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Lo studente autonomo: un nuovo obiettivo dell’istruzione

Molto spesso il dibattito sulla funzione delle istituzioni scolastiche porta a chiedersi quale sia l’obiettivo principale dell’istruzione, soprattutto in un contesto storico-culturale in continuo e rapido mutamento come quello attuale: la tecnologia diventa velocemente obsoleta; l’economia si trasforma rapidamente, e ciò che funziona oggi può non essere più efficace domani; la società muta e si evolve, non senza scontri e contrapposizioni interne.

Che cosa può offrire la scuola a bambini e ragazzi? Di quali strumenti dotarli per affrontare un futuro che non siamo in grado di definire con certezza?A partire da questi quesiti, si possono sviluppare alcune riflessioni, come piccolo spunto per ampliare il dibattito educativo e psicologico.

L’attività educativa che ha luogo in ambito scolastico ha diversi obiettivi, all’interno dei quali l’apprendimento dei contenuti disciplinari ne rappresenta solo una parte. La natura di tali obiettivi può dipendere da vari fattori (storici, culturali, sociali, economici); per le società democratiche Carl Rogers (1989) propone un approccio all’istruzione basato, appunto, su un obiettivo educativo di tipo democratico. Secondo tale approccio, i sistemi educativi dovrebbero contribuire alla formazione di cittadini consapevoli e responsabili, in grado di prendere decisioni in autonomia e di partecipare e contribuire attivamente alla vita collettiva della società di appartenenza. In tale contesto, la principale finalità delle istituzioni scolastiche dovrebbe essere quella di offrire agli studenti il supporto necessario al pieno sviluppo delle proprie potenzialità, nel rispetto delle loro caratteristiche psicologiche e di personalità e delle loro convinzioni e opinioni sociali, culturali e religiose.

Il processo educativo dovrebbe promuovere, per Rogers (1969), la “facilitazione dell’apprendimento” (pag. 131, ed. it.), in modo tale che, grazie alla relazione con l’educatore, il discente possa sviluppare strategie di apprendimento autonomo. Una condizione di facilitazione dell’apprendimento prevede un ruolo attivo dello studente, che viene coinvolto nel percorso educativo e responsabilizzato rispetto agli obiettivi formativi da raggiungere. Se l’individuo svilupperà la capacità di apprendere in modo autonomo, sarà in grado di fronteggiare i cambiamenti e le eventuali difficoltà che incontrerà nel suo percorso esistenziale.

Stimolare l’autonomia nell’apprendimento implica favorire lo sviluppo di individui che saranno in grado di imparare e formarsi lungo tutto il corso di vita, contribuendo ad accrescere non solo il loro livello di conoscenza e di expertise, ma anche quello della comunità in cui vivono. Apprendere una lingua straniera, aggiornarsi professionalmente, utilizzare un nuovo dispositivo elettronico, imparare a eseguire nuovi compiti o modificare l’esecuzione di attività già note: ci sono numerose occasioni in cui a ogni individuo è richiesto di progettare e attuare un processo di apprendimento, più o meno a lungo termine. A questo proposito, la scuola assume una funzione rilevante, in quando dovrebbe offrire adeguato supporto allo sviluppo di alcune abilità particolari, indispensabili per apprendere in modo efficace.

Tra le principali emergono le strategie meta cognitive, le opinioni e le convinzioni sulla natura e sul funzionamento del processo di apprendimento e aspetti relativi alla motivazione ad apprendere (Boscolo, 1999). Tutti questi aspetti si riferiscono al modo in cui vengono selezionati, organizzati e gestiti i processi di tipo cognitivo e psicologico messi in atto quando si è impegnati a imparare. La meta-cognizione riguarda la conoscenza relativa al modo in cui funzionano i processi cognitivi (Flavell, 1979): capire e conoscere come opera la propria mente (e più in generale, la mente umana) mentre si è impegnati a imparare permette di rendere più efficace il processo cognitivo attraverso l’utilizzo di tecniche di controllo e regolazione dell’apprendimento (Flavell, 1979). Più precisamente, possedere un certo livello di consapevolezza riguardo al modo in cui si comprende del materiale nuovo, si ricordano dei contenuti memorizzati, si affronta un compito mai eseguito prima e, più in generale, si apprende, consente di pianificare un percorso di apprendimento, che prevede una continua e costante verifica (ed eventuale correzione) dell’efficacia dei processi che si stanno mettendo in atto.

La dimensione meta cognitiva sembra avere un ruolo rilevante nel processo e nei risultati di apprendimento. Friso, Palladino e Cornoldi (2006) hanno sottolineato che abilità meta cognitive e prestazione di apprendimento si influenzano reciprocamente, per cui maggiori competenze in ambito meta cognitivo portano a risultati di apprendimento migliori e progressi nell’apprendimento contribuiscono all’acquisizione di abilità meta cognitive sempre più articolate ed efficaci.

Le opinioni che le persone sviluppano in relazione all’apprendimento e al modo in cui si forma la conoscenza sono stati definite “credenze epistemologiche”. Secondo Hofer e Pintrich (1997) le persone si formano delle teorie, molto articolate ma non sempre del tutto corrette, sul modo in cui avviene l’apprendimento. In particolare, in tali strutture di opinioni emergono quattro dimensioni fondamentali, che consentono di sviluppare delle spiegazioni informali riguardanti il livello di certezza della conoscenza (se la conoscenza è certa in assoluto oppure se assume valore relativo in determinati contesti), la semplicità della conoscenza (se la conoscenza consta di concetti isolati oppure presenta una struttura più complessa e articolata), la fonte della conoscenza (se la conoscenza deve essere divulgata da un’autorità, da individui ritenuti esperti oppure se può essere co-costruita) e giustificazione della conoscenza.

Tali gruppi di credenze hanno impatto sul processo di apprendimento, favorendolo o ostacolandolo: un esempio molto noto è quello per cui le credenze relative all’apprendimento della matematica sembrano influenzare le prestazioni accademiche relative a questa disciplina e lo sviluppo di abilità di problem solving (Leder, Pehkonen, Töner, 2006). Se si ritiene che per riuscire in matematica sia indispensabile possedere una certa dose di “talento innato” e che, senza di questo, qualsiasi sforzo cognitivo sia inutile, esperienze che fanno ritenere di “non essere portati” per la materia influenzeranno l’attività formativa e ridimensioneranno gli obiettivi di apprendimento.

Infine, la motivazione all’ apprendimento include un insieme di aspetti relativi all’ esperienza individuale nell’ apprendimento (De Beni e Moé, 2000): tale complessa struttura cognitiva, psicologica ed emozionale definisce la direzione e l’intensità dei comportamenti di apprendimento che vengono messi in atto. Non si può quindi ridurre la motivazione a “avere più o meno voglia di imparare”, ma va considerata la complessità degli aspetti che vi entrano in gioco, legati alle passate esperienze, agli obiettivi educativi che si perseguono, alle credenze epistemologiche sviluppate, alla percezione della propria efficacia come individuo in grado di apprendere in specifiche aree di conoscenza.

La dimensione motivazionale rivolta all’ apprendimento si struttura a partire da tutte queste dimensioni e risente, inoltre, di elementi legati al contesto di apprendimento o istruzione e alle relazione o scambio sociale all’ interno della classe, tra compagni e tra studente e docente. Proprio per questi aspetti, lo studente “svogliato” non dovrebbe essere considerato colpevole di mancanza di buona volontà, ma andrebbero ricercate le cause sottostanti che hanno contribuito allo stabilizzarsi di un atteggiamento di disimpegno.

Per concludere questa breve riflessione, l’attività formativa offerta dalla scuola non dovrebbe esaurirsi nella mera trasmissione di conoscenze. In un contesto in rapida evoluzione e di fronte ad un futuro, per certi aspetti, alquanto imprevedibile, è possibile ipotizzare l’importanza di favorire, in ogni studente e nel rispetto delle sue caratteristiche personali, lo sviluppo di abilità che gli o le consentano di raggiungere una condizione di autonomia nell’ apprendimento.

Strategie meta cognitive, conoscenza del modo in cui si sviluppa l’apprendimento nelle diverse discipline e sviluppo di un atteggiamento motivato rispetto all’ apprendimento andrebbero tenuti in considerazione nella riflessione relativa agli obiettivi dell’istruzione, che dovrebbe essere ampliata per includere i vari aspetti cognitivi, psicologici, esperienziali ed emozionali che contraddistinguono il processo di apprendimento.

 

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Il Non-Suicidal Self-Injury (NSSI) visto da differenti prospettive – Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia, Milano

Sara Palmieri – OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Durante il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP), tenutosi a Milano dal 7 al 10 luglio scorso, è stato organizzato un simposio sul tema dell’autolesionismo non suicidario (Non-suicidal self-injury – NSSI).

Tale comportamento è definibile come un’autodistruzione intenzionale o un’alterazione dei tessuti del corpo in assenza di un intento suicida consapevole.  L’autolesionismo non suicidario è un comportamento transdiagnostico, comune tra i maschi e le femmine, utilizzato per far fronte alle emozioni intense e al disagio psicologico. Nell’NSSI rientrano comportamenti quali tagli, bruciature, colpire sé stessi o farsi del male con oggetti (Favazza & Conterio, 1989).

L’NSSI differisce dal comportamento suicida (compresi l’ideazione e i tentativi) in quanto, di solito, coinvolge metodi non letali ed è guidato dall’intento di regolare le emozioni piuttosto che dal desiderio di terminare la propria vita. Alla luce di ciò risulta chiaro come l’eziologia dell’autolesionismo non suicidario e del comportamento suicida sia diversa e che quindi sia necessario un approccio su misura per la comprensione e il trattamento dell’NSSI.

Durante il simposio sono stati presentati i risultati di alcuni progetti di ricerca che hanno tentato di capire meglio l’eziologia e il trattamento dell’NSSI secondo una prospettiva intrapersonale e interpersonale.

La prima presentazione (Baetens et al., 2014) ha riguardato infatti i fattori interpersonali e intrapersonali che potrebbero influenzare e mantenere l’NSSI. Lo studio longitudinale condotto su coppie di genitore-figlio adolescente, ha mostrato come il comportamento autolesionistico sia scatenato e mantenuto da fattori appartenenti tanto ai genitori quanto ai figli. A partire da questo risultato sono state ipotizzate implicazioni terapeutiche per la terapia familiare.

La seconda presentazione ha riguardato uno studio volto ad indagare i predittori dell’autolesionismo non-suicidario e del comportamento suicida in 144 adolescenti trattati per depressione. I dati hanno mostrato come nel campione di adolescenti depressi siano frequenti comportamenti autolesionistici (42% di comportamenti lifetime), manifestati soprattutto attraverso tagli, che si verificano più spesso quando gli adolescenti sono arrabbiati o credono di non aver fatto abbastanza.

Lo studio ha anche indagato se vi fossero differenze sull’outcome del trattamento (farmaci vs CBT) in base al fatto di avere o meno comportamenti autolesionistici. È stato mostrato come non vi fossero differenze significative su depressione, ansia e funzionamento relazionale tra chi ha autolesionismo e chi no.

Sembrerebbe che l’NSSI sia comune tra i giovani con depressione ma che sia in gran parte resistente al trattamento. La ricerca futura dovrà quindi focalizzarsi sull’NNSI come possibile outcome del trattamento per i disturbi depressivi e determinare quando specifiche strategie di trattamento sono necessarie per ridurre l’NNSI.

Un altro contributo (Tanner, Hasking, Martin, 2015) ha riguardato la relazione tra NNSI e impulsività ed i recenti dati in letteratura in merito al ruolo che lo stress esercita sull’impulsività nei giovani adulti con autolesionismo. I dati mostrano come l’impulsività possa essere legata all’NSSI, ma usare l’autolesionismo in modo impulsivo sembrerebbe più legato ad alla regolazione delle emozioni.

Il simposio si è concluso con una la presentazione di risultati provenienti da studi di fMRI, che hanno tenuto conto anche di fattori quali stress – attivazione cerebrale – dolore, nel tentativo di sviluppare un il modello neurobiologico dell’autolesionismo non suicidario (Groschwitz & Plener, 2012).

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Il gioco simbolico come precursore della teoria della mente

Giorgia Di Fabio

Perchè esiste il gioco? Il gioco è un istinto? Il gioco è un’esigenza? E’ sempre esistito? Appartiene solo ai bambini? Il gioco è il prodotto di aspetti primitivi o evoluti di una società? Il gioco esiste in senso transetnoculturale e transgenerazionale? E’ possibile assimilare il gioco negli uomini al gioco nel mondo animale?

L’esperienza del gioco, e il concetto stesso del gioco, rappresentano un tema che apre molte riflessioni sul significato della sua funzione e sul perché individui adulti sentano il bisogno, oggi forse più che in passato, di prolungare il tempo dei giochi infantili.

Il gioco può essere considerato un residuo evolutivo che garantisce all’essere umano, come negli animali, l’affinamento delle abilità necessarie a sopravvivere nel proprio ambiente, un modo per esprimere il surplus di energia. Secondo la psicanalisi (Freud, 1972; Winnicott, 1970; 1974), il gioco è una trasposizione simbolica dell’esperienza e dei contenuti emotivi del bambino, un modo per dominare mentalmente le cose, specie quelle problematiche, uno strumento fondamentale per superare l’angoscia.

Possiamo definire il gioco simbolico come la capacità di rappresentare mediante simboli, immagini, nomi, pensieri, qualcosa che non è presente e che non si può percepire. Tale tipo di gioco, secondo Freud (1972), ha lo scopo di assicurare l’equilibrio emotivo della persona, come il sogno, e svolge una serie di funzioni “psicoterapeutiche”:
a. funzione identificatoria: fingendo di essere qualcuno (ad es. la bambina che indossa le scarpe di sua madre) il bambino si prepara ad assumere l’identità ed i ruoli dell’adulto.
b. funzione riparatoria e anticipatoria: il bambino si prepara a qualcosa di problematico o cerca di abbassare il livello ansioso dopo che l’evento problematico è avvenuto (ad esempio il bambino che deve andare dal dentista o che è stato dal dentista).
c. funzione compensatoria: si ha quando il bambino compensa un sentimento angoscioso o la percezione di una sottrazione affettiva attraverso la gestualità ludica. Famosa la descrizione freudiana del bambino che gettava un rocchetto, appeso ad un filo, dietro la spalliera del letto, facendolo poi ricomparire, per simulare l’uscita di casa ed il ritorno dei genitori ed alleviare, attraverso una drammatizzazione simbolica, la sua angoscia d’abbandono.

Winnicott (1972), parla di fenomeni transizionali o oggetti transizionali (copertina, capelli, filo di lana) che servono ad evocare simbolicamente il corpo materno ed a tranquillizzare il bambino che, da due anni in poi, comincia a distaccarsi dalla madre:
d. funzione rappresentativo-espressiva: il bambino, soprattutto fra i due ed i cinque anni, riesce a rappresentare la realtà soprattutto imitandola, non avendo ancora capacità di rappresentarla raffigurandola o raccontandola;
e. funzione di dominio e di controllo: il bambino, nel gioco, crea un mondo tutto suo che può costruire o distruggere a suo piacimento, per difendersi dalla realtà “vera” fatta di divieti e regole;
f. funzione manipolatrice: tutti i bambini sono attratti dalla manipolazione di materie primarie e plastiche, ricchi di significati simbolici (acqua, farina, sabbia). La manipolazione di tali elementi esprime bisogno di scaricare tensioni, di difesa dal mondo delle regole e dei divieti.

