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Come nasce la terapia metacognitiva: intervista ad Adrian Wells

 

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici.

L’approccio MCT è basato su una teoria introdotta da Adrian Wells e Gerald Matthews (1994) ed è stato applicato inizialmente al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000). In seguito la Terapia Metacognitiva è stata estesa a tutti i disturbi d’ansia e alla depressione con numerose evidenze sull’efficacia del trattamento che propone (per una sintesi vedi Norman, van Emmerik e Molina, 2014).

Nel video il creatore della Terapia Metacognitiva, Prof. Adrian Wells, descrive come gli studi originali sul modello teorico alla base della MCT siano nati con l’intento di colmare l’incoerenza tra scienze cognitive e psicoterapia cognitiva nel descrivere come i meccanismi che compongono l’archittettura cognitiva interagissero nei disturbi psicologici.

https://www.youtube.com/watch?v=qyAqJGBqAVM

CONSIGLIATI: Terapia Metacognitiva MCT

Né lavoratore né pensionato: i problemi psicologici degli esodati

Gli esodati si sono sentiti improvvisamente mancare la terra sotto i piedi, quella terra fatta di una certa stabilità economica e sociale che avrebbe garantito loro una vecchiaia più serena.

Il termine Esodato è stato uno dei termini più utilizzati durante questo periodo di crisi economica. Esodato è colui che ha interrotto il proprio rapporto di lavoro, spesso accettando pacchetti o incentivi economici volti a tutelarlo fino al raggiungimento della pensione. E’ colui che avrebbe dovuto maturare i requisiti per andare in pensione nel 2012, con possibilità di pensionamento a partire dal 2013 dunque, ma che, a seguito della Riforma Fornero e dell’innalzamento dell’età pensionabile, ha visto drasticamente allungarsi l’attesa per raggiungerla. Spesso l’esodato, persona ormai adulta, ha a carico famiglie, figli non ancora autonomi, genitori malati o mutui.

Evidente è dunque il duro colpo economico che gli esodati hanno subito, ma cosa dire dei risvolti psicologici?

 In un periodo di transizione quale il passaggio dal sentirsi lavoratore al sentirsi pensionato, l’individuo rimette nuovamente in gioco se stesso e i suoi progetti, pian piano comincia a prepararsi alla sua nuova identità sociale; organizza mentalmente le attività da fare, con i risparmi di una vita di lavoro, quando sarà finalmente libero dagli impegni professionali, e forse fantastica già su quello sfizio che si sarebbe tolto una volta in pensione.

Gli esodati, invece, si sono sentiti improvvisamente mancare la terra sotto i piedi, quella terra fatta di una certa stabilità economica e sociale che avrebbe garantito loro una vecchiaia più serena. I soldi dunque mancano, le responsabilità familiari si accavallano e non si è più in grado di ridefinirsi socialmente, non si ha più un ruolo. Anche il duro colpo psicologico si fa ora più chiaro.

Nell’ambito del suo lavoro di tesi, il giovane psicologo Lorenzo Aragione, ha studiato gli effetti della riforma Fornero sulla salute psico-fisica degli esodati.

Nell’articolo consigliato, nel quale è riportata un’intervista al Dott. Aragione, si può leggere a fondo come è stata organizzata e come si è svolta la ricerca e gli importanti risultati emersi. Alcuni tra tanti? Gli esodati hanno mostrato una significativa presenza, maggiore rispetto ai coetanei lavoratori, di ansia, insonnia, depressione e malattie cardiovascolari. Sorgono sfiducia, scoraggiamento e la sensazione di essere inutili e impotenti. Per la vergogna, soprattutto gli esodati di sesso maschile, non si confidano fino in fondo né con la famiglia né con i conoscenti, è così dunque che si isolano dagli altri.

Quali azioni si fanno per contrastare gli effetti psicologici di tale crisi? Quale effetto avrà quest’ultima sul Sistema Sanitario Nazionale dato che gli scompensi sul piano sia fisico che psicologico degli esodati richiederanno un elevato livello di assistenza sanitaria?

Per un interessante approfondimento sul tema vi consiglio di proseguire con la lettura dell’intervista.

Le testimonianze raccolte nel corso della ricerca sono emblematiche di migliaia di storie di donne ed uomini, fuoriusciti dal mercato del lavoro, per motivi diversi e nel rispetto delle regole vigenti fino al dicembre 2011, ma che, a seguito dei provvedimenti della riforma Fornero, sono approdati gioco-forza in una «terra di nessuno». Pur nella diversità dei singoli vissuti, le testimonianze raccolte in questo lavoro presentano aspetti comuni e ricorrenti.

Drammatici riscontri di una ricerca scientifica: per gli esodati una vita di ansia, depressione, malattieConsigliato dalla Redazione

Né lavoratore né pensionato: i problemi psicologici degli esodati
di Raffaele Marmo – Nell’ambito del suo lavoro di tesi, il giovane psicologo Lorenzo Aragione, ha studiato gli effetti della riforma Fornero sulla salute psico-fisica degli esodati. (…)

Tratto da: QuotidianoNet

 

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Una “spugna” per coltivare neuroni: l’evoluzione dei neuroni in vitro dal 2D al 3D

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Con una tecnica tanto innovativa quanto semplice un team di ricercatori italiani (SISSA di Trieste, Università degli Studi di Trieste e IIT di Genova) sono riusciti a ottenere una cultura in vitro di neuroni primari (e astrociti) genuinamente tridimensionale.

Il network di neuroni ha mostrato una funzionalità più complessa di quelle bidimensionali. La struttura creata è anche la prima a incorporare nanotubi di carbonio, che favoriscono la formazione di sinapsi fra i neuroni in cultura.

La ricerca è stata pubblicata su Scientific Reports. La conoscenza del cervello (come anche le tecnologie nel campo della neuro-­‐ingegneria) trae grandi benefici dalla possibilità di far crescere network di neuroni vivi e funzionanti. Attualmente le culture neuronali sono essenzialmente bidimensionali (si sviluppano su un piano, immaginate il classico “disco di Petri”) , ma come appare intuitivo la condizione più “naturale” per un neurone e per una rete di neuroni è quella di crescere e vivere in uno spazio tridimensionale.

Finora sono stati fatti dei tentativi di culture 3D che però sono sostanzialmente sovrapposizioni di tanti strati di culture 2D. La struttura creata da un team coordinato da Laura Ballerini della SISSA è la prima genuinamente tridimensionale, con neuroni e astrociti funzionanti (per “diverse settimane”). [blockquote style=”1″]Abbiamo usato uno ‘scheletro’ (in gergo tecnico scaffold) di materiale elastomerico, una sorta di spugna, sul quale abbiamo poi fatto crescere i neuroni.[/blockquote]

Ballerini e il suo team alla SISSA (Rossana Rauti e Denis Scaini) hanno lavorato in stretta collaborazione con il gruppo di Maurizio Prato dell’Università degli Studi di Trieste (in particolare Susanna Bosi, che condivide il primo nome come autrice della ricerca). Ballerini e Prato lavorano insieme da diversi anni proprio nello studio delle interfacce fra neuroni e nano-­‐materiali. Le registrazioni dell’attività dei neuroni – misurata in maniera indiretta attraverso imaging delle variazioni di calcio nel citoplasma di queste cellule, e non registrando direttamente l’attività elettrica con degli elettrodi, cosa complessa per questo tipo di struttura -­‐ hanno mostrato che i neuroni sviluppati sulla spugna 3D sono vivi e funzionanti. Ma non solo, la tecnica utilizzata ha permesso un confronto diretto fra la funzionalità della cultura tridimensionale e di un’analoga bidimensionale, mostrando che la prima è molto più complessa.

[blockquote style=”1″]La nostra tecnica è diversa da altri tentativi fatti finora, che si limitavano essenzialmente a impilare una sopra l’altra tante culture planari[/blockquote] spiega Rauti. [blockquote style=”1″]Questo approccio ‘a strati’ ha lo svantaggio di moltiplicare il numero di neuroni nella cultura, rendendo ambiguo un confronto diretto fra culture 3D e quelle tradizionali, che normalmente hanno un numero più esiguo di cellule. Con la nuova tecnica invece questo confronto si può fare, così abbiamo potuto osservare che la tridimensionalità migliora l’organizzazione funzionale (sinaptica) di piccoli raggruppamenti di neuroni[/blockquote] spiega Scaini.

Più in dettaglio… [blockquote style=”1″]La prova che la maggiore complessità funzionale è proprio conseguenza della struttura tridimensionale è arrivata da una serie di simulazioni al computer e studi teorici effettuati all’IIT di Genova, che hanno riprodotto fedelmente i nostri dati sperimentali[/blockquote] spiega Ballerini. Un altro elemento che rende unica la metodologia usata in questa ricerca è l’uso dei nanotubi di carbonio, materiale sul quale Ballerini e Prato lavorano da anni. [blockquote style=”1″]Abbiamo ricoperto le cavità dello scheletro di elastomero di nanotubi di carbonio che favoriscono la formazione di sinapsi fra neuroni in cultura, aumentando così ulteriormente la funzionalità delle cellule. Il vantaggio della nostra metodologia è l’estrema semplicità. Pensiamo che in futuro la nostra tecnica potrà venire adottata nei laboratori che effettuano questo tipo di culture, diventando magari uno standard[/blockquote] commenta infine Ballerini.

 

MATERIALE UTILE: • Una copia dell’articolo originale (Doi: 10.1038/srep09562) può essere richiesta dai giornalisti scrivendo a: [email protected]

IMAGES: • Copertina: Ricostruzione confocale di culture ippocampali su scheletro 3D (crediti: SISSA)

Altre immagini su Flickr

VIDEO: • Guarda l’animazione su Youtube

Contatti: Ufficio stampa: [email protected]

Tel: (+39) 040 3787644 | (+39) 366-­‐3677586

via Bonomea, 265 34136 Trieste

Maggiori informazioni sulla SISSA: www.sissa.it

 

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Cassazione: approvato il cambio di sesso all’anagrafe anche senza intervento chirurgico

Un passo in più per il rispetto dei diritti delle persone Trans: in data 20/07/2015 è stata deposta la Sentenza della Cassazione n° 15138/15 che consente il cambio di sesso all’anagrafe, anche senza intervento chirurgico.

 

Perché Fernanda è come una figlia e come una figlia vuol far l’amore, ma Fernandino resiste e vomita e si contorce dal dolore

F. De André

 

Non basta svegliarsi ogni mattina in un corpo che senti non ti appartenga; non basta lottare contro chi, per diversi motivi, si ferma alla superficie delle cose e se anche riesce a percepire un minimo di ciò che hai dentro, lo sfrutta non per vedere oltre, dentro di te, ma per etichettarti e intrappolarti in quella superficie di cui, forse, egli stesso è schiavo. Non basta camminare per la strada e, oltre a palazzi e alberi, avere la compagnia di sguardi indiscreti e battutine ormai sentite tante altre volte.

Questo non basta a chi vive nella condizione di non sentirsi a proprio agio con la sessualità che il corpo gli impone. Spesso bisogna fare i conti con la burocrazia e con la legge, anche quando, nonostante tutte le difficoltà, si è riusciti a raggiungere finalmente, seppur nel corpo ‘estraneo’, un equilibrio psico-fisico.

Di pochi giorni fa, tuttavia, la notizia: la Corte di Cassazione si è pronunciata favorevole al cambio di sesso all’anagrafe, anche senza intervento.

 Protagonista della vicenda è una persona trans di 45 anni che, più di 15 anni fa ha ottenuto l’autorizzazione all’intervento chirurgico di cambio sesso. Il protagonista vi ha però rinunciato poiché, vivendo come donna e sentendosi socialmente riconosciuta in quanto tale, ha raggiunto negli anni un equilibrio psichico e fisico. Tuttavia la legge aveva fino a questo momento respinto la richiesta di modificazione degli atti anagrafici senza previa esecuzione del trattamento chirurgico di cambio sesso.

In data 20/07/2015 è stata però deposta la Sentenza della Cassazione n° 15138/15 che, come sopra anticipato, consente il cambio sesso anagrafico senza l’ intervento chirurgico, prima invece necessario, definendo le precedenti decisioni giuridiche «restrittive dei diritti fondamentali della persona, quali l’identità personale, l’autodeterminazione, l’integrità psicofisica e il benessere psicosociale; è smentita da quanto normalmente avviene … per le persone per le quali è impossibile ricorrere all’intervento chirurgico». La Corte dunque afferma che il giudice di merito ha sbagliato nel ritenere che la mancanza del trattamento chirurgico fosse una sufficiente ragione per ritenere irreversibile il cambiamento dei dati anagrafici.

Si spera, adesso, che tale sentenza sia un primo passo per accogliere e rispettare i diritti delle persone trans, partendo dalla semplificazione burocratica, così come accade in molti altri Paesi.

E’ stata deposita ieri la sentenza n° 15138/15 della prima sezione della Corte di Cassazione in cui si accoglie il ricorso dell’associazione Rete Lenford sul caso di un uomo che voleva diventare donna e aveva richiesto, in un primo momento, l’autorizzazione al trattamento medico chirurgico per la modifica dei caratteri sessuali, allo scopo di ottenere la rettifica dei dati anagrafici. La Cassazione ha deciso che per ottenere la rettificazione degli atti anagrafici non è obbligatorio l’intervento di adeguamento degli organi riproduttivi.

Cassazione: si al cambio di sesso all’anagrafe anche senza interventoConsigliato dalla Redazione

Cassazione: approvato il cambio di sesso all’anagrafe anche senza intervento chirurgico - Immagine: 83204962

L’€™interpretazione restrittiva del giudice che impone l’€™intervento rischia di comprimere diritti fondamentali quali l‒autodeterminazione, l’€™integrità psicofisica e il benessere psicosociale. (…)

 

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Correndo con le forbici in mano – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 03

RUBRICA I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM – Correndo con le forbici in mano (Nr. 03)

REGIA: Ryan Murphy
ANNO DI USCITA: 2006
TEMI PSICOLOGICI TRATTATI: relazioni familiari complesse, psicanalisi, disturbi affettivi

TRAMA:
Il film “Correndo con le forbici in mano” di Ryan Murphy è uscito nelle sale cinematografiche nel 2006 ed è tratto dall’omonimo libro di Augusten Burroughs, nel quale l’autore racconta le esilaranti quanto tragiche esperienze della sua infanzia. Il protagonista, Augusten, vive i primi anni della sua giovinezza ai margini della vita familiare, con un padre alcolista e una madre bipolare con tratti istrionici di personalità. Augusten si barcamena assecondando le vane ispirazioni artistiche della madre e cercando di attenuare le frustrazioni del padre, fino alla decisione del divorzio. La madre, consapevole di non essere in grado di badare alle cure del figlio, sceglie di darlo in affidamento al suo storico ed eccentrico psicanalista.

Da questo momento in poi il film è un susseguirsi di situazioni tragiche e insieme esilaranti al limite della realtà. Il dottor Finch, psicanalista eclettico con poteri da alchimista, vive con la sua famiglia allargata in una vecchia casa d’epoca, colma di caos e disturbi psicopatologici. Ha tre figli, due femmine e un maschio, quest’ultimo francamente psicotico ma che il dottore si ostina a curare come un complesso edipico irrisolto.
Sebbene la parte comica sia divertente e surreale, è un film che lascia un retrogusto di tristezza, laddove l’animo esuberante del padre trascura i bisogni affettivi dei figli e della moglie, gravemente depressa quanto ignorata da tutta la famiglia, che passa le giornate davanti alla tv mangiando croccantini per cani. Ma sarà proprio grazie a lei che Augusten troverà il coraggio di costruirsi un’esistenza alternativa, lontana dalle complesse dinamiche familiari.

