nelle quali la realtà virtuale ci viene in aiuto, con la sua flessibilità, con l’enorme varietà di modalità di intervento su svariati tipi di disagio psicologico, con la possibilità di strutturare stimoli controllati e contemporaneamente di monitorare le possibili risposte fisiologiche e non generate dal paziente, con l’opportunità impagabile di ricostruire scenari ad hoc creati sulle memorie del paziente stesso, sulla base dei suoi ricordi, dei suoi vissuti traumatici o no. Tutto ciò offre un considerevole aumento delle probabilità di efficacia terapeutica rispetto al solo utilizzo di procedure tradizionali.

Pensiamo ad uno scenario nel quale, all’interno del nostro studio psicoterapeutico, sia possibile sedersi col paziente, stilare con lui una lista dei suoi stimoli critici e su questa base co-costruita, stendere un programma nel quale si pianifica una desensibilizzazione progressiva dei suddetti stimoli critici, esponendo il soggetto all’esperienza di tali condizioni ricreate in virtuale. Fin qui tutto normale, potrebbe tranquillamente rientrare in una normale giornata di lavoro di uno psicoterapeuta cognitivo comportamentale.

Le differenze però iniziano subito dopo, quando, diversamente dalle esposizioni IN vivo, in ambiente virtuale le diverse componenti dell’ambiente ricostruito sono suscettibili di un ampio controllo da parte del terapeuta, il quale viene messo nelle condizioni di stabilire di volta in volta il grado di difficoltà a cui sottoporre il paziente, immaginando per lui un percorso tailor made direbbero gli americani, o su misura diremmo in Italia.

La possibilità di modulare in modo crescente le difficoltà, permette al terapeuta di creare un percorso sempre calato sullo stato attuale del paziente e al paziente di aumentare man mano la sua self-efficacy.

Bandura nel suo libro del 1977 Self-efficacy: Toward a Unifying Theory of Behavior Change annovera, fra gli aspetti che contribuiscono a generare il senso di autoefficacia, la possibilità di sperimentare performances di successo. La realtà virtuale si presta molto in questo ambito, grazie al fatto che il terapeuta, controllando gli stimoli somministrati, può fare in modo che il feedback per il paziente sia più o meno positivo rispetto alle sue performances, intervenendo in ogni istante sugli stimoli proposti e sulla loro intensità. Bandura stesso sosteneva che il senso di autoefficacia prodotto da ripetuti successi diminuisse l’impatto di eventuali fallimenti.

Gli ambienti virtuali sono quindi una via di mezzo fra la stanza del terapeuta (massima protezione) e l’ambiente esterno (altamente minaccioso), sganciati dal quel ci di cui parlava Serres, ambienti con elevato livello di flessibilità e programmabilità adatti come setting esperienziale nel quale il paziente possa approcciare gli stimoli ansiogeni senza che si senta minacciato. La potenza terapeutica di tale contesto è che situazioni, difficoltà, eventi e conseguenze possono essere sperimentate, poiché, pur sperimentando, non accade nulla al paziente, che grazie a ciò si sente libero di esplorare e di sperimentare.

La realtà virtuale entra così a far parte dell’alleanza terapeutica, del senso di fiducia verso il terapeuta e verso il processo di cura in atto, contribuendo a creare un senso di sé e della realtà altro rispetto a quanto sperimentato.

Tutto ciò non ci riporta forse alle tecniche cognitivo comportamentali per le quali l’assunzione del paziente di punti di vista alternativi ai propri è condizione sine qua non una correzione delle sue credenze disfunzionali considerate reali, date, inalterabili, non sarebbe possibile?

Per la psicologia dei costrutti personali di Kelly (Kelly, 2004) è fondamentale il concetto di validazione. Esso rappresenta la compatibilità (soggettivamente costruita) fra le previsioni che fa una persona e l’esito che essa osserva. Al contrario, l’invalidazione è l’incompatibilità (oggettivamente costruita) fra le previsioni e l’esito che ne osserva. Se in ciò facciamo rientrare anche la possibilità di creare nuovi costrutti, Kelly ritiene essenziale che tali costrutti altri siano prima presentati in contesti che non coinvolgano né il sé del paziente né persone a lui molto vicine. La creazione di un’atmosfera di sperimentazione è un’altra condizione favorevole alla formazione di nuovi costrutti, intendendo con ciò che le conseguenze delle proprie azioni sperimentali debbano essere viste come limitate e circoscritte. Tutto ciò, non riporta a scenari di realtà virtuale?

Analizziamo ora, sempre secondo Kelly, le condizioni sfavorevoli alla creazione di nuovi costrutti. Per Kelly, la condizione più sfavorevole è il senso di minaccia, cioè tutto quello che possa mettere in pericolo altri costrutti di ordine ancora superiore dai quali la persona fa dipendere la propria vita. Le conseguenze che questo quadro di minaccia/pericolo porta con sé, sono facilmente prevedibili: il paziente sarebbe inesorabilmente spinto ad aggrapparsi ancora di più ai suoi costrutti di base, esattamente come farebbe un naufrago se gli si tentasse di portare via il salvagente.

Anche l’assenza di laboratorio, per Kelly, rientra a far parte delle condizioni sfavorevoli nella formazione di nuovi costrutti, perché è improbabile riuscire a formare costrutti nuovi se manca un laboratorio nel quale metterli alla prova. Io non abbandonerei mai il salvagente che mi tiene a galla se prima non ho verificato che la cima che mi viene lanciata sarà in grado di trarmi in salvo.

Per laboratorio Kelly intende una situazione nella quale è presente una certa quantità della sostanza che una persona impiega, ridefinendola, per formare nuovi costrutti. Deve quindi essere un ambiente sicuro ma non troppo, altrimenti non riuscirei a sperimentare condizioni impegnative: sicuro che mi permetta di mettermi in gioco e non così sicuro da togliermi la possibilità di sperimentare eventuali difficoltà che potrei incontrare poi in ambiente esterno. Potremmo pensarlo come una sorta di base sicura bowlbiana nella quale il paziente può liberamente esplorare, sperimentare, vivere e rivivere sentimenti, pensieri e vissuti attuali o remoti senza sentirsi in pericolo. Il paziente è così messo nelle condizioni grazie alle quali può sperimentarsi e sperimentare il mondo esterno in modo nuovo, altro, inedito per lui.

Calando queste considerazioni in un’ottica di realtà virtuale, è facile capire quanto questo strumento possa essere d’aiuto per il paziente nel distinguere fra come sono convinto che le cose andranno e come invece potrebbero diversamente andare.

Quante sono le tecniche psicoterapeutiche che si fondano sulla manipolazione delle immagini mentali? Esse partono dal presupposto che ci sia connessione fra una rappresentazione disfunzionale ed il suo sviluppo e il mantenimento di un agire disfunzionale, causando così una compromissione più o meno marcata del funzionamento e dell’adattamento di un individuo nel mondo esterno. Se prendiamo ad esempio la terapia cognitivo comportamentale e una delle sue prospettive principali, cioè che il paziente è l’artefice principale del proprio cambiamento, è facile comprendere quanto sia importante che egli assuma un ruolo attivo nel proprio percorso di cura, in funzione del fatto che il paziente stesso è il massimo esperto delle esperienze che lo riguardano e che lui soltanto potrà fornire al terapeuta e a se stesso la chiave di accesso al suo sentire.

Le tecniche cognitive hanno dunque l’obiettivo di produrre cambiamenti a livello del pensiero, modificando quegli schemi disfunzionali causa dei comportamenti disadattivi del paziente. La tecnica espositiva, largamente utilizzata in campo cognitivo comportamentale, è un valido strumento volto a valutare l’inesattezza di determinate credenze all’origine della patologia, nonché uno straordinario strumento per sperimentare nuove modalità di interazione con l’ambiente.

Le tradizionali tecniche espositive, in immaginazione e in vivo, presentano alcuni limiti (difficoltà di immaginare, di raccontare, la reticenza ad esporsi in vivo) che la realtà virtuale può agevolmente superare, senza contare il fatto che utilizzare la tecnica espositiva facendo uso di ambienti virtuali (virtual environments) consente a paziente e terapeuta di condividere effettivamente l’esperienza: l’ambiente è infatti visibile ed accessibile ad entrambi, senza contare quanto questa modalità esperienziale aumenti in maniera esponenziale la compliance restituendo al paziente nuove prospettive per sentirsi artefice e protagonista del suo processo di cura, grazie al suo ruolo attivo (nel vero senso della parola) all’interno della terapia (pensiamo al suo muoversi all’interno di uno scenario virtuale, al fatto di poter compiere delle scelte e al fatto che sulla base di queste scelte ci siano, in presa diretta, conseguenze in tempo reale). Il paziente arriverà a percepire l’intero percorso terapeutico come parte integrante della propria vita, nella quale possiede un ruolo centrale di responsabilità e padronanza.