Il bambino è in grado di fingere e quindi apprende ad usare i simboli. Un simbolo è un oggetto che ne rappresenta un altro. Un esempio è il gioco creativo nel quale il bimbo usa, per esempio, una scatola per rappresentare un tavolo, dei pezzetti di carta per rappresentare i piatti ecc. Il suo ragionamento in questa fase non è né deduttivo, né induttivo, ma transduttivo o analogico, dal particolare al particolare. Ciò si traduce in una modalità di comunicazione piena di “libere associazioni” senza alcuna connessione logica in cui il ragionamento si sposta da un’idea all’altra rendendo pressoché impossibile una ricostruzione attendibile di eventi.

La Teoria della mente (Fonagy & Target, 1996) riguarda la capacità di comprendere che la mente umana è un sistema che costruisce e organizza rappresentazioni della realtà, di rappresentarsi l’evento mentale e di attribuire agli altri stati mentali anche diversi dai propri. Il bambino comprende che le persone agiscono in base alla rappresentazione che hanno della realtà esterna, più che in funzione della realtà oggettiva intorno ai 4 anni, quando compare il pensiero metarappresentativo.

Il termine ‘teoria della mente’ è stato variamente utilizzato con diversi (seppur spesso simili) significati: in psicologia dell’apprendimento e psicologia del pensiero, è stato spesso usato come analogo di metacognizione (ovvero di capacità osservativa ed automodulante dei propri stessi processi cognitivi); in  psicologia clinica, come equivalente funzionale del Sè riflessivo; in psicologia dello sviluppo, epistemologia genetica e psicologia dinamica, come la capacità del bambino di costituirsi una rappresentazione adeguata dei processi di pensiero propri e altrui.

Manifestazioni tipiche sono:
la distinzione fra pensieri su oggetti e pensieri su eventi mentali;
pensiero e ragionamento sugli stati mentali;
la comprensione del fatto che gli stati mentali degli altri possono essere diversi dai nostri;
la valutazione dei rapporti di conversazione, collaborazione e competizione;
la distinzione fra apparenza e realtà;
la capacità di attribuire agli altri false credenze;
l’uso della bugia per generare negli altri delle false credenze;
la comprensione dei verbi mentali (pensare, credere etc.)

Il bambino in questa fase dimostra la capacità di:
differenziare la propria rappresentazione da quella degli altri;
comprendere che la rappresentazione della realtà può essere difforme dalla realtà stessa;
capire che le azioni umane sono regolate dalla rappresentazione e non dalla realtà in quanto tale.

La comprensione della mente implica la possibilità di “disconnettere” la rappresentazione della realtà, cioè assumere la rappresentazione come uno stato cognitivo separato dal dato di realtà.

Si possono considerare precursori della teoria infantile della mente, cioè acquisizioni cognitive che sembrano costituire passi evolutivi verso la comprensione della mente:
la capacità dichiarativa (intorno ai 6 mesi): mostrare un oggetto con l’intenzione di condividere l’attenzione dell’altro su quell’oggetto;
la capacità di condivisione dell’attenzione tramite lo sguardo (9 mesi): segue lo sguardo della madre per individuare e osservare l’oggetto dell’attenzione della madre;
la comparsa del gioco simbolico e di finzione(18 mesi);
la manifestazione di pensiero narrativo (24 mesi);
“imparare” a dire le bugie.

Un aspetto particolarmente importante riguarda la comprensione del rapporto tra comportamenti ed emozioni: il bambino capisce che può manifestare con il comportamento il suo stato emotivo interiore.

Con la comparsa della funzione simbolica, dai 18 ai 24 mesi, ha inizio la rappresentazione mentale-imitazione differita del bambino che è in grado di agire sulla realtà col pensiero: può cioè immaginare gli effetti di azioni che si appresta a compiere, senza doverle mettere in pratica concretamente per osservarne gli effetti. Il bambino inoltre usa le parole non solo per accompagnare le azioni che sta compiendo (nominare o chiedere un oggetto presente), ma anche per descrivere cose non presenti e raccontare quello che ha visto-fatto qualche tempo prima.

Il bambino riconosce oggetti anche se ne vede solo una parte. È in grado di imitare i comportamenti e le azioni di un modello, anche dopo che questo è uscito dal suo campo percettivo. Attraverso tre attività principali si determina il passaggio dall’intelligenza senso-motoria a quella rappresentativa: imitazione; gioco simbolico; linguaggio verbale.

Nella fase pre-simbolica l’atteggiamento fondamentale del bambino è ancora di tipo egocentrico, in quanto non conosce alternative alla realtà che personalmente sperimenta: questa visione unilaterale delle cose lo induce a credere che tutti la pensino come lui e che capiscano i suoi desideri-pensieri, senza che sia necessario fare sforzi per farsi capire.
La scoperta della possibilità di usare i simboli rende il linguaggio molto importante, perché il bambino impara ad associare alcune parole ad oggetti o azioni. Nel gioco simbolico il bambino rielabora la realtà, modificandola o riproducendola sulla base del ricordo e degli stati emotivi ad esso legati, imita, anche se in maniera generica, tutte le persone che gli sono vicine: impara a comportarsi come gli adulti vogliono, prima ancora di aver compreso il concetto di “obbedienza”.

Il gioco simbolico è un antecedente molto importante delle teoria della mente: si basa sulla presenza di oggetti o situazioni che stanno per altri non presenti.

Il bambino usa un oggetto come se questo fosse un altro oggetto; attribuisce all’oggetto proprietà che non possiede; si riferisce ad oggetti assenti come se fossero presenti (esempio del bastoncino come cavallo, della banana come telefono).
Per Piaget (1972) il gioco simbolico nascerebbe nello 2° stadio senso-motorio (18-24 mesi), quando il bambino applica schemi d’azione ad oggetti a distanza crescente, producendo una progressiva separazione fra azione e oggetto; aumenterebbe nel 3° e 4° anno, per poi decrescere dando spazio al gioco con regole e di costruzione.

Gli aspetti comuni del gioco simbolico e della teoria della mente sono:
funzione di reversibilità debole: rappresentazione di un oggetto come due cose al tempo stesso;
funzione simbolica: visione di un oggetto come rappresentate di un altro;
funzione metarappresentativa: rappresentazione di rappresentazioni mentali.
Il gioco e l’acquisizione del linguaggio sono due elementi fondamentali per lo sviluppo mentale del bambino; ha, inoltre, una funzione sociale, di interazione e condivisione.

In conclusione, l’esplorazione e il gioco sono attività presenti nel repertorio comportamentale sia dei primati superiori sia della maggior parte delle specie mammifere. In tutte le culture umane i bambini trascorrono parte del loro tempo giocando; addirittura nelle società più semplici in cui i bambini sono spinti ad una rapida assunzione di responsabilità di tipo adulto, le routines quotidiane ed i compiti lavorativi sono da loro trasformate in attività di gioco. E’ proprio l’importanza che esso assume, quindi, nella vita di un bambino, di ogni bambino, che ne ha fatto uno degli argomenti privilegiati nella ricerca psicologica sia di tipo cognitivo che di tipo clinico.

 

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Workaholism, work engagement e soddisfazione familiare: un’indagine empirica in coppie di lavoratori

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

WORKAHOLISM, WORK ENGAGEMENT E SODDISFAZIONE FAMILIARE: UN’INDAGINE EMPIRICA IN COPPIE DI LAVORATORI

AUTORE: Elisa Bortolozzo

Abstract

La ricerca condotta ha analizzato due forme di impegno lavorativo che, in letteratura, sembrano rappresentare due facce della stessa medaglia per i loro effetti opposti a livello organizzativo e personale: Workaholism, definito come dipendenza da lavoro e quindi lato negativo, e Work engagement, forma di impegno sano e quindi lato positivo. L’ indagine empirica condotta su 60 coppie di lavoratori, ha analizzato gli effetti di Workaholism e Work engagement sulla soddisfazione familiare propria e del/la proprio/a partner. La ricerca ha evidenziato che un eccessivo impegno nel proprio lavoro, soprattutto quando è legato a “comportamenti malsani” come nel caso del workaholism, può portare a conseguenze negative a livello familiare, attraverso forme di conflitto tra la sfera lavorativa e quella familiare. Un dato molto importante che emerge da questo studio è la differenza di genere sugli effetti che workaholism e work engagement hanno sulla soddisfazione familiare.

The research has focused on two forms of work commitment that, in the literature, seem to represent two sides of the same coin for their opposite effects in terms of working and personal life: Workaholism, defined as work addiction, represents the negative side, and Work Engagement, as a form of positive commitment, represents the healthy side. The empirical survey conducted on 60 dual-earner couples, analyzed the effects of Workaholism and Work engagement on own family satisfaction and on the partner’s once. As revealed by the empirical survey conducted, excessive engagement in their work, especially when it is linked to “unhealthy behaviors” such as in the case of workaholism, can lead to negative consequences in the familiar domain, through forms of conflict between the working sphere and the family.
A very important result that emerges from this study is the gender difference on the effects that workaholism and work engagement have on family satisfaction.

Parole chiave: Workaholism, Work engagement, Dark Side, Family Satisfaction, Work-Family Conflict

Introduzione

Il presente studio è volto ad approfondire la relazione tra le due forme di impegno lavorativo, Workaholism e Work engagement, e la soddisfazione familiare e se questa relazione possa essere mediata dal conflitto lavoro- famiglia. Inoltre si intende rilevare in che misura il Work engagement e il Workaholism, e la loro relazione con il conflitto lavoro-famiglia, possano avere un effetto di crossover e quindi ridurre la soddisfazione familiare del partner. A questo scopo è stata svolta un’indagine empirica su 60 coppie di lavoratori (N=120) provenienti da realtà organizzative e lavorative differenti. Elemento distintivo dello studio è quello di aver affiancato alle autovalutazioni, eterovalutazioni da parte del partner.

Com’è noto, tale metodologia, permette di ridurre la varianza comune di metodo. Sulla base dei contributi più recenti presenti in letteratura (Bakker et al., 2011; George, 2011; Arabzadegan et al., 2012a, 2012b) e della teoria della conservazione delle risorse, è possibile ritenere che ci sia un lato oscuro del work engagement, ovvero che i lavoratori altamente engaged sacrifichino alcuni aspetti della loro vita, come la famiglia, per dedicarsi di più al lavoro in quanto sono così entusiasti del loro lavoro da addossarsi compiti supplementari e quindi lavoro straordinario (Maslach, 2011; Sonnentag, 2011; Halbesleben et al., 2009).

La motivazione a questo eccesso di lavoro rimane comunque differente da quella che spinge i lavoratori workaholics, ma a livello familiare i loro effetti potrebbero avvicinarsi, in quanto entrambi sarebbero portati ad esperire conflitto lavoro-famiglia, in particolare in due delle sue forme (time- based e strain-based), dovuto ad un maggior numero di risorse utilizzate in ambito lavorativo rispetto al familiare, e questo potrebbe non essere visto positivamente dalla famiglia. Il conflitto lavoro-famiglia, a sua volta, potrebbe avere un effetto deleterio sulla soddisfazione familiare, infatti, come dimostrato in alcuni studi (Ford et al., 2007; Matthews et al., 2012; Fiksenbaum, 2013), il conflitto lavoro-famiglia porta ad una riduzione della soddisfazione familiare.

 

 

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

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Atleti a 90 anni: come funziona il cervello?

Come funziona il cervello di un’atleta novantenne?

Olga Kotelko aveva novantatre anni, era canadese e collezionò più di 30 record mondiali –per categoria di età- di atletica leggera. Deceduta nel 2014, nel 2012 si sottopose a scopo di ricerca a una serie di esperimenti per far analizzare il proprio funzionamento cerebrale presso il Beckman Institute for Advanced Science and Technology della University. La storia di Olga non è ordinaria: inizia la carriera atletica decisamente tardi, una volta in pensione, dai 65 anni: vinse 750 medaglie d’oro in svariate specialità di atletica leggera tra cui 100 e 200 metri, salto in lungo, salto in alto.

Decisamente un soggetto da single-case study per i neuroscienziati che hanno anche avuto difficoltà nel mettere insieme un campione di controllo di soggetti novantenni parimenti in salute, seppur non campioni di atletica.

In una lunga giornata di laboratorio, l’atleta novantenne si sottopose a diversi test cognitivi, a uno scan di risonanza magnetica e a test cardiorespiratori: si dichiarò per nulla stanca al termine della giornata di analisi. Il gruppo di controllo, costituito da donne di età tra i 70-85 anni in buona salute ma con stile di vita sedentario, è stato sottoposto alle medesime prove e test.

In letteratura è generalmente condiviso che con l’aumento dell’età vi siano vere e proprie modificazioni strutturali dell’encefalo: il cervello tende a ritirarsi, compaiono spazi pieni di liquido tra il cervello e il cranio, i ventricoli si allargano, la corteccia tende ad assottigliarsi, l’ippocampo (area fondamentale per la memoria) si rimpicciolisce e la materia bianca tende a perdere la propria integrità strutturale e funzionale.

Alcuni studi hanno dimostrato che una regolare attività fisica aerobica può migliorare le prestazioni cognitive e la funzionalità cerebrale, in parte agendo anche sulle modificazioni strutturali e rallentando, per esempio il processo di riduzione dell’ippocampo.

Dunque il cervello di Olga Kotelko può dare utili spunti per comprendere gli effetti dell’attività sportiva agonistica, per di più iniziata in tarda età: anzitutto il cervello di Olga in generale non appare significativamente ridotto nelle sue dimensioni, e i ventricoli non risultano ingranditi, anche se i segni dell’invecchiamento si rilevano nella materia bianca, che seppur perfettamente integra, presenta delle iperintensità, segnali tipici nel gruppo di età superiore ai 65 anni: i ricercatori sono stati colpiti in particolare dalla ottima integrità –paragonabile a quella di soggetti giovani- dei tratti di materia bianca nella regione del corpo calloso che connette l’emisfero destro con il sinistro.

Le dimensioni dell’ippocampo, seppur inferiori rispetto a quelle dei soggetti più giovani, si sono rivelate maggiori rispetto alle dimensioni attese e solitamente riscontrate per i novantenni.
Anche nei test cognitivi l’atleta novantenne ottenne performaces significativamente migliori rispetto al gruppo di controllo, con minori tempi di reazione e in particolare nei test mnestici.