Un film tragicomico raccontato con humour nero, che estremizza in modo provocatorio gli stereotipi del mondo psicanalitico. Il regista riesce con raffinata abilità a prendersi gioco dei trattamenti psicologici “naif”, che dimenticano i principi deontologici e ottengono come effetto l’esasperazione del sintomo.

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L’alfabeto elettrico del cervello: temporarizzazione e frequenza sono alla base dell’informazione nervosa

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati  

L’alfabeto del cervello è un mix di frequenza ed esatta scansione temporale degli impulsi elettrici: l’osservazione è stata fatta dai ricercatori della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) a Rovereto ed è stata pubblicata sulla rivista internazionale Current Biology.

Il lavoro mostra che nel sistema nervoso esiste un linguaggio “multicanale” che costituisce il “codice nervoso”, e cioè l’alfabeto che codifica l’informazione nel cervello. Il segnale nervoso è costituito da sequenze di impulsi elettrici che viaggiano sui canali di comunicazione, i circuiti neuronali.

Con quale alfabeto queste sequenze trasmettono informazione? In altre parole, in cosa consiste il linguaggio del cervello? Secondo un nuovo studio pubblicato su Current Biology, l’informazione è contenuta sia nella frequenza degli impulsi sia nella loro esatta distribuzione temporale, chiamata temporizzazione dagli scienziati. Per distinguere un messaggio da un altro, la frequenza degli impulsi (potenziali elettrici) varia in un arco temporale piuttosto lungo, di decine di millisecondi.

Questa “codifica a frequenza” è nota da molti anni. La novità di questo studio sta nella dimostrazione di un’altra codifica “a temporizzazione” sulla scala di pochi millisecondi. Al contrario di quanto si credeva finora, la ricerca dimostra, inoltre, che la temporizzazione può avere un’importanza anche superiore alla frequenza, ed entrambe si integrano a formare un messaggio più ricco di informazione. Lo studio è stato coordinato da Mathew Diamond, professore della SISSA a Trieste, e da Stefano Panzeri, ricercatore team leader del Centro di Neuroscienze e Sistemi Cognitivi dell’IIT a Rovereto.

[blockquote style=”1″] L’esistenza di due sistemi di codifica, basati su frequenza e temporizzazione, crea canali multipli sulla stessa linea di trasmissione[/blockquote] spiega Diamond. [blockquote style=”1″]Se prendiamo per esempio la sensazione tattile, il cervello utilizza questi canali multipli per comunicare aspetti dello stimolo -­‐ intensità del tocco, grana della superficie, forma dell’oggetto e via dicendo -­‐ che non potrebbero essere comunicati con un singolo mezzo di informazione[/blockquote] specifica Panzeri. [blockquote style=”1″]Abbiamo dimostrato che, al contrario di quanto si sosteneva finora, l’esatta sequenza temporale con cui vengono prodotti gli impulsi elettrici codifica informazione che è molto importante e integra e supera, nel caso dei nostri esperimenti, quella veicolata dalla frequenza[/blockquote] spiega Diamond. [blockquote style=”1″]La temporizzazione degli impulsi offre per esempio un’informazione molto più ricca poiché il numero possibile di messaggi è più vasto di quello offerto dalla sola frequenza. Grazie a questa scoperta sappiamo meglio come imitare il linguaggio del cervello, e quindi riprodurlo. Possiamo, infatti, pensare di sviluppare protesi robotiche, come arti per amputati, in grado di comunicare con il cervello in modo bidirezionale e complesso, così da permettere non solo un ripristino delle capacità motorie, ma anche dei sensi, come per esempio il tatto[/blockquote] conclude Panzeri.

Più nel dettaglio… Negli esperimenti condotti durante questa ricerca dei ratti ispezionavano con le vibrisse una superficie di rugosità variabile. La discriminazione della texture della superficie generava un’attività nervosa della corteccia cerebrale, che i ricercatori hanno registrato e analizzato. Lo studio ha mostrato non solo che l’informazione veicolata dalla temporizzazione era maggiore di quella veicolata dalla frequenza da sola, ma anche che la combinazione dei due canali era più accurata dei due codici presi separatamente.

[blockquote style=”1″]Abbiamo scoperto che il cervello codifica parte dell’informazione a scale di tempo molto veloci, in particolare in sequenze di impulsi emessi con precisione al di sotto di 5 millisecondi [/blockquote]conclude Panzeri. [blockquote style=”1″]Un’altra parte di informazione invece è codificata su scale di tempo più lente, gli impulsi trasmettono un messaggio in tempi di diverse decine di millisecondi. Il messaggio è uno solo, naturalmente, solo che viene letto con due ‘grane’ diverse, un po’ come se il cervello guardasse prima a occhi nudi e poi attraverso una lente d’ingrandimento. I nostri dati dicono che l’informazione sulla struttura temporale dettagliata degli impulsi non deve essere sottovalutata, e che il sistema nervoso riesce a comunicare aprendo diversi canali in un unico segnale. È probabilmente questo uno dei segreti alla base della ricchezza delle nostre percezioni[/blockquote] commenta Diamond.

 

IMMAGINI: • Crediti: Allan Ajifo

LINK UTILI: • Paper Originale su Current Biology

Contatti: Ufficio stampa -­‐ SISSA: [email protected]

Tel: (+39) 040 3787644 | (+39) 366-­‐3677586

via Bonomea, 265 34136 Trieste

Maggiori informazioni sulla SISSA: www.sissa.it

Ufficio stampa -­‐ IIT: [email protected] / [email protected]

Tel: (+39) 010 71781965 | (+39) 3351004203

Via Morego 30, 16163 Genova

Maggiori informazioni sull’IIT: www.iit.it/; www.facebook.com/IITalk/http://twitter.com/IITalk

 

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Approccio clinico e realtà aziendale: quale possibile relazione?

Dott.ssa Anna Angelillo, in collaborazione con la Dott. ssa Alessandra L’Abbate e la Dott.ssa Giulia Tirelli

Sono molti gli studi (Flamholtz, 2001; Kotter & Heskett, 1992; Sisodia, Wolfe & Sheth, 2007) che hanno mostrato quanto la cultura di un’organizzazione possa influenzare la performance aziendale e consentire il raggiungimento di alti livelli di produttività, soddisfazione e di benessere aziendale e di coloro che ne fanno parte.

Secondo Schein (1985; 2000), la cultura organizzativa è la fonte principale dell’identità dell’organizzazione e la sua osservazione consente di identificare modalità di funzionamento relazionale e operativo di coloro che ne fanno parte. Essa può essere intesa come un sistema di cognizioni socialmente acquisite e condivise, che forniscono agli attori schemi mentali e strutture di significato utilizzabili per percepire e interpretare la propria esperienza e valutare e dirigere le proprie azioni (Gagliardi & Monaci, 1997; Manuti & Mininni, 2008).

La cultura aziendale riguarda, quindi, anche le relazioni umane: i suoi assunti si sviluppano intorno al modo in cui le persone di un’organizzazione si relazionano tra di loro, attraverso le proprie personali motivazioni e sulla base di valori personali e aziendali condivisi. In tal senso, gli effetti di un intervento sulle dinamiche relazionali e sull’assetto valoriale delle persone in un contesto aziendale si estenderanno naturalmente in altri contesti di vita.

Sulla base di queste riflessioni è stato realizzato un progetto volto a ridefinire l’assetto valoriale, riposizionare l’organico e le sue specificità e a valorizzare il potenziale di una realtà aziendale giovane e creativa, utilizzando un approccio clinico e mettendo a punto una metodologia di esplorazione e intervento, ispirata a teorie e pratiche di matrice cognitivista.

Il lavoro è stato articolato in due fasi: una prima fase osservativa durante un team building ed un secondo momento di valutazione tramite un questionario self report costruito ad hoc e colloqui individuali. Lo strumento principe è stato una griglia di osservazione, riadattata dal modello presentato da Cianitto e Mossi, presentato al XVII Congresso nazionale SITCC 2014, e ispirata alla teoria dei sistemi motivazionali (SMI; Liotti, 2005). Tale strumento è stato utilizzato sia durante la prima fase osservativa, che durante il momento di valutazione successivo.

Il team building ha permesso di rilevare l’assetto motivazionale di ciascuna risorsa attraverso l’osservazione delle dinamiche relazionali messe in gioco; durante la fase successiva, è stata utilizzata una griglia di rilettura dei colloqui effettuati individualmente, con una particolare attenzione all’assetto valoriale presentato da ciascuna risorsa in relazione all’azienda.

I cardini del costruttivismo (Bara, 2005; Guidano, 1988) – l’assetto relazionale, la complessità, la condivisione e la co-costruzione di significati – hanno accompagnato la fase ultima di restituzione. L’assetto di condivisione dei risultati all’interno dell’organico ha dato modo di vedere con occhi nuovi le aree critiche che rendevano opaca la propria realtà lavorativa e di sperimentarsi nella ricerca condivisa di nuove strategie di gestione, co-costruendo lo spazio per una riflessione autentica sulla complessità caratterizzante anche il contesto organizzativo.

L’incontro tra cognitivismo clinico e realtà aziendale ha permesso di esplorare le aree di significato delle risorse e i loro modi personali e originali di essere e stare nelle relazioni personali e professionali. Proprio in quanto somma di individui per definizione complessi, la realtà aziendale diventa essa stessa complessità.

Al suo interno, l’approccio clinico permette una maggiore attenzione alla persona e facilita l’acquisizione di consapevolezza che diventa punto di partenza per costruire nuove modalità di essere individui e professionisti più produttivi e più sani.

POSTER: SMI NELLA REALTA’ AZIENDALE

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Mindfulness in azienda: verso la progettazione di interventi efficaci

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bara, B., G. (2005). Nuovo manuale di psicoterapia cognitiva. Bollati Boringhieri: Torino.
  • Cianitto E., Mossi M., (2014). “Questa azienda è una giungla.” Simposio presentato in occasione del XVII Congresso nazionale SITCC 2014.
  • Flamholtz, E. (2001). Corporate culture and the bottom line. European Management Journal, 19(3), 268–275.  DOWNLOAD
  • Gagliardi, P., & Monaci, M. (1997). La cultura. Utet: Torino.
  • Guidano, V.F. (1988). La complessità del sé, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Kotter, J., & Heskett, J. (1992). Corporate culture and performance. The Free Press: New York.
  • Liotti, G. (2005). La dimensione interpersonale della coscienza. Carocci Editore: Roma.
  • Manuti, A., & Mininni, G. (2008), (a cura di). Il senso dell’organizzazione. Lo sguardo della psicologia culturale. Carocci: Roma.
  • Schein, E., H. (1985). Organizational culture and leadership. Jossey Bass Publishers: San Francisco.  DOWNLOAD
  • Schein, E., H. (2000). Cultura d’impresa. Cortina Editore: Milano.
  • Sisodia, R., Wolfe, D., & Sheth, J. (2007). Firms of Endearment. FT Press: USA.

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario

Resoconto del I Seminario sulla Disciplina Interiore del Terapeuta

di Giampaolo Salvatore
con
Anna Maria Barbarulo, Valeria De Liso, Elisa Langone, Nicoletta Manfredi, Raffaella Marciano, Antonella Pallotta, Mariagrazia Proto, Anna Sateriale, Marianna Serio, Laura Vitagliano

 

Aveva una struttura mentale particolare,
non attribuiva molta importanza alla
propria persona: non era, ai suoi occhi,
quella creatura rara e insostituibile che
ogni uomo vede quando pensa a se stesso.

Irène Némirovsky

 

I PARTE

Il rendez vous

Spacco il secondo. Di solito sono vittima della mia urgenza di essere puntuale. Ha qualcosa a che vedere col timore di essere rimproverato. Stavolta ci si mette anche una certa tensione. Ho chiaro in testa cosa vorrei realizzare con questo primo esperimento, ma non so assolutamente se sarò capace di realizzarlo. Però immagino, un po’ infantilmente, che il punto di partenza per iniziare a realizzarlo sia rispettare il programma. La tabella di marcia del primo seminario intensivo sulla disciplina interiore del terapeuta. Che tra l’altro non suona mica male.

Dieci giovani psicoterapeute. Appuntamento alle otto del mattino. Arrivano cariche di aspettative, impazienza, curiosità e speranza. Qualcuna di loro arriva lottando contro una specie di attrito col suolo. L’inerzia frenante dell’incognita. Che fa stridere un po’ l’asfalto ma non intacca la voglia di essere lì. Nella mente di tutte il viaggio è iniziato parecchio prima della partenza:

AM: Vari interrogativi affollano la mia mente “ma la disciplina interiore del terapeuta implica autocontrollo?”… “e lo può ottenere qualsiasi persona con qualsiasi temperamento di base??”… “riuscirò a far tacere e a ridimensionare le mie emozioni vivaci e incalzanti??”…. “qual’è la giusta misura tra il sentirsi intensi sul piano emotivo e l’autocontrollo?”…quale sarà la giusta via di mezzo e come si fa a mantenerla stabile come fa lui? Un giorno l’ho paragonato a Spock, il vulcaniano di Star Trek, e da allora questo soprannome gli è rimasto. Nelle supervisioni individuali e di gruppo spesso lo stesso suggerimento “metti tra parentesi te stessa” altrimenti perdi di vista il paziente; COME SE FOSSE FACILE! E noi spesso in coro… “Spock ma come si fa praticamente?” Ed ecco il seminario esperenziale. Ha deciso di farci vedere praticamente il suo percorso, di farci vedere come lui ha imparato a mettersi tra parentesi, ad osservare la sua mente e il suo corpo senza giudicarsi severamente e a regolare le emozioni e le azioni improduttive! Potrò trasformare il mio bisogno di “verità assoluta” in una “verità pragmatica” e smettere di intellettualizzare. Due giorni intensivi in un’oasi del WWF: dormiremo insieme, mangeremo insieme ….che atmosfera da GRANDE FRATELLO! Mi sento già una delle protagoniste di una nuova serie televisiva “l’ISOLA DEI TERAPEUTI”. Come si comporta un gruppo di psicoterapeuti messi insieme per due giorni a disciplinarsi? Come allenano questa difficile funzione della mente per poi aiutare al meglio i loro clienti?

 

R: Sabato mattina ore 7.30, la partenza tanto attesa. Direzione Senerchia! Molti sono i pensieri, le aspettative “Chissà se riuscirò a dimostrare che sono brava nel mio lavoro… chissà cosa penseranno di me…. Chissà…” Arriviamo a destinazione, con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia. Tanti sono i nuovi sorrisi… l’imbarazzo cresce e la paura di essere giudicata resta, però la voglia di apprendere è tanta!

 

AN: Non volevo partecipare al Seminario! E probabilmente non lo avrei fatto se non mi fossi sentita costretta dagli eventi … eh già, perché questa è una costante per me …. i timori di fare brutta figura, di non essere all’altezza, di essere giudicata male, di sbagliare e di perdere quell’aura di perfezione a cui tenacemente sono stata aggrappata per anni, di non riuscire ad integrarmi eguagliano e spesso superano di gran lunga il desiderio di affrontare le situazioni che mi piacciono.

 

V: Sono in auto da sola, e penso, penso.. chissà cosa ci aspetta, chissà chi ci sarà, se riuscirò a lasciarmi andare come vorrei o sarò la solita evitante che prima di lasciar trasparire aspetti di sé ha bisogno di tempo tempo tempo.. Presentazioni, saluti, baci, quanta gente.. già mi sento piccola, e che cavolo!

 

E: Arrivano Giampaolo (G.) e le altre. Imbarazzo misto a sorpresa. Il momento dei saluti. Quanto odio quei baci, quelle mani. Non so mai come comportarmi. Mi sento sempre un’impedita. Come quando sono in fila da altre parti, tipo in chiesa, seguo la massa e copio i loro atteggiamenti.