D’altro canto, anche per il terapeuta avviene un cambio di prospettiva. La valutazione del disagio e delle modalità attraverso cui si può manifestare avviene sulla base di una ricostruzione della realtà così come percepita dal paziente. Così facendo però il terapeuta a volte si trova in difficoltà nel delineare con chiarezza le rappresentazioni mentali e la sintomatologia che si manifesta nel momento clou del disagio, semplicemente perché non è presente, non è lì, e tutto è basato su una ricostruzione a posteriori (o a priori, nel caso sia una questione di ansia). Come può il terapeuta sapere quanto il paziente sarà efficace nel suo narrare? Quanti dettagli o informazioni importanti vanno perse basandosi su ricostruzioni?

Se però fosse possibile, attraverso un’osservazione diretta, verificare il modo in cui il nostro paziente reagisce di fronte agli stimoli patogeni, di quante informazioni in più, utili per l’intervento terapeutico, potremmo disporre? Molte. Moltissime.

La realtà virtuale ce lo permette. Ci permette di essere presenti anche quando le ansie del paziente o le sue risposte disfunzionali avvengono in situazioni non riproducibili in vivo. Sostiene Giuseppe Riva (Vincelli, Riva, Molinari, 2007) in La realtà virtuale in psicologia clinica:

Gli ambienti sono flessibili e manipolabili fino a oltrepassare i limiti della realtà esterna, creando così nuove possibilità per l’azione terapeutica

Questi nuovi strumenti ed il ritmo incalzante con cui i sistemi di realtà virtuale si sviluppano, aumentando di volta in volta il loro grado di accessibilità, portano con sé la necessità di riflettere in modo cosciente ed etico rispetto ai possibili cattivi usi che se ne possa fare alla luce del fatto che i soggetti manifestano reazioni molto intense gli ambienti simulati. Wiederhold B. e Wiederhold M. in un articolo del 2003 A New Approach: Using Virtual Realty Psychotherapy in Panic Disorder With Agoraphobia hanno approfondito il fatto che alcune categorie di pazienti possono non essere idonee alle psicoterapie condotte mediante realtà virtuale, in particolare persone affette da gravi patologie cardiache, tossicodipendenti, persone affette da epilessia e persone con problematiche riguardanti la percezione della realtà, pensiamo ad esempio a psicotici che hanno già di per sé un senso della realtà compromesso. In questo caso, introdurre la realtà virtuale sarebbe controproducente, nonché dannoso per il paziente.

Se nei primi anni novanta la realtà virtuale era ai suoi albori e alla portata di pochi, oggi un qualsiasi terapeuta può permettersi un sistema di realtà virtuale nel suo studio, ma perché, nonostante ciò, il numero di terapeuti che hanno scelto di integrare questa tecnologia nella propria pratica clinica è ancora così esiguo?

Le risposte possono essere molteplici: il timore di costi troppo elevati, la poca conoscenza delle potenzialità di questo nuovo strumento o la paura di non essere in grado di saperla usare.

Affrontiamo il problema dei costi: un sistema completo di realtà virtuale – PC, casco e sensore di posizione – costava nei primi anni ’90, non meno di 150.000 dollari e il pc che supportasse tale tecnologia, un Silicon Graphic Onyx RE2, aveva le dimensioni di un frigorifero. Oggi, gli ambienti in virtuale sono supportati dalla maggior parte dei PC in circolazione, a patto che abbiano una buona scheda grafica, con costi che si aggirano attorno ai 1000 dollari. Anche i caschi immersivi (i cosiddetti head mounted display) sono passati dai 50.000/60.000 dollari degli anni novanta, ai 600 dollari nel 2000 per un Emagin Z800 3D che rispetto ai predecessori offriva una risoluzione di gran lunga superiore ed era capace di produrre un’immagine davvero tridimensionale per approdare ad oggi, quando un head mounted display di tutto rispetto può costare circa 300 dollari. Siamo quindi passati dai 150.000 dollari degli anni novanta ai 2.000 – 5.000 dollari dei giorni nostri e la cifra, visti i progressi della tecnologia e i costi sempre più abbordabili, è destinata a scendere.

Per quanto riguarda invece le remore riguardo la poca conoscenza di questo strumento o il timore di non saperlo utilizzare, basta controllare i principali database scientifici come Medline o PsycInfo per trovare oltre 1000 articoli relativi all’uso di ambito clinico della realtà virtuale. E se il numero relativo al costo è destinato a scendere, questo invece è destinato a salire.

Occorre ricordare però che non è il terapeuta a doversi adattare alla tecnologia, ma è quest’ultima che deve offrire nuovi stimoli e strumenti in grado di aumentarne le capacità di valutazione e intervento, ed è importante segnalare che mai la realtà virtuale potrà sostituire il terapeuta, perché in virtù del fatto che è uno strumento, non avrebbe alcun senso senza una mano che lo guidi. Una penna senza uno scrittore è un oggetto inerte, inutile e così è per la realtà virtuale.

A tutela di ciò, sarebbe auspicabile la creazione di un comitato ad hoc preposto alla creazione di linee guida etiche per l’impiego dei sistemi di realtà virtuale, che si occupi inoltre di garantire un monitoraggio del loro rispetto da parte di chi intende avvalersi di questo nuovo e potente strumento.

 

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Pericolo ad alta quota: potenziare le strategie di coping dei piloti per aumentare la sicurezza in volo

FLASH NEWS

Le abilità di coping nelle situazioni di stress sembrano essere un fattore chiave da valutare e da potenziare nei piloti per la sicurezza dei voli.

Errare è umano, anche in aereo la regola vale: l’errore umano è tra le cause degli incidenti aerei, e lo stress facilita la possibilità di commettere errori. Dunque le abilità di coping nelle situazioni di stress sembrano essere un fattore chiave da valutare e da potenziare nei piloti per la sicurezza dei voli.

Infatti secondo una ricerca psicologica vi sarebbe un fattore predittivo di come i piloti reagiscono in situazioni difficili e stressanti: più dell’età, più degli anni di esperienza di volo, sarebbero le risposte dei piloti a due semplici domande inerenti il coping.

I ricercatori hanno coinvolto 16 piloti e li hanno sottoposti a una simulazione di volo in laboratorio. Dopo il decollo accade un imprevisto, una situazione ad elevato stress: un danno al motore, il protocollo prevede un atterraggio di emergenza. Proprio in questo momento specifico della simulazione vengono poste due domande al pilota:

  • quanto ti aspetti che questa situazione sia ardua e difficoltosa?
  • quanto ti senti in grado di affrontarla?

I piloti dovevano rispondere secondo una scala Likert. La differenza tra i punteggi delle due risposte fornisce una interessante indicazione: il grado con cui il pilota interpreta la situazione di emergenza come una sfida (quando le abilità di coping sono maggiori della difficoltà percepita) oppure come una minaccia (quando le abilità di coping sono percepite come carenti per affrontare la situazione).

E questo predice il reale comportamento del pilota alla guida durante l’ atterraggio di emergenza a seguito del danno al motore: coloro che interpretano la situazione più come una minaccia che come una sfida hanno performances significativamente peggiori rispetto agli altri. Performance peggiori in considerazione delle valutazioni di un insegnante di volo e di alcuni indici oggettivi di controllo dell’aeromobile, quali la regolazione della velocità e la direzione dello sguardo del pilota.

Il potere predittivo della percezione delle proprie abilità di coping sulle performance in situazioni critiche si mantiene anche tenendo conto dell’età e degli anni di esperienza.

E’ curioso inoltre che lo studio ha dimostrato che la percezione di minaccia influenza negativamente la regolazione dello sguardo durante l’atterraggio: un’interpretazione della situazione come più minacciosa è correlata a una fissazione oculare meno efficace con la concentrazione dello sguardo in alcune aree scorrette dal punto di vista della pratica del volo.

 

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Lucy e i tratti narcisistici di personalità – Peanuts Nr. 08

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA (Nr.09)

 

Lucy e i tratti narcisistici di personalità

Come tutti i personaggi dei Peanuts, anche Lucy possiede particolari caratteristiche di personalità, descritte da Schulz in modo molto raffinato dal punto di vista psicologico.

Lucy è una bambina scorbutica, ipercritica e lamentosa. Spesso si rivolge all’amico Charlie Brown con tono sprezzante e utilizza il sarcasmo per ridicolizzare le sue fragilità. Dimostra di possedere poca empatia, soprattutto nei confronti del fratello Linus, quando gli nasconde la sua adorata coperta, senza considerare la sofferenza che gli procura.