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LGBT: parte a Lecce il progetto di sportello di ascolto – Spazio Arcobaleno

 

Lo sportello – coordinato dal Professor Alessandro Taurino, docente di Psicologia clinica presso l’Università degli studi di Bari e socio DifferenteMente – dialoga al suo interno con professionisti psicologi e psicoterapeuti esperti di questioni LGBTQI (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, Queer, Intersessuali) che a titolo assolutamente gratuito si alterneranno nella funzione di ascolto. La segreteria organizzativa gestita da LeA raccoglierà e orienterà la domanda dell’utenza supportando e monitorando l’attività del servizio.

Spazio arcobaleno: al via al Fondo Verri lo sportello psicologico sugli orientamenti sessualiConsigliato dalla Redazione

Aperte le prenotazioni a Lecce per lo sportello psicologico “spazio arcobaleno”, dedicato ai temi LGBTQI. Apre da oggi battenti il primo sportello gratuito di consulenza psicologica “Spazio arcobaleno”. (…)

Tratto da: LecceSette

 

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Castelli di fiammiferi. Una storia sulla disabilità e per la disabilità adatta a bambini e adulti (2013) – Recensione

Attraverso gli occhi di Jan, la scrittrice ci ricorda che un figlio con disabilità non è preoccupazione solo per i genitori ma anche i fratelli vivono l’esperienza della diversità e della sofferenza, anch’ essi si preoccupano e possono sentire su di loro la responsabilità della cura non solo del fratello o sorella, ma talvolta dei genitori stessi.

Un racconto semplice, vero e realistico.
La disabilità vista dagli occhi di un bambino, di un fratello, Jan, che prova a comprendere la sorella, affetta da autismo. Un fratello che sperimenta codici nuovi di comunicazione con lei, che si sforza di interpretare il suo comportamento, i suoi movimenti e lo sguardo.
Jan osserva anche le altre persone come comunicano, ed anche gli oggetti. Jan è un bambino che vive appieno la sua infanzia, usa la fantasia, gli piace immaginare che il suo pappagallo parli:
[blockquote style=”1″]Da qualche tempo Jan pensa che tutti possano parlare col frigorifero, col mouse del computer, con un’automobilina giocattolo o con un supereroe di plastica.[/blockquote] Pensa che le persone non possano vivere in un mondo dove tutto è silenzio. Dev’essere terribile!

Lisa è la sorella maggiore di Jan, il mondo di Lisa è chiuso all’esterno, il suo mondo è caratterizzato da suoni sempre uguali, da gesti ripetitivi e pochi oggetti, colori e sapori. Ad esempio solo di ravioli alla ricotta e di chiavi tintinnanti che Lisa fa scorrere sempre allo stesso modo.
Tutti, tutti parlano o pensano ad alta voce“. Solo Lisa, la sorella maggiore di Jan, non parla. Lisa è disabile, non parla con nessuno. Anche i suoi pensieri sono cosí silenziosi che nemmeno Jan può̀ sentirli. Lisa tiene tutto per sé, come se qualcuno potesse portarle via qualcosa. A volte succede che Lisa capisca ciò̀ che dice Jan. Ma raramente. E Jan scambierebbe volentieri tutte le voci che sente nella sua stanza con la voce di Lisa, se fosse possibile.

Jan vuole bene a Lisa ma sa che la maggior parte delle persone non la capisce e pensa che lei non sappia fare nulla, ma Jan è convinto che Lisa abbia dentro di sè un mondo da scoprire e che anche lei possa fare delle cose. Jan comprende quando Lisa è felice e quando non sta bene. Sullo sfondo del racconto ci sono i genitori e gli amici di Jan.

Il papà è molto impegnato nel lavoro e la mamma molto concentrata nell’accudimento di Lisa. Jan nota la fragilità e la stanchezza dei genitori, talvolta in difficoltà nella gestione di Lisa. In particolare la mamma [blockquote style=”1″]Ogni giorno sembra più́ stanca, i suoi movimenti sono più́ lenti, la sua voce più́ ansiosa.[/blockquote]

L’autrice descrive con grande delicatezza i sentimenti di Jan, un bambino sensibile preoccupato per la mamma, che comprende che non è colpa sua ma che ritiene debba fare qualcosa per la mamma e per Lisa. Jan ha paura perché́ non sa cosa possono fare i genitori quando non ce la fanno più́. La Obrecht descrive la tristezza di Jan, che vive la perdita di non poter fare esperienze con mamma, papà e Lisa: non ci sono vacanze, gite o cene al ristorante insieme, come nelle famiglie dei suoi amici.

Nella storia si affronta anche la sofferenza di scegliere un Istituto che si occupi di Lisa, Jan trattiene il respiro quando la mamma cerca di spiegare questa scelta: [blockquote style=”1″]tu sai bene quanto sia difficile per me occuparmi di Lisa. E che spesso mi saltano i nervi (…) ci sono posti per bambini come lei. Per bambini speciali (…) case belle, luminose e accoglienti, dove ci sono persone apposta per occuparsi di questi bambini.[/blockquote]

L’autrice presenta sulla scena anche i nonni, vivono sul mare del Nord e ospitano ben volentieri Jan durante le vacanze. Jan è felice di essere dai nonni ma non smette di pensare alla possibilità che vi sia Lisa, non rinuncia alla ricerca di un canale di comunicazione tra Lisa e il mondo. E lo trova!
Sarà il passatempo del nonno che costruisce sculture di fiammiferi la chiave di tutto: la possibilità per Lisa di esprimersi al mondo e la possibilità per il mondo di capire cosa Lisa sappia fare.

Un libro adatto a bambini, dai dieci anni, a genitori e a noi operatori. Un libro che ci mostra il punto di vista di un fratello sull’autismo. Attraverso gli occhi di Jan, la scrittrice ci ricorda che un figlio con disabilità non è preoccupazione solo per i genitori ma anche i fratelli vivono l’esperienza della diversità e della sofferenza, anch’ essi si preoccupano e possono sentire su di loro la responsabilità della cura non solo del fratello o sorella, ma talvolta dei genitori stessi.

Un libro che rammenta ai genitori l’importanza di un confronto con altri genitori, per condividere i vissuti di un consulto con professionisti per elaborare le esperienze traumatiche e per trovare soluzioni positive di gestione delle emozioni dolorose.

Notizie sull’autrice:
Bettina Obrecht è nata nel 1964 ed è autrice per bambini dal 1994. Vive in un mulino a Mittelhessen.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Obrecht, B. (2013). Castelli di fiammiferi. Una storia sulla disabilità e per la disabilità adatta a bambini e adulti. Edizioni Uovonero.

Timidezza: definizione, componenti cognitive e trattamento – Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia, Milano

Sara Palmieri – OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Durante il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP), tenutosi a Milano dal 7 al 10 luglio scorso, sono stati presentati dei contributi relativi al concetto di timidezza.

Il primo contributo, del Prof. Bernardo Carducci, ha illustrato i tratti caratteristici della timidezza e le barriere personali, sociali, professionali che la timidezza può creare, insieme ad un’analisi qualitativa e ad una valutazione delle strategie che gli individui timidi usano per affrontare la loro timidezza.

La timidezza è definita come l’incapacità di rispondere in modo adeguato alle situazioni sociali; le persone timide hanno difficoltà ad incontrare altre persone ed avviare una conversazione con loro, a creare amicizie ed innamorarsi (Henderson, Zimbardo, Carducci, 2010).

Il primo passo, secondo il Prof. Carducci, è capire come si comporta una persona timida, quali strategie usa per affrontare la timidezza e quanto queste siano efficaci.

Ciò è utile in quanto molte delle strategie utilizzate sono disfunzionali e agiscono contro la timidezza stessa. Le principali strategie utilizzate sono: estroversione forzata, estroversione mentale (parlare della timidezza), estroversione educativa (ricercare informazioni sulla timidezza), estroversione liquida (bere per rilassarsi ed eliminare l’ansia), estroversione assistita (ricercare un aiuto professionale di uno psicologo o psicoterapeuta) (Carducci, 1999). Tutte le strategie citate, ad eccezione dell’ultima si rivelano disfunzionali.

Carducci afferma che la strategia migliore è quelle dell’intelligenza colloquiale, ossia la capacità di coinvolgere gli altri in una conversazione al fine di sviluppare una relazione sociale. Ciò è utile in quanto ogni tipo di relazione inizia con una conversazione e quindi è importante imparare come connettersi con gli altri, capacità che è deficitaria nelle persone timide.

Durante la presentazione sono state elencate le linee guida per i professionisti della salute mentale utili per affrontare la componente cognitiva, affettiva e le carenze comportamentali delle persone timide.

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Timidezza definizione componenti cognitive e trattamento - Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia

Infatti, sulla scia della strategia dell’intelligenza colloquiale e del deficit nell’iniziare una conversazione, è stato presentato un approccio step-by-step utile ad iniziare e proseguire una conversazione e a connettersi con le altre persone (Carducci, 1999). Innanzitutto viene insegnato come iniziare una conversazione, come mantenerla, come coinvolgere altre persone in una conversazione avviata e infine come terminare con successo una conversazione creando opportunità future di contatto.

Il secondo contributo, frutto di una collaborazione tra il Prof. Bernardo Carducci e il team di ricerca di Studi Cognitivi guidato dal Dott. Ruggiero (Fiore F., Mansueto G, Palmieri S., Aceto N., Cattani R.), ha riguardato la valutazione delle differenze tra timidezza e ansia sociale, le componenti cognitive della timidezza e il ruolo della depressione e ruminazione nel rapporto tra timidezza e ansia sociale.

I dati mostrano come la timidezza e la fobia sociale siano costrutti diversi e che il rapporto tra la timidezza e la fobia sociale sarebbe mediato dalla depressione ma non dalla ruminazione.

Ciò avrebbe implicazioni in ambito clinico in termini di screening per la depressione nelle persone timide e la gestione della depressione, attraverso la CBT, al fine di poter eventualmente prevenire l’insorgenza di fobia sociale.

 

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Cosa significa essere timidi? – Report dalla lezione con il Prof. Carducci

BIBLIOGRAFIA:

Attaccamento e Sessualità in Adolescenza

Ilenia Sidoli – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Milano

 

L’adolescenza è un periodo di sviluppo marcato da un significativo cambiamento di riorganizzazione all’interno della famiglia e nel gruppo di pari. Durante l’adolescenza, le funzioni dell’attaccamento sono trasferite dai genitori ai coetanei ed ad un’ eventuale relazione sentimentale.

Gradualmente i giovani adulti prendono le distanze dalla famiglia per acquisire un’autonomia emotiva, identitaria e comportamentale sempre maggiore ed iniziano ad investire nelle relazioni con i coetanei (Atger, 2006; Botbol et al.,2000; Fraley, Davis & Shaver, 1998). Nonostante i giovani di quest’età trascorrano ancora molto tempo in casa, l’autonomia dalle figure di attaccamento è maggiore e divengono sempre più importanti il rapporto con i coetanei e le esperienze sociali. Quest’ autonomia non è data da una separazione netta dai genitori ma dall’individuazione di sè stessi all’interno delle relazioni.

Durante l’adolescenza, le funzioni dell’attaccamento sono trasferite dai genitori ai coetanei ed ad un’ eventuale relazione sentimentale (Koepke & Denissen, 2012).

In questa fase le relazioni offrono al giovane adolescente la possibilità di esperire differenti lati di sé e differenti identità poiché le capacità di essere coinvolti in una relazione intima e lo sviluppo dell’identità sono strettamente correlate (Furman & Shaffer, 2003).

Per identità si intende il processo attraverso il quale un soggetto individua se stesso differenziandosi dagli altri mentre per intimità si intende la capacità di offrire e ricevere cure da un altro significativo da cui contemporaneamente ci si differenzia come individuo (Erikson 1963) .

Durante questa età di passaggio la riorganizzazione sessuale, anatomica, identitaria e neurofisiologica è profonda e costringe il giovane adulto a confrontarsi con la sessualità emergente.

I giovani adolescenti iniziano ad integrare attitudini sessuali, sentimenti ed esperienze nel percorso di formazione identitaria. Questa esplorazione è considerata un normale processo di acquisizione della maturità sessuale ed offre un contesto di sperimentazione di vari tipi di relazione (Tolman & McClelland, 2011) .Le relazioni sentimentali appaiono quindi per gli adolescenti dei banchi di prova per la loro identità in formazione permettendo di esplorare i vari aspetti di se stessi (Furman & Shaffer ,2003) e di scoprire chi sono al di fuori della loro famiglia di origine.

Gli studi relativi all’attaccamento hanno dimostrato che questo movimento di distanziamento e contemporaneamente di creazione di nuove relazioni è collegato allo stile di attaccamento sviluppato.

La teoria dell’attaccamento, proposta da John Bowlby a partire dagli anni Cinquanta (Bowlby 1951, 1958, 1979), sostiene che l’essere umano manifesta una predisposizione innata a sviluppare relazioni di attaccamento con figure genitoriali primarie.  Tali relazioni, che si manifestano a partire dalla fine del primo anno di vita, sembrerebbero avere lo scopo di garantire la sicurezza e la protezione nei confronti dei pericolo. Bowlby (1969/1982) sostenne che una relazione può rappresentare una fonte di rassicurazione se il caregiver è in grado di offrire una base sicura che permette di esplorare l’ambiente circostante senza suscitare timori o ansie. La formazione di essa dipende dalla responsività del caregiver ai segnali del bambino. Secondo Bowlby (1973) ogni individuo costruisce psicologicamente dei Modelli Operativi del mondo e di se stesso nel mondo attraverso i quali percepisce gli eventi, effettua previsioni rispetto al futuro e programma le proprie azioni.

Questi Modelli Operativi Interni (MOI o Internal Working Models) sono rappresentazioni interne di se stessi, delle proprie figure d’attaccamento, dell’ambiente e delle relazioni che li legano. Costituiscono essenzialmente dei modelli di relazione che si sviluppano nei primi anni di vita e che si mantengono relativamente stabili nel tempo ma sono assolutamente passibili di modifiche nel corso della vita (Crittenden 1999; Baldoni 2005). I Modelli Operativi Interni rappresentano quindi dei filtri attraverso i quali ci si rapporta con il mondo esterno. Le esperienze passate, in particolare quelle relative ai pericoli, possono quindi essere conservate nel tempo generando aspettative ed utilizzate come guida rispetto ai comportamenti futuri.

L’attaccamento secondo Bowlby (1969) spiega in questo modo come la vicinanza e la protezione offerte dal caregiver siano una fonte di sicurezza per il bambino tanto che fino in adolescenza i genitori, ed in particolare la madre, restano le principali figure di riferimento.

La sicurezza sviluppata rispetto al tipo di attaccamento sembra influenzare la scelta degli adolescenti nello sviluppo di relazioni sentimentali e sessuali e si colloca lungo un continuum i cui estremi sono costituiti da evitamento/ansia e sicurezza (Shachner & Shaver 2004).

Il tipo di attaccamento e le credenze rispetto all’intimità ed identità avrebbero quindi delle implicazioni su come gli adolescenti si approcceranno anche alle prime relazioni sessuali.