 

Senerchia. Borgo medievale che, Wikipedia insegna, esiste dal IX secolo. Cultura contadina con la schiena deformata dalla lotta quotidiana contro la devastazione della dignità; l’ultima volta, dal terremoto dell’80. Senerchia nuova è stata ricostruita accanto a quella vecchia, la città fantasma in cui si avventura qualche gatto con problemi di appartenenza. Hanno deciso che le generazioni future avrebbero dovuto avere sempre a portata di sguardo le macerie, lo sgomento, per capire cosa significhi uscirne vivi.

Le cime del Boschetiello e del Croce. Le conosco bene. Le guardavo da bambino quando giocavamo al pallone nella piazza vecchia. I portieri hanno tempo per guardare le montagne. Ora lascio che quelle cime rivolgano uno sguardo di sfuggita, distratto, all’operosità un po’ da formiche che scandisce l’ambientamento del gruppo nella villa. La concitazione per stabilire prima possibile le condizioni minime di familiarità, e sottrarre più alimento possibile a quell’angoscia serale che molti di noi provano quando sono lontani da casa, in mezzo a parziali sconosciuti (come se poi gli sconosciuti potessero esserlo parzialmente).

Tinì, la proprietaria, si fa aspettare dieci minuti tondi (secondo me apposta, per mascherare a modo suo l’ansia prestazionale che prova). Si è sempre fatta chiamare Tinì (per i più anglofoni, Tiny o Tinj), ma in realtà si chiama Concetta. Un altro pezzo della mia connessione storica con Senerchia, oltre alla mia breve carriera di portiere. Mi ha visto crescere nonostante io abbia pochi anni meno di lei.

Siamo sempre noi che decidiamo chi ci vede crescere, per poi dire in sua presenza, a qualcuno da cui vogliamo farci conoscere un po’, “mi ha visto crescere” (Spesso qualcuno dice di noi a qualcun altro “l’ho visto crescere” e a noi dà fastidio perché non lo abbiamo deciso noi). Comunque, Tinì. I suoi cinquantun’anni non l’hanno privata di quella capacità che ha da quando ne aveva quindici: la simulazione autoironica della vezzosità. Efficacissima per mettere da subito a proprio agio le persone. Per disinnescare sul nascere qualsiasi predisposizione dell’altro (soprattutto, dell’altra) all’agonismo. Mi sfotto – e mi ci diverto – dicendo che siamo in ritardo di ventitré minuti e quattordici secondi sul programma.

 

L’introduzione

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 1

Ho quattro cose da trasmettere al gruppo prima di iniziare:

a) che la disciplina interna non è come il dialogo socratico, una tecnica che si può applicare quando serve; quando un paziente difficile lo rende necessario (che so, perché ci fa saltare i nervi, sentire incapaci, impotenti, privi di valore, non amabili, ecc.); al contrario, solo se è un assetto interno costantemente coltivato dal terapeuta attraverso un percorso personale funzionerà quando serve col paziente difficile;

b) che quello che cercheremo di fare insieme funzionerà solo se compiremo insieme una virata radicale dalla dimensione del giudizio su noi stessi e sugli altri a quella dell’accettazione equanime di sé e dell’altro e della condivisione; per cui da questo momento in poi sarà tutto concesso; qualsiasi manifestazione emotiva (piangere, ridere, andarsene, arrabbiarsi con me, arrabbiarsi e basta, fare la pipì in pubblico, ecc.);

c) che non sono lì per insegnare; insegnare implicherebbe, almeno idealmente, che chi insegna fosse giunto alla fine del percorso che si accinge a insegnare; piuttosto sono lì per mostrare la strada che io seguo quotidianamente per tentare di funzionare meglio con i pazienti; poi loro sceglieranno se fa al caso loro e se approfondire;

d) che seguire una strada del genere significa sapersi guardare continuamente allo specchio e ammettere con umiltà quando da quella strada ci si allontana, per poi, se possibile, riprenderla.

La via più diretta verso questo quadruplice scopo è essere il primo a mettersi in gioco:

 

 

R: Tavolo, lavagna improvvisata, introduzione teorica… e a un tratto, inaspettatamente avviene una condivisione importante, carica di emozioni forti e di aperture profonde, la sua forza è tale da sgretolare una parte del mio muro di pregiudizio. Inizio a stare a mio agio, anche se ancora avverto molta confusione dentro di me…

 

AM:Silenzio, attenzione condivisa su un caso clinico complesso di Spock: i suoi interventi sono chiari e mirati ma il paziente chiuso nella sua sfida a demolirlo non li coglie; lo conosco e so quanto è bravo a tollerare anche pazienti cosi ostili, ma questa volta la mia attenzione è rapita da un colpo di scena inatteso: cambia la prosodia della sua voce, non ha più il solito tono rassicurante e di apertura all’altro, alza il tono e il volume della voce in un confronto dialettico e critico…non sono abituata a vedere Spock arrabbiato…..per un momento mi disoriento….lo sta cacciando fuori dallo studio?…si lo ha cacciato, non lo vuole piu vedere! Respiro, sono stupita e commossa! Bravo Spock, mi sei piaciuto!…..la distanza emotiva che spesso avvertivo si riduce…lo sento più vicino, mi sento più in sintonia con lui! Subito dopo, mentre spiega e parla anche di se e della fase di vita in cui ha visto quel paziente, mi diventa molto chiaro cosa significa conoscere le proprie aree di vulnerabilità, gli stati contingenti del terapeuta, lo scenario interiore e l’agire le azioni improduttive! Tutto molto più chiaro! Osservo gli altri, mi rivedo nei loro sguardi, sento in maniera molto forte che siamo di nuovo accomunati dalla stessa emozione di stupore e affetto per lui! Si è strutturata la coesione del gruppo, anche se non ci conosciamo bene, abbiamo tutti noi qualcosa in comune con lui; è il nostro comune denominatore e ci riconosciamo in lui e tra noi. Questo rispecchiamento mi piace, mi perdo e mi ritrovo nello sguardo e nelle parole degli altri, è una bella sensazione, è come se nessuno dicesse qualcosa che sento “fuori posto”, avverto una strana libertà di espressione e di movimento.

 

AN: La premessa di G….”dobbiamo fare esercizio di sospensione del giudizio”! Il primo a mettersi in gioco è proprio lui quando ci fa ascoltare la registrazione di una seduta con un suo paziente durante la quale si mostra ben diverso dal terapeuta perfettamente disciplinato e imperturbabile che siamo abituate a conoscere. Lo stupore è generale. Non riesco immediatamente a sospendere il mio giudizio. Nella mia testa si affollano domande sul motivo per cui si sia arrabbiato tanto e sul perché non sia riuscito a controllarsi… A molte delle mie riflessioni danno voce i miei compagni e le motivazioni più profonde vengono espresse. Ciò che mi colpisce, tuttavia, è il clima sereno con cui G. si sottopone al fuoco di domande. Sembrano essersi scambiati i ruoli, non so più chi è il supervisore e chi il supervisionato. Non vedo in lui la paura di mostrarsi inefficace, vulnerabile o infallibile come terapeuta e come persona (come accade spesso a me e a molte delle mie colleghe) e ciò mi rassicura perché mi offre un esempio di come essere “bravi” non sia sinonimo di essere “perfetti”. E poi lo sento davvero vicino, come noi….un amico che può capire come ci sentiamo quando sbagliamo e preda delle stesse violente onde emotive.

 

MG: “Osservare se stessi, spostandosi coscientemente dal giudizio alla condivisione”. Di supervisioni di gruppo ne ho fatte tante, ma per la prima volta sento dentro di me un clima interno favorevole per prendere le distanze dall’assetto giudicante. È il momento della famosa registrazione. È lui il primo a mettersi a nudo, mostrando anche la sua di vulnerabilità. Vedo lui e sento che nei giorni a venire potrò fare lo stesso e superare un mio limite…per un istante mi sento più serena, tranquilla in quel luogo.

 

N: Il passaggio dal giudizio all’accettazione. G. da subito ci mostra la sua vulnerabilità… una seduta audioregistrata in cui trova spazio la parte umana del terapeuta…sento il suo dolore. Mi risuona la mia voce interna “ti prego fermati!”… Accettare la sofferenza emotiva diventa l’unica per l’autodisciplina … forse per la prima volta nella mia vita ho sentito che la rabbia è davvero l’espressione del dolore …

 

E: …la sua spiegazione sul valore di sé e sull’amabilità come dimensioni fondamentali che il terapeuta sente spesso messe in pericolo mi rispecchia appieno. Io lo vivo in modo costante da sempre. È il momento della sua registrazione. Che paura quando lui grida rivolto al paziente. Quando G. gli dice che il giorno prima era morta sua madre mi sento triste. Penso subito “anche G. ha perso sua madre come me”. Il mio pensiero va a lei, a quanto è difficile far finta che tutto vada bene, al male che in vita le ho procurato, al mio immenso senso di colpa…A un certo punto interviene Tiny. Penso “che c’entra questa donna con noi? Perché si intromette”. Poi mi fermo e dico attenta al giudizio, aspetta. In realtà questa donna fa delle uscite inaspettate, ma non è inopportuna, solo schietta, dice quello che vuole nel momento in cui lo sente. Che scoperta! Sarebbe bello parlare senza cercare di anticipare l’effetto che potrebbero fare le proprie parole sugli altri.

 

A: G. è il primo ad esporsi…non immaginavo una rabbia così intensa… Mi parte l’accudimento e penso a quanto sia stronzo il paziente….poi mi distacco dal giudizio sul paziente, d’altronde mette in atto il suo funzionamento, e vedo la sofferenza di G. e come quanto anche lui sia umano…come anche lui nei momenti difficili può sbagliare, ma resta pur sempre una “guida” ….per un attimo provo il mio dolore di qualche tempo fa e mi viene in mente il giorno in cui ero devastata e scelgo comunque di vedere pazienti….m’interrogo sul perché avessi scelto di vederli…sulla mia necessità a volte di far la “super donna”, quella che non si può far perturbare dal suo dolore, anche se le casca il mondo addosso, per non apparire fragile e debole, …che si corazza nel suo dolore ed esternamente appare fredda e distaccata…G. ha sbagliato, lo riconosce ed utilizza questo errore come materiale didattico….mi si apre un mondo….il clima di gruppo diviene sempre più vivo.

 

V: Non poteva esserci premessa migliore.. ora ho il permesso di essere così come sono (o almeno lo credo). Grazie. È quello di cui ho bisogno, sento un’energia che mi dà il permesso, un’energia proveniente da G. e da tutte loro. Penso che pur non conoscendoci abbiamo già tante cose in comune; il percorso di studi, gli anni di specializzazione, la scoperta graduale di noi stesse, i primi dubbi sulla professione, il bisogno di rivolgerci a una guida; e poi siamo qui, tutte a Senerchia, in questo luogo immerso nel verde, tutte con la voglia di scoprire cosa questo seminario ci regalerà; tutte attente, desiderose di imparare, capire, riuscire.

 

CONTINUA

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II PARTE

Tai chi chuan

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 2

Ricordate la premessa (si veda I parte)? Non sono qui per dispensare soluzioni universali, ma solo per mostrare loro i miei metodi per affinare la disciplina interna; li indosseranno, valuteranno come li sentono addosso, e poi sceglieranno).

Ho sperimentato che per affinare la disciplina interna la mente deve essere aiutata a ricordare il potere che il corpo ha su di lei. Anzi, per dirla alla Damasio, il cervello deve essere aiutato a ricordare il potere che su di lui ha il resto del corpo. Quanto chi kung e tai chi siano potenti per questo processo l’ho già descritto in questa sede (si veda il post “Arti marziali e benessere psicologico; I e II parte”). Ho descritto anche come la scienza occidentale riporti risultati sperimentali sempre più stringenti sul loro potere terapeutico e preventivo.

 

Insegno loro le basi essenziali della respirazione taoista, o diaframmatica inversa. Faccio loro sperimentare cosa significhi pacificare la mente attraverso questa potentissima forma di respirazione; spostare la mente dalle sue stanze abituali, spesso stagnanti nell’odore di chiuso, all’addome, il punto da cui il respiro nasce, muore, rinasce; far scaturire dalle alterne, lente fasi del respiro, ogni movimento; essere in costante, impercettibile movimento anche quando apparentemente fermi, e fermi, centrati, radicati, anche nel movimento più rapido ed esplosivo.

Non pretendo che imparino in due giorni, ma che osservino, così che nella loro mente simulante si riattivi una connessione posseduta ma andata in disuso. Col tempo potrebbero comprendere che si può provare a essere centrati, fluidi, potenti, essenziali come nel tai chi anche al cospetto del paziente.

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 4

AM: Aiuto, il corpoooo? Questo sconosciuto che spesso trascuro e ignoro! E’ il momento del TAI CHI che ci aiuterà a imparare la respirazione al meglio, strumento essenziale per gestire l’intensità degli stati emotivi! Tutti noi osserviamo Spock affascinati: esegue una serie di movimenti lenti e circolari che sembrano una danza silenziosa ma in realtà mimano la lotta con un opponente immaginario. I movimenti sono coordinati con la respirazione. Ci chiede di ripeterli con lui, è paziente e incoraggiante; é difficile, ma ci impegniamo al meglio, ogni tanto ci guardiamo divertiti e interrompiamo il movimento con chiassose risate…è rilassante non giudicarsi e guardarsi con benevola ironia.

 

N: è il momento del Tai chi… un cerchio disegnato dal gruppo nel verde… i movimenti di G., lenti ed estremamente coordinati… mi arrabbio come sempre con me stessa quando non ci riesco…poi la respirazione… La dolcezza del corpo in pace con la propria mente… è un’apertura tra il mondo e te stesso…. fra te e l’altro… non penso per una volta… mi piace…

 

R: Il corpo come mezzo per accarezzare la propria anima, il corpo come strumento per disciplinarsi. Ecco, movimenti strani, apparentemente non naturali… Tai Chi… boh! da subito l’ho vissuto come una cosa totalmente lontana da me, essere goffo, impacciata nei movimenti, non elastica…davanti ai miei occhi solo i miei limiti! E succede di nuovo, si crea un clima di condivisione ed accettazione… la pratica, l’esempio diretto mi guidano verso il modo giusto di vivere il mio corpo… per la prima volta mi sono esercitata insieme ai miei stessi limiti… e ad un tratto quelli che sembravano insormontabili sono spariti… non sarò Bruce Lee, ma nemmeno Gamba di Legno!

 

A: “Forse è meglio mi metta dietro”…. “Sono troppo alta, coprirò la visuale e tutti saranno concentrati sui miei movimenti goffi”….pian piano scopro questa nuova disciplina e penso riuscirò mai ad imparare qualcosa? In fondo ho visto da spettatrice diversi allenamenti di arti marziali, ma non mi sono mai reputata capace di eseguire quei movimenti…Comincio a muovermi, mi sento un po’ impacciata…mi lascio guidare dal respiro, ma gli arti sono del tutto privi di coordinazione…smetto di giudicarmi e continuo a provare…poi provo a lavorare con L. La vedo molto concentrata, la seguo…ma ad un certo punto non sono più attenta alla prestazione, ma al piacere di condividere l’esercizio con lei…

 

E: Mosse strane. Io non so fare niente. Di fianco ho MG., la vedo più brava di me. Glielo dico e lei mi confessa che in realtà non fa molta attività fisica. Qualcosa cambia. L’atmosfera muta. I movimenti sono strani per me e non li ho mai fatti. Non mi sento più giudicata. Anzi rido insieme agli altri per gli sforzi che facciamo tutti. Negli esercizi in coppia io sono con R. Quante risate… Sono imbranata, ma non mi pesa esserlo.