E’ molto impegnata nella ricerca di auto-affermazione o ammirazione da parte degli altri, chiedendo conferme circa la propria bellezza e intelligenza, allo scopo di rafforzare un’idea grandiosa di sé. E’ inoltre sensibile alle critiche e al giudizio altrui, e preferisce dare consigli piuttosto che riceverne, per questo motivo la vediamo improvvisarsi psichiatra nel famosissimo banchetto.

Personalità narcisistica Lucy Peanuts Nr. 08

Tutte queste caratteristiche sono tratti riconducibili al disturbo narcisistico della personalità. La genialità di Schulz risiede ancora una volta nella sua capacità di rendere divertenti e ironici anche tratti di personalità così complessi e disfunzionali.

In questa vignetta è rappresentato il bisogno narcisistico di autocelebrazione: Lucy esprime il bisogno di progettare una festa per lodare pubblicamente le proprie doti e un’esistenza priva di difetti. Per giustificare il fatto che nessuno la aiuti in questa eccentrica impresa, Lucy afferma che le persone perfette debbano organizzarsi da sole, lasciando intendere implicitamente che non esistano altre persone all’altezza delle loro capacità.

Questa strategia le permette di immunizzare il senso di solitudine, lo stesso che possono provare le persone molto centrate su di sé e che faticano a creare delle relazioni sane e costruttive.

 

 

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Una nuova strategia contro le lesioni spinali: una tecnica multi-sito e a bassa frequenza per stimolare i neuroni

Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) – COMUNICATO STAMPA

Pazienti, medici e ricercatori guardano con grande speranza all’ elettrostimolazione epidurale, una metodologia medica che potrebbe alleviare la condizione delle persone affette da paralisi da lesione spinale. La tecnica è ancora relativamente rudimentale ma grazie alla ricerca è in continuo miglioramento.  

Un gruppo di scienziati  (anche della SISSA), che ha pubblicato una ricerca sulla rivista di riferimento in questo settore, Spinal Cord (del gruppo Nature), propone un nuovo approccio metodologico, basato sulla distribuzione della stimolazione e la modulazione della frequenza degli impulsi elettrici, che ha dato buoni risultati nei test in vitro. L’elettrostimolazione epidurale è una metodologia medica che già da qualche anno viene   utilizzata per aiutare i pazienti colpiti da paralisi a seguito di una lesione spinale. Consiste nell’impianto di elettrodi in prossimità delle radici dei nervi dorsali  (che portano il segnale “sensoriale” in entrata) del  midollo spinale al di sotto del livello del trauma e nell’applicazione di stimoli elettrici di varia intensità e frequenza.

Questa tecnica, che produce o facilita la produzione di pattern di attivazione nei nervi motori (ventrali,  in uscita) ha mostrato risultati promettenti e gli scienziati sperano che un giorno possa aiutare le persone paralizzate per esempio a stare in piedi in equilibrio e muovere qualche passo, oltre che a ripristinare il controllo degli sfinteri e la funzione sessuale. C’è ancora molta strada prima di raggiungere questo scopo, e per questo la comunità scientifica sta moltiplicando gli sforzi per migliorare questa metodologia.

 

[blockquote style=”1″]Finora la maggior parte della ricerca si è concentrata sui materiali e sulla tecnologia dei dispositivi. Il nostro lavoro invece si focalizza sulla natura e la qualità del segnale elettrico che viene erogato dagli elettrodi[/blockquote] spiega Giuliano Taccola, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste che ha coordinato lo studio.

[blockquote style=”1″]La domanda che tutti si pongono è la stessa: come fare per ottenere risposte locomotorie efficaci? Crediamo che in questo senso sia importante modulare meglio il segnale elettrico e individuare precisamente in quali punti debba venire applicato. Le tecniche attuali consistono nell’applicare un segnale ad alta frequenza in maniera generalizzata. In questo modo si ottiene una stimolazione ‘cumulativa’ e piuttosto indifferenziata di un gruppo di fibre nervose. Noi abbiamo invece adottato un approccio “multi-­‐sito”: la stimolazione elettrica viene applicata in diversi punti del circuito[/blockquote] spiega  lo  scienziato.

In  questo studio Taccola e colleghi hanno lavorato con dei circuiti neuronali spinali preparati in vitro.  Questo ha permesso di controllare in maniera molto fine i siti di stimolazione, oltre che registrare le risposte del network con grande precisione.    

[blockquote style=”1″]L’altra novità introdotta nel nostro studio è l’uso di stimolazione a bassa frequenza. La combinazione di questi due fattori (frequenza del segnale e siti multipli) ha prodotto pattern di risposta locomotoria molto efficienti. Con questo lavoro abbiamo definito una nuova strategia di stimolazione del midollo spinale per l’attivazione dei neuroni motori che potrebbe essere importata anche in molti degli attuali elettrostimolatori utilizzati in clinica. [/blockquote]

Il primo autore dello studio, svolto in collaborazione con il laboratorio SPINAL presso l’Istituto di Medicina Fisica e Riabilitazione (IMFR) dell’Ospedale Gervasutta di Udine (dove sono stati raccolti i dati sperimentali)  e dell’Università Cattolica di Lovanio in Belgio, è Francesco Dose, un giovane dottorando della  SISSA.

Articolo  originale  su  Spinal  Cord

Immagini: Nervi  spinali, crediti  immagine:  GreenFlames09; Grafici  esperimento:  DOWNLOAD.

 

Contatti Ufficio  stampa: [email protected]  

Tel:  (+39)  040  3787644  |  (+39)  366-­‐3677586    

via Bonomea, 265, 34136 Trieste    

Maggiori informazioni sulla SISSA: www.sissa.it

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Cosa nascondono le emozioni? I segnali socio-comunicativi della paura e della rabbia a confronto

 

Nonostante grandi disaccordi circa la natura delle emozioni e delle espressioni emotive, molti ricercatori concordano sul fatto che le espressioni facciali delle emozioni trasmettano informazioni fondamentali circa le tendenze comportamentali di base di chi le esprime.

Nonostante grandi disaccordi circa la natura delle emozioni e delle espressioni emotive, molti ricercatori (Ekman, 1973; Fridlund, 1994; Frijda & Tcherkassof, 1997; Izard, 1971; Russell, 1997) concordano sul fatto che le espressioni facciali delle emozioni trasmettano informazioni fondamentali circa le tendenze comportamentali di base di chi le esprime. Alcuni ricercatori suggeriscono (Fridja, 1995; Fridja &Tcherkassof, 1997) che i sentimenti siano percezioni coscienti di intenzioni comportamentali (tendenze all’azione) e che quindi le sensazioni emotive siano semplicemente la propria consapevolezza di avere un’ intenzione.

Adams et al. (2006) hanno esaminato in che modo le tendenze motivazionali siano attribuite a stimoli espressivi. Tra tutte le emozioni di base, codificate universalmente,hanno preso in considerazione la paura e la rabbia. Queste due emozioni condividono alcune caratteristiche: la valenza negativa, l’alto arousal, e i segnali di minaccia. Rabbia e paura sono inoltre associate a molte forme comportamentali di strategie preventive (attacco/fuga). Tuttavia esse differiscono per intenzioni comportamentali, sia nei termini di chi trasmette che di chi esperisce le emozioni.

Anche le proprietà configurative associate alla rabbia (sopracciglia abbassate/occhi socchiusi) al contrario della paura (sopracciglia rialzate/occhi spalancati) appaiono in antitesi. Darwin spiegava l’antitesi fisica come aspetto utile a distinguere comportamenti che trasmettono significati opposti (ad esempio, il dominio/la sottomissione). In questo senso le espressioni facciali possono essersi evolute appositamente per prevedere le intenzioni comportamentali (e le conseguenze) degli altri. Così, la rabbia trasmette probabilmente ad un osservatore una disponibilità ad attaccare l’altro (ad esempio Fatti indietro o ti attacco), mentre la paura trasmette la disponibilità a sottomettersi of are marcia indietro (per esempio, Non farmi del male! Mi arrendo).

Da questo punto di vista, dunque, le espressioni facciali necessariamente trasmettono un segnale socio-comunicativo: in accordo con questa evidenza è il fatto che mentre la rabbia elicita comportamenti di evitamento in chi la osserva, la paura elicita comportamenti di avvicinamento; viceversa, in termini di chi esperisce l’emozione, la rabbia è associata a condotte di avvicinamento (l’aggressione) e la paura a quelli di evitamento. Così, anche se la rabbia e la paura condividono una valenza negativa, aumento dell’arousal e minaccia ai valori, appaiono essere opposte in termini di motivazioni comportamentali. Tali tendenze all’azione potrebbero essere comunicate dunque attraverso segnali visivi emessi dal viso durante l’espressione di queste emozioni.