In età adulta/adolescenza la rappresentazione dell’ attaccamento è stato concettualizzata secondo due dimensioni: ansia ed evitamento (Mallinckrodt & Vogel, 2007). L’evitamento è definito come la paura della vicinanza emotiva ed il mantenimento della distanza nella relazione sentimentale e la presenza di alti livelli sembra portare alla scelta del partner rispetto all’attrazione sessuale e ad intraprendere relazioni non impegnative (Davis, Shaver & Vernon, 2004; Shachner & Shaver,2004) nonchè atteggiamenti sessuali rischiosi come il mancato uso di contraccettivi o promiscuità di partner (Manning, Longmore & Giordano, 2006; Tracy et al., 2003).

I rapporti sessuali vengono quindi vissuti con distacco emotivo (Birnbaum et al., 2006; Davis et al., 2006). L’attaccamento evitante/ansioso quindi in questo senso sembra essere direttamente e negativamente correlato con comportamenti sessuali rischiosi. Questo perchè il comportamento evitante, associato ad alti livelli di ansia ed insicurezza, rappresenta una richiesta implicita di attenzione ed un bisogno di conferma che si crede di ottenere praticando attività sessuali precoci nella relazione (Mikulincer & Shaver, 2007).

Nelle loro relazioni i soggetti caratterizzati da alti livelli di insicurezza tendono ad iper-attivare il comportamento di attaccamento iniziando precocemente relazioni sessuali al fine di soddisfare il loro bisogno di sicurezza e vicinanza del partner (Tracy et al., 2003). In altre parole è possibile che gli adolescenti ansiosi utilizzino il sesso per mantenere lo stato di vicinanza e sicurezza utilizzandolo come barometro della qualità della propria relazione.

I soggetti caratterizzati da un attaccamento evitante, possono mettere in atto due diversi approcci alla sessualità: attuando un evitamento vero e proprio e quindi praticando l’astinenza oppure al contrario lasciandosi coinvolgere solo da relazioni non durature (Birnbaum et al., 2006; Davis et al., 2006; Tracy, 2003) e non emotivamente connotate. La loro difficoltà a gestire gli aspetti intimi ed emotivi delle relazioni li porta a vedere solo la dimensione strumentale della sessualità. Gli individui con attaccamento evitante cercano di minimizzare il loro bisogno di attaccamento e prossimità neutralizzando il loro sistema di attaccamento ed evitando così la vicinanza emotiva. Evitando di esprimere amore e sentimento durante la sessualità, questi adolescenti tendono a mantenere la distanza dal loro partner poichè l’intimità viene vissuta come intrusiva.

Quando l’attaccamento evitante è avvenuto nei confronti del padre, l’influenza viene registrata soprattutto nei confronti delle figlie femmine. Sembrerebbe che queste adolescenti abbiano una più precoce attività sessuale poichè viene ricercata una figura maschile compensatoria al fine di ottenere sicurezza e vicinanza (Manning, Giordano & Longmore, 2006).

L’attaccamento ansioso sembra risultare da un’intensa paura di abbandono e rifiuto oppure di non essere sentimentalmente ricambiati. Gli adolescenti insicuri sviluppano un concetto negativo di sè stessi ed un’attitudine a dipendere o diffidare degli altri e le relazioni vengono vissute essenzialmente come una fonte di frustrazione (Blanchard & Miljkovitch, 2002). In particolare le ragazze sembrano inclini ad essere più dipendenti e ad usare la sessualità per ottenere vicinanza con il rischio di sviluppare condotte poco sicure come la sessualità promiscua e non protetta. Per i ragazzi invece sembrerebbe più alta la probabilità di evitamento delle situazioni collegate all’ attività sessuale (Blanchard & Miljkovitch, 2002).

I soggetti con un attaccamento ambivalente tendono ad avere relazioni conflittuali o dipendenti caratterizzati dalla paura di non essere amati o abbandonati (Bogaert & Sadava 2002).

I soggetti insicuro-evitanti tendono a non sentirsi supportati nella relazione e ad essere emotivamente distanti (Birnie, McClure, Lydon & Holmberg, 2009).

I preadolescenti insicuri di tipo distanziante-evitante per il timore di essere abbandonati, rifiutati o messi in pericolo dalla figura di attaccamento, evitano di fare emergere i propri bisogni e distanziano in modo sistematico, attraverso operazioni difensive, tutti gli affetti considerati negativi e pericolosi (la rabbia, la paura, il senso di vulnerabilità, il bisogno di conforto, l’eccitazione sessuale) (Bogaert & Sadava 2002). Questo li porta ad avere comportamenti sessuali avulsi da connotazioni emotive e quindi al non impegno in situazioni sentimentali stabili ma ad avere comportamenti sessuali occasionali e frequentemente non protetti.

Inoltre inibendo le forme emotive tendono ad essere conformisti al fine di adattarsi in modo compiacente a circostanze disagevoli o pericolose (Baldoni 2002). Quando gli affetti distanziati non possono essere più controllati, si verifica la possibilità di uno scompenso psichico o fisico accompagnato da eventuali disturbi comportamentali. Il sistematico evitamento degli affetti considerati pericolosi per il sé può infatti comportare improvvise intrusioni di queste emozioni che inducono il soggetto, incapace di riconoscerle e dominarle, a passaggi all’atto anche gravi tra cui condotte sessuali non appropriate (Baldoni 2002).

Anche i preadolescenti insicuri di tipo ambivalente-preoccupato tendono ad enfatizzare le emozioni e possono utilizzare sistematicamente una sorta di falsa cognitività volta a manipolare o volersi vendicare dell’altro adottando comportamenti sessualmente seduttivi avulsi da ogni connotazione emotiva e sentimentale (Crittenden, 1999).

L’attaccamento sicuro invece deriva da una storia di successi relazionali che porta ad avere fiducia negli altri, a sviluppare aspettative positive e a ricercare conforto e vicinanza nel proprio partner.

I genitori che sanno offrire una base sicura sostengono i figli nelle loro esperienze di autonomia, ma, quando necessario, intervengono per proteggerli, rassicurarli e accudirli (Baldoni 2005). Gli studi sull’attaccamento hanno evidenziato che i bambini sicuri manifestano maggiori capacità di integrare sul piano psicologico le emozioni con le informazioni cognitive e sono meglio preparati a recuperare ed elaborare le informazioni relative al proprio passato, in particolare alle esperienze pericolose. Avvicinandosi all’adolescenza, con lo sviluppo del pensiero ipotetico deduttivo e di una più accurata funzione riflessiva, i soggetti sicuri utilizzano queste nuove capacità a vantaggio delle relazioni e nella gestione competente dei conflitti (Suess et al. 1992). Questo permette all’individuo di sviluppare delle relazioni determinate da stabilità, vicinanza e fiducia negli altri (Allen, Porter, McFarland, McHelaney & March, 2007, Bartholomew & Horowitz,1991; Hazan & Shaver, 1987).

L’attaccamento sicuro porta l’adolescente a bilanciare la propria dipendenza e la propria autonomia, le relazioni sono più sane ed il sesso viene affrontato solo in una relazione stabile e duratura con un uso del preservativo più frequente (Davis, Shaver & Vernon, 2004; Shachner & Shaver,2004). Bassi livelli di ansia creano all’adolescente meno pressione rispetto all’attività sessuale permettendogli di rimandarne l’inizio solo all’interno di una relazione già consolidata.

Gli adolescenti sviluppano delle credenze rispetto all’attività sessuale e all’essere ingaggiati in una relazione sentimentale. Chi ha poca sicurezza rispetto alle relazioni crede che avere un rapporto sessuale presto serva a fondare delle buone premesse per cui la relazione duri e sia seria (Manning, Giordano & Longmore, 2006). Al contrario la fiducia e la sicurezza sviluppano la credenza secondo la quale i rapporti sessuali andrebbero agiti solo in una relazione già solida porta gli adolescenti a rimandare la propria prima volta insieme e ad usare più frequentemente il preservativo (Parkes, Henderson,Wight & Nixon,2011).

Nonostante la notevole quantità di suggerimenti preziosi derivati dalle ricerche esposte, lo studio dell’attaccamento nella tarda fanciullezza e nell’adolescenza risulta piuttosto problematico ed incompleto. Durante questa fase di vita la dipendenza dai genitori è minore e le relazioni sociali (in particolare con i coetanei) diventano sempre più importanti. Diventa quindi difficile valutare gli aspetti interni dei MOI e gli strumenti utilizzati hanno problemi di validità ed attendibilità (Baldoni 2005; Valenti 2005).

Inoltre nonostante i primi anni di vita siano molto significativi, continuano ad esserlo anche i successivi. Le esperienze infantili rappresentano il punto di partenza di una lunga serie di processi evolutivi che si protraggono per l’intero ciclo di vita.

I MOI stessi infatti, nonostante siano relativamente stabili, nel corso di vita vanno incontro ad una serie di modifiche in base alle esperienza vissute al di fuori della famiglia, che come abbiamo visto sono fondamentali in adolescenza.

Inoltre con i coetanei le relazioni che si formano, nonostante rappresentino dei veri e propri attaccamenti, non sono più necessariamente asimmetriche ma sono connotate da maggiore reciprocità (Cassidy, Shaver 1999 ; Simonelli, Calvo 2002; Baldoni 2005; Valenti 2005).

Alla luce di questi appunti occorre considerare che riscontrando problemi di attendibilità e validità rispetto all’attaccamento in adolescenza, diventa complesso tracciare una correlazione tra queste teorie e i comportamenti sessuali in adolescenza. E’ auspicabile quindi che la ricerca si muova in questa direzione anche al fine di poter meglio prevedere e prevenire i comportamenti sessuali a rischio.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Gravidanza: esperienze infantili avverse associate al parto spontaneo pretermine?

Daniela Sonzogni

Lo stress cronico è uno dei più efficaci predittori di nascita pretermine: infatti se le donne sono esposte a due o più eventi avversi durante la crescita, il rischio di nascite pretermine è doppio.

L’ultima ricerca di David Olson sta fornendo informazioni su come l’esposizione a fattori di stress nel corso della vita di una madre può avere un impatto anche anni dopo che si sono verificati, quando le donne si trovano nella condizione di partorire.

Lo stress cronico è uno dei migliori predittori di nascita pretermine: infatti se le donne sono esposte a due o più eventi avversi durante la crescita, il rischio di nascite pretermine è doppio.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che 15 milioni di bambini nascono pretermine ogni anno. È la principale causa di morte per i bambini sotto i cinque anni, e i bambini che sopravvivono hanno un rischio molto più elevato di sviluppare una serie disturbi tra cui malattie polmonari croniche, malattie cardiovascolari e malattia metaboliche. Essi sono anche a maggior rischio sia per i problemi cognitivi che comportamentali.

L’obiettivo della ricerca era di esplorare in modo retrospettivo l’associazione tra stress cronico, stress permanente, fattori protettivi e nascita pretermine spontanea.

I ricercatori hanno reclutato più di 200 donne di cui un terzo rappresentato da coloro che avevano partorito pretermine. Alle donne è stato chiesto di compilare un questionario sullo stress nelle loro prime esperienze di vita e le sollecitazioni che queste esperienze suscitavano. Tutti gli eventi avversi infantili che sono stati indagati dovevano avvenire prima dei 18 anni.

L’analisi dei dati ha mostrato che l’esposizione a due o più esperienze avverse infantili è stata associata ad un rischio doppio di parto pretermine, indipendentemente dall’età materna, abitudine al fumo, livello di istruzione e la storia di aborto spontaneo.

Le avversità in infanzia possono determinare impatti a lungo termine sulla salute nel corso della vita, tra cui l’esito della gravidanza.

Coloro che si occupano delle cure prenatali hanno bisogno di chiedere alle donne in gravidanza informazioni sul loro passato e sulle attuali esperienze che possono aver influito sulla loro salute. In questo essi possono aiutare le donne a capire un potenziale legame tra esperienza di vita e il rischio di nascita pretermine.

Anche se la ricerca ha dato nuove informazioni sulla nascita pretermine, sono necessarie ulteriori risposte. I ricercatori stanno studiando come il corpo può ricordare eventi traumatici nei primi anni di vita in modo tale che essa influisca sulla salute anni più tardi.

Olson ritiene che un elevato onere di esperienze stressanti durante l’infanzia può causare cambiamenti nel modo in cui i geni sono espressi in età avanzata; inoltre spera di investire ulteriormente in questa ricerca per meglio prevedere quali donne siano a rischio e sviluppare così interventi precoci.

 

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Disabilità: 7-8 settembre a Milano convegno sulla qualità di vita dei disabili, presente il sottosegretario Franca Biondelli

Decima edizione del Convegno sulla qualità della vita per le disabilità, organizzato da Fondazione Sospiro, presso l’Università Cattolica

MILANO, 4 SETTEMBRE – “Tra Scienza e Valori“: questo il titolo dell’edizione 2015 del Convegno sulla qualità della vita per le disabilità,
organizzato dalla Fondazione Sospiro Onlus – con il patrocinio di IESCUM, Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano e di
MIPIA, Modello Italiano di Intervento Precoce ed Intensivo nell’Autismo – che si svolgerà a Milano da lunedì 7 settembre a martedì 8 settembre, presso l’Università Cattolica di Milano.

Il convegno, giunto alla sua decima edizione, vedrà la partecipazione del Sottosegretario di Stato al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’onorevole Franca Biondelli (Pd), di cui è noto l’impegno e la sensibilità verso il mondo della disabilità ed in particolare rispetto ai diritti delle persone portatrici di disturbi dello spettro autistico.

Franca BiondelliFranca Biondelli, infatti, è stata fra le promotrici del disegno di legge contenente le norme per la prevenzione, la cura e la terapia dei disturbi dello spettro autistico, recentemente convertita in legge anche grazie al forte impegno del Sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, presidente della neonata Fondazione Italiana dedicata all’ Autismo, promossa dal Miur.

Il Sottosegretario aprirà i lavori del convegno, nel seminario dedicato a ripensare i mandati e promuovere la qualità nei servizio per le persone con disabilità, che avrà luogo nell’Aula Cripta dell’Università Cattolica, a partire dalle 9.00 di lunedì 7 settembre.

A seguire, come ricordano i membri del comitato scientifico – il prof Serafino Corti, direttore del Dipartimento Disabilità di Fondazione Sospiro, e Mauro Leoni vice Presidente dell’Associazione “Amico di” – si svolgeranno numerosi panel, il cui filo conduttore sarà l’incontro fra metodo scientifico e valori personali.

[blockquote style=”1″]Mentre iniziative e risorse dedicate alla disabilità si riducono nel nostro paese, questo evento testimonia la necessità di continuare a dedicare spazi, tempi, energie e passioni, anche e soprattutto nella forma dell’incontro e del confronto di insegnamenti ed esperienze [/blockquote] spiegano Corti e Leoni.

Un ruolo fondamentale, in un approccio evidence based – ovvero basato su evidenze e metodo scientifico – come ricorda Paolo Moderato, Professore Ordinario di Psicologia Generale presso l’Università IULM di Milano e Presidente IESCUM, viene svolto dalle scienze del comportamento applicate alla terapia di disturbi come l’autismo.