 

MG: Durante l’esecuzione vengo ipnotizzata dai movimenti precisi e calmi che un corpo umano è in grado di eseguire, trasmettono pace anche in chi semplicemente osserva. Mi impegno per quanto mi è possibile, di tanto in tanto mi distraggo, incrocio qualche sguardo e rido per poi ritornare concentrata.

 

M: L’armonia. I corpi leggeri ed armonici si muovono nello spazio. I corpi si muovono con il tai chi. I piedi, le gambe, le mani, il bacino, l’anca spostano delicatamente l’aria e generano energia. Non importa il saper fare, fai. Osservo il mio corpo, la fatica che ne deriva e i miei limiti. Siamo noi, siamo tra noi.

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 3

 

Supervisione I

Emmanuele Carrère è uno scrittore francese che ci tiene molto a dichiarare sempre “da dove parla”, “da dove scrive”. E si tratta sempre di luoghi interni. Di fasi storiche del sé. I suoi romanzi si richiamano continuamente l’uno con l’altro, come per mantenere attivo un sottotesto autobiografico che prescinde dalla trama narrativa contingente. Il risultato è che se leggi tutti i suoi romanzi capisci che attraverso la scrittura questo autore ha cercato di capire chi è nonostante i suoi molteplici radicali cambiamenti nel tempo; e nonostante lui sia uno scrittore geniale e noi no, ti fa sentire nella stessa barca con lui rispetto alla frustrazione che può derivare da questa ricerca. In un paio dei suoi romanzi Carrere cita un sutra buddhista che fa capire essere stato importante per la sua maturazione:

“Chi crede di essere superiore, inferiore, o uguale a un altro essere umano, non capisce la realtà”.

Non so se qualcuno di loro abbia mai letto questa frase, ma mentre sediamo attorno al tavolo si comportano come se ne comprendessero il significato. Ci sentiamo indubbiamente ‘nella stessa barca’, liberata della zavorra del giudizio percepito, dalla credenza cancerosa (spesso non errata) che si insinua negli interstizi dei rapporti umani: ‘il mio errore, e l’infelicità che ne consegue, renderà sottilmente felice l’altro’:

 

AM: Propongo il mio caso; non è la prima volta che parlo di questo paziente, è un caso complesso che Spock mi ha spinto ad accettare: dice che impariamo a disciplinarci meglio accettando la sfida a risolvere i casi che ci spaventano. La psicosi l’avevo studiata bene dai libri ma gestirla nello spazio di terapia è tutt’altra cosa. Spock aveva ragione, alla fine mi sono molto legata a questo paziente che mi mette cosi a dura prova sull’efficacia terapeutica. Evidenzio un momento di stallo, in cui provo dispiacere rispetto ad una regressione del mio paziente e mi chiedo ‘perché non mi tiene presente nella sua mente quando si sente spaventato’…..e qui, all’improvviso, si introduce nella mia mente una scena di me piccola che si sente sola e non vista….cerco di reprimerla, ma ritorna..Spock mi aiuta ad esprimerla. Mi imbarazzo, ma questa volta cerco di abitare questa sensazione e di superarla. Lei entra, gli altri l’accolgono in maniera cordiale, io la osservo con benevola ironia, non sorrido per distanziare il dolore ma per accoglierlo senza drammi. Incrocio lo sguardo di An. e A., che mi guardano con tenerezza, e il loro sguardo mi incoraggia a non vergognarmi della mia parte vulnerabile. Cercherò di preoccuparmi meno di essere nella mente del mio paziente e di trovare un modo per farlo sentire meno compreso, cosi come sarò più benevola e comprensiva rispetto alla mia parte vulnerabile e alla mia storia. Le osserverò in maniera indulgente e la metterò tra parentesi! Poi tocca a M. Anche lei presenta una caso tosto e un momento terapeutico durissimo: il paziente in seduta non parla, lunghi silenzi in seduta, M. cerca argomenti condivisi, ma niente! Che angoscia, come la capisco! ….mi sembra che abbia gestito al meglio quel silenzio insopportabile ma Spock incalza anche con lei….e anche M. ci presenta la sua parte vulnerabile. Wow, due psicoterapeute dal temperamento diverso, due pazienti diversi, due momenti terapeutici diversi, ma lo stesso processo mentale. Tutto più chiaro Spock!….piano piano i miei quesiti cominciano a trovare la loro risposta.

 

M: Semplicemente mi sento parte del gruppo. Parlo del paziente ma in realtà parlo di me. Sento silenzio dentro e fuori di me, nessun giudizio. Non c’è spazio per il giudizio.

 

MG: Tutti intorno al tavolo, Am. inizia a descrivere il suo paziente. G. la porta al nucleo personale. Il desiderio di essere importante per il suo paziente; più in profondità, la paura di non essere importante per l’altro. Mi fa tenerezza perchè leggo il bisogno di affetto che è anche il mio.

 

E: Supervisione. Ascolto quella di Am. Mi ricordo del mio primo paziente, schizofrenico. Poi piano piano mi distacco da questo pensiero, mi concentro su Am. e sulla sua esigenza di essere vista. È molto simile alla mia, la sento vicina. È la volta di M. che con voce tremante esprime la sua difficoltà con il suo paziente. Quando racconta di sé e del suo imbarazzo vedo un pezzetto di me, di tutte le volte che mi sento diversa e mi piacerebbe fare parte del gruppo, la tristezza di essere l’ultima di tre figli che vive all’ombra del principe.

 

A: Ecco comincia il lavoro di supervisione… “Io chi porterò…boh….ascolterò gli altri, sicuramente non parleremo tutti”…è Am. lei a rompere il ghiaccio. …nella sua esposizione ci fa sorridere continuamente….mentre parla ci guarda, come a chiedere di essere sostenuta…la osservo con tenerezza….e mi rendo conto che anche lei ha le sue paure come me….la vedo nelle sue fragilità e la sento sempre più vicina …La parola passa poi a M.…delle volte mi vedo un po’ come lei…ho paura di espormi, di non dire la cosa giusta….poi G. ci chiede un feedback della giornata….ecco il mio turno… “Che dico ora? Quello che sento”…ma ad un certo punto mentre parlo mi trema la voce per il significato che quei contenuti hanno per me, sento un brivido nel corpo, lo riconosco, ma riesco comunque a dire quello che volevo.

 

AN: Il focus è centrato su di noi. La paura di dovermi esporre, di dover lasciare quel posto sicuro costituito dai miei silenzi e dal mio “saper ascoltare” per timore di essere giudicata, derisa o forse semplicemente perché é più semplice mantenere il proprio fragile equilibrio se a parlare sono gli altri. E invece, con mio stupore, mi ritrovo ad ascoltare pezzi della mia storia in ciascuna di loro: nella difficoltà di M. di integrarsi nel gruppo dei coetanei, che mi riporta a tutte le volte che è accaduto a me in passato, o forse ancora oggi, sebbene sia diventata molto brava a dissimulare; nel desiderio di Am di essere pensata dal suo paziente che, anche se per motivi diversi, fa parte del mio vissuto. Rivedo me stessa, le reazioni che ho con i pazienti e provo un sentimento di vergogna e senso di colpa perché spesso anch’io non mi sintonizzo con loro a causa delle reazioni emotive che mi suscita il contatto con i loro stessi sentimenti o atteggiamenti e che mi fa reagire “contro” di loro. Ma, d’altro canto, sono umana, così come le mie colleghe, e mi conforta il pensiero di condividere con loro molte ansie, preoccupazioni e temi di vita.

 

N: Discussione sui casi… il clima è aperto… Am. per prima, poi M. Esprimono le loro difficoltà con due pazienti difficili perché attivano in loro i propri bisogni preesistenti e all’improvviso dentro di me cambia tutto… non solo sento il loro bisogno ma per la prima volta rintraccio il mio … mi sposto sul loro piano provo a rappresentarmi cosa si sarebbe attivato in me con quei pazienti e capisco…mi viene alla mente una scena con una mia paziente… domani ne parlerò… le ringrazio senza di loro non ce l’avrei fatta…

 

Dormiamo pochissimo perchè a cena tiriamo fino a tardi. Tiní ha tenuto banco raccontando aneddoti su senerchiesi illustri, gli stessi che raccontava suo padre, “o’ prufessor'”, mio padre di riserva (anche se il titolare se la cavava benissimo). Ha anche raccontato di me da piccolo. La scalata interna dell’atleta per soppiantare il nerd. Sull’aneddoto della mia prima comunione contornato da quattro damigelle il gruppo tocca l’estasi:

 

AM: E’ sera, siamo tutti un po’ affaticati nel corpo e nella mente…mi piace questa sensazione di fatica…mi fa sentire il momento del pasto un ristoro meritato. Conversiamo in maniera sciolta e fluida e sembriamo tutti stupiti e divertiti dai racconti di Tinj sulla vita di Spock. Ci svela particolari anche intimi della sua giovinezza in maniera naturale e spontanea. Tinj comunica senza filtri, i suoi schemi di pensiero cosi liberi, si incastrano pienamente col tema della giornata. Sospendere il giudizio e lasciar fluire la mente. Osservo Spock e non mi sembra infastidito dai suoi racconti, sembra quasi divertito, avverto che sono uniti da un affetto storico molto solido.

V: Nottata di insight!

 

La domenica mattina, alle 6.30, vedo un gruppo di zombie riacquisire in mezz’ora qualità umane.

Dopo l’allenamento mattutino di tai chi e la colazione mi osservo pensare che il seminario sta andando benissimo. Molti sorrisi pieni. Mi vengono in mente frasi da animatore turistico, tipo ‘ehi ragazzi, sento un’energia positiva (tre punti esclamativi)’ , che però non dico, perchè mi hanno sempre fatto venire i nervi quando le ho sentite dagli animatori turistici che ho subìto nella vita.

Poco dopo succede una cosa. Ricevo una notizia tragica. Realizzo quanto quello che sta succedendo – una combinazione semplicissima: qualcosa va benissimo mentre qualcos’altro malissimo – sia una versione concentrata, iperbolica, quasi caricaturale, della realtà delle cose. Mi viene sbattuta in faccia l’applicazione pratica di uno dei contenuti più nucleari tra quelli che cerco di trasmettere in questo seminario: un successo significativo e il più tragico dei fallimenti sono la stessa cosa; entrambi non ci accadono, accadono e basta. Come se un testimone dicesse: ‘vuoi insegnare roba del genere, ma sai veramente di che parli?’. Andare fino in fondo è l’unico modo per capire se so veramente di che parlo.

CONTINUA

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III PARTE

La cascata

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 7

Il torrente Acquabianca alza sempre più la voce man mano che ci avviciniamo a quella spaccatura del monte che crea la cascata. Trenta metri di forza pura, inconsapevole di sé. Il gruppo mi segue in silenzio. Hanno paura della cascata. Di quello che immaginano proveranno. Ci sono passato. Freddo, paura, vergogna, panico. Hanno paura di quello che immaginano. Come quando sono davanti a un paziente difficile che li porta a immaginare di non valere o di essere non amabili. Penso di nuovo ‘siamo nella stessa barca’, anche in questo preciso momento. Anche io ho paura. L’unica differenza è che io ho paura che oggi la cascata non mi basterà. Poi osservo questa paura mentre cammino. Arriviamo. Conosco l’effetto che fa a chi la sa ascoltare e guardare. Il dono spiazzante, che non ti aspettavi:

 

E: Scene indimenticabili. Pietre enormi. Il rumore dell’acqua che scorre. Che pace. Tutto è grande. Mi sento piccola. Quello che vedo mi piace. Attraversiamo l’ultimo ponte. Ecco la cascata. Bisogna attraversare un tratto d’acqua breve, ma non è difficile come me lo immaginavo. G. ci mostra come fare. Ci dice di urlare e “tirare fuori tutto”. Lui va per primo e poi resta fermo lì. C’è per ciascuno di noi. Io mi metto dietro a V. Ci sosteniamo l’un l’altra. Sento un’energia dentro. È il mio turno, mi avvicino e mi immergo. Vedo la luce dell’arcobaleno. È bellissima. Urlo anche se è un urlo strozzato. Sento la mano di G. che m’invita a rimanere ancora lì. Resisto un po’. Mi volto e non sono sola. Lui c’è per aiutarmi e ci siete anche voi compagni di avventura. Riprovo di nuovo ad andare. Ora è diverso. Lo faccio per sentire ancora.

 

N: Zainetto in spalla siamo all’ingresso dell’oasi…gli scorci che si presentano ai miei occhi devo racchiuderli in fotografia. Resteranno per sempre con me…quelle rocce immense da cui respiro la brezza dell’aria pura e austera mi sostengono…la fermezza è nella mia mente. Finalmente la cascata tanto attesa. G. si avvicina alla cascata. La sua postura ferma con le braccia bloccate, la guarda con le spalle rivolte a noi. Lì capisco: ‘Cascata aiutami, svuotami’. Lui per primo ci insegna ad avvicinarci… l’urlo per anestetizzare il freddo, la calma per essere un tutt’uno con essa….lo seguo e mi sento forte, viva, libera… dopo di me uno dopo l’altro l’euforia di ognuno sostiene il prossimo, cresce la condivisione … fortissimo il mio abbraccio con Mg. L’esperienza che ci stringe …più unite di prima… io e Mg. riproviamo…questa volta senza paura.

 

MG: Ho le gambe doloranti, ma sono emozionata per la tanto attesa cascata… “se mi fa paura posso anche non farlo, anche questo sarebbe un atto di coraggio”. Cammino lungo la valle, dietro a quell’uomo che a volte vivo come schivo, ma che per me è un gigante buono. Sono un passo dietro di lui, nel silenzio, solo il rumore dei nostri passi e dello scorrere dell’acqua. Vedo lui cosa fa e nel suo urlo mi sento un po’ sollevata. Poi la mia mano viene stretta, sorretta, sostenuta, incoraggiata…io non saprei rifarlo un urlo come il suo, però sotto quella cascata ho urlato il mio dolore e mi sono sentita piacevolmente svuotata e poi compresa, accudita, amata da quella montagna. Infreddolita, ho cercato riparo per poi ritrovarmi in un emozionante abbraccio con N.

 

A: All’Oasi ci si para davanti uno scenario incantevole…osservo il paesaggio, respiro aria di tranquillità, mi sento rilassata…ogni angolo sembra una nuova scoperta…è imponente, decisa …solo ad osservarla diffonde energia…ci spogliamo per preparaci alla nostra esperienza…mi avvicino timorosa, sento freddo…ho paura di non riuscire…sono in fila…osservo il gruppo e l’urlo di ciascuno diventa un po’ il mio…solo quando giunge il mio turno mi accorgo di essere l’ultima…ma c’è già qualcuno pronto a farlo di nuovo…mi dico “dai forza” e vedo la mano di G. tesa verso di me…è proprio il mio turno…mi affido a quella mano e mi lascio andare…è un momento unico, meraviglioso …difficile da mettere in parole…improvvisamente non ho più freddo, sento l’acqua attraversare tutto il mio corpo, come se mi “ripulisse” anche interiormente di tutti quei pensieri e sciocchi timori che attraversavano la mia mente…mi sento svuotata, finalmente libera con una potente sensazione di leggerezza …mi volto verso la mia sinistra e trovo ancora lì quella mano tesa…e poi i volti elettrizzati dei miei compagni di viaggio… sento quanto sia emozionante lasciarsi andare e ritrovare comunque gli stessi punti di riferimento lì ad aspettarmi, a sostenermi ad incitarmi…sento l’energia di quella cascata e mi sento un tutt’uno con essa.

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 5

L: …quando ci siamo uniti tutti con gli occhi chiusi vicino la cascata. Piena di paura serro le palpebre e comincio a respirare, tremo per il freddo che arriva da lei. Sento il suono sferzante dell’acqua che cade violenta e libera goccioline che come cristalli di ghiaccio raggiungono la mia schiena. Mi lascio trasportare dal freddo e dallo spaventoso suono… e improvvisamente il miracolo, non percepisco nè il freddo nè la paura. Tutto è scivolato via e senza timore abbraccio e mi lascio abbracciare dalla cascata.