Per verificare, dunque, questa ipotesi, gli autori hanno ipotizzato che i comportamenti di avvicinamento sarebbero stati elaborati più velocemente quando associati alla rabbia rispetto alla paura, e che, al contrario, comportamenti di evitamento sarebbero stati più efficacemente elaborati se associati a paura piuttosto che a rabbia. Hanno, pertanto, condotto due studi usando il paradigma dei tempi di reazione per esaminare risposte a facce molto espressive presentate su uno schermo di un computer. In entrambi gli studi hanno esaminato la velocità con la quale i partecipanti erano capaci di indicare se le facce sembravano avvicinarsi o retrocedere dall’obiettivo (il loro sguardo). I risultati hanno rivelato che le risposte alle espressioni di rabbia erano molto più veloci, mentre non sono emerse differenze per le espressioni di paura.Inoltre, sebbene gli autori avessero predetto che l’evitamento fosse associato alla paura, i risultati sembrano piuttosto rilevare che la paura sia legata maggiormente un comportamento di inibizione (congelamento o freezing).

Questa conclusione è coerente con studi (LeDoux, 1996) su animali, sulle risposte di paura, che dimostrano risposte primitive di congelamento, modulate con molta probabilità da risposte dell’amigdala alla minaccia. Da un punto di vista evoluzionistico, tali risposte comportamentali hanno senso, visto che i predatori in natura sono spesso altamente sensibili al movimento biologico. Così, il congelamento, probabilmente offriva alla nostra specie un vantaggio di sopravvivenza in risposta alla predazione.

L’effetto nullo della paura potrebbe dunque indicare che il congelamento o l’inibizione comportamentale è legato a quest’espressione o potrebbe semplicemente indicare che le espressioni di paura falliscono completamente nel comunicare le tendenze comportamentali sottostanti.

Il lavoro offre comunque supporto alle teorie che considerano le tendenze di base comportamentali (o tendenze di azione) come aspetti fondamentali di quanto viene trasmesso dalle espressioni emotive.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Fibromialgia: l’elaborazione emotiva nella sindrome fibromialgica

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

L’elaborazione emotiva nella sindrome fibromialgica

Autrice: Stefania Laura Brighenti (Università degli studi di Torino)

Abstract

La Fibromialgia (FM) è una sindrome da dolore cronico caratterizzata, oltre che dal dolore, da sintomi psicologici, cognitivi e difficoltà emotive. Obiettivi: L’obiettivo della ricerca è quello di mettere in luce le difficoltà psicologiche e neuropsicologiche dei pazienti FM ed, in particolar modo, di verificare se, le difficoltà emotive siano presenti anche a carico del processo di attribuzione e riconoscimento di emozioni e sentimenti agli altri. Metodo: 22 donne FM e 22 donne sane sono state messe a confronto mediante la somministrazione di un protocollo psicologico e neuropsicologico e tramite una valutazione delle abilità emotive: in particolar modo, si sono volute indagare le capacità di riconoscere le emozioni di base, di rappresentarsi stati d’animo altrui, di riconoscere e regolare le proprie emozioni e di empatia. Risultati: Per i confronti fra i due gruppi (pazienti e controlli) è stato utilizzato il T-test per campioni indipendenti per le variabili continue e il Chi-quadro (X²) per quelle dicotomiche. Inoltre, per il protocollo neuropsicologico e per quello di valutazione delle capacità di elaborazione emotiva si è ricorsi all’utilizzo dell’ANOVA per valutare l’effetto della scolarità sulle differenze tra i due gruppi. Valori di p < 0,05 sono stati considerati statisticamente significativi. La valutazione psicologica ha mostrato come sia la sintomatologia depressiva a caratterizzare principalmente la FM. La valutazione cognitiva invece ha messo in luce la presenza di difficoltà cognitive nelle donne FM in particolar modo in compiti di memoria a breve termine, memoria di lavoro e a carico delle funzioni esecutive . Per quanto riguarda l’assessment delle capacità di elaborazione emotiva, sono emerse difficoltà a carico della capacità di regolazione delle proprie emozioni; differenze statisticamente significative sono, inoltre, emerse nella capacità di riconoscere le emozioni di base nell’altro specialmente per le emozioni connotate in senso negativo come la rabbia, la paura e il disgusto. Conclusioni: I dati ottenuti sono, nel complesso, in linea con i risultati degli studi precedenti per quanto riguarda il protocollo psicologico e neuropsicologico mentre i risultati emersi dalla valutazione delle modalità di elaborazione delle emozioni hanno sottolineato la presenza di difficoltà nel campione di donne FM non solo nelle capacità di distinguere, identificare e regolare le proprie emozioni ma anche nel riconoscerle negli altri ancor più per le emozioni connotate in senso negativo (rabbia, paura, disgusto).

English abstract

Fibromyalgia (FM) is a chronic pain syndrome characterized by the presence of psychological and cognitive disorders and emotional difficulties. Objectives: The aim of this research was to shed light on FM patients’ psychological and neuropsychological problems and, in particular, to investigate if difficulties associated with emotional processing were present not only in the ability to recognize their own emotions but also in the attribution of emotions and feelings to others, recognition of others’ emotional states and emphaty. Methods: 22 female FM patients and 22 healthy controls were compared on psychological and neuropsychological assessment and on an evaluation of the emotional processing abilities on recognizing basic emotions, representing states of mind, ability of emotional regulation and empathy. Results: For comparisons between the two groups (patients and controls) was used t-test forindependent samples for continuous variables and the chi-square (X²) for dichotomous ones. In addition, forneuropsychological evaluation and for the evaluation of emotional processing abilities was resorted to theuse of ANOVA for assessing the effect of schooling on the differences between the two groups (FM groupand healthy controls showed a significant difference for education p<0.0001). p values <0.05 wereconsidered statistically significant.The psychological evaluation showed that depressive traits constituted the main psychologicalcharacterization of FM patient. The neuropsychological assessment revealed the presence of cognitivedifficulties in FM women, in particular in short-term numeric memory, working memory and executivefunctioning. Regarding the modalities of emotional processing emerged difficulties emotional regulation abilities;significant differences between groups were found in basic emotions recognition especially for negativeemotions as anger, fear and disgust. Conclusions: The obtained data are, on the whole, in line with the results collected by previous studiesregarding the psychological and neuropsychological protocols, while the results from the evaluation of themodalities of emotional processing highlighted a statistically significant difference in distinguishing emotionsin others (especially for negatie ones as anger, fear, disgust), into the ability of emotion regulation and inidentifying and expressing their own feelings.

Keywords: fibromialgia, emozioni, alessitimia, dolore, neuropsicologia

ALLEGATO 1

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Disturbo Ossessivo Compulsivo: può una scansione cerebrale predire l’esito del trattamento cognitivo-comportamentale?

Irene Rossi

FLASH NEWS

Decine di migliaia di persone, con percentuale stimata sull’1-2% della popolazione, ad un certo punto della loro vita potrebbero sviluppare un disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), caratterizzato da pensieri ricorrenti, intrusivi e disturbanti e/o da comportamenti ricorrenti e stereotipati.

Se non trattato, il DOC può essere profondamente angoscioso per la persona e può andare ad intaccare significativamente la capacità di gestire gli aspetti più basilari della propria vita, quali svolgere il proprio lavoro e intrattenere relazioni sociali equilibrate.

Una delle terapie più comunemente utilizzate per il trattamento del DOC, di cui è stata dimostrata l’efficacia, è la terapia cognitivo-comportamentale, la quale ha lo scopo di aiutare il paziente a comprendere i propri pensieri che influenzano i comportamenti e le emozioni disfunzionali per poi andare a modificarli. Maggior parte dei pazienti traggono vantaggio dall’impiego di questo approccio terapeutico, tuttavia in parte di essi (circa il 20%) i sintomi tendono gradualmente a ricomparire una volta conclusa la terapia.

Un nuovo studio condotto dai ricercatori del Semel Institute for Neuroscience and Human Behavior dell’università della California, suggerisce che una scansione cerebrale può aiutare i clinici a individuare quali persone hanno maggior probabilità di ottenere vantaggio a lungo termine dalla terapia cognitivo-comportamentale e perché. Nello specifico l’efficienza nei network cerebrali prima del trattamento predice la possibilità di ricomparsa dei sintomi dopo il trattamento.

I ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale, fMRI, per studiare il cervello di 17 persone con età compresa tra 21 e 50 anni, affetti da OCD diagnosticato. La scansione delle strutture cerebrali è stata effettuata sia prima che subito dopo il completamento di un percorso intensivo di 4 settimane di terapia cognitivo-comportamentale. L’andamento della sintomatologia clinica è stato poi monitorato per i 12 mesi successivi, allo scopo di valutare il mantenimento degli effetti positivi ottenuti dal percorso terapeutico.