Proprio all’autismo verranno dedicati ampi spazi del convegno: dal diritto a usufruire di terapie comportamentali, come stabilito dalla Linea Guida 21 emessa dall’Istituto Superiore di Sanità, all’inclusione scolastica, passando per l’impegno ed il ruolo svolto dalle istituzioni nel supporto alle famiglie con componenti disabili.

Il convegno verrà, inoltre, corredato da un workshop, che si svolgerà il 9 settembre, interamente dedicato ai gravi disturbi del comportamento ed all’approccio evidence based rappresentato dall’analisi del comportamento quale terapia di elezione.

Maggiori informazioni, relative al programma del convegno ed alle modalità di partecipazione al workshop, sono disponibili sul sito
www.fondazionesospiro.it

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Secondo report dal Congresso EABCT 2015 di Gerusalemme

Dal Congresso annuale dell’EABCT, European Association of Behavioural and Cognitive Therapies II PARTE

 

Giorno conclusivo del congresso EABCT a Gerusalemme. Dopo la giornata di ieri segnata dalle keynote passatiste di Barlow e Salkoviskis ho visto più novità e più possibilità per il futuro. Non dimentichiamo però che queste impressioni sono solo mie, personali e discutibili. Ieri ci sono state decine di relazioni e in fondo io ne ho raccontate solo cinque.

Obiettivamente, però, le keynote hanno grande peso qualitativo e non si può negare che le parole di Barlow e Salkovskis non infiammavano di entusiasmo. Posso testimoniare che lo stesso Barlow ha ammesso, a metà della sua esposizione, che il suo tentativo di sintesi non aggiungeva nulla di nuovo e non apriva nuovi percorsi. Barlow si è limitato a dire che ogni credenza disfunzionale, oltre a presentare distorsioni cognitive, ha la sua base neurobiologica ed evolutiva. Ovvero, le distorsioni cognitive non spiegano tutto. Il che è vero, però non è un nuovo sviluppo ma solo un’ammissione dei limiti della nostra disciplina.

Inoltre Barlow aggiungeva che le distorsioni cognitive hanno un significato protettivo verso stati d’animo ritenuti erroneamente insopportabili. Vero anche questo, ma va articolato meglio in termini funzionalisti, altrimenti si rischia di cascare nel costruttivismo ingenuo per il quale il sintomo ha un significato personale da rispettare, ovvero sia in rapporto con credenze su se stessi a cui dare un significato strutturale. Anche qui c’è qualcosa di vero, ma si tratta di un concetto rischioso che –a mio parere- toglie più armi dalle mani del terapeuta di quante gliene fornisca. Colpisce come il cognitivismo quando va in crisi mostri sempre questa deriva nella direzione della psicologia del sé, perdendo di vista l’ipotesi che le credenze siano delle disfunzioni da trattare nel qui e ora.

A confermare una certa atmosfera da vecchie zie, dirò che Barlow e Salkoviskis non erano le uniche glorie arruginite sul palco. Non ho citato due presentazioni ancora più passatiste, quelle di Judith Beck e Debbie Joffe-Ellis, la figlia e la vedova dei due padri fondatori della terapia cognitiva! Grande rispetto per le loro capacità cliniche e per il peso dell’eredità che portano, ma non si tratta di due menti innovatrici. Quello che salvava Barlow era il suo tono dignitosamente dimesso. Un piatto triste, ma onesto e migliore delle bollicine gassate senza calorie dell’imbarazzante autocelebrazione di Salkovskis.

Proseguendo con i limiti del mio punto di vista, so che ci sono state molte presentazioni dedicate alla mindfulness e so che ho trascurato queste relazioni. Sicuramente non è un mio merito non averne sentita alcuna. Ritengo però che queste relazioni non stiano avendo lo stesso impatto unificante che ebbe il beckismo trent’anni fa. La mindfulnes aspetta ancora il suo David Clark che conquista il territorio diagnostico e lo contende agli psichiatri.

 

Arnoud Arntz pesenta la guided imagery

Basta col passato. Dicevo che questa terza giornata del congresso è andata meglio. Si è cominciato bene, con Arnoud Arntz. Anche lui ha portato acqua al suo mulino, presentando dati su uno dei suoi interventi preferiti, la guided imagery. Però con sostanza. Prima un’interessante carrellata storica, in cui Arntz ci ha ricordato quanto fossero disprezzati gli interventi di imagery vent’anni fa-ai tempi del trionfo della terapia cognitiva- ritenuti roba da sciamani anti-scientifici. Con quanta faciloneria si diede per scontato che tutto quanto non fosse analisi e disputa delle credenze fosse non solo inutile, ma addirittura sospettabile di magia.

Dopo aver raccontato la svolta storica, Arntz fa una disanima scientifica dei meccanismi di funzionamento degli interventi di imagery. Disanima rigorosa tipica dello stile di Arntz. Per la verità non proprio rigorosissima e dettagliatissima come fu quella che fece sul funzionamento della schema therapy se non erro a Reykjavík nel 2011. Ricordo ancora quella keynote come una grande lezione di scienza. Stavolta Arntz mi è sembrato meno esaustivo. Forse si tratta di un lavoro non ancora concluso. In ogni caso –dice Arntz- l’imagery non è un’esperienza catartica; fosse davvero così, avrebbero ragione i critici che la sospettavano di magia.

Semmai la sua efficacia è un’ennesima prova dell’esistenza di un sistema di apprendimento esperienzale e operativo distinto da quello dichiarativo, un sistema meno soggetto alle disfunzioni rimuginative e più capace di cambiamenti sostanziali e duraturi. Un sistema che però non produce informazioni verbalizzabili e comunicabili in maniera controllata e che vanno indicate per allusioni metaforiche ed esortative. Il meglio sarebbe viverlo concretamente con l’esposizione in vivo, Questo però non è sempre possibile e ci si accontenta dell’imagery. Chiaramente tutto questo è ancora troppo poco e generico. Forse per questo l’esposizione di Arntz è stata meno brillante di quella di Reykjavík: ne sappiamo ancora poco.

 

Gli interventi di processo per i disturbi alimentari

Dopo Arntz c’è stata di nuovo una presentazione del nostro gruppo ricerca, all’interno di un simposio sui disturbi alimentari. Dopo la collega Yael Latzer di Haifa, che ha decritto la parabola della terapia cognitiva dei disturbi alimentari dai tempi di Fairburn a oggi, nella nostra relazione ho ipotizzato lo sviluppo futuro, ovvero come potrebbe essere l’applicazione ai disturbi alimentari degli interventi di processo.

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Non c’è ancora un vero protocollo di terza ondata per questi disturbi. Esistono però molti studi che confermano l’esistenza dei processi di terza ondata nella picopatologia dell’anoressia e della bulimia: il rimuginio e la ruminazione prima di tutte. Tra questi studi, non tantissimi, ci sono quelli del nostro gruppo di ricerca. Non so se sono i migliori, ma sicuramente quelli più prolungati nel tempo. È del 2005 la pubblicazione del nostro primo lavoro sul rimuginio nei disturbi alimentari. Il secondo nostro contributo è proporre la variabile del controllo come mediatore tra variabili di contenuto, come la bassa autostima e il perfezionismo, e variabili di processo, come rimuginio e ruminazione. Il passo successivo sarà lo sviluppo di un protocollo mirato sui processi per i disturbi alimentari e la sua verifica di efficacia sul campo.

 

Amit Bernstein e la rilevazione delle oscillazioni attenzionali

L’ultimo simposio a cui assisto è quello più ricco di promesse per il futuro. Quattro relazioni coordinate da Amit Bernstein, ricercatore israeliano che avevo già ascoltato ieri. Bernstein ha messo a punto una tecnica controllabile di rilevazione delle oscillazioni attenzionali che permette di rappresentarla graficamente come un’onda sinusoidale. Bernstein ha dimostrato che nei pazienti l’attenzione va incontro a oscillazioni molto più ampie che nei controlli. Non basta, ha anche dimostrato, e questo interessa a tutti quelli che si occupano di rimuginio, che le oscillazioni verso l’alto corrispondono a momenti di ipervigilanza e quelle verso il basso a momenti di evitamento cognitivo.

Insomma Bernstein forse è riuscito a rilevare i micromomenti dell’ordine dei decimi di secondo in cui diamo troppa importanza agli stimoli avversivi e i micromomenti in cui tentiamo disperatamente di cacciarli dalla nostra mente. Non sembra che Berstein stia parlando di rimuginio, che è appunto questo convivere di iperfocalizzazione ed evitamento? E se poi i non pazienti hanno oscillazioni meno ampie non significa forse che costoro riescano dare agli stimoli avversivi il loro giusto peso, senza iperfocalizzarsi su di essi e senza evitarli? Insomma, forse li mantengono in uno stato di consapevolezza distaccata.

Come si vede, è abbastanza per interessarsi a questi lavori. L’elemento che sembra più promettente di tutto questo è che mi è sembrato che lo strumento di Bernstein permetta di vedere graficamente e quindi operativamente se stiamo riuscendo a tenere questo stato di consapevolezza distaccata o meno, senza cascare nell’ipervigilanza e/o nell’evitamento. Insomma, potremmo finalmente addestrare i pazienti a non rimuginare in diretta, senza ricorrere alle mille metafore che siamo costretti a utilizzare quando tentiamo di spiegare cosa sia questo stato tranquillo in cui non rimuginiamo, non evitiamo e non iperfocalizziamo sui pensieri che ci disturbano.

Il gruppo di Bernstein ha parlato anche di altri concetti che ho compreso meno. Tra questi spiccava quello dell’attenzione “covert”, ovvero la capacità di essere consapevoli di qualcosa senza iperfocalizzarci solo su di essa. Non so se ho capito proprio bene, ma se fosse così mi pare che questo strumento renderebbe possibile ancora una volta misurare –e rafforzare in una specie di biofeedback- uno stato di attenzione consapevole e non rimuginativa sugli stimoli avversivi.

 

Quest’ultimo simposio forse ci ha fatto intravvedere il futuro in cui la terapia cognitiva potrà tirarsi fuori dalla crisi parziale in cui è incappata. Crisi che forse è particolarmente evidente nell’ambiente EABCT, a causa delle scelte di alcuni anni fa. Anni in cui le spinte innovative delle terapie ACT e MCT furono rigettate.

Senza il loro stimolo innovativo, l’EABCT negli anni ha oscillato tra conservazione celebrativa e innovazione limitata a una mindfulness integrata con la terapia cognitiva solo in teoria. Integrazione che nella pratica non mi pare che si sia vista. Il rischio della mindfulness è la sua tendenza anti-protocollare, tendenza rispettabile quando si parla di tecniche di meditazione non terapeutica, ma che se applicata alla clinica rischia di creare un corto circuito tra mentalità sapienziale –allusiva e iniziatica- e mentalità scientifica –controllabile e riproducibile-. Un incontro impossibile.

 

LEGGI IL PRIMO REPORT EABCT 2015

LETTURE CONSIGLIATE: Archivio dei reportage dai congressi EABCT

 

Congresso EABCT 2015 di Gerusalemme

SLIDES DAL SIMPOSIO:

Reviewing Cognitive Treatment for Eating Disorders: From Standard CBT Efficacy to Worry, Rumination and Control Focused Interventions

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L’enigma del lutto: dagli oggetti perduti ai nuovi oggetti d’amore

 

 

L’intenso lavoro psicoanalitico eseguito da Freud per chiarire la distinzione tra il normale affetto del lutto e la sua condizione patologica l’ha condotto a fornire una descrizione del lutto come risposta alla scomparsa di un affetto o al venir meno di ciò che ha rappresentato un ideale e che possiede la peculiarità di poter andare incontro a risoluzione nel tempo.

[blockquote style=”1″]La vita dalla nascita alla morte è costituita da un susseguirsi di perdite. Ripercorrendo la propria biografia e analizzando il proprio vissuto […] ci si rende conto degli eventi critici, delle sconfitte e dei fallimenti, delle ferite e dei cordogli che hanno segnato la propria esistenza [/blockquote] (Pangrazzi, 2006, p. 21 ).

La perdita è indubbiamente uno dei temi che con maggiore frequenza è stato oggetto di studi e riflessioni psicologiche, che hanno messo in risalto la condizione di maturazione interiore conseguente a un’esperienza di dolore profondamente vissuto ed elaborato. È innegabile la paura che da essa scaturisce e che rappresenta una delle paure più stabili negli esseri umani alla quale si risponde con rituali che hanno radici assai antiche.
Il padre della psicoanalisi Sigmund Freud, fa notare che l’uomo sin dall’epoca preistorica ha sviluppato un rapporto contraddittorio con la morte, accettandola come conclusione dell’esistenza, quando questa coinvolgeva la vita altrui, si pensi a un nemico da eliminare e allo stesso tempo negandola, quando riguardava la propria di vita. Questi due atteggiamenti configgenti si manifestavano in tutta la loro incoerenza in occasione della perdita di una persona amata, poiché questa e altre possibili future rappresentavano la perdita di una parte del proprio Io.

Non diversamente dall’uomo primitivo, il nostro inconscio non riuscendo a rappresentare la propria morte matura la convinzione di essere immortale e allo stesso tempo nasconde il desiderio di eliminare tutti coloro ostacolano il suo cammino, portando alla luce atteggiamenti ambigui nei confronti delle persone amate, che sono anche in parte persone estranee.
[blockquote style=”1″]Il lutto per la perdita di ciò che abbiamo amato o ammirato appare al profano così naturale che lo ritiene ovvio. Per lo psicologo, tuttavia, il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni di per sé inspiegabili, ma ai quali si riconducono altre oscurità[/blockquote] (Freud, 2013, p. 7).

Queste considerazioni giungono con un certo anticipo a comunicare la difficoltà dell’uomo di parlare della morte e di pensare ad essa. [blockquote style=”1″]È l’incertezza e il mistero per eccellenza, quindi estremo paradosso in un’epoca che sostiene le certezze e pretende risposte sicure su ogni problema: è forse proprio questa palese contraddizione[…] che ha dato alla morte caratteristiche totemiche, se ne parla come del tabù per antonomasia[/blockquote] (Curi Novelli, 2010, p. 270).

L’intenso lavoro psicoanalitico eseguito da Freud per chiarire la distinzione tra il normale affetto del lutto e la sua condizione patologica l’ha condotto a fornire una descrizione del lutto come risposta alla scomparsa di un affetto o al venir meno di ciò che ha rappresentato un ideale e che possiede la peculiarità di poter andare incontro a risoluzione nel tempo.

Un’esemplificazione dell’esperienza della perdita, che con più facilità abbiamo la possibilità di rappresentarci, può essere offerta dalla condizione sperimentata dal lattante quando non vede più la mamma anche se solo temporaneamente. L’osservazione del suo comportamento non inganna su ciò che egli prova, ossia angoscia per il pericolo che quest’assenza comporta e dolore per la perdita stessa. Così il ripetersi del gioco del nascondino, un espediente giocoso tratto dalla quotidianità cui gli adulti ricorrono quando si relazionano con il bambino, in cui si alterna la presenza e assenza dell’oggetto amato acquista una certa utilità, poiché facilita il riconoscimento della perdita solo momentanea.