 

R: Ecco l’acqua scendere ed attraversare il mio corpo, portandosi via un po’ di quella fuliggine che mi opprime il petto. Non c’era freddo, non c’era più nessuno…. Io, il vuoto calmante della mente e l’abbraccio dell’acqua…Esci e ritorni alla realtà, ritrovi la stessa mano che ti ha mostrato la giusta strada guidandoti … e guardi negli occhi dei tuoi compagni di avventura e non c’è più bisogno di parlare…Ora si, mi sento pronta a condividere parte di me… il mio muro del pregiudizio è sparito!

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 8

 

AM: Stranamente non ho paura, mi sento unita alla volonta degli altri, è come se non fossi io a decidere ma il gruppo e non posso trasgredire al patto di metterci alla prova, di sperimentare nuove sensazioni, sento che siamo tutti uniti in un vortice di coraggio contagioso e potente. La forza della natura, la forza di Spock, la forza del gruppo. Ce la posso fare, voglio far parte di loro fino in fondo. Inizia lui, la forza del suo corpo si confonde con quella dell’acqua in un urlo acuto e liberatorio che ancora mi sembra di sentire; l’adranalina sale, il coraggio aumenta, è il turno di N. poi Mg, poi M. Mi nutro del loro coraggio, l’adrenalina continua a salire, mi sento forte…vado…mi avvicino….sento la mano di Spock che con delicatezza mi trattiene sotto l’acqua, è fredda, violenta ma incredibilmente piacevole….urlo e cerco nel vuoto il suo sostegno per uscire. Mi sento forte, soddisfatta! Non dimenticherò più quella scena, sarà uno dei miei posti sicuri nella mente e potrò richiamarla ogni volta che avrò paura e starà li a ricordarmi che non sono sola e che ce la posso fare! Tutti abbiamo una strana voglia di farlo ancora, abbiamo gia dimenticato tutti i nostri timori; sono affascinata dal potere di questa unione natura-gruppo alla guida di un uomo coraggioso. Dimentico il mio imbarazzo per il costume e mi stendo al sole tranquilla, quasi incurante degli sguardi altrui, sono troppo concentrata sulle mie sensazioni, sento il fresco del costume ancora bagnato, il sole che mi accarezza il corpo affaticato ma stranamente vigoroso, il silenzio interrotto solo dal rumore della cascata e da qualche voce in sottofondo, l’odore del verde. Spock è dentro e fuori la scena, in dei momenti è con noi sul ponte a lasciarsi scaldare dal sole e in altri è solo su una roccia immersa nel verde in una posizione da osservatore distaccato. Facciamo la foto di gruppo sul ponte. Stupenda. Resterà anche lei nella mia mente come esempio di piena condivisione ed unione per un obiettivo comune.

 

AN: Da principio non riesco a fidarmi….già, perché è sempre una questione di fiducia….che sia un’attività davvero utile alla nostra crescita personale ma anche che non sia pericolosa…ma ad un tratto il mio sguardo incontra quello sorridente di G., che mi comunica sicurezza. In sottofondo le mie compagne urlano a gran voce “Anna Anna Anna…” . Mi incitano come fossi un atleta durante le Olimpiadi, come ho visto fare tante volte alla Tv, e penso “non posso deluderle” anche se ho paura. Le loro voci mi sostengono, prendo la mano di G. e sono sotto la cascata ghiacciata…intorno è solo fragore quasi assordante dell’acqua. Riesco a sentire il mio respiro che sembra rimbombare. Apro gli occhi e mi sorprendo a scorgere un arcobaleno sulla parete…è bellissimo con i suoi colori intensi. Mi lascio avvolgere da quella pace e non sento più il freddo dell’acqua. Mi sembra di non sentire nulla oltre al respiro e mi sento piena, carica, felice.

 

V: Non ci sono più dubbi, non ci sono paranoie, non c’è più nessuno.. ci sono io negli altri e gli altri in me. E tutte fuse con la spettacolare natura che ci circonda. Siamo lì sul ponte, tutte ferme, nella pace e nel relax più assoluto. Il sole ci scalda e ci asciuga, il suono della cascata ci accompagna, la guardiamo e ora è nostra amica, piccola, calda.

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 6

 CONTINUA

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IV PARTE

Supervisione II

 

Per l’ultima volta attorno a un tavolo, a parlare di sé attraverso il racconto dei pazienti. Alla cascata è successo qualcosa. Qualcosa ha fatto un click dentro. Avrà bisogno di tempo per essere elaborato, trasformato in concetti da scambiarsi, ma questo non gli impedisce di agire:

 

R: Dopo la cascata sono pronta a buttare fuori ciò che provo… ciò che sento.. finalmente riesco a chiedere aiuto… Lì succede una magia, individui diversi per carattere ed esperienze di vita, si sintonizzano su di me… sulle mie emozioni con estremo tatto e delicatezza… accolgono la parte di me che temo di più, che cerco di nascondere disperatamente, mettono fuori gioco la facciata della donna acida, stakanovista… quella che non ha bisogno di nessuno, per lasciar emergere la mia parte fragile ed estremamente delicata. E proprio come la cascata, ho buttato tutto fuori una piccola parte di quel dolore, di quella rabbia che non mi permetteva di ritrovarmi. Mi ritrovo imbarazzata, ma con la sicurezza di avere tante mani pronte a sorreggermi… una sensazione unica, potente… leggerezza, serenità! La potenza della condivisione incondizionata, dell’accettazione di sé e dell’altro, non c’era più differenza, l’emozione dell’altro diventa un po’ tua.

 

N: Rientriamo…il tempo di pranzare e poi intorno al tavolo a discutere dei casi è il turno di R. Una paziente le ripropone continuamente in terapia la sua devitalizzazione proprio quando lei si sente allo stesso modo… il dolore bloccato, e che ti blocca, perché per esprimerlo hai bisogno che prima qualcuno si occupi del dolore di tua madre. Poi tocca a me. La scena di una mia paziente che si mostra bambina, dipendente, incapace di reagire, mi riporta alla mia infanzia. Due scene, le più dolorose. Capisco la mia rabbia, abbraccio me stessa…per la prima volta mi sento vista per quella che sono e ringrazio tutti per avermi accolta.

 

MG: Da ieri osservo R., non la conosco, ma sembra sofferente, ripete spesso di sentirsi devitalizzata ed ora ne capisco il perchè…parla, si commuove e sulla mia guancia scorre una lacrima. So molto bene cosa prova, quel senso di impotenza che ti logora e ti spegne. Nella mia mente un susseguirsi di immagini di vita vissuta, chiudo gli occhi.

 

E: R. parla della sua devitalizzazione. Fa uscire tutta la sua sofferenza. Cerco di starle accanto. È dolcissima. Mi dispiace troppo che stia male. So che però questo in quel momento le serve per poter stare bene. Poi N. parla del suo caso, ma soprattutto di lei. Dietro a quella facciata da dura esprime la sua fragilità. Anche lei come me ha avuto una mamma depressa. Che dolore…Osservo come G. ci aiuta a riflettere su di noi e centrarci su quello che sentiamo.

 

AN: Basta che R. apra una piccola finestra sulla sua storia perchè in un attimo ci sentiamo tutte figlie della stessa madre malata ma combattiva. Siamo tutte R. e sentiamo tutte il suo dolore farsi largo nei nostri cuori. Dice di vergognarsi di piangere ma io vorrei dirle soltanto “grazie” perché non si può far altro che essere grate ad una persona che ti permette di vedere la sua parte più fragile e sceglie di farsi consolare dal gruppo piuttosto che viversi il dolore in uno sterile isolamento. Come solita fare io del resto, per non dare fastidio, per non essere un peso nelle giornate degli altri o per sembrare più forte di ciò che sono. Come se la forza o la debolezza dipendessero da quanto riusciamo a controllare e dissimulare la nostra sofferenza…Mi rendo conto in quel momento che ho ancora tanta strada da fare a livello personale per accettare e accogliere la mia vulnerabilità. Quella che tutti abbiamo ma che io ho visto sempre come una nemica da sconfiggere e da tenere a debita distanza di sicurezza. R. si è lasciata andare e adesso mi sembra più forte di prima. Anche il racconto di N. mi tocca molto. Mi rivedo nella bambina N. alle prese con i suoi problemi di salute e con la determinazione di chi non vuole arrendersi al destino crudele e beffardo che rischia di minare irrimediabilmente la sua autonomia, nel tentativo di dimostrargli “io sarò più forte” ma soprattutto nel suo desiderio di tranquillizzare i genitori nascondendo le sue paure, le sue difficoltà dietro una facciata di iperefficienza.

 

V: Ultima supervisione. Non sono pronta ma non mi interessa. Ho la spinta adatta per andare a guardare lì dove non mi piace guardare e questo è un successo. Va bene così, pazienza se non è il mio momento. Ci penso su e questo mi aiuterà. Non andrò via a mani vuote. Quello che le altre mi lasciano è ugualmente prezioso o forse di più.. risulta più semplice guardarmi attraverso le altre piuttosto che guardare direttamente me stessa. Ascolto le loro parole, le difficoltà, le espressioni e tutto diventa più nitido, le vedo così come sono. Grazie.

 

Meditazione

L’ultima pratica prima di salutarci. Molti non si sono mai seduti su uno zafu. Non sanno nemmeno cosa sia. (N, per esempio, ha comprato da Decatholon una specie di mattone grigio sorcio di gomma pressata che chiama “sedile da yoga” e che le anestetizzerà le natiche). Per altri non è una novità. Provengono da scuole di specializzazione in cui parecchie ore sono dedicate alla mindfulness.

Insegno loro le basi essenziali della postura. Li rassicuro sul fatto che in questi quarantacinque minuti è escluso che verranno folgorati dal samadhi. Quindi è importante evitare la perdita di tempo di ricercarlo e sentirsi frustrati nel non trovarlo. Dovranno solo ascoltare il loro respiro e le cose che leggerò.

Uso il metodo di uno dei miei maestri di arti marziali, un monaco zen, che dopo l’allenamento ci faceva sedere in zazen e leggeva alcuni brani tratti dai testi classici. Immobili, senza alcuna fatica, ascoltavamo e respiravamo. Un brano, poi una lunga pausa, poi un altro brano. Nelle nostre posture, diventavamo macigni, ma le parole, quella voce, non incontravano alcuna resistenza. La semplice realtà delle cose entrava nel ventre:

 

 

E: Trovo il mio posto. Ascolto i brani. La mente va. Vedo scene confuse e il pensiero si distrae. Lo riporto alla situazione presente ancorandomi al respiro, ma la mente si distrae. Mi fanno male i muscoli. Perdo la posizione. Voglio concentrarmi. Poi mi rivedo nel brano IO SONO, in quello che parla di abbandonare la centratura su sé. Lo voglio fare nei giorni a venire.

 

 

N: In meditazione non so se riuscirò a star ferma. Ci provo, poi G. mi rassicura. Le sue parole profonde, semplici mi consentono di continuare a rilassarmi e ascolto attraverso i concetti sempre più me stessa, il mio corpo in contatto leggero con la mia mente..

 

MG: Le luci sono soffuse, ognuno sul suo zafu per iniziare la meditazione “le gambe mi fanno male in questa posizione, non mi piace chiudere gli occhi e ho difficoltà a stare ferma”. G. inizia a leggere e io decido di trovare una posizione più comoda. Ha una voce calda e penetrante, i contenuti sono profondi e mi rilassa ascoltarlo.

 

A: la voce rassicurante di G. mi guida verso la calma e il rilassamento…sento dolore alle gambe, aggiusto la posizione e riprendo il piacevole contatto con il mio corpo, abbandonandomi alla serenità.

 

V: Momento meditazione. Ginocchia a pezzi… parole che si insinuano nella mia mente e trovano un posto comodo. Ci stanno benissimo.

 

Commiato

Ci salutiamo un po’ frettolosamente, quasi distrattamente, come se dovessimo rivederci di lì a poco e si attivasse un termostato anti-enfasi. Una specie di imbarazzo nel leggere, ciascuno nel viso dell’altro, per non più di una frazione di secondo, quanto sia, per quanto necessario, piuttosto innaturale salutarsi. Penso: ‘ho regalato loro un’esperienza nuova, forse l’inizio di un importante cambiamento interno…’; poi si aggiunge un altro strato di pensiero: ‘…hanno fatto lo stesso con me’.

 

N: Il momento dei saluti. La prima cosa che penso è che é come se avessimo prima di questo momento condiviso altro, come se ci fossimo già conosciuti …poi penso che c’è bisogno di proseguire…ognuno di noi sente che dovremmo riunirci presto, ritornare qui.

E: Ci mettiamo in macchina e parliamo delle cose che ci porteremo di questa esperienza. Per me saranno la certezza che le cose non sono difficili come credo, il mondo è più importante della mia sola esistenza e soprattutto il mio essere stata bambina non può influenzare continuamente il mio essere adulta. I propositi per il futuro sono pensare meno prima di parlare, fare e dire le cose solo perché ho voglia di farlo e portare meno l’attenzione a me e più al mondo. Senerchia è stata un’occasione per scoprire che si è al mondo non per forza per produrre qualcosa ma solo per stare.

R: Avere un modello non vuol dire solo avere un contenitore con tante caselle dove inserire le persone…. Avere un modello vuol dire interiorizzarne i significati, abbracciare uno stile di vita, abolire il giudizio e promuovere la condivisione genuina di tutte le parti di sé, anche quelle poco piacevoli. Dove la differenza tra te e l’altro non esiste.

MG: Siamo in macchina, guardo dal finestrino Senerchia, sto ferma, sono calma e serena.

L: Le osservo, senza giudizio, per quello che oggettivamente sono: la celata delicatezza di A., la forte tenerezza di An., la calma determinazione di M., la dolce energia di N., il silenzio birbante di Mg, la solare inquietudine di R., la delicata profondità di V., la silenziosa cura di E., lo spaventato affetto di Am. La felice tristezza di L.
Sarà questa la disciplina interiore? Lasciarci guidare dalle cose che ci spaventano senza evitarle? Osservare ciò che ci circonda senza giudicare, arricchendoci del nostro guardare l’altro mentre guardiamo noi stessi? Si dice che all’essere umano fa paura ciò che non conosce. Noi a Senerchia abbiamo convissuto con ciò che non conoscevamo.

 

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Master Online in Disturbi Specifici dell’Apprendimento

Dislessia, disgrafia, discalculia e disortografia: queste sono alcune problematiche che si possono riscontrare in alcuni bambini in età scolare e prescolare e che rientrano nella categoria dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).

I DSA consistono nella mancanza di alcune abilità specifiche nella lettura, nella scrittura e nella capacità di padroneggiare numeri e calcoli: tale carenza non permette al soggetto di essere autonomo nell’apprendimento.

Spesso questi disturbi, ancora poco conosciuti sia dal personale docente che dagli stessi genitori, sono causa di grande stress psicologico e di emarginazione del bambino, oltre che di compromissione del percorso formativo.