Ciò che è stato evidenziato è che la terapia cognitivo-comportamentale di per sé determina un aumento della densità di connessioni nei network cerebrali locali, che verosimilmente riflettono un’attività cerebrale più efficiente. Le persone che hanno una connettività cerebrale alta già prima del trattamento, in proporzione ottengono un minor grado di incremento delle connessioni e ciò sembra tradursi in una maggior possibilità di ricomparsa della sintomatologia a lungo termine.

Sorprendentemente invece né la severità dei sintomi in origine né il grado di miglioramento dello stato di salute nel corso della terapia sono predittori accurati del successo post trattamento.

I risultati ottenuti non significano che alcune persone con OCD non possono essere aiutate nell’affrontare e curare il disturbo, solo che 4 settimane di terapia cognitivo-comportamentale intensiva possono non essere l’approccio più efficace per tutti per ottenere effetti a lungo termine. Questi pazienti possono ottenere maggior beneficio dall’uso di farmaci o da un percorso di terapia cognitivo-comportamentale di maggior durata.

Lo studio condotto dal gruppo di ricerca di Frausner e colleghi è stato il primo a studiare la connettività cerebrale per aiutare a predire il corso post-terapeutico, e il primo a testare gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale sulla connettività cerebrale.

L’obiettivo lodevole, attuale e futuro, del gruppo di ricerca dell’Università della California è tradurre le conoscenze sul cervello in informazioni utili che possano essere utilizzate da terapeuti e pazienti per prendere decisioni cliniche; tradurre le conoscenze scientifiche in strumenti pratici per favorire la scelta del miglior intervento terapeutico per il singolo paziente.

 

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Teoria della mente & disturbo bipolare – Neuropsicologia

Aldea Bandiera, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

Nonostante siano necessari ulteriori approfondimenti, sembra che una ToM disfunzionale non sia legata esclusivamente alle manifestazioni cliniche del disturbo bipolare, ma piuttosto possa essere considerata un endofenotipo della patologia.

La comprensione dell’attività umana in termini psicologici è il medium dei nostri scambi quotidiani. Tale abilità, prerogativa della mente umana, comprende la teoria della mente, un processo cognitivo-affettivo che si sviluppa durante l’infanzia, ma che costituisce una capacità in continuo divenire.

Possedere una teoria della mente (d’ora in poi ToM) significa essere in grado di attribuire stati mentali, intesi come credenze, emozioni, desideri, intenzioni, pensieri, a sé e agli altri e di prevedere, sulla base di tali inferenze, il proprio e l’altrui comportamento (Premack e Woodruff, 1978). Una buona ToM ci candida  come partner sociali e comunicativi competenti.

Se perdessimo la facile comprensione di sé e degli altri ci sarebbero serie conseguenze: è stato sostenuto, infatti, che uno sviluppo deficitario della ToM è una delle ipotesi eziologiche più convincenti dei disturbi dello spettro autistico, mentre un suo successivo deterioramento è associato ad alcune manifestazioni della schizofrenia e dei disturbi di personalità (Dimaggio e Lysaker, 2011).

Nell’ultimo decennio, considerato il povero funzionamento sociale dei soggetti bipolari, l’attenzione si è concentrata anche su questo disturbo e i risultati suggeriscono disfunzioni nella ToM in tutte le fasi della malattia, inclusa quella eutimica (Samamè, 2013). Ciò fa pensare che una tale alterazione sia un fattore di vulnerabilità allo sviluppo della malattia e che la cognizione “non sociale” non possa sufficientemente rendere conto dei deficit funzionali del disturbo bipolare.

Pertanto è interessante capire se esistano prove da studi neurobiologici e cognitivi che la disfunzione nella ToM sia presente nel disturbo bipolare come tratto della malattia e non sia solo un correlato legato alle fasi di umore alterato.

Per quanto riguarda i correlati neurobiologici, alcuni autori hanno studiato i differenti livelli di analisi degli stimoli sociali identificandone i correlati neurali. Tra questi studi di notevole interesse è il modello di neuroanatomia funzionale proposto da Abul Akel e Shamay-Tsoory (2011) che, unendo cognizione ed emozione, identifica tre aree coinvolte nella comprensione sociale:

–              le regioni posteriori deputate alla rappresentazione dei propri e altrui stati mentali;

–              le regioni limbiche e paralimbiche, che le valutano in base a criteri di rilevanza personale e al significato emotivo ad esse associato;

–              le regioni prefrontali, implicate nei processi di sintesi e di applicazione di tali rappresentazioni nel contesto socio-relazionale.

Il punto è che le anomalie strutturali e funzionali riscontrate nei pazienti bipolari, anche in fase eutimica, mostrano una significativa sovrapposizione con queste aree. In particolare, si è riscontrata una ridotta attivazione delle aree prefrontali e una maggiore attività delle strutture limbiche; un pattern neurale che suggerisce anomalie sia nella capacità di rappresentazione di stati mentali sia nella modalità di percepire, rispondere e immagazzinare gli stimoli emotivi (Rajkowska e al., 2001; Kronhaus  al., 2006).

Inoltre, si è osservato che, durante l’esecuzione dei compiti ToM, pazienti bipolari in fase eutimica, mostrano una ridotta attivazione del giro frontale inferiore e dell’insula, nonché regioni strettamente connesse al sistema dei neuroni specchio, che risulta implicato sia nella rappresentazione sia nella comprensione degli stati mentali propri e altrui.

Per quanto riguarda i correlati cognitivi, seppur alcuni autori ritengono che le abilità ToM dipendano da moduli dedicati esclusivamente a questo scopo, molti studi hanno dimostrato che migliori abilità ToM sono correlate a migliori prestazioni in alcuni test neurocognitivi (come ad esempio il WCST e lo Stroop Test). In quest’ottica un buon funzionamento cognitivo si può considerare una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una corretta espressione della ToM. Esistono prove scientifiche (Tortorella e al., 2013) di una ridotta flessibilità sul versante cognitivo nei familiari sani dei pazienti e di un impoverimento cognitivo stabile, localizzato in tutte le fasi del disturbo bipolare (inclusa quella di remissione sintomatica), nelle aree dell’attenzione sostenuta, delle funzioni mnesiche ed esecutive che, quindi, possono essere considerate un pre-requisito per lo sviluppo della ToM.

In conclusione, nonostante siano necessari ulteriori approfondimenti, sembra che una ToM disfunzionale non sia legata esclusivamente alle manifestazioni cliniche del disturbo bipolare, ma piuttosto possa essere considerata un endofenotipo della patologia. Inoltre, le marcate difficoltà nelle interazioni psicologiche con gli altri possono creare ripetuti stress nel contesto delle relazioni umane, costituendo così un fattore di rischio per le ricadute di malattia, con un peggioramento della qualità della vita.

Resta naturalmente molto da esplorare, in particolare è necessaria ricerca che esplori se esistono relazioni tra relazioni sociali maladattive, e.g. disfunzioni nell’attaccamento, teoria della mente carente e disturbo bipolare. È anche necessario esplorare se fattori neurobiologici, cognitivi e sociali interagiscano nel danneggiare le capacità ToM rendendo un disturbo in quest’area una vulnerabilità alla malattia bipolare.

In quest’ottica, promuovere e/o migliorare le abilità ToM  è una preziosa risorsa non solo nella formulazione degli obiettivi psicoterapeutici, ma anche nel raggiungimento degli stessi. Sulla base delle prove finora raccolta, che mostrano comunque una carenza della ToM nel bipolare ha senso ipotizzare che trattamenti che mirano al recupero delle abilità mentalistiche, come la Mentalization-Based Therapy (Bateman & Fonagy, 2004) e la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013) possano essere utili strumenti terapeutici per la cura di questo disturbo, in associazione con altri approcci già di stabilita efficacia, quali farmacoterapia o psicoeducazione.

 

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Esplorare i sentimenti per i più piccoli: Terapia cognitivo comportamentale per gestire ansia e rabbia nei bambini di 5-7 anni. Il modello STAMP – Recensione

Qualunque sia la classificazione diagnostica utilizzata, i ragazzi con disturbi dello spettro autistico o Autismo o Sindrome di Asperger, presentano spesso problemi di carattere sociale ed emotivo: in particolar modo possono non essere capaci, oltre che di riconoscere gli stati emotivi altrui, anche di riconoscere e descrivere la propria attivazione emotiva.

Marina Morgese – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Milano

La storia della concettualizzazione della Sindrome di Asperger (SA) va in parallelo con quella dell’autismo: l’autismo è stato diagnosticato per la prima volta nel 1943 da Kanner (in un primo momento si pensava a una sindrome molto rara, oggi è ritenuta la disabilità relativa allo sviluppo neurologico più in crescita in America), subito dopo, nel 1944, Hans Asperger ha descritto un gruppo di bambini con caratteristiche simili all’autismo ma senza mostrare ritardi cognitivi, né disturbi del linguaggio.