Ciò che accomuna pertanto il bambino all’adulto di fronte al verificarsi della perdita è la condizione di un’impossibile sopravvivenza senza l’oggetto perduto. Che un tale evento sia difficilmente accettabile è comprensibile e chiaro a tutti, meno chiara è la qualità con cui esso si presenta. Va in ogni caso segnalato che soprattutto in un primo momento i suoi sintomi acuti, il tono dell’umore depressivo, l’esaurimento dell’attività libidica e dell’interesse nei confronti del mondo esterno, la perdita di vista del senso della propria esistenza e l’impiego di energie in tutto ciò che conserva un legame con l’oggetto perduto, appaiono chiaramente con tutta la loro forza.

Quando scompare una persona cara, un genitore, un figlio, un coniuge, un amico, ciascuno di noi vive un’esperienza profondamente dolorosa. Riconoscere la caducità della propria e altrui esistenza e individuare le risorse per conservare un adeguato equilibrio psicofisico è un processo assai complicato.

 

 

Diversi approcci al lutto, psicoanalitici e non solo hanno posto l’accento sulla transizione della persona in lutto attraverso una serie di fasi, che tuttavia non necessariamente scandiscono il tempo allo stesso modo per tutte le persone. La teorizzazione più recente di Elisabeth Kubler-Ross delinea un processo di adattamento alla morte caratterizzato da cinque principali fasi: la negazione, il patteggiamento, la rabbia, la depressione e l’accettazione.

È piuttosto frequente che la mancanza in seguito al lutto di un caro affetto scateni come naturale meccanismo di difesa, la negazione della perdita stessa, la difficoltà di riconoscerla come possibile e quindi il rifiuto di questo drammatico evento. Quando la realtà inizia a essere riconosciuta in tutto il suo dolore, esplode un’immensa rabbia che può abbattersi con tutta la sua irruenza contro se stessi, oppure contro persone che offrono sostegno e vicinanza o ancora nei confronti della persona defunta. A questa rabbia logorante può seguire la necessità di scoprire cosa è accaduto e individuare una possibile spiegazione.

Sentimenti di perdita e un profondo dolore, compaiono in seguito al riconoscimento razionale ed emotivo della situazione, generando un’intensa depressione. Queste fasi con cui l’individuo fa i conti possono in ultima istanza condurlo all’accettazione della perdita e a prendere atto di questa nuova realtà e dell’ineluttabilità della morte. (Kubler-Ross, 2005).

Descrivere dunque la complessità e la tragicità di un evento talmente drammatico e dal dolore inconsolabile com’è quello del lutto non solo rappresenta un’operazione assai ardua, ma anche tale da mettere in evidenza che non avrebbe potuto presentarsi con aspetti diversi da personalissime e contraddittorie reazioni di sofferenza.

[blockquote style=”1″]C’è[…] un desiderio profondo di dissociare il proprio io dal mondo, di isolarsi, di stare soli, ma nello stesso tempo anche di non sentirsi soli [/blockquote](Bassanetti, 2005, p. 24). Così può accadere di vivere il lutto preservandosi nel silenzio e nella solitudine, o gettandosi forsennatamente all’esterno, per non pensare e confrontarsi con un dolore troppo intenso da tollerare e svelando la propria vulnerabilità e la difficoltà ad aprirsi al mondo.

L’unicità dell’uomo fa sì che le fasi del processo luttuoso siano vissute diversamente, in base ai propri valori di riferimento e alla propria esperienza personale. Tuttavia resta il fatto che [blockquote style=”1″]Il sentimento della caducità corrisponde all’estensione massima del dolore per la perdita o più precisamente per il perdersi di ogni cosa: tutto ciò che esiste è consegnato da sempre alla morte[/blockquote] (Natoli, 2002, p. 31).

Se per questo cammino, i cui passi mancano di coerenza e prevedibilità, si propongono indicazioni universali su come procedere per integrare la perdita, non si ottiene altro che un incremento di difficoltà e frustrazioni. Procedendo verso l’elaborazione potrebbe inoltre accadere di rendersi conto quanto questo percorso sia disseminato di ostacoli, la difficoltà di accettare la nuova realtà della mancanza, la necessità di lenire la sofferenza soffocandola, la mancanza di sostegno emotivo e sociale, l’irrompere di sensi di colpa e rimorsi nei confronti della persona scomparsa.

[blockquote style=”1″]I sensi di colpa sono quasi una costante durante il periodo del lutto. Dobbiamo tenerli distinti dai rimpianti, dai rimorsi, dalle colpe vere e proprie. La loro radice è irrazionale e legata almeno in parte al sentimento di autopunirsi, di espiare e di voler soffrire a causa della morte della persona amata[/blockquote] (Mander, 2007, p. 245.)

Per tale ragione ciò che acquista senso in questo processo di adattamento è prestare occhi e orecchie a quali variabili ne influenzano l’andamento e raccontano non solo della persona defunta, ma della relazione stabilita con lui e di quali risorse personali e ambientali sono ora disponibili per questo scopo (Dobbs, 2003).

Facendo un salto indietro alla prospettiva psicoanalitica freudiana è doveroso aggiungere a quanto detto sino ad ora che il lavoro del lutto si compie nell’inconscio. Esso procede in modo tale che nel momento in cui l’esame di realtà ha reso chiaro che l’oggetto d’amore è stato definitivamente perduto, impone al soggetto che anche il legame con questo sia interrotto, alimentando da parte dell’individuo una protesta e determinando il ricorso a un’interruzione del rapporto con la realtà in modo da tenere in vita questo legame. Così l’aspetto vuoto e spento dell’individuo in lutto è da attribuirsi alla sua condizione di fronte all’esame di realtà, in cui si verifica l’impiego di tutte le sue energie per slegar la sua libido da ciò che lo legava all’oggetto perduto. Soltanto al termine di questo lavoro, quando tutta la libido è stata staccata dall’oggetto per essere investita su uno nuovo, l’io ritorna libero e disinibito.

Non sempre e non per tutti dunque questo processo si compie in tempi rapidi e in senso positivo, quando ciò accade, il lutto può assumere caratteristiche patologiche. Se consideriamo che ogni legame di affetto è caratterizzato da sentimenti ambivalenti di amore e odio molto intensi, appare chiaro come la sua fine alimenti un conflitto tra questi, in cui l’aggressività possa prendere facilmente il sopravvento per ostacolare anche se non consapevolmente che questo distacco dall’oggetto si verifichi a tutti gli effetti. Un legame narcisistico con l’oggetto è un’ulteriore fattore di complicazione, poiché nel tentativo di staccare la libido si finisce per strappare l’oggetto dalla realtà esterna e trascinarlo dentro di sè.

In questa situazione andando in contro a cronicizzazione il lutto spiana la strada all’insediarsi di quella che Freud definì melanconia. In essa un umore profondamente depresso e un’intensa inibizione di ogni attività e interesse verso il mondo, si associano a un forte disprezzo verso se stessi, per cui l’individuo si riconosce completamente svuotato e indegno di vivere senza l’oggetto d’amore perduto, non solo, non può e non deve godere della vicinanza e del conforto altrui, responsabile e pertanto meritevole di una punizione per la scomparsa del suo oggetto d’amore.
Le qualità di se stessi sono negate e rifiutate e il quadro patologico si conclude con il tentativo di non proseguire con la propria esistenza arrivando a non alimentarsi più.

Le lamentele del melanconico tuttavia non sono molto lontane dalla realtà esse in fondo descrivono esattamente ciò che egli prova in quel momento, ossia la perdita del rispetto di sé, che è colma di accuse che in realtà sono rivolte ad altri e ricondotte a sé, poiché l’oggetto perduto è stato sottratto alla realtà esterna e portato dentro di sé. In questo modo la perdita dell’oggetto si trasforma in perdita dell’io.
Nel caso in cui il lutto non venga complicato dallo sviluppo della melanconia è dannoso intervenire e alterare il suo naturale processo di elaborazione conseguibile con il passare del tempo (Freud, 2013).

Non è difficile comprendere quindi che il dolore di chi ha subito un lutto e il suo procedere verso l’integrazione è comunque sempre presente, ciò che muta è la relazione con esso e il modo di affrontare probabili future esperienze dolorose. Certo con il tempo si può ottenere una sua attenuazione, che consente grazie alla scoperta delle proprie risorse di costruire una nuova vita in cui si snodano nuovi impegni e presenze.

Michele Cerato (2011) condensa le riflessioni psicoanalitiche sull’elaborazione del lutto sottolineando la centralità della memoria nel processo di guarigione cui attingere per recuperare ciò che ci è stato lasciato dalla persona amata, ossia quei sentimenti, quel ricordo, quell’amore di chi abbiamo perduto. In questo modo non diversamente dalla capacità del bambino di mettere dentro di sé l’oggetto buono kleniano, ossia la sua esperienza positiva con la madre, anche la persona amata e perduta fisicamente può essere messa nella nostra mente e restare dentro di noi come una presenza interna. Non solo la possibilità di aver goduto della sua presenza rende concreta la capacità winnicottiana di “sentirsi solo” la conquista di sentirsi completo, poiché la presenza dell’altro è dentro di sé, facendo a meno della sua presenza.

Accompagnare una persona in lutto lungo la strada dell’integrazione della perdita vuol dire ascoltare le sue necessità, lasciando spazio al bisogno di comunicare il suo dolore e i suoi pensieri a qualcuno che sia lì pronto ad accoglierli con amore e rispetto. Nella stessa relazione, la narrazione, che procede con i suoi tempi e i suoi modi consente alla persona in lutto di elaborare la perdita, facilitando quel movimento dall’esterno all’interno di chi ha perduto fisicamente.

[blockquote style=”1″]La difficile conquista di una coscienza che percepisca il bisogno di non farsi schiacciare completamente dall’esperienza della morte, è di far convivere dentro di sé il sentimento della perdita e della distruzione insieme all’opposta spinta alla vita e alla possibilità senza che l’una neghi l’altra[/blockquote] (Crozzoli, 2003, p.222).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Hikikomori: un fenomeno giapponese o un nuovo disturbo psichiatrico?

Nagaia Bacchetta – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi

I giovani hikikomori possono mostrare il loro disagio in vario modo: restare chiusi in casa tutto il giorno, oppure uscire solo quando hanno la certezza di non incontrare conoscenti, oppure ancora fingere di recarsi a scuola o al lavoro e invece girovagare senza meta per tutto il giorno. Il fenomeno è stato spesso associato all’internet addiction.

Sin dalla fine degli anni ’90 (Saito, 1998), è stata descritta in Giappone una particolare condizione psicologica che riguarda soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti e che è stata definita hikikomori, letteralmente ritiro sociale.

Tale condizione si caratterizza infatti proprio per un rifiuto verso la vita sociale e scolastica o lavorativa per un periodo di tempo prolungato di almeno 6 mesi e una mancanza di relazioni intime ad eccezione di quelle con i famigliari più stretti. I giovani hikikomori possono mostrare il loro disagio in vario modo: restare chiusi in casa tutto il giorno, oppure uscire solo di notte o di prima mattina quando hanno la certezza di non incontrare conoscenti, oppure ancora fingere di recarsi a scuola o al lavoro e invece girovagare senza meta per tutto il giorno.

Il fenomeno è stato spesso associato all’internet addiction, ma gli studi mostrano che solo nel 10% dei casi è stato riscontrato anche questo tipo di dipendenza. In realtà al momento è stata trovata solo una correlazione tra i comportamenti di ritiro sociale e alcuni sintomi dell’internet addiction (Wong, 2015), ma ancora non è stato condotto uno studio che permetta di stabilire una relazione causale tra i due fattori.

 A partire dalla descrizione dettagliata del fenomeno operata dallo psichiatra Saito (1998), numerosi studi sono stati condotti in Giappone per capire le cause che sarebbero all’origine del manifestarsi di questo protratto rifiuto sociale. Da un punto di vista psicologico, si sono studiate innanzitutto le variabili familiari legate a relazioni disfunzionali di tipo invischiato e la copresenza di disturbi psicopatologici associati, come ad esempio la depressione. Da un punto di vista sociologico, invece, si sono indagati soprattutto i fattori legati al particolare sistema culturale giapponese, basato sul confucianesimo, e ad un atteggiamento di anomia sociale e di rifiuto verso le severe regole morali e sociali su cui si basa la cultura tradizionale giapponese. L’ipotesi che ne è scaturita è quindi che questi giovani, pressati dai valori sociali basati sull’estremo perfezionismo e sulla tendenza a voler sempre primeggiare sia a scuola che al lavoro, non si sentano all’altezza degli standard loro richiesti e preferiscano quindi rinchiudersi in casa per evitare di affrontare una realtà quotidiana che avvertono come opprimente.

Saito ha paragonato il loro atteggiamento allo stato di moratoria descritto da Erickson (uno degli stadi attraverso cui passerebbe l’adolescente nel corso della strutturazione della propria identità), comportamento che non sarebbe però particolarmente gradito all’interno della cultura giapponese dove al giovane viene richiesto di indirizzarsi subito verso il suo percorso di vita futuro, senza possibilità di sperimentarsi o di tentare strade alternative.

Attualmente diversi studi si stanno concentrando sulla possibilità che il fenomeno hikikomori non sia legato esclusivamente alla cultura giapponese, ma si possano osservare casi di questo tipo anche in paesi diversi.

Comprendere la rilevanza del fenomeno potrebbe essere importante nella gestione e nel trattamento di queste persone, per evitare che una volta raggiunta la piena età adulta essi mostrino notevoli difficoltà di reinserimento, soprattutto in seguito all’impossibilità dei genitori ormai divenuti anziani di occuparsi ancora pienamente di loro.

Uno studio condotto nel 2012 (Kato et al.) si è proposto di indagare la presenza del fenomeno anche in culture differenti. A partire dall’analisi di cartelle cliniche di giovani socialmente ritirati, è stato trovato che 239 su 247 psichiatri hanno riconosciuto il ritiro sociale, del tipo già descritto circa il disturbo dell’hikikomori, come un fenomeno clinico e sociale presente anche nelle loro popolazioni. Lo studio ha coinvolto psichiatri provenienti da Australia, Bangladesh, India, Iran, Giappone, Corea, Taiwan, Tailandia e Stati Uniti. Tuttavia ancora non si è giunti a stimare la prevalenza e il grado di rilevanza del fenomeno nelle culture non giapponesi. Nell’articolo si parla solo di una potenziale minaccia anche in altri paesi del mondo circa il fatto che potrebbero trovarsi a fronteggiare lo stesso tipo di problematiche già riscontrate in Giappone con adulti di mezza età inabili a prendersi cura di se stessi.

Il disinvestimento dei giovani verso la vita sociale e lavorativa, anche se non esattamente analogo all’hikikomori, è stato riscontrato anche in alcuni paesi occidentali. Nel Regno Unito, ad esempio, si utilizza la sigla NEET (not in employment, education or training) per indicare i giovani non impegnati in attività lavorative o educative. Negli Stati Uniti si utilizza il termine adultoscelent per indicare quei giovani adulti che ancora vivono con i loro genitori e che non sembrano avviarsi verso una vita propria indipendente dalla famiglia.