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    • I DSA e Problemi Sociali ed Emotivi Connessi
    • Legge 08/10/2010 n. 170
    • Il Ritardo Mentale: caratteristiche del disturbo
    • La Famiglia e DSA – le Connessioni dei Disturbi
    • La Dislessia Evolutiva: caratteristiche del Disturbo e Funzionamento dei soggetti Dislessici
    • I fattori Eziologici della Dislessia
    • La Diagnosi di Dislessia: criteri e strumenti Diagnostici
    • La Riabilitazione Neuropsicologica della Dislessia
    • Dislessia test
    • La Disortografia Evolutiva: caratteristiche del Disturbo
    • La Disgrafia: caratteristiche del Disturbo – criteri e strumenti diagnostici
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    • La Discalculia: caratteristiche del Disturbo – criteri e strumenti diagnostici
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Mi chiamo Chuck, ho diciassette anni e, stando a Wikipedia, soffro di disturbo ossessivo-compulsivo di Aaron Karo – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 02

RUBRICA I CONSIGLI DELL’ESTATE DI LIBRI E FILM – Mi chiamo Chuck, ho diciassette anni e, stando a Wikipedia, soffro di disturbo ossessivo compulsivo di Aaron Karo (Nr. 02)

TEMI PSICOLOGICI TRATTATI: disturbo ossessivo-compulsivo, adolescenza, relazioni tra pari, bullismo.

Chuck Taylor ha diciassette anni e si lava continuamente le mani, controlla i fornelli e vive nel terrore che i germi possano contaminarlo. Trascorre le sue giornate sempre in bilico tra il bisogno di assecondare i pensieri ossessivi e i goffi tentativi di costruirsi delle relazioni sociali. Ha un unico amico del cuore, Steve, vittima delle angherie dei bulli della scuola e una sorella, Beth, che al contrario è amata dai coetanei e prende le distanze da Chuck fino a non accettare la sua amicizia su Facebook.

Le giornate del giovane protagonista sono costellate da regole, imposizioni rigide e ripetuti controlli. Ha una collezione di Converse All Star di diverso colore, che indossa a seconda dello suo stato emotivo, rosse quando è arrabbiato, gialle quando è nervoso, e così via.

I genitori sono sempre più preoccupati e lo convincono, nonostante le sue rimostranze, a rivolgersi a uno psichiatra. Sarà poi l’arrivo di una nuova compagna di classe a dare una svolta alla sua vita e a fargli aggiungere un nuovo colore alla collezione di scarpe da tennis.

La lettura di questo libro è piacevole e divertente, nonostante venga trattato un tema delicato come il disturbo ossessivo-compulsivo negli adolescenti. Lo sguardo si amplia anche nel trattare le dinamiche dell’amicizia e del difficile rapporto con i coetanei, che non sono pronti ad accettare la diversità che accompagna il sintomo di un disturbo.

I genitori del ragazzo sono una grande risorsa, perché lo avvicinano alla cura in modo supportivo e lo aiutano ad affrontare il delicato tema del farmaco, senza imposizioni o comportamenti iper-protettivi.

Un buon libro da leggere sotto l’ombrellone e da consigliare a tutti gli interessati all’ argomento, psicologi dell’età evolutiva, educatori, genitori e figli che vivono da vicino situazioni analoghe.

 

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Il catalogo dei seminatori – Tracce del Tradimento Nr. 20

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XX: Il catalogo dei seminatori

Cosa guida il comportamento dei seminatori? Perché non sono più attenti? Perché lasciano tracce che inevitabilmente complicheranno la vita e forse porteranno alla fine stessa del tradimento?

I seminatori hanno il coltello dalla parte del manico, nel senso che sanno come stanno le cose effettivamente, mentre il partner è disperatamente orientato a capirlo. Già questo li rende meno simpatici delle loro vittime perché ci appaiono come il gatto che gioca crudelmente con il topo destinato al sacrificio. Tratteniamo tuttavia i moti dell’animo, dettati anche dalla nostra tendenza a identificarci con l’uno o con l’altro, e proviamo a descriverli. I seminatori li dividiamo i due grandi categorie:

  • coloro che lasciando tracce vogliono che si verifichi un cambiamento del rapporto
  • coloro che sono certi che pur lasciando tracce non ci sarà un cambiamento del rapporto.

La prima categoria dei seminatori che vogliono un cambiamento del rapporto si divide ulteriormente in due sottoclassi:

  • la prima classe è costituita da quelli che sostanzialmente desiderano arrivare a una conclusione del rapporto e mandano messaggi perché l’altro lo capisca o la situazione diventi esplosiva fino a giungere alla rottura: fanno di tutto per essere lasciati senza avere il coraggio di affrontare apertamente il problema e per questo saranno d’ora in avanti denominati codardi;
  • la seconda classe raduna coloro che non vogliono una vera e propria fine del rapporto ma che desiderano che si modifichi, che diventi più vivo e denso di quelle emozioni dell’inizio quando nulla era scontato e per questo il desiderio era sempre attivo. E’ come se volessero segnalare al partner la possibilità di perderli per ravvivare il suo interesse e per questo li chiameremo provocatori.

Anche la seconda categoria, vale a dire quelli che non vogliono un cambiamento del rapporto e che dunque vogliono solo godersi qualcosa in più fuori dal legame stabile senza tuttavia voler rinunciare ad esso, si divide in due classi:

  • la prima classe è costituita da coloro che sono certi che non saranno mai scoperti perché non riescono ad osservarsi da fuori, a vedere i segnali che mandano e non riescono a mettersi nei panni dell’altro cogliendo ciò che prova e che può pensare. Sembra quasi che abbiano un deficit metacognitivo, una difficoltà a immaginare e costruire i pensieri e le emozioni degli altri, una sorta di incapacità di leggere la mente altrui; per questo li chiameremo deficitari;
  • la seconda classe comprende i seminatori che non si preoccupano di far attenzione per non lasciare tracce perché ritengono che anche se fossero scoperti non sarebbero mai lasciati perché sono troppo importanti per l’altro che sarebbe disposto a perdonargli qualsiasi cosa pur di non perderli. Addirittura la scoperta del tradimento e il suo perdono sarebbero un’ulteriore prova della loro grandezza. Per questo d’ora in avanti li chiameremo narcisi.

Nei prossimi articoli ci addentreremo nella psicologia dei quattro tipi di seminatori identificati: i codardi, i provocatori, i deficitari e i narcisi per definire gli scopi che li guidano, le strategie che adottano, i ragionamenti che fanno e, più avanti, le situazioni che creano a seconda di quali cercatori di tracce incontreranno.

 

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Il Binge Eating Disorder (BED): aspetti di personalità e difficoltà nell’espressione delle emozioni

Caterina Micalizzi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Il Binge Eating Disorder (BED) o disturbo da alimentazione incontrollata, secondo il DSM-IV-TR (APA, 2000) è caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate, senza l’uso regolare di inappropriati comportamenti compensatori, tipici invece della bulimia nervosa. Tale disturbo sembra avere origine nel periodo dell’adolescenza, in una situazione di normopeso, spesso a seguito di una significativa perdita di peso dovuta ad una dieta autogestita o scorretta.

Questi pazienti manifestano difficoltà in svariati ambiti della loro vita: – disagio sociale e giovanile esteso alla maggior parte dei rapporti interpersonali; – distorsione nella visione del proprio corpo che alimenta un senso di insicurezza e d’inadeguatezza; – pressione e stress dovuti alla grande quantità di tempo trascorso sotto regime dietetico; – in alcuni casi abuso di alcool o droghe; – difficoltà a gestire gli stati d’animo o a esprimere/manifestare le proprie emozioni, compresa la rabbia; – senso di impotenza legato all’incapacità di controllare il proprio comportamento alimentare e il conseguente aumento di peso.

Il 50% dei pazienti con disturbo da alimentazione incontrollata soffre di depressione maggiore, disturbo di panico e di alcuni disturbi di personalità. Il sintomo dell’abbuffata infatti andrebbe a compensare una sensazione pervasiva di sconforto persistente presente nel momento della crisi. Un elevato sovrappeso può contribuire al mantenimento e all’accentuazione del sintomo compulsivo, in quanto restituisce a chi ne soffre un senso di fallimento, di colpa e di vergogna che autoperpetua la condotta alimentare incontrollata. Durante gli episodi di abbuffata il soggetto è inconsapevole di quello che sta facendo, per cui c’è una perdita di controllo (Mannucci, Ricca, Rotella, 2001). In seguito è in preda a sentimenti di disgusto.

I pazienti con binge eating disorder sono caratterizati da specifiche caratteristiche di personalità e proprio questi aspetti vengono considerati come fattori di vulnerabilità individuale, cioè fanno sì che coloro che ne sono portatori siano più esposti di altri a sviluppare il disturbo. Essi presentano: bassa autostima che spinge gli individui a sovrastimare l’apparenza corporea, riponendo nel raggiungimento della migliore forma fisica aspettative irreali di successo e di realizzazione personale. Inoltre, contribuisce ad interpretare in maniera eccessivamente negativa eventuali “sconfitte” o “ricadute” alimentari, favorendo l’insorgere di un altro aspetto comune nei soggetti con disturbi alimentari, e cioè il “senso di colpa”; pensiero dicotomico: il paziente sarebbe soggetto a estremizzazioni ripetute ed oscillazioni nel giudizio di se stesso e dell’ambiente. La mancanza di una sufficiente consapevolezza di sé facilita l’insorgenza e il mantenimento di comportamenti estremizzati anche in ambito alimentare, producendo l’ alternarsi di restrizioni ed abbuffate, tali da riproporre all’ individuo la propria incapacità di condurre un’ esistenza equilibrata e risulta pericoloso poiché rafforza il senso di fallimento di fronte anche ad una piccola “ricaduta” alimentare, favorendo l’insorgenza dei sensi di colpa, l’insinuarsi e il successivo perpetuarsi dei sintomi depressivi; perfezionismo patologico: valutazione di Sé eccessivamente dipendente dall’inseguimento e dal raggiungimento di determinati standard personali esigenti ed autoimposti (Dalle Grave, 2003). La persona pensa che potrà essere accettata solo a condizione di dare il massimo delle proprie possibilità senza la minima smagliatura. Il giudizio altrui viene considerato l’unico modo per stimare il proprio valore. Alessitimia: in quanto presentano difficoltà a identificare e a descrivere i propri sentimenti, associati a un senso di generale inadeguatezza e a perdita del controllo sulla propria vita (Brunch, 1973). I soggetti BED si può dire che non conoscono le mezze misure: manifestano comportamenti impulsivi o comportamenti ossessivi, presentano difficoltà a gestire le emozioni, sentendole troppo forti e intense al punto da reagire senza riflessione.

Vari studi, come quello di Fassino et al., 2002, si sono avvalsi del Temperament and Character Inventory (TCI) uno strumento specifico utilizzato per analizzare il profilo temperamentale e caratteriologico dei DCA. Essi hanno evidenziato che i pazienti con Binge eating disorder (BED) confrontati con pazienti obesi senza BED ottengono alti punteggi nella scala HA (Harm Avoidance), per cui sono soggetti più insicuri, timidi, apprensivi, nervosi, irascibili e impulsivi, più passivi e si scoraggiano più facilmente. Secondo un altro studio (Marcus et al., 1990; De Zwaan el al., 1994; Kirkley et al., 1992) i pazienti BED tendono ad ottenere tramite tale strumento bassi livelli di SD (autodirezionalità) e di C (cooperatività) per cui mostrano maggiore immaturità, debolezza, fragilità, tendenza alla colpevolizzazione altrui, scarsa capacità integrativa e sono più critici, autocentrati, intolleranti, incapaci di aiutare e opportunisti. Da tale studio emerge pure che i soggetti con disturbo da alimentazione incontrollata, rispetto ai soggetti senza tale disturbo, manifestano un livello di ansia e di depressione maggiormente elevato, una maggiore insoddisfazione per il proprio corpo, un elevato impulso alla magrezza e tendenze bulimiche. Inoltre il disturbo è associato a disturbi psichiatrici, quali il disturbo borderline di personalità, il disturbo evitante di personalità, il disturbo paranoide di personalità e il disturbo istrionico di personalità.

L’approccio psicobiologico, che ha effettuato studi tramite il TCI, ha evidenziato tratti di personalità caratteristici del BED quali: un’alta ricerca della novità, un alto evitamento del danno ed un’autodirettività inadeguata. L’elevato evitamento del danno è la dimensione temperamentale caratteristica del soggetto BED che attiene allo spettro depressivo, che predispone alla deflessione del tono timico, alla presenza di maggior rischio suicidario e ad una bassa qualità di vita, condizioni tra loro associate, e spesso presenti nella popolazione degli obesi essenziali, ma più evidente negli obesi-BED (Fassino, Leombruni, Pierò et al., 2002). Di questi tre tratti, però, soprattutto l’autodirettività sembra l’indicatore personologico più caratteristico e rilevante dal punto di vista clinico, sia per discriminare più efficacemente dal punto di vista psicopatologico i diversi quadri sintomatologici e comportamentali, che come elemento predittivo di esito. Secondo alcuni modelli teorici (Vinai, Todisco, 2007) le persone affette da disturbo da alimentazione incontrollata riescono a percepire le emozioni solo quando raggiungono una certa intensità, al di sotto della quale sono come anestetizzati, ma appena iniziano a percepirle non sono più in grado di tollerarle. Nei pazienti con bassa autostima, la tendenza al controllo e al perfezionismo provocano facilmente emozioni negative.
Mitchell e collaboratori (1999) hanno evidenziato che nei pazienti BED l’abbuffata ha un valore edonico. Infatti essi tendono ad apprezzare in maniera significativa l’odore, il gusto, la consistenza del cibo.

Secondo Williamson, White et al. (2004) gli stimoli ambigui, informazioni riguardo al corpo o all’alimentazione attiverebbero dei bias cognitivi (attenzionali, mnestici etc) relativi allo schema corporeo, che portano a valutazioni negative sul proprio peso e corpo (sovrastima del corpo e del peso) e conducono ad emozioni negative intollerabili. Per cui vi sarebbe un alterazione della percezione corporea dei pazienti che è vissuta in modo pervasivo elicitando comportamenti adatti a far fronte a stati emotivi insostenibili.
Stice (2001) suggerisce che nel binge eating disorder il bisogno di mangiare viene decritto dai pazienti stessi come incoercibile e l’assunzione di cibo come una vera e propria compulsione all’insegna della perdita di controllo su quanto ingurgitato e sulla durata dell’abbuffata stessa (Apfeldorfer, 1996).

Tra i fattori che la letteratura recente indica come determinanti nella genesi e nel mantenimento del disturbo vi sono l’esperienza e la regolazione disfunzionale delle emozioni: le persone a rischio di questi disturbi spesso presentano difficoltà nella gestione delle emozioni, sperimentano frequentemente emozioni negative molto intense e utilizzano il cibo per regolarle (Polivy e Herman, 2002; Bardone-Cone e Cass, 2006; Macht, 2008). Alcuni soggetti riferiscono che il loro comportamento alimentare incontrollato viene scatenato da alterazioni disforiche dell’umore, come depressione, ansia, irritabilità e tristezza variamente associate. Altri non sono in grado di individuare precisi fattori scatenanti, ma riferiscono sentimenti aspecifici di tensione che ricevono sollievo dal mangiare senza controllo. Anche la quantità e la qualità di cibo ingerito paiono correlare con le emozioni provate dal paziente. Le maggiori quantità sarebbero assunte in risposta all’ansia, mentre nei casi di umore depresso vi è la tendenza a ricercare cibi particolari in cui è la qualità ad essere consolatoria. Inizialmente il paziente sente delle sensazioni di gratificazione legate al cibo e al senso di pienezza, ma ciò lascia rapidamente posto a spossatezza, fastidio fisico e deflessione del tono dell’umore (Wegner et al., 2002). Si evidenzia quindi una stretta relazione fra esperienze emozionali e comportamento alimentare. Infatti, i risultati di alcuni studi rilevano anche che l’alimentazione viene usata dalle persone con questi disturbi come regolatore degli stati affettivi (Evers, Marijn Stok e Ridr, 2010), in particolare come strumento per evitare o inibire l’esperienza emozionale.