La Sindrome di Asperger è stata inserita per la prima volta nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), alla sua quarta edizione nel 1994, ed inserita, come l’Autismo, nella categoria dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo. In sintesi, si differenziava dall’Autismo per l’assenza di ritardi clinicamente significativi nello sviluppo cognitivo e del linguaggio, delle capacità d’autonomia, del comportamento adattativo, salvo, ovviamente che nell’interazione sociale.

I Criteri descritti dal DSM-IV-TR per la diagnosi del Disturbo di Asperger erano i seguenti:

  • Compromissione qualitativa nell’interazione sociale, come manifestato da almeno 2 dei seguenti: marcata compromissione nell’uso di diversi comportamenti non verbali come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale; Incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di sviluppo; Mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone; Mancanza di reciprocità sociale o emotiva.
  • Modalità di comportamento, interessi, e attività ristretti ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno uno dei seguenti: dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi stereotipati e ristretti, che risultano anomali o per intensità o per focalizzazione; manierismi motori stereotipati e ripetitivi; persistente eccessivo interesse per parti di oggetti.
  • L’anomalia causa compromissione clinicamente significativa dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.
  • Non vi è un ritardo del linguaggio clinicamente significativo.
  • Non vi è un ritardo clinicamente significativo dello sviluppo cognitivo o dello sviluppo di capacità di autoaccudimento adeguate all’età, del comportamento adattivo (tranne che dell’interazione sociale) e della curiosità per l’ambiente nella fanciullezza.
  • Non risultano soddisfatti i criteri per un altro specifico Disturbo Generalizzato dello Sviluppo o per la Schizofrenia.

Nel DSM 5, invece, la Sindrome di Asperger rientra nella categoria Disturbi dello Spettro Autistico (ASD), insieme al Disturbo Autistico (autismo), Disturbo disintegrativo dell’infanzia, Disturbi pervasivi dello sviluppo non altrimenti specificati. Gli ASD vengono ora definiti all’interno di due sole categorie: deterioramento persistente nelle comunicazioni sociali reciproche e nelle interazioni sociali in diversi contesti, e schemi comportamentali ripetitivi e ristretti.

 Tali categorie vengono descritte attraverso alcuni sintomi, tra cui l’ipo o iper sensibilità verso gli stimoli sensoriali.

Questi sintomi devono compromettere o limitare il funzionamento quotidiano. La Sindrome di Asperger e il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non Altrimenti Specificato scompaiono. L’APA sottolinea così che le diverse condizioni delle persone con Autismo appartengono ad uno stesso continuum, differenziate dalla gravità e dalla necessità di supporto, dando così origine a delle sotto-diagnosi: very substantial support, substantial support, support.

Qualunque sia la classificazione diagnostica utilizzata, i ragazzi con ASD o Autismo o Sindrome di Asperger, presentano spesso problemi di carattere sociale ed emotivo: possono essere ansiosi o depressi o possono presentare disturbi della condotta (Tonge et al. 1999; Kim et al., 2000; Gillot et al. 2001). In aggiunta possono non essere capaci, oltre che di riconoscere gli stati emotivi altrui, anche di riconoscere e descrivere la propria attivazione emotiva (Hill et al. 2004). Se si pensa che spesso tali quadri deficitari si aggiungono a una compromissione delle funzioni esecutive (inibizione, pianificazione, organizzazione e regolazione dell’attività emotiva), è facile concludere come, nonostante i bambini con ASD sembrino difficili da seguire, le loro difficoltà nascono da un ritardo nella maturazione della capacità di gestire le emozioni (Klin et al. 2005).

E’ dunque importante aiutare i bambini con ASD ad acquisire dei mezzi per gestire i loro livelli di stress e ansia il prima possibile. Tra gli esperti più importanti in tema di Autismo e Asperger, Tony Attwood si è occupato proprio di questo attraverso la creazione di un protocollo per la gestione delle emozioni negative in bambini con Autismo ad alto funzionamento e Sindrome di Asperger (si farà da ora in poi riferimento alla classificazione da DSM IV-TR, così come nel protocollo illustrato).

Il manuale Esplorare i sentimenti per i più piccoli espone tale protocollo: Stress Treatment and Anger Management Protocol – STAMP, un programma di intervento pensato per bambini con Autismo ad Alto Funzionamento (HFA) e per bambini con Sindrome di Asperger. Il programma, pensato insieme ad Attwood, anche dagli psicologi nonché co-autori del libro, Angela Scarpa e Anthony Wells, ha come obiettivo principale la diminuzione delle emozioni negative, con il conseguente aumento delle sensazioni positive nella vita quotidiana dei bambini.

L’approccio usato nel protocollo si basa su un modello cognitivo-comportamentale che il dottor Atwood aveva precedentemente utilizzato per bambini dai 9 ai 13 anni con HFA e SA in comorbilità con Disturbi dell’umore. Il modello STAMP, invece, estende tale trattamento cognitivo-comportamentale a bambini più piccoli, tra i 5 e i 7 anni (ultimo anno di scuola materna e primo ciclo di scuola primaria).

Data l’età dei bambini, il metodo STAMP si avvale di giochi e attività con cui i bambini sono abituati a confrontarsi nella routine scolastica: canzoncine, cartelloni, storielle, disegni e feste. Le strategie primarie usate in questo programma includono l’educazione affettiva, la costruzione di abilità e la ristrutturazione cognitiva. Il programma è composto da nove sessioni a cadenza settimanale, della durata di un’ora ciascuna. I bambini si incontrano in gruppo, contemporaneamente i genitori si incontrano con un altro terapista che riassume loro le abilità e le tecniche insegnate ai bambini e offre dei compiti pratici da fare a casa con i propri figli per l’incontro successivo.

Le nove sessioni sono così divise:

  • Esplorare i sentimenti positivi (Felicità)
  • Esplorare i sentimenti positivi (Rilassamento) e Ansia/Rabbia – Introduzione alla cassetta degli attrezzi emotiva (usata per fornire al bambino delle soluzioni per gestire ansia e rabbia)
  • Esplorare ansia e rabbia, strumenti di Attività Fisica e Rilassamento
  • Strumenti Sociali
  • Strumenti di Pensiero
  • Strumenti dell’Interesse Speciale
  • Strumenti appropriati e non appropriati
  • Storia del Gruppo e creazione di uno Slogan Commerciale
  • Ricompensa per il gruppo e Festa!

Prima di esporre le diverse sessioni e descriverle meticolosamente una per una, gli autori del libro fanno strada al lettore con una prima parte introduttiva in cui sono illustrati i problemi socio-emotivi connessi con la SA, lo sviluppo del metodo STAMP, il quadro generale delle sessioni e un paragrafo sull’evidenza scientifica di tale metodo.

 Segue poi una seconda parte, a mio avviso molto utile, in cui si delinea come usare il manuale: attenzione viene data ai requisiti che deve avere il gruppo di bambini, alla valutazione diagnostica da eseguire prima di iniziare il protocollo (i test vengono riportati in appendice), gli eventuali problemi e la loro risoluzione, nonché una lista dei materiali consigliati.

Il libro poi offre un dettagliato elenco di ciascuna sessione di lavoro. Gli autori si soffermano quasi ossessivamente, nella terza parte del libro, su ogni sessione, descrivendone bene i materiali, le risorse, ciò che va detto e ciò che va fatto. Il terapista che ha intenzione di lavorare con il modello STAMP, grazie a questo libro, ha la possibilità di sentirsi accompagnato nel proprio lavoro, è una guida semplice e al tempo stesso ricca e facile da consultare al momento del bisogno.

Si consiglia la lettura agli psicologi e agli operatori che lavorano con bambini affetti da SA e HFA ed anche ai genitori: oltre a fornire un resoconto preciso e dettagliato del modello, potrebbe offrire interessanti spunti per un miglioramento della gestione delle emozioni nei loro piccoli utenti.

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BIBLIOGRAFIA:

Philip Zimbardo: Lectio Magistralis presso la Sigmund Freud University di Milano, 11 Luglio 2015

Grande successo per l’evento organizzato dalla Sigmund Freud University di Milano, che ha visto la Lectio Magistralis in calendario sabato 11 luglio completamente sold-out: 100 partecipanti da tutta Italia, numerose iscrizioni non accolte a causa dell’esaurimento dei posti, una folla di persone pronta a scattare foto e farsi firmare autografi.