Uno studio del 2014 (Carli et al.) condotto in 11 paesi europei ha trovato che i giovani che usano internet, la tv o i videogames per molte ore al giorno, che hanno una vita sedentaria e ridotte ore di sonno rappresentano un rischio invisibile per la società. Questo gruppo di persone nasconde in realtà dei preoccupanti segnali di rischio per lo sviluppo di psicopatologie e di comportamenti suicidari.

Bisogna tuttavia procedere con cautela nell’affermare che i segnali presenti in giovani provenienti da altro tipo di società e culture sia effettivamente comparabile con il fenomeno descritto in Giappone. Inoltre è stata evidenziata una mancanza di criteri clinici specifici nella descrizione del disturbo e gli studi condotti hanno spesso usato campioni non rappresentativi e ricerche poco rigorose dal punto di vista metodologico.

Una rassegna di Li e Wong (2015), condotta su studi che descrivevano casi clinici di ritiro sociale in vari paesi come Hong Kong, Stati Uniti, Corea e Oman, ha permesso di capire che solo pochi studi riportano dati affidabili sulla rilevanza del fenomeno del ritiro sociale, che si attesta su una stima del 1-2% in Giappone e Corea, e che in generale c’è poca concordanza sulla definizione di ritiro sociale giovanile.

La rassegna di Teo e Gaw del 2010 si è invece focalizzata principalmente sui segnali di possibili disturbi psicopatologici che si manifestano con il comportamento del ritiro sociale. Esso è stato infatti riconosciuto come un sintomo tipico di patologie come la Schizofrenia, il Disturbo d’Ansia Sociale, il Disturbo Depressivo Maggiore e alcuni disturbi di personalità come i profili schizoidi ed evitanti. Tuttavia, un notevole sottogruppo di casi clinici non riscontrava i criteri per la diagnosi di alcun disturbo psichiatrico. Teo e Gaw concludono quindi che il ritiro sociale grave o acuto potrebbe in futuro essere incluso nel DSM come una nuova psicopatologia a sé stante (Teo e Gaw, 2010).

 Al momento ci sono poche prove a favore dei possibili fattori che potrebbero provocare un comportamento di questo tipo. Li e Wong (2015) hanno riassunto e categorizzato i fattori clinici, psicologici, familiari e sociali che guidano a questo specifico tipo di comportamento. In particolare, hanno identificato l’importanza dei fattori psicologici relativi alla dipendenza psicologica di questi giovani. Anche fattori relativi alla struttura famigliare si sono rivelati determinanti. I fattori extra familiari riguardano invece il sistema educativo e scolastico, mentre per quanto concerne la vita sociale è stato trovato che i valori sociali e le aspettative dei giovani sono correlati positivamente con il comportamento di ritiro sociale.

I ricercatori concludono quindi che, in base alla diversa intersezione di fattori psicologici, sociali e comportamentali, vi sono tre differenti tipi di giovani socialmente ritirati:

  • gli ultradipendenti, che crescono in famiglie ultraprotettive in cui non riescono a raggiungere uno sviluppo psicologico che permetta loro di fidarsi delle persone e di acquisire autonomia. Poiché le loro famiglie provvedono a fornire loro le adeguate risorse materiali, questi giovani hanno poca motivazione a sviluppare autonomia e da ciò deriva un’eccessiva dipendenza dal supporto dei genitori;
  • gli interdipendenti disfunzionali, che sono il prodotto di dinamiche famigliari disadattive che impediscono ai giovani di imparare le regole sociali di base a casa. Ciò porta a delle relazioni sociali poco soddisfacenti con i pari, al rifiuto degli altri e a una tendenza ad essere vittime di bullismo a scuola;
  • i controdipendenti sembrano invece essere caricati da eccessive aspettative genitoriali nei loro confronti, che si associano a notevole pressione nella vita accademica ed educativa e a stress correlato alla carriera lavorativa. Questi giovani sembrano impiegare molto tempo nello studio e nella pianificazione del loro futuro, ma la successiva disoccupazione e la mancanza di opportunità provoca in loro molta frustrazione e un successivo isolamento dagli altri.

In generale, a differenza di altri disturbi psicopatologici che provocano comportamenti esternalizzati ben evidenti alle famiglie e agli operatori della salute, come uso di sostanze o comportamenti sessuali a rischio, i giovani che si caratterizzano per un ritiro dalla vita sociale e lavorativa sembrano essere molto più invisibili e il loro disagio rischia di passare inosservato. Gli studi presenti relativi al fenomeno sono ancora relativamente pochi, in particolare per quanto riguarda la manifestazione del comportamento nelle culture al di fuori del Giappone, e proprio la natura nascosta di questi pazienti rende più difficile la programmazione di future ricerche sul fenomeno.

Secondo Li e Wong (2015), tuttavia, l’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, come i sondaggi da diffondere attraverso i social network o l’analisi dei testi scritti online da soggetti che si caratterizzano per un diffuso ritiro dalla vita sociale, potrebbe fornire una valida alternativa ai problemi metodologici riscontrati negli studi condotti finora.

La mancanza di dati relativi alla prevalenza del fenomeno e di un accordo circa i criteri clinici che lo caratterizzano non permette al momento attuale di considerarlo come una nuova patologia diffusa tra i giovani né di sviluppare protocolli di intervento efficaci per il loro trattamento.

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BIBLIOGRAFIA:

Psychiatry’s identity crisis: commento di Cristiano Castelfranchi

Di Cristiano Castelfranchi

 

Trovo il commento di Francesco Mancini – al pezzo pubblicato sul NY Times Psychiatry’s identity crisis di Richard Friedman – di rara chiarezza e pieno di cruciali distinzioni, che dovremmo tutti tenere sempre ben presenti.

Questo mi ha stimolato a proporre alcune considerazioni di commento, che convergono fortemente ma ampliano un po’ il discorso; dato che io non sono uno psicoterapeuta ma uno scienziato cognitivo e quindi per me il problema non è solo di “dare più spazio alle psicoterapia” (cosa che condivido).

La ‘crisi di identità’ della psichiatria dovrebbe essere più profonda (non solo relativa allo stato attuale del DSM con le critiche che ha suscitato; o alla superiorità della psicoterapia sull’intervento farmacologico). Dovrebbe riguardare non solo in generale in rapporto tra mente e cervello, processi psichici e processi biologici, ma più radicalmente la ‘medicalizzazione’ dei disturbi e devianze comportamentali; il costrutto di ‘malattia’ mentale e di ‘cura-guarigione’, non solo sfidati negli anni 70 da pensatori e movimenti riformatori, ma oggi messi profondamente in crisi – con esperienze ‘psichiatriche’ molto eloquenti e abbastanza ben documentate – come il movimento della Recovery o come le esperienze dell’ “Open Dialogue”. Ma questo non avverrà; al contrario dato il fortissimo e inarrestabile neuro-trend la psichiatria si barricherà sull’approccio bio-medico riduzionista e considererà gli interventi psicosociali semplice sostegno pratico durante la cura ‘vera’ (farmaci, elettroshock etc.).

 

Ho molto apprezzato nell’intervento di Mancini le seguenti tesi:

a) L’osservazione finalmente esplicita sul fatto che: “..appare carente la spiegazione del meccanismo d’azione psicologico degli psicofarmaci. Perché e come un farmaco che, ad esempio, aumenta la serotonina disponibile nel cervello, può migliorare il tono dell’umore, far riprendere gli interessi e aumentare i livelli di motivazione? La depressione maggiore è un fenomeno complesso che si manifesta con sintomi numerosi e diversi fra loro. … Su quale di questi fattori e processi incidono le variazioni biochimiche indotte dal farmaco? …. Le conoscenze degli effetti dei farmaci sui meccanismi psicologici alla base dei singoli disturbi, invece, sono a tutt’oggi poco sviluppate e pertanto non si è in grado di rispondere ad alcune domande piuttosto ovvie…”.

 

b) Questa considerazione si connette, da un lato, con il problema generale e di base della non eliminabilità dei concetti e modelli psicologici, e del loro rapporto con i sottostant processi neurali e loro significato/funzione (vedi sotto). Dall’altro alla tendenza oggi dominante a studi fondati meramente su correlazioni e non su veri ‘modelli’ di processi e meccanismi retrostanti e producenti il fenomeno (‘cause prossimali’). Una scienza zoppa (che esploderà in campo sociale con i Big Data), in grado – con molti dati e usata correttamente – di darci “previsioni probabilistiche ma non spiegazioni”! Quando addirittura la correlazione non venga presentata o equivocata come spiegazione causale.

 

c) Molto lucido anche lo scetticismo sul cosiddetto approccio o modello biopsicosociale, che ammette concorrenza di cause su vari piani, ma in genere è solo un discorso di comodo. Esso non si traduce mai né in veri modelli di ricerca (come i vari processi e meccanismi si alimentano o correggono tra loro), né in veri interventi integrati nei servizi, anche se è una litania ricorrentemente recitata. Esso non è solo una mossa “diplomatica”, ma una mossa ipocrita, volta proprio a mantenere le vigenti divisioni accademiche e professionali e dei saperi, e le loro gerarchie (ruoli e poteri).

 

d) Preziose le distinzioni e i chiarimenti sugli equivoci relativi al tema del rapporto cervello-mente, neuroscienze-psicologia: l’eliminabilità dei costrutti e modelli psicologici (dato che la mente è semplicemente funzionamenti e funzioni del cervello). Mentre “La conoscenza del cervello, finalizzata alla spiegazione della mente, dovrebbe essere guidata dalle conoscenze psicologiche”.

 

e) Le considerazioni molto nitide sugli equivoci relativi alla “natura neurologica o psicologica dei disturbi mentali”. Sotto un comportamento o pensieri ‘malati’ vi è necessariamente un “cervello rotto”? O processi psichici devianti e problematici posso essere frutto di un cervello neurologicamente sano? Con la forte conclusione che: “non è legittimo inferire una neuropatologia solo perché si osserva una diversità, anche se la diversità osservata nel cervello corrisponde a una psicopatologia”.

 

 

A sostegno di queste tesi di Mancini, mi permetto di aggiungere alcune mie frammentarie considerazioni su alcuni dei punti menzionati.

 

A

E’ molto ragionevole l’ipotesi che le psicoterapie ed in genere gli interventi psicologici e di sostegno possano avere impatto sulla regolazione cerebrale, a livello biologico; tuttavia questa validissima tesi non va identificata (come frequentemente avviene) con una tesi più radicale che abbiamo bisogno di esplicitare ancorché sia per molti versi “ovvia”.

Le rappresentazioni mentali ed i processi psichici di per sé sono NEL cervello (e dove se no?) e sono processi DEL cervello. Ogni loro costruzione/acquisizione, ogni loro funzionamento, ogni loro trasformazione è un cambiamento di processi nervosi in cui la mente si implementa e materialmente consiste (Castelfranchi. Neurofondazione dei costrutti psicologici: necessaria purchè non riduttiva, e inoltre non sufficiente. Giornale Italiano di Psicologia, 1-2/2015; pp. 105-110  p. 105-109/ http://www.rivisteweb.it/isni/2718) .

 

Ma sapere questo non significa:

(a) Non mantenere una possibile autonomia di ricerca: necessariamente i modelli psicologici andranno sempre più neuroscientificamente fondati, ma non “eliminati”; e possibilmente i modelli neuro dovranno trovare il riscontro delle variabili, costituenti e processi identificati dalla psicologia o correggerli con modelli altrettanto sottili e procedurali.

(b) Soprattutto non significa non mantenere uno spirito fortemente critico:

– su COME la neuroscienza comportamentale viene fatta oggi; in modo del tutto semplicistico, con la narcisistica esaltazione di scavalcare la psicologia e i suoi modelli di processo per “spiegare” direttamente le condotte in termini di loro localizzazione cerebrale (neuro-etica, neuro-estetica, neuro-economia, etc.);

– contro le frequenti (e prevedibilmente crescenti) posizioni di riduzionismo biologico (genetico, neuro, e bio-chimico) che hanno un grave impatto sulla opinione pubblica;

– su come una gran parte della psichiatria adotti in teoria ed in pratica una scorciatoia bio-farmacologica, molto problematica sul piano scientifico, sociale, ed etico/politico.

 

Vi è un non sequitur tra l’idea (ovvia) che il processo psicopatologico/disfunzionale (come per altro quello “sano” o “normale”) sia un processo cerebrale e:

(i) l’idea che quindi il problema di origine, la causa, deve essere un “danno” cerebrale, una disfunzione dei meccanismi nervosi e biochimici di base: la “malattia” è cerebrale non mentale e comportamentale;

(ii) l’idea che quindi (anche indipendentemente da (i)) l’intervento deve essere direttamente sul cervello ed il suo funzionamento; di tipo bio-chimico.

 

Apprendere è modificare il cervello; ri-apprendere è rimodificare il cervello. Ci può essere stato (per una serie di fattori concorrenti: interni ed esterni, esperienziali e relazionali) un apprendimento disfunzionale (rispetto alla interazione sociale e le sue aspettative; e per i vissuti e la realizzazione della persona) e si tratta – mediante esperienze (non solo emotive) ed elaborazioni mentali – di ristrutturare gli assetti, rappresentazioni, e processi appresi.

Ogni e qualsiasi cambiamento della condotta è/implica un cambiamento della mente; ogni e qualsiasi cambiamento della mente è/implica un cambiamento del cervello. Il nostro cervello è stato “scritto” dalla nostra condotta; nell’intervento terapeutico o rieducativo si tratta di mantenere (anche) questa via, ed un nesso non unidirezionale bensì dialettico.

Quindi:

– anche se la ‘cura’ lavora su e modifica il funzionamento/substrato neuro-chimico NON vuol dire che la causa, l’origine sia stata una alterazione del funzionamento di base del cervello o corpo; come la cura così altri eventi sociali/affettivi/cognitivi hanno modificato il cervello.

anche se la terapia behav/cogn modica il cervello, NON vuol dire che allora l’intervento più efficace, giusto, sia quello diretto (fisico-chimico) sul cervello.

 

Anche supponendo che dietro ogni o molti disturbi psichici/comportamentali vi sia un danno o disfunzione corporea, cerebrale, è riduttivo trarne la conseguenza che ‘quindi’ la ‘cura’ è l’intervento somatico, sul cervello, e diretto, mediante ad esempio farmaci per ‘riaggiustare’ quel malfunzionamento. Concordo con Mancini.

A parte che anche le relazioni, le parole, i riforzi, le psicoterapie lavorano su e modificano i processi neurali (ma non riaggiusterebbero il difetto/danno di base?).

 

B

Sarei più radicale: per me il problema è che il concetto stesso di ‘malattia’ e di cura’ appare alquanto inadeguato.