Alcuni studi riportano nelle ragazze con Disturbi dell’Alimentazione incontrollata minore consapevolezza delle emozioni e maggiore difficoltà nella loro regolazione (Harrison, Sullivan, Tchanturia e Treasure, 2009), con un uso prevalente o esclusivo di strategie di regolazione emozionale disfunzionale, come la soppressione o l’evitamento delle emozioni (Oldershaw et al., 2012), e minore ricorso a strategie adattive come la rivalutazione cognitiva e il problem solving (Aldao e Nolen-Hoeksema, 2010). Secondo la letteratura (Speranza, Loas, Wallier, et al., 2007), l’alessitimia, conseguenza deficitaria o strategia messa in atto rispetto a una gestione emotiva disregolata o disfunzionale, è una delle caratteristiche principali dei disturbi del comportamento alimentare, incluso il BED. Elevati livelli di alessitimia corrispondono a una significativa difficoltà nell’identificare le emozioni e i sentimenti, specialmente rabbia e stati emotivi negativi, e nell’esprimerli verbalmente, associata a un senso di generale inadeguatezza e a perdita del controllo sulla propria vita (Schimdt, Jiwany, Treasure, 1993).

Sviluppi teorici classici suggerivano una stretta relazione tra deficit emozionali e binge eating, attribuendo ai soggetti BED peculiari strategie psicopatologiche “difensive”. Clinicamente si osserva il tentativo di evitare sentimenti paurosi e sgradevoli e di limitare l’esperienza emozionale in generale (Markey, Vander, 2007) . Inoltre, si è osservato in uno studio condotto da Carano, De Berardis, Gambi, et al., (2006) che ha indagato la relazione tra immagine corporea e presenza del costrutto alessitimico nei soggetti con BED, che questi ultimi mostrano una maggiore gravità del disturbo alimentare (indici di massa corporea più elevati) e una maggiore insoddisfazione per il proprio corpo rispetto ai pazienti non alessitimici. I soggetti BED alessitimici rispetto ai soggetti BED non alessitimici rispondono meno ai trattamenti psicoterapeutici e nutrizionali, mostrando elevati tassi di drop-out. Nello specifico, i pazienti BED alessitimici hanno difficoltà a identificare e a descrivere sentimenti ed emozioni senza presentare caratteristiche di pensiero orientato esternamente.

Come affermano Taylor e al., (1997), le persone affette da BED sono fondamentalmente alessitimiche, in quanto presentano deficit nel riconoscimento dei propri stati interni (fame, sazietà, senso di vuoto), nell’esplorazione del proprio mondo interiore e nella competenza necessaria per riconoscere ed esprimere le proprie emozioni. La mancanza d’informazioni sul proprio stato di benessere e sui propri desideri e bisogni, ostacola la creazione di confini stabili con gli altri, aumentando, di conseguenza, la dipendenza dall’ambiente esterno per avere conferme e sicurezze. Quindi emerge in tali pazienti una mancanza di consapevolezza enterocettiva, con conseguente confusione e incertezza nel riconoscere e rispondere in modo preciso agli stati emotivi.

Secondo le moderne teorie biopsicosociali i deficit di regolazione delle emozioni possono essere spiegati da fattori relazionali precoci, quali, in particolare, l’incapacità del caregiver di facilitare attraverso la funzione riflessiva, un pattern di attaccamento sicuro nei propri figli, determinando un’insufficiente maturazione della mentalizzazione e della regolazione emotiva (Fonagy & Target, 2001; Schore, 2001; Caretti & e La Barbera, 2005).

 

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La caffeina contrasta lo stress cronico

 

Un maggior consumo di caffeina diminuirebbe la probabilità di sviluppo di depressione e preverrebbe le alterazioni cerebrali stress indotte.

Un recente studio condotto presso l’Università di Coimbra in Portogallo, ha messo in luce la relazione esistente tra l’assunzione di caffeina e lo stress cronico. Un maggior consumo di caffeina diminuirebbe la probabilità di sviluppo di depressione e preverrebbe le alterazioni cerebrali stress indotte.

È noto che lo stress rappresenti un importante fattore di rischio per lo sviluppo di conseguenze cognitive, emotive, fisiche e comportamentali negative, come depressione, perdita di memoria e di concentrazione. In particolare la ricerca, pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), fornisce nuove conoscenze sui meccanismi molecolari alla base della correlazione tra consumo di caffeina e disturbi psichiatrici.

Le molecole di caffeina agiscono legandosi principalmente ai recettori dell’adenosina e bloccandoli. La ricercatrice Manuella P. Kaster e colleghi hanno osservato il comportamento dei topi sottoposti a situazioni stressanti, che includevano letto umido, la condivisione dello spazio di vita con gli altri, la privazione di acqua e cibo, bagni freddi e gabbie inclinate a 45 °; è emerso che lo stress altera sia il comportamento che le sinapsi, molte delle quali appaiono atrofizzate, soprattutto nell’ippocampo, regione preposta al consolidamento della memoria e all’inibizione comportamentale. I circuiti ippocampali infatti sono ricchi di recettori dell’adenosina.

Lo studio ha previsto il coinvolgimento di due ulteriori gruppi di topi (sottoposi alle stesse situazioni stressanti del primo gruppo): uno geneticamente modificato in modo che i neuroni non esprimessero i recettori dell’adenosina, l’altro di topi normali in cui tali recettori erano stati bloccati farmacologicamente.

Bloccando il funzionamento dell’adenosina in condizioni di stress cronico nei topi e somministrando loro caffeina, si è osservato come questi avessero migliori prestazioni di memoria e sinapsi meno atrofizzate rispetto al gruppo di topi stressati ma non trattati con la caffeina.

L’assunzione di caffeina potrebbe essere un tentativo inconsapevole di questi animali di auto-medicarsi, allentando la tensione e riducendo l’incidenza di depressione.

Potrebbe, in tal modo, essere spiegata la necessità impellente di caffeina da parte di chi è sottoposto a condizioni continue di stress; inoltre questa scoperta potrebbe aprire la strada a un nuovo possibile approccio alla terapia dei disturbi dell’umore e della memoria dovuti allo stress cronico.

 

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La stabilità dell’ambiente di riferimento: un fattore di protezione per i disturbi da uso di sostanze

FLASH NEWS

Un senso di stabilità e di controllo sul proprio ambiente di riferimento può modificare il modo in cui i circuiti cerebrali si strutturano, riducendo la sensibilità al consumo e all’abuso di sostanze e quindi l’impatto delle sfide che la vita pone.

Numerose ricerche hanno dimostrato che condizioni di stress e di deprivazione ambientale possono conferire un certo grado di vulnerabilità per lo sviluppo di disturbi da uso di sostanze nel caso degli uomini, mentre nel caso degli animali per il comportamento di ricerca delle sostanze; d’altro canto un senso di stabilità e di controllo sul proprio ambiente di riferimento può modificare il modo in cui i circuiti cerebrali si strutturano, riducendo la sensibilità al consumo e all’abuso di sostanze e quindi l’impatto delle sfide che la vita pone.

Con l’obiettivo di confermare le evidenze sopra dette la ricerca presente ha considerato un breve training cognitivo come strumento efficace per ricreare appunto una certa solidità e sicurezza, in quanto esso media processi di apprendimento e la formazione di ipotesi basate sulle informazioni che possono essere ricavate dall’ambiente.

In particolare lo studio ha sottoposto a tele training 74 topi che, tramite prove ed errori, dovevano infatti apprendere associazioni arbitrarie discriminando tra diversi stimoli sensoriali e ricevendo in cambio ricompense di cibo.

I topi sono stati divisi in tre gruppi, quelli del primo gruppo sono stati esposti al training cognitivo per 9 giorni e hanno ricevuto le ricompense ogni volta che dimostravano di aver appreso le giuste associazioni; il secondo gruppo di topi è stato sottoposto al training ma i rinforzi non erano conseguenti al successo durante la prova, piuttosto gli animali venivano ricompensati ogni volta che i topi del primo gruppo ricevevano il cibo; infine il terzo gruppo non è stato esposto al training e durante i 9 giorni veniva lasciato in uno stato di deprivazione di cibo. Trascorsi i 9 giorni di training venivano fatte passare 4 settimane al termine delle quali i topi venivano condizionati all’uso della cocaina.

La ricerca ha voluto verificare in una prima fase il mantenimento del comportamento di ricerca della sostanza esponendo settimanalmente i topi al condizionamento della cocaina mentre nella seconda fase un’esposizione giornaliera alla sostanza è stata programmata per controllare l’estinzione del comportamento di ricerca della cocaina.

I risultati hanno mostrato che tutti i topi hanno sviluppato un’eguale preferenza alla cocaina il primo giorno di esposizione alla sostanza, tuttavia il comportamento degli animali cambia con il ripetersi dell’assunzione.

In particolare si è osservato che il training cognitivo ha un effetto protettivo generale rispetto al mantenimento del comportamento di ricerca, mentre nel caso dell’estinzione della preferenza per la cocaina solo i topi che fanno parte del primo e del secondo gruppo, cioè quelli che ricevono il training, mostrano una riduzione della stessa.

Tali esiti confermano le ipotesi di ricerca e le conclusioni degli studi precedenti e cioè che un maggior senso di controllo e di stabilità del proprio ambiente di riferimento può rappresentare un fattore di resilienza e di protezione rispetto ai disturbi da abuso di sostanze.

 

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Cambiamento in psicoterapia: il modello dei fattori aspecifici

Alessia Offredi, OPEN SCHOOL MODENA

 

 

Il modello dei fattori aspecifici nasce dalla convinzione che esista una serie di fattori comuni a tutte (o quasi) le terapie, responsabili dei benefici della psicoterapia, più degli elementi peculiari dei vari approcci.

[blockquote style=”1″]Everybody has won and all must have prizes[/blockquote] (Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, cap.3)

Saul Rosenzweig (1936) prende spunto dal capolavoro di Carroll per coniare un modo di dire che sarà alla base di un grande dibattito in ambito psicologico, attivo ancora oggi. Si tratta del verdetto del Dodo e nasce dall’episodio narrato nell’opera in cui l’uccello Dodo indice una gara tra i vari personaggi, senza specificare i parametri che avrebbero decretato il vincitore. Per questo motivo, alla fine della gara, per accontentare i partecipanti desiderosi di sapere chi avesse vinto, l’uccello risponde: “Tutti hanno vinto e tutti devono essere premiati”.

Rosenzweig afferma che i fattori aspecifici sono i maggiori responsabili del cambiamento in psicoterapia, pertanto non c’è nessuna differenza nell’applicazione di una o dell’altra tecnica specifica, dato che ognuna può portare a risultati apprezzabili. Questa posizione viene ripresa nel 1975, quando Luborsky e colleghi conducono il primo studio comparativo su diversi tipi di psicoterapie, riscontrando poche differenze significative tra di esse. Questo lavoro ha dato origine alla conduzione di numerosi studi pro o contro il verdetto del Dodo, che si susseguono tuttora nella letteratura internazionale.

Il modello dei fattori aspecifici si muove a favore del verdetto del Dodo, portando sempre più numerosi studi a sostenere il ruolo secondario delle tecniche scelte. Tra questi, la metanalisi di Smith e Glass (1977) considera più di 400 trial controllati, confrontando popolazione che si era sottoposta a psicoterapia e campione di controllo e mostrando l’efficacia della terapia al di là della base teorica da cui era stata sviluppata. Successivamente, Wampold (2001) non riscontra differenze tra gli effetti di differenti trattamenti e afferma che una ricerca metodologica più rigorosa non avrebbe comunque trovato delle differenze.

Il modello dei fattori aspecifici nasce quindi dalla convinzione che esista una serie di fattori comuni a tutte (o quasi) le terapie, responsabili dei benefici della psicoterapia, più degli elementi peculiari dei vari approcci.

Partendo da questo presupposto, mancava però in letteratura una visione condivisa e definita dei fattori aspecifici, che per loro natura sembrano difficilmente operazionalizzabili. Grencavage e Norcross (1990) effettuano una grande revisione dei lavori pubblicati fino a quel momento, citando tutti i fattori individuati dai colleghi e illustrati altrove. Ne risulta un elenco molto ricco (89 fattori per l’esattezza) suddiviso in 5 macro-categorie:
– processi di cambiamento (acquisizione e pratica di nuovi comportamenti, autoconsapevolezza, apprendimento emotivo e interpersonale, feedback dalla realtà, …);
– qualità del terapeuta (si mostra speranzoso o condivide le proprie aspettative, è accogliente, si pone in un atteggiamento di ascolto empatico, …);
– elementi della relazione (sviluppo di una buona alleanza terapeutica, ingaggio del paziente, …);
– elementi del trattamento (uso di tecniche o rituali, esplorazione dei contenuti emotivi, aderenza a una teoria, comunicazione verbale e non verbale);
– caratteristiche del paziente (aspettative positive, il paziente cerca aiuto in modo attivo, …).

Wampold chiarifica che i fattori aspecifici così come descritti da Grevncavage e Norcross (1990) non possono da soli giustificare un cambiamento, ma devono essere considerati nel sistema di aiuto descritto da Frank. Jerome Frank (Frank & Frank, 1993) sembra avere il merito di aver dato il via alla creazione di una cornice teorica maggiormente definita a tale approccio; successivamente Wampold e colleghi hanno ripreso e perfezionato il modello (Wampold, 2001, Wampold & Budge, 2012), concettualizzando la psicoterapia come una pratica di cura socialmente fondata.

Da questa prospettiva, vengono identificati cinque fattori considerati necessari e sufficienti a produrre un cambiamento: (a) un legame forte e emotivamente connotato tra paziente e curante, (b) un setting di cura riservato e adeguato, (c) un terapeuta che offra una spiegazione di carattere psicologico e culturalmente coerente dell’origine del disturbo emotivo, (d) una spiegazione adattiva e accettabile per il paziente, e (e) una serie di procedure che conducano il paziente a comportarsi in modo più adattivo, utile e positivo.

In questo modello l’adozione di una teoria e dei relativi protocolli nella pratica clinica non è l’elemento primario che indica il percorso di cura del paziente, bensì solo uno dei molti fattori che concorrono al cambiamento della persona. Le implicazioni di questa prospettiva sono diverse, come sottolineano Laska e coll. (2014); innanzitutto ogni terapia che contenga tutti gli elementi sopra descritti sarà efficace nel trattamento di un problema.

Secondariamente, i fattori relazionali come empatia, condivisione dell’obiettivo e collaborazione, alleanza terapeutica e buona considerazione dell’altro, potrebbero predire i risultati della terapia: ciò implica la possibilità di riscontrare differenze tra i terapeuti, a seconda di quanto siano abili nel considerare e coltivare gli elementi della relazione. Infine, ogni trattamento terapeutico (con le caratteristiche descritte) sarà più efficace di un semplice supporto o di “condizioni psicologiche placebo” (Laska, Gurman & Wampold, 2014).

Il modello descritto trova alcune aree di vicinanza con l’approccio evidence-based, che tenta invece di individuare quali siano le tecniche specifiche maggiormente funzionali per le diverse problematiche nel campo della salute mentale. In particolare, l’applicazione di procedure volte a migliorare la qualità della vita del paziente è proprio uno dei fattori aspecifici necessari e sufficienti al cambiamento.

La possibilità di integrazione che si trova in questo punto del modello è sempre stata un punto di forza secondo i suoi sostenitori, che così facendo lasciavano “spazio per tutti”. Tuttavia, sembra mancare l’attenzione verso il processo della terapia, vista la libertà lasciata al terapeuta di agire indipendentemente da ciò che si è dimostrato efficace, ma solo in accordo con la propria coscienza e la propria “buona fede”.