Per i “non addetti ai lavori” che hanno assistito da fuori la scena è stata alquanto bizzarra: un simpatico vecchietto di 82 anni, con indosso occhiali da sole a specchio e t-shirt con la scritta HERO TRAINING, posava sorridente davanti all’obiettivo di smartphones accanto a studenti e professionisti emozionati mentre gli porgevano copie di libri da firmare.
Per chi invece ha studiato psicologia è stata l’occasione per incontrare un mito vivente: stiamo infatti parlando di Philip Zimbardo, Professore Emerito alla Standford University, famoso ricercatore, noto al mondo intero per l’esperimento carcerario di Standford, uno di quegli studi che sono entrati di diritto nella storia della psicologia.

Lectio magistralis Philip Zimbardo

Ovviamente l’esperimento carcerario di Standford e le sue implicazioni sono stati argomento di uno dei 2 interventi previsti durante la lectio magistralis (My Journey from Evil to Heroism), ma come per ogni star che si rispetti il piatto forte è stato tenuto per ultimo e la mattina è stata dedicata ad un intervento su come la prospettiva temporale che adottiamo influenzi le nostre decisioni (The Secret Powers of Time to Influence Your Destiny), argomento che si è rivelato essere molto interessante per le possibili implicazioni in campo clinico.

The Secret Powers of Time to Influence Your Destiny

Sigla!

Uno dei più grandi paradossi dell’esistenza umana è il paradosso temporale: passato e futuro esistono infatti solo nella nostra mente, mentre l’unica cosa che è reale è il presente. Quando dobbiamo prendere una decisione siamo però inevitabilmente ed inconsciamente influenzati dalla prospettiva temporale: possiamo basarci sui ricordi che abbiamo di situazioni simili (orientati al passato), possiamo reagire alla situazione e agli stimoli immediati (orientati al presente) oppure possiamo anticipare le conseguenze (orientati al futuro).

In questa ottica la prospettiva temporale (PT) può essere analizzata secondo 6 fattori:
PT passato – Focus su elementi positivi
PT passato – Focus su elementi negativi
PT presente – Edonismo
PT presente – Fatalismo
PT futuro – Orientato al raggiungimento di obiettivi
PT futuro – Trascendentale (la vita dopo la morte)

Il fatto che si adotti prevalentemente una prospettiva temporale piuttosto che un’altra è influenzato da diversi fattori tra cui la posizione geografica, il clima, la cultura, la religione, la classe sociale, il livello di istruzione, la stabilità politica ed economica.

Lectio Magistralis Philip Zimbardo

Philip Zimbardo ha elaborato un questionario (ZTPI) di 56 item per valutare 5 fattori della prospettiva temporale: PT futuro, PT passato positivo, PT passato negativo, PT positivo, PT negativo. Una scala a parte è invece dedicata al futuro trascendente. Esaminando la correlazione tra questi fattori e diversi costrutti psicologici sono emersi risultati interessanti. Tra i risultati degni di nota, le persone orientate al futuro hanno mostrato una forte correlazione (.7) con la coscienziosità. In altre parole, sanno resistere alle tentazioni quando c’è del lavoro da fare, il che potrebbe spiegare il loro maggiore successo nella vita; inoltre vivono in media 2 anni in più perché adottano comportamenti salutari e minimizzano i rischi.

A rischio invece gli orientati al presente fatalistici (i rassegnati che le cose non possano cambiare perché sono così, punto), che correlano positivamente con aggressività, tratti d’ansia e depressione e negativamente con la considerazione delle conseguenze future (-.7), e gli orientati al passato negativo, che correlano positivamente con ansia (.75), depressione (.7) e aggressività (.6).

Il funzionamento equilibrato dell’individuo dovrebbe comprendere la capacità di slittare in maniera flessibile da un orientamento rivolto al futuro (non estremo, altrimenti si sfocia nel patologico workaholic) ad un focus sul presente positivo come ricompensa per i propri sforzi ad uno sguardo al passato positivo.

Il modello elaborato da Zimbardo può avere delle implicazioni in campo clinico che meritano sicuramente un approfondimento. Rick & Rosemary Sword hanno per esempio sviluppato la Time Therapy, una terapia che mira a riequilibrare la prospettiva temporale nel trattamento di ansia, depressione e PTSD promuovendo “il focus sul raggiungimento di un futuro più luminoso al posto di focalizzarsi su un passato negativo con lo scopo di creare un presente felice”.

L’intervento di Zimbardo si è concluso con l’invito a pensare al tempo che abbiamo a disposizione, a equilibrare la nostra prospettiva temporale e ad utilizzare il tempo bene e in maniera sapiente. Poi, per dare il buon esempio, il Professor Zimbardo si è alzato dalla sedia e… ha iniziato a ballare:

 

LA RASSEGNA STAMPA

DETTAGLI DELL’EVENTO

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

EMDR: 16° Congresso Europeo – La terza giornata

EMDR 2015 Milano (1)

Report dalla 16th EMDR EUROPE CONFERENCE Milano 10-12 Luglio 2015

III GIORNATA

Durante la mattinata di domenica 12 Luglio, mentre nelle altre sale relatori italiani e stranieri illustravano l’uso dell’EMDR con le dipendenze, con i pazienti oncologici e negli interventi di emergenza, Carol Forgash ha ripreso il discorso sulle Adverse Childhood Experiences (ACE) iniziato sabato pomeriggio.

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Portando ad esempio dei casi clinici, la relatrice ha parlato delle principali difficoltà del lavoro terapeutico con persone sopravvissute ad esperienze infantili di abuso e trascuratezza, mettendo dettagliatamente in evidenza i target da indagare e lo svolgersi delle diversi fasi del protocollo EMDR.
Attraverso la presentazione del questionario di indagine delle ACE e di tecniche specifiche per le diverse fasi del protocollo, in questo intervento è stato proposto un piano di trattamento dettagliato per questi pazienti.

Partendo dalla considerazione che spesso presentano complessi quadri di patologia fisica, emerge come sia di fondamentale importanza il lavoro sulla mancanza di fiducia che molte volte la loro storia li ha portati a nutrire nei confronti dei medici. Questo atteggiamento rappresenta, infatti, un ulteriore fattore di rischio per la loro salute, portandoli a trascurare controlli e terapie indispensabili.
La Forgash illustra come questo sia un argomento delicato da affrontare con alcuni pazienti, che spesso non accettano ingerenze e non vogliono che il terapeuta contatti il loro medico, cosa invece importante per l’esito del trattamento.
E’ dunque imprescindibile lavorare sulle loro difficoltà e i loro timori, aiutandoli a ricostruire un senso di fiducia e affidamento.

Un punto sottolineato con forza è la necessità di procedere per fasi, dando a questi pazienti tempo e spazio sufficienti per un’adeguata stabilizzazione prima di procedere con la fase centrale di elaborazione.
A questo scopo la Forgash propone di integrare nelle prime fasi dell’EMDR esercizi sensomotori, come l’esercizio del pendolo, in cui il paziente viene fatto focalizzare alternativamente su un punto in cui avverte una sensazione piacevole e di rilassatezza e su un punto in cui avverte sensazioni spiacevoli e tensione, con lo scopo di stabilizzare e integrare le sue percezioni.
In qualunque momento del trattamento EMDR è possibile poi ritornare a questa fase preparatoria, laddove sia necessario per aiutare il paziente a restare nella finestra di tolleranza o a gestire un’eventuale dissociazione.
Anche esercizi di visualizzazione possono essere utili allo scopo, come quello del telecomando con cui aumentare o diminuire una sensazione, che incrementa il senso di controllo del paziente rispetto a sensazioni particolarmente disturbanti.

L’intervento pomeridiano di Dolores Mosquera ci ha portati a confrontarci con un aspetto particolarmente critico e doloroso che spesso si riscontra lavorando con pazienti gravemente traumatizzati: i comportamenti autolesivi ed il suicidio.
Con la sua dolcezza e la sua attenzione per l’interlocutore, la Mosquera ci ha avvisati prima di procedere con la presentazione che alcune immagini sarebbero state molto disturbanti. Lo sono state: le storie che ha raccontato, le foto e i video che ha mostrato ci hanno trasportati in un mondo di dolore estremo in cui il trauma ha assunto i toni più drammatici.

Entrando nel merito del suo lavoro con pazienti così gravi, innanzi tutto la relatrice evidenzia come intenzione suicidaria e comportamenti autolesivi non siano la stessa cosa, anzi molto spesso questi ultimi sono tentativi, se pur estremi e disfunzionali, di coping e l’EMDR può aiutare a capirne le motivazioni sottostanti e a fornire a queste persone delle alternative.