La malattia (tanto più il disturbo mentale e del comportamento) è un complesso ‘costrutto’; una costruzione multidimensionale nel tempo. Un artefatto storico-culturale ed istituzionale; costruito di rappresentazioni mentali nel soggetto e negli altri; di credenze, interpretazioni aspettative (su di sè e gli altri), progetti e rinuncia a progetti, ‘destini’ , obblighi, divieti, perdite e limitazioni di poteri; un sistema di relazioni con gli altri in quanto ‘malato’, fino a norme giuridiche ed istituzioni destinate (si pensi appunto alle carceri per gli omosessuali (Wilde) o ai farmaci obbligatori che hanno indotto Turing al suicidio).

Si tratta di una struttura multistrato; la guarigione, la recovery è la decostruzione di tale ruolo e relazione (e disvalore); è un lavoro fondamentalmente fisico e relazionale; è restituzione di speranze, capacità, relazioni, progetti, .. Non è banale scomparsa dei ‘sintomi’; è magari permanenza dei sintomi ma capacità di gestirli (psichicamente e relazionalmente) in modo che non mi facciano la vita. “Recuperare” la ‘persona’ che non è i suoi sintomi, e una sua identità di vita.

Questa ‘cura’ della vera malattia come complesso costrutto cognitivo-emotivo-comportamentale, individuale-relazionale-istituzionale è una operazione chiaramente psicologica, di intervento sulla persona (mente), sul sistema in cui è inserita, ed è un intervento anche culturale e sociale.

Alla fin fine sono sempre i cervelli che si modificano, certo, la cultura è nel cervello, come le regole, le aspettative ecc ecc, ma i cervelli, la cognizione distribuita, e i cervelli di noi ‘sani’ e normali’, complici del suo essere ‘malato’.

 

Non è questione semplicemente di mettere assieme interventi psicoterapeutici, sociali, assistenziali in alcuni casi, economici, ecc ecc; non è un problema banalmente di più tipi di operatori e di interventi. Vi è una sostanziale unitarietà nella efficacia della guarigione-decostruzione. Non si tratta di ‘cura’ + ‘riabilitazione’ + supporti e inserimenti. Solo un approccio cognitivista può dare una visione unitaria di cosa sta succedendo; e legge in modo unitario e coerente (o contraddittorio) gli ‘interventi’.

Quali rappresentazioni e vissuti si stanno modificando (credenze, emozioni, motivazioni, pretese, relazioni) nella persona e nel contesto? Cosa significano e cambiano il farlo andar via di casa, il trovargli un lavoro e un ruolo, il dargli parola e ascolto? Che rivoluzione psichica è e come funziona lo slogan “la libertà è terapeutica!” (chiusura del manicomio di Gorizia), o perchè avere dei soldi non è solo un sussidio ma cambia la mia libertà e i miei rapporti e subordinazioni?

Ogni intervento (che sia capito psicologicamente o meno) cambia la mente e quindi la condotta, la condotta e quindi la mente. Il cognitivismo è l’unica chiave di lettura unificante.

 

Leggi il commento di Francesco Mancini

Articolo del New York Times: Psychiatry’s identity crisis

Il catalogo dei seminatori: Il codardo parte I – Tracce del Tradimento Nr. 21

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXI: il catalogo dei seminatori: il codardo parte I

 

Il codardo non riesce a dire al partner che vorrebbe andarsene, che vorrebbe star solo. Più in generale non riesce a esprimere i suoi bisogni all’interno del rapporto e finisce dunque per percepirlo in maniera soffocante. Allora immagina come unica soluzione la fuga.

Il suo problema è non saper affermare se stesso, non riconoscere dignità ai propri bisogni che finiscono per essere messi in secondo piano rispetto alle attese degli altri. Due codardi che stanno insieme possono soffrire per il semplice motivo di non riuscire a esprimere i propri desideri, creando piccoli, drammatici malintesi.

In un tiepido week end di maggio l’ingegner Giuseppe e sua moglie, oltrepassata da un pezzo la metà della loro vita, si trovarono nell’ampia cucina della loro casa a consumare il rito della colazione. Era un giorno speciale: venticinque anni prima, di domenica, si erano sposati pieni di attese, di sogni, di desideri. Il loro era stato un buon matrimonio, senza scossoni, due figli che, ormai grandi, non davano preoccupazioni. Si sedettero al tavolo, il thè fumante, la marmellata, una rosetta: erano soddisfatti. Si scambiarono gli auguri e, in fondo, si sentivano felici.

Carla a un tratto avanzò una richiesta inaspettata. Quasi scherzando disse al marito se poteva essere lei, per una volta in venticinque anni, a prendere la parte superiore del panino.

Giuseppe rimase confuso. Lui aveva sempre mangiato la parte superiore del panino per lasciare a lei quella inferiore che giudicava senza dubbio la migliore; per anni si era assoggettato a questo piccolo sacrificio per amore. Capì che lei aveva fatto esattamente l’opposto: desiderando il sopra lo aveva lasciato a lui, sempre per via dell’amore. Dunque la donna che aveva di fronte era pressoché una sconosciuta; si era modellato un’immagine che non corrispondeva alla realtà.

Chissà, forse lei avrebbe desiderato quei giochi d’amore che lui non le aveva mai proposto perché convinto che non le piacessero; probabilmente nell’inseguire i presunti desideri dell’altro ognuno aveva sacrificato se stesso. Il sotto del panino cui lui aveva rinunciato, divenne rapidamente tutto ciò che avrebbe potuto essere e non era stato: i viaggi, l’amore, la passione, la bella vita.

Il suo posto di lavoro sicuro e monotono che tanto gli pesava, ma che aveva accettato per la sicurezza di lei, forse era come il sotto del panino. Il denaro accumulato per non farle mancare nulla e permetterle ogni capriccio forse era come il sotto del panino: con sacrificio le aveva dato una cosa che lei non voleva: per amore si erano scambiati soltanto infelicità; per timore di ferire l’altro non si erano mai incontrati. Questi venticinque anni precipitarono d’un tratto su Giuseppe che si sentì stanco, sfinito, invecchiato; solo e perduto in mezzo ad un deserto. Non contavano più i figli, la carriera, la villa che stavano costruendo in campagna, gli amici comuni: Chi aveva voluto davvero queste cose? Forse nessuno.

Si senti confuso e disperato e quando lei ripeté la domanda pensò che doveva in tutti i modi evitarle questa terribile sensazione; lei non avrebbe retto a tanta sofferenza, occorreva risparmiargliela ad ogni costo: un ennesimo sacrificio per amore. Così con l’aria scherzosamente di rimprovero le disse che oggi, ma solo per oggi, avrebbe potuto mangiare il sopra del panino perché era un giorno speciale e occorreva festeggiarlo. Lei sorrise, lui si spalmò della marmellata sul sotto del panino (quanto lo aveva desiderato!) ma la gola si strinse dalla disperazione e non riuscì a finirlo. Lei guardandolo lasciare la colazione a metà penso che era proprio viziato e voleva per forza le cose migliori per se.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Scelte altruistiche: cosa accade a livello cerebrale?

E’ stato recentemente sviluppato un modello computazionale in merito alle modalità con cui una scelta altruistica è compiuta a livello cerebrale, il quale sarebbe in grado di predire i casi in cui una persona si comporterà generosamente in una situazione che richiede il sacrificio di denaro. Il lavoro, condotto dai ricercatori dell’Istituto di Tecnologia della California e pubblicato sulla rivista Neuron, aiuta a comprendere perché a volte essere generosi risulta così difficile.

Attualmente, la questione del perché si è altruisti è molto dibattuta tra gli accademici: c’è chi dice che siamo egoisti per natura e che l’altruismo non deriva che da una forma di autocontrollo, c’è chi è più positivo e pensa che per gli esseri umani essere generosi sia di per sé una forma di ricompensa. Il modello Caltech sembra invece dimostrare che nessuna tra queste due ipotesi è corretta: sia l’egoismo che l’altruismo possono essere facili e di semplice applicazione, la scelta dipende dalla persona e dal contesto.

[blockquote style=”1″]Abbiamo preso un modello di decision making semplice, come quelli utilizzati per gli esperimenti percettivi -ad esempio pensiamo che quel punto si muoverà a destra oppure a sinistra?- e lo abbiamo adattato alle scelte, egoistiche oppure altruistiche[/blockquote] afferma Cendri Hutcherson, che ha condotto questo lavoro come tesi di dottorato presso l’Università della California.

[blockquote style=”1″]Abbiamo scoperto che la scelta in atto non è un fatto di autocontrollo, ma semplicemente dipende da quanto si stia empatizzando con le necessità altrui. Se si crede che altre persone siano più bisognose di noi tenderemo ad essere generosi, se si pensa di essere noi stessi in maggiore difficoltà si effettuerà una scelta egoistica[/blockquote] aggiunge la ricercatrice.

Sulla questione se un atto altruistico sia da considerarsi di per sé una forma di ricompensa per chi lo compie resta ancora da fare chiarezza. L’esperimento avrebbe infatti dimostrato che quando si compie una buona azione nel cervello si attivano effettivamente le aree legate alla ricompensa, tuttavia le stesse aree potrebbero attivarsi nel momento in cui si prende una decisione. Dunque il fatto che si attivino in seguito ad un atto altruistico potrebbe semplicemente indicare che è in corso un elaborato processo di decision making.

L’esperimento analizza, tramite tecniche di neuroimaging, le reazioni di 51 maschi che compiono delle scelte sulla base di una versione modificata del Dictator Game. In questo gioco, ogni partecipante viene messo in coppia con uno sconosciuto e, in differenti situazioni, gli viene chiesto di scegliere se sacrificare una piccola somma di denaro perché questa persona mai vista prima possa guadagnare una cifra significativa (ad esempio un giocatore perde 25 dollari per farne guadagnare 100 all’altro). Le decisioni da prendere sono 180 in totale, e il denaro utilizzato è vero.

L’analisi dell’attivazione cerebrale suggerisce che le scelte autocentrate sono correlate con l’attività del nucleo caudale, un’area coinvolta nei processi di ricompensa. Le scelte eterocentrate sono invece connesse all’attivazione della zona temporo-parietale, coinvolta invece nei processi di empatizzazione. Secondo la dottoressa Hutcherson questo dimostrerebbe che tendiamo ad essere altruisti se riusciamo ad immedesimarci nella condizione altrui e capire l’importanza del guadagno che l’altro potrebbe trarre dal nostro piccolo sacrificio.

Forse non ci stupisce, ma la maggioranza dei soggetti coinvolti nell’esperimento tendeva a compiere scelte egoistiche. La cosa strana, invece, è che anche le persone più avide facevano qualche volta una scelta generosa. I ricercatori hanno interpretato questo risultato non nella direzione di una decisione compiuta esercitando autocontrollo e razionalità, ma piuttosto esso sarebbe dovuto al fatto che i partecipanti in alcuni casi compivano degli errori, tendendo a sottostimare le proprie perdite.

Questi errori suggerirebbero che la fretta e il fatto di avere poco tempo a disposizione porterebbero a volte a mettere in atto comportamenti fuori dal comune, non in linea con la personalità dei soggetti, comportando però perdite economiche significative.

[blockquote style=”1″]I risultati suggeriscono che le persone non sono felici quando commettono questo tipo di errori, tuttavia se potessimo aumentare l’empatia delle persone nei confronti degli altri, diminuiremmo gli errori legati alla sottovalutazione del problema, a favore però di scelte generose che siano anche ragionate e consapevoli[/blockquote] afferma Hutcherson.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’ Autoefficacia – Introduzione alla Psicologia Nr. 26

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 26)

 

 

Esattamente, cosa s’intende per autoefficacia? L’autoefficacia è una parte costituente il concetto di autostima, rivolta a una serie di convinzioni che il soggetto ha di se stesso.

Si sente spesso parlare di autostima e di quanto possa essere importante sviluppare una considerazione di positiva se stessi. Avere una buona autostima aiuta a dirigere e ad affrontare diverse situazioni cui la vita ci espone. D’altra parte, poco si sente parlare di autoefficacia, malgrado questi due costrutti siano intimamente correlati tra di loro, al punto che si influenzano e determinano reciprocamente. Esiste una sorta di relazione duale, in cui all’aumentare dell’uno aumenta l’altro e viceversa.

Esattamente, cosa s’intende per autoefficacia? L’autoefficacia è una parte costituente il concetto di autostima, rivolta a una serie di convinzioni che il soggetto ha di se stesso. Proseguiamo per gradi.

Con il termine autostima si è soliti fare riferimento a un giudizio positivo o negativo della propria persona. Si tratta di essere consci del proprio valore e delle proprie capacità, dei propri limiti, e delle proprie debolezze. Insomma, l’autostima è avere un chiaro dato di realtà sul proprio funzionamento cognitivo e comportamentale.

L’autoefficacia, invece, meglio nota come autoefficacia percepita citando esattamente le parole usate da Albert Bandura, corrisponde alla consapevolezza di essere capace di dominare specifiche attività, situazioni o aspetti del proprio funzionamento psicologico o sociale. In altre parole, è la percezione che abbiamo di noi stessi di sapere di essere in grado di fare, sentire, esprimere, essere o divenire qualcosa.

Da queste convinzioni derivano valutazioni che portano alla formazione di mete o di obiettivi. Gli scopi che desideriamo raggiungere derivano, dunque, dal sapere esattamente cosa siamo in grado di fare e con quali mezzi. Se costruissimo scopi troppo ambiziosi rispetto alle nostre risorse, allora diventerebbero irrealizzabili.

Non esiste un senso di autoefficacia raggiungibile in maniera assoluta e universale. Chiaramente, ognuno di noi dovrebbe possederne uno, che varia a seconda dei propri punti di forza o di debolezza. Quindi, il senso di autostima è un concetto globale, mentre la percezione di autoefficacia è soggettivo e specifico per ogni individuo. Inoltre, non esiste un senso di autoefficacia globale, ma settore specifico, ovvero è sempre collegato a un solo ed esclusivo ambito.

L’autostima e l’autoefficacia non esisterebbero se non ci fosse un altro concetto: il locus of control. Quest’ultimo consiste nell’attribuire all’esterno o all’interno le proprie responsabilità. Coloro che mostrano fiducia in se stessi e nelle proprie capacità attribuiscono i loro successi, qualità personali e fallimenti a fattori esterni e legati alle particolari situazioni. Le persone insicure e con bassa stima di sé tendono ad attribuirsi la colpa dei loro fallimenti, valutando i successi come conseguenze del caso, del fato o della fortuna, ovviamente momentanea.

Il locus of control, non è altro che una modalità di attribuzione delle proprie attitudini e influenza notevolmente le esperienze personali, dando il vita a circoli viziosi in cui l’auto-percezione di sé e delle proprie abilità condiziona il manifestarsi degli eventi. In questo modo si confermano o meno le ipotesi svalutative da cui si è partiti.

L’autoefficacia, è stato osservato, sia un utile strumento contro lo stress. Infatti, le situazioni stressanti sono considerate come tali quando si pensa di non avere risorse adeguate che ci mettono nella condizione di poterli affrontare. Avere una buona consapevolezza delle proprie potenzialità, e di cosa è possibile raggiungere con le proprie doti facilita il superamento di ostacoli e consente di affrontare la vita con più serenità.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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