Lambert e Ogles (2014), che ben sottolineano tali punti d’incontro tra modelli, pongono tuttavia qualche riflessione in merito alla posizione di Laska e colleghi (2014), i quali sostengono una maggior diffusione del modello dei fattori aspecifici come linea teorica più completa e esaustiva rispetto agli approcci evidence based. Per sostenere tale posizione, affermano Lambert e Ogles, occorrerebbe che il modello dei fattori aspecifici si presentasse come una teoria in grado di spiegare le patologie, il loro trattamento e i processi di cambiamento, cosa che attualmente in letteratura non sembra esserci, sicuramente non in modo condiviso, né supportato da dati empirici. Non si fa attendere la risposta di Laska e Wampold, che tentano di far chiarezza sull’approccio da loro difeso indicando un decalogo di “cose da sapere prima di parlare dei fattori aspecifici”.

1 – I fattori aspecifici sono incorporati in una teoria scientifica
La teoria a cui fanno riferimento gli autori è quella di Jerome Frank (Frank & Frank, 1993), con le relative estensioni più recenti (ad esempio, Wampold & Budge, 2012). Tale teoria non si limita a definire una lista dei fattori aspecifici, ma consiste in una spiegazione scientifica di come avviene il cambiamento in psicoterapia. Gli autori affermano che alla base del loro approccio c’è la scienza che analizza come le persone guariscono nei contesti sociali e descrive fattori specifici sottostanti alle ipotesi su cosa dovrebbe essere osservato nelle varie condizioni.

2 – I meccanismi di cambiamento dei modelli supportati empiricamente sono specifici per patologia
Wampold e colleghi (2010) analizzano il caso del disturbo post traumatico da stress, identificando 17 possibili elementi di efficacia nel trattamento del disturbo secondo il modello CBT: secondo Laska e Wampold, questo rende impossibile l’identificazione e la spiegazione del reale meccanismo di cambiamento sottostante.

3 – I modelli dei fattori aspecifici non sono un sistema chiuso, ma operano con l’obiettivo di identificare cosa renda una psicoterapia efficace, attraverso studi in continua evoluzione.

4 – Non c’è niente di paragonabile al modello dei “fattori aspecifici” – e la questione della struttura
Data la natura del modello e la sua strutturale integrazione con tecniche di intervento e teorie specifiche, è impensabile per gli autori paragonare un intervento evidence based con un intervento basato sui fattori aspecifici. Teoricamente, un intervento senza alcun razionale non risulterebbe tanto efficace quanto un intervento in cui il razionale sia chiaro e condiviso: tale posizione è in linea con la sopra citata teoria di Jerome Frank (Frank & Frank, 1993).

5 – Anomalie: occorre affrontarle
La presenza di anomalie, che possono arricchire un modello se adeguatamente integrate, possono anche inficiare la validità di un trattamento, qualora risultino eccessive e difficilmente inquadrabili. Gli autori affermano provocatoriamente: “Se l’efficacia di esposizione prolungata o EMDR sono dovuti alla presenza di elementi di esposizione, cosa conferma la necessità di una particolare tecnica di esposizione?” (Frost, Laska & Wampold, 2014).

6 – Quali sono le ipotesi sottostanti alla teoria degli approcci supportati empiricamente?
In questo punto gli autori si rivolgono ai colleghi invitandoli a riconsiderare le proprie posizioni. In letteratura è stato dimostrato che non ci sono differenze di outcomes in differenti tipologie di trattamento (ad esempio, sui disturbi alimentari, Zipfel et al., 2014), trattamenti privi di fondamento teorico si sono dimostrati efficaci (Cuijpers et al., 2012) e la rimozione di alcuni elementi non inficia l’efficacia di un intero percorso terapeutico (Ahn & Wampold, 2001). Resta quindi da chiedersi cosa aspettino i terapeuti di vari approcci a riconsiderare il loro modo di lavorare alla luce di questi dati.

7 – I fattori aspecifici non implicano che “una cosa vada bene per tutti”
Una delle critiche maggiormente mossa al modello dei fattori aspecifici consiste proprio nel fatto che tale modello sembri incoraggiare l’assunzione della stessa posizione per ogni disturbo e scoraggiare, d’altra parte, l’adozione di tecniche specifiche. Come sottolineato da Beutler (2014), il vantaggio di adottare un approccio basato sui fattori aspecifici risiede proprio nella flessibilità e nella possibilità di adattamento ad ogni paziente. Così, se il paziente preferisce un trattamento meno rigido, il terapeuta sarà libero di realizzarlo senza essere imprigionato nelle trame della propria teoria di riferimento.

8 – Le omissioni sono importanti
Ad oggi sembrano non esserci evidenze sufficienti a favore della diffusione di modelli basati sull’efficacia; non abbiamo alcuna prova in letteratura che investire in questa direzione porterà a ottenere dei miglioramenti. Inoltre la conduzione di studi di efficacia comporta ingenti costi per la loro realizzazione: Laska (2012) ha calcolato che dal 1999 al 2009 sono stati spesi 11 milioni di dollari nella conduzione di trial clinici, senza ottenere risultati processabili.

9 – I trial clinici randomizzati non sono l’unica via per la conoscenza
Kazdin (2007, 2009) afferma che i trial clinici non evidenziano i meccanismi di cambiamento, ma si limitano a sottolineare correlazioni tra meccanismi e outcomes. Inoltre, sebbene sia arduo dal punto di vista etico e metodologico, è possibile considerare i fattori aspecifici all’interno delle sperimentazioni, per esaminarne gli effetti. Ad esempio, nel caso dell’empatia, è stato dimostrato che l’interazione con clinici empatici migliora i risultati ottenuti con pazienti che soffrivano di sindrome dell’intestino irritabile, relativamente a qualità della vita e sintomatologia (Kaptchuk et al., 2008; Kelley et al., 2009).

10 – “Pensieri diversi per diversi strizzacervelli”
Per concludere, gli autori evidenziano la necessità di lasciare un certo spazio di movimento ai terapeuti, in modo da poter includere qualità e predisposizioni individuali all’interno della terapia, arricchendola e creando una sorta di pratica evidence based individualizzata.

Il dibattito è ancora aperto e aspettiamo di vedere quale sarà la risposta dei colleghi al decalogo riportato. Senza dubbio conoscere e considerare i fattori aspecifici è di fondamentale importanza per qualsiasi professionista: condurre una terapia senza considerare l’alleanza del paziente è pressoché impossibile. Sebbene in letteratura si riscontri un forte dibattito volto a sostenere questo approccio, manca una chiarificazione di cosa comporti sposare il modello dei fattori comuni e di come ciò sia realizzabile.

Anche il decalogo qui riportato, apparentemente molto semplice ed essenziale, in realtà risulta caratterizzato da contraddizioni e mancanza di chiarezza. Se un terapeuta si svegliasse domattina volendo diventare esperto di fattori aspecifici potrebbe leggere i lavori di Jerome Frank e probabilmente sperare di avere delle qualità intrinseche adatte al mestiere, ma poco altro. Questi aspetti, ampiamente studiati, per loro natura sembrano sfuggire alla possibilità di essere insegnati e appresi e non risulta nemmeno che questa sia l’intenzione dei sostenitori (si noti il punto 10 del decalogo). L’impressione è che si richieda a gran voce una loro diffusione, ma senza l’uso di trial (costano e non aggiungono conoscenze) o forse sì (possono comunque essere indagati), che vengano considerati da tutti i professionisti (che prove gli servono ancora?), ma senza definizioni o rigidità (il professionista deve poter muoversi nella conduzione della terapia).

Il rischio, dal punto di vista della ricerca scientifica, è di focalizzarsi molto sul come funzionano i meccanismi del cambiamento (elemento che non è tralasciato nemmeno nelle terapie evidence based) e smettere nel contempo di cercare cosa funziona, tralasciando i numerosi dati a sostegno delle tecniche specifiche finora applicate e suggerite dalle linee guida (Sassaroli & Ruggiero, 2015). Emerge infine lo stereotipo purtroppo diffuso del professionista che si attiene ai modelli evidence based come fosse un enorme diagramma di flusso incapace di gestire una risposta non preconfezionata. E per fortuna non è proprio così.

 

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Davanti allo specchio: il disturbo di dismorfismo corporeo

Il Disturbo di Dismorfismo Corporeo è grave, la sua diffusione è sottovalutata e i pazienti chiedono aiuto a specialisti diversi da quelli che si occupano di salute mentale. Il disturbo è stato studiato in modo continuo e sistematico solo negli ultimi due decenni. 

davanti allo specchio-Manet
Davanti allo Specchio – Manet

Il Disturbo di Dismorfismo Corporeo è grave, la sua diffusione è sottovalutata ed è poco studiata sia dagli psicoterapeuti che dai farmacologi e i pazienti chiedono aiuto a specialisti diversi da quelli che si occupano di salute mentale.

Nel DSM-5 (APA, 2014) il disturbo di dismorfismo corporeo è stato inserito nella categoria dei disturbi ossessivo compulsivi e disturbi correlati e diagnosticato con i seguenti criteri:

  • Preoccupazione per uno o più difetti o imperfezioni percepiti nell’aspetto fisico che non sono osservabili o appaiono agli altri in modo lieve;
  • A un certo punto, durante il decorso del disturbo l’individuo ha messo in atto comportamenti ripetitivi (ad esempio, guardarsi allo specchio; curarsi eccessivamente del proprio aspetto; stuzzicarsi la pelle, ricercare rassicurazioni) o azioni mentali (ad esempio, confrontare il proprio aspetto fisico con quello degli altri) in risposta a preoccupazioni legate all’aspetto.
  • La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti;
  • La preoccupazione legata all’aspetto non è meglio giustificata da preoccupazioni legate al grasso corporeo o al peso in un individuo i cui sintomi soddisfano i criteri diagnostici per un disturbo alimentare.

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali richiede di specificare se il disturbo è presente con dismorfia muscolare e con quale grado di insight. Nel primo caso l’individuo è preoccupato dall’idea che la sua costituzione corporea sia troppo piccola o insufficientemente muscolosa, mentre il grado di insight è classificato in buono o sufficiente (l’individuo riconosce che le convinzioni relative al Body Dysmorphic Disorder (BDD) sono decisamente o probabilmente non vere o che possono o non possono essere vere), scarso (l’individuo pensa che le convinzioni relative al disturbo siano probabilmente vere), assente con convinzioni deliranti (l’individuo è assolutamente sicuro che le convinzioni circa il BDD siano vere) (APA, 2014, p. 280).

Il disturbo è stato studiato in modo continuo e sistematico solo negli ultimi due decenni. Le conoscenze sulle caratteristiche cliniche, l’epidemiologia e il trattamento sono cresciute, e iniziano a emergere significativi dati neurocognitivi e neurobiologici.

Alcuni studi epidemiologici hanno riportato una prevalenza di punto che va da 0,7% a 2,4%. Secondo tale prevalenza il disturbo di dimorfismo corporeo è dunque più comune di disturbi come la schizofrenia o l’anoressia nervosa (APA, 2000).

Il disturbo è presente con una prevalenza che varia dal 9% al 12% nei pazienti dermatologici, dal 3% al 53% nei pazienti sottoposti a interventi di chirurgia estetica, dall’8% al 37% in soggetti con disturbo ossessivo compulsivo, dal 10 al 13% nei soggetti con fobia sociale e dal 14% al 42% in quelli con disturbo depressivo maggiore ( APA, 2014).

Il BDD può essere un po’ più comune nelle donne, ma colpisce anche molti uomini. I maschi hanno più probabilità di avere preoccupazioni legate ai genitali, mentre le femmine hanno più di frequente un disturbo alimentare in comorbidità (APA, 2014).

 Inoltre il rischio relativo di presentare il disturbo cresce tra coloro che non sono sposati, tra i divorziati e tra i disoccupati (Scarinci, Lorenzini, 2015). Quindi sembra che situazioni di frustrazione e perdita e il vissuto di non accettazione possano esprimersi nel disturbo.

La dismorfofobia comincia solitamente durante l’adolescenza, l’età media all’esordio è di 16 anni con un decorso cronico, se non viene trattata.

E’ spesso in comorbidità con altri disturbi mentali. La più comune è con il disturbo depressivo maggiore (75%); seguono i disturbi da uso di sostanze (dal 30% al 48,9%); il disturbo ossessivo compulsivo (dal 32% al 33%); la fobia sociale (dal 37% al 39%), i disturbi del comportamento alimentare e i disturbi di personalità (Wilhelm, Phillips, Steketee, 2013).

L’eziopatogenesi del disturbo è legata all’identità e costruita in relazione al corpo. L’attribuzione estetica che si forma sulle rappresentazioni definisce l’autoimmagine che è parte dell’autostima e predica sul valore personale.

Una minaccia all’immagine di sé comporta un danneggiamento all’autovalutazione positiva con la necessità di adottare comportamenti di salvaguardia che tendano a ripristinare un’immagine che, sia nel confronto sociale, sia nell’assunzione delle valutazioni altrui su di sé, possa uscire conforme agli standard e soddisfacente.

I processi di valutazione affettiva del proprio corpo possono generare cognizioni e comportamenti automatici ricorsivi disfunzionali anche per l’influenza della cultura d’appartenenza. Non è forse un caso se negli ultimi tempi questa patologia si è largamente diffusa. Nella nostra società il look è definito da canoni estetici rigidi, quasi autoritativi che impongono un rispetto assoluto pena l’esclusione e la svalutazione.
E ‘ stato riscontrato che un’effettiva discrepanza con l’ideale dell’immagine corporea è correlata a sintomi e a sentimenti di insoddisfazione e alcune caratteristiche della self discrepancy possono determinare, oltre a un’instabilità emotiva, anche una deiezione del soggetto, un modo di essere inautentico che sfocia in un’estraneazione dal mondo e dagli altri (Scarinci, Lorenzini, 2015).

Molti sono gli stati emotivi che il soggetto sperimenta spesso con forte intensità.

 La percezione di avere qualcosa che non va rende diversi e mette inevitabilmente fuori dal gruppo, e l’emozione della vergogna pervade il soggetto. La perdita di un’immagine corporea bella lo rende triste e quando si rende conto di essere affetto da un disturbo grave l’intensità assume livelli ancora più intensi. La consapevolezza che il problema sia gravissimo e dunque comprometta molti degli scopi del BDD comporta un’intensa ansia e comportamenti di controllo del corpo per verificare l’evoluzione del problema. Inoltre l’invidia chiude il soggetto in un isolamento rancoroso.

Le emozioni sperimentate più intensamente, sono correlate preminentemente a due sistemi motivazionali interpersonali (Liotti, Monticelli, 2008): il sistema di rango (vergogna, invidia, tristezza da sconfitta, paura da giudizio) e il sistema di attaccamento (rabbia, tristezza da perdita).

In definitiva, il dismorfofobico avverte uno specifico difetto ben circoscritto (poco importa se del tutto inesistente o lievemente presente) che rende impossibile l’esistenza. Il difetto diventa il concentrato di tutto quello che nel soggetto non va.

Di fronte ad un compito esistenziale importante, ad esempio l’uscita dalla famiglia e la collocazione nel mondo, il soggetto può sperimentare un’angoscia profonda. Tutta la sua identità ed il suo valore sono messi in gioco e se i processi di assimilazione e accomodamento di questa esperienza dirompente falliscono può vivere qualcosa di simile all’umore predelirante. Quando l’insight è scarso o assente si affaccia l’esperienza dell’eureka e la nascita del delirio che permette di salvare la propria identità con un ragionamento del tipo: non sono io che non vado bene, è la mia cicatrice che mi rende orribile e inaccettabile e se riuscirò a eliminarla tutto andrà a posto.

L’intervento con questi pazienti presuppone, perciò, una rielaborazione cognitiva e la critica agli errori di valutazione che dovrebbe portare all’accettazione della propria identità, vero problema sottostante all’espressione sintomatologica (per un approfondimento del trattamento si veda Scarinci, Lorenzini, 2015).

 

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