Per questa ragione è importante che durante la prima fase del trattamento il terapeuta non eviti l’argomento ma esplori senza pregiudizi questo comportamento, senza stigmatizzarlo o etichettarlo in maniera semplicistica o come riferito a se stesso.
Spesso è usato come regolatore delle emozioni; o, dopo molti tentativi falliti, è l’unico modo per chiedere aiuto; a volte è una punizione che si infliggono per i loro pensieri, per i sensi di colpa che avvertono; a volte è stato nella loro vita l’unico modo per ottenere l’affetto dei famigliari; a volte è il frutto di una dissociazione; altre volte è il tentativo di uccidere il mostro che hanno dentro.

Il suicidio è invece l’estrema soluzione quando questi pazienti non vedono altra via d’uscita, quando tutti i tentativi di controllo sono falliti e il dolore è soverchiante.
E’ importante indagare se vi sia un’ideazione suicidaria e se sia presente o meno uno specifico piano o metodo per portarlo a compimento: tanto più esiste un piano specifico, tanto maggiore è il rischio.

L’EMDR ha ruolo importante in tutte le fasi del trattamento ed è uno strumento molto efficace per neutralizzare i comportamenti autolesivi. Lavorando su immagini, pensieri, emozioni intrusive e disregolate si aiuta il paziente a stabilizzare i sintomi. Identificando episodi specifici alla base di questi atti, si possono rielaborare i ricordi traumatici che hanno dato origine alle automutilazioni, riducendo e persino facendo cessare tali comportamenti.

Il messaggio che emerge da questo bellissimo intervento della relatrice spagnola è di speranza: nonostante la grande sofferenza che emerge dalle loro storie, si può letteralmente vedere dai video e dalle immagini presentate come intervenire su queste situazioni sia possibile e l’EMDR costituisca uno strumento potente per aiutare queste persone a riappropriarsi delle loro vite.

E non possiamo che essere d’accordo con il chair nel definire la Mosquera “dono di Dio all’EMDR”!

L’ultimo intervento della giornata ha chiuso questa ricca conferenza con una prospettiva particolarmente innovativa: l’utilizzo dell’EMDR per il trattamento dei traumi molto spesso presenti (e sottodiagnosticati) nelle psicosi.

Marc van der Gaag ci ha illustrato il progetto danese “ Treating Trauma In Psychosis”, uno studio volto ad indagare l’efficacia e la sicurezza del trattamento EMDR e di Esposizione Prolungata del PTSD in pazienti psicotici.

Molti pazienti psicotici, infatti, presentano una storia di abusi e trascuratezze e i dati clinici hanno dimostrato che la presenza di abusi sessuali durante l’infanzia è un potente predittore di molti disturbi mentali in età adulta: in particolare circa il 33% delle psicosi sarebbe causato da abusi sessuali infantili.

Nonostante sia evidente da diversi studi la presenza di una significativa comorbilità psicosi/PTSD, non ci si occupa del trattamento del trauma in pazienti psicotici. Come mai? Perché nessuno sembra vedere questo elefante in mezzo alla stanza?

I professionisti della salute sono restii ad intervenire sul trauma in pazienti psicotici per paura che affrontare le memorie traumatiche possa peggiorare il loro quadro clinico e mettere ulteriormente a rischio il loro fragile equilibrio. Per 20 anni questo è ciò che la psichiatria ha sostenuto.
Gli stessi preconcetti hanno a lungo ostacolato l’utilizzo della CBT con i pazienti psicotici, finché molti studi non ne hanno appurato l’utilità.

Lo studio di van der Gaag e collaboratori ha invece dimostrato che EMDR ed Esposizione Prolungata sono molto efficaci nel trattamento del PTSD in pazienti psicotici e che i miglioramenti permangono e continuano anche al follow up di 6 e 12 mesi.
Oltretutto questa indagine ha finalmente accertato, per quanto su un campione ridotto, che sono trattamenti sicuri per questi pazienti e l’equipe di ricerca ha ottenuto il consenso per continuare il trial, con l’obiettivo di rispondere alle tante domande che questi esiti suscitano.

Questo studio apre dunque la strada ad un’area di ricerca ancora poco esplorata e che potrebbe condurre a nuovi ed importanti sviluppi nel trattamento delle psicosi.
Un’altra grande sfida raccolta e brillantemente superata dall’EMDR.

Uscendo dal centro congressi i volti sono stanchi e frastornati, ma nella testa risuonano le suggestioni, le riflessioni e gli spunti che tutti i relatori hanno saputo regalarci in questi giorni densi di lavoro.
La sensazione è che l’EMDR stia sempre più dando prova di essere uno strumento potente ed eclettico, capace di fare la differenza per molte persone sopravvissute ad esperienze traumatiche e provenienti da storie di vita difficili.

La comunità di professionisti provenienti da tanti Paesi che si è riunita negli scorsi giorni a Milano è viva e pulsante e ha condiviso con entusiasmo nuove sfide e solide conferme, lasciando nei partecipanti tanti spunti da approfondire e strumenti da mettere in pratica.

PRIMA GIORNATA

SECONDA GIORNATA

I disturbi del sonno nella malattia di Alzheimer: i trattamenti farmacologici sono efficaci?

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

I disturbi del sonno sono comuni nei pazienti con Malattia di Alzheimer (MA) e sono associati ad un significativo distress da parte del caregiver, ad un incremento dei costi socio-sanitari e ad un aumento della probabilità di istituzionalizzazione del malato.

I disturbi del sonno, che includono la riduzione e la frammentazione del sonno notturno, il wandering notturno e la sonnolenza durante il giorno, sono problemi clinici comuni nei pazienti con Malattia di Alzheimer (MA) e sono associati ad un significativo distress da parte del caregiver, ad un incremento dei costi socio-sanitari e ad un aumento della probabilità di istituzionalizzazione del malato.

Il trattamento farmacologico è spesso utilizzato per alleviare queste problematiche, ma esiste una significativa incertezza circa l’efficacia e gli effetti collaterali dei farmaci comunemente utilizzati per questa popolazione di pazienti così particolarmente vulnerabile.

La rivista BJPsych Advances ha recentemente pubblicato una versione abbreviata dell’omonima ben più ampia revisione su questo tema già apparsa l’anno scorso all’interno del Cochrane Database of Systematic Review.

Gli autori, Jenny McCleery, Daniel A. Cohen e Ann L. Sharpley, attraverso un’attenta analisi della letteratura, hanno accertato la presenza di studi adeguatamente robusti sul piano metodologico solo per tre farmaci: la Melatonina e il Trazodone (nome farmaceutico: Trittico), utilizzati in caso di MA da moderata a severa, e il Ramelteon (nome farmaceutico: Rozerem), prescritto a pazienti con MA da lieve a moderata.

Negli studi considerati, i pazienti presentavano una grande varietà di disturbi del sonno, la maggior parte dei quali rilevati attraverso l’actigrafia, un’indagine strumentale semplice ed economica per il monitoraggio del ritmo sonno-veglia.

Dai risultati è emerso che l’impiego di Melatonina, sia ad immediato che a lento rilascio, non determina alcun miglioramento sul sonno dei pazienti, mostrando efficacia pari ad un placebo in riferimento ad aspetti quali il numero di risvegli durante la notte e la sonnolenza durante il giorno; anche il funzionamento cognitivo non ha mostrato alcun miglioramento indiretto in seguito all’introduzione della terapia.

Il Trazodone a basso dosaggio (50 mg) somministrato alla sera per due settimane, invece, ha dimostrato di migliorare significativamente il tempo totale di sonno notturno e l’efficienza del sonno stesso, sebbene abbia minimi effetti sulla sonnolenza diurna e il numero di risvegli durante la notte e non abbia alcun effetto sul funzionamento cognitivo. Inoltre, come ulteriore nota positiva, l’assunzione di tale farmaco non è risultata associata a seri effetti collaterali.

Il Ramelteon somministrato alla sera, infine, non ha per ora dimostrato di avere alcun effetto di rilevanza clinica né sui disturbi del sonno, né sul piano cognitivo-comportamentale.

Il dato forse più rilevante è la totale mancanza di studi clinici controllati randomizzati (i cosiddetti Randomized Controlled Trials, RCTs) per molti dei farmaci che vengono correntemente spesso prescritti ai pazienti con MA per i disturbi del sonno, incluse le benzodiazepine e gli ipnotici non benzodiazepinici, per i quali c’è una considerevole incertezza circa il bilancio rischi/benefici.

Quest’area di ricerca ha senza dubbio una ricaduta pragmatica importante dal punto di vista clinico, considerando sia la diffusione delle malattie dementigene, sia la frequenza e l’effetto fortemente debilitante dei disturbi del sonno in questi pazienti. Fino a che non si raccoglieranno maggiori dati circa l’efficacia dei vari trattamenti farmacologici disponibili in commercio, l’invito che possiamo trarre da questa revisione non può che essere alla cautela e ad una prescrizione consapevole.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

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