Dal Congresso annuale dell’EABCT, European Association of Behavioural and Cognitive Therapies II PARTE
Giorno conclusivo del congresso EABCT a Gerusalemme. Dopo la giornata di ieri segnata dalle keynote passatiste di Barlow e Salkoviskis ho visto più novità e più possibilità per il futuro. Non dimentichiamo però che queste impressioni sono solo mie, personali e discutibili. Ieri ci sono state decine di relazioni e in fondo io ne ho raccontate solo cinque.
Obiettivamente, però, le keynote hanno grande peso qualitativo e non si può negare che le parole di Barlow e Salkovskis non infiammavano di entusiasmo. Posso testimoniare che lo stesso Barlow ha ammesso, a metà della sua esposizione, che il suo tentativo di sintesi non aggiungeva nulla di nuovo e non apriva nuovi percorsi. Barlow si è limitato a dire che ogni credenza disfunzionale, oltre a presentare distorsioni cognitive, ha la sua base neurobiologica ed evolutiva. Ovvero, le distorsioni cognitive non spiegano tutto. Il che è vero, però non è un nuovo sviluppo ma solo un’ammissione dei limiti della nostra disciplina.
Inoltre Barlow aggiungeva che le distorsioni cognitive hanno un significato protettivo verso stati d’animo ritenuti erroneamente insopportabili. Vero anche questo, ma va articolato meglio in termini funzionalisti, altrimenti si rischia di cascare nel costruttivismo ingenuo per il quale il sintomo ha un significato personale da rispettare, ovvero sia in rapporto con credenze su se stessi a cui dare un significato strutturale. Anche qui c’è qualcosa di vero, ma si tratta di un concetto rischioso che –a mio parere- toglie più armi dalle mani del terapeuta di quante gliene fornisca. Colpisce come il cognitivismo quando va in crisi mostri sempre questa deriva nella direzione della psicologia del sé, perdendo di vista l’ipotesi che le credenze siano delle disfunzioni da trattare nel qui e ora.
A confermare una certa atmosfera da vecchie zie, dirò che Barlow e Salkoviskis non erano le uniche glorie arruginite sul palco. Non ho citato due presentazioni ancora più passatiste, quelle di Judith Beck e Debbie Joffe-Ellis, la figlia e la vedova dei due padri fondatori della terapia cognitiva! Grande rispetto per le loro capacità cliniche e per il peso dell’eredità che portano, ma non si tratta di due menti innovatrici. Quello che salvava Barlow era il suo tono dignitosamente dimesso. Un piatto triste, ma onesto e migliore delle bollicine gassate senza calorie dell’imbarazzante autocelebrazione di Salkovskis.
Proseguendo con i limiti del mio punto di vista, so che ci sono state molte presentazioni dedicate alla mindfulness e so che ho trascurato queste relazioni. Sicuramente non è un mio merito non averne sentita alcuna. Ritengo però che queste relazioni non stiano avendo lo stesso impatto unificante che ebbe il beckismo trent’anni fa. La mindfulnes aspetta ancora il suo David Clark che conquista il territorio diagnostico e lo contende agli psichiatri.
Arnoud Arntz pesenta la guided imagery
Basta col passato. Dicevo che questa terza giornata del congresso è andata meglio. Si è cominciato bene, con Arnoud Arntz. Anche lui ha portato acqua al suo mulino, presentando dati su uno dei suoi interventi preferiti, la guided imagery. Però con sostanza. Prima un’interessante carrellata storica, in cui Arntz ci ha ricordato quanto fossero disprezzati gli interventi di imagery vent’anni fa-ai tempi del trionfo della terapia cognitiva- ritenuti roba da sciamani anti-scientifici. Con quanta faciloneria si diede per scontato che tutto quanto non fosse analisi e disputa delle credenze fosse non solo inutile, ma addirittura sospettabile di magia.
Dopo aver raccontato la svolta storica, Arntz fa una disanima scientifica dei meccanismi di funzionamento degli interventi di imagery. Disanima rigorosa tipica dello stile di Arntz. Per la verità non proprio rigorosissima e dettagliatissima come fu quella che fece sul funzionamento della schema therapy se non erro a Reykjavík nel 2011. Ricordo ancora quella keynote come una grande lezione di scienza. Stavolta Arntz mi è sembrato meno esaustivo. Forse si tratta di un lavoro non ancora concluso. In ogni caso –dice Arntz- l’imagery non è un’esperienza catartica; fosse davvero così, avrebbero ragione i critici che la sospettavano di magia.
Semmai la sua efficacia è un’ennesima prova dell’esistenza di un sistema di apprendimento esperienzale e operativo distinto da quello dichiarativo, un sistema meno soggetto alle disfunzioni rimuginative e più capace di cambiamenti sostanziali e duraturi. Un sistema che però non produce informazioni verbalizzabili e comunicabili in maniera controllata e che vanno indicate per allusioni metaforiche ed esortative. Il meglio sarebbe viverlo concretamente con l’esposizione in vivo, Questo però non è sempre possibile e ci si accontenta dell’imagery. Chiaramente tutto questo è ancora troppo poco e generico. Forse per questo l’esposizione di Arntz è stata meno brillante di quella di Reykjavík: ne sappiamo ancora poco.
Gli interventi di processo per i disturbi alimentari
Dopo Arntz c’è stata di nuovo una presentazione del nostro gruppo ricerca, all’interno di un simposio sui disturbi alimentari. Dopo la collega Yael Latzer di Haifa, che ha decritto la parabola della terapia cognitiva dei disturbi alimentari dai tempi di Fairburn a oggi, nella nostra relazione ho ipotizzato lo sviluppo futuro, ovvero come potrebbe essere l’applicazione ai disturbi alimentari degli interventi di processo.
Non c’è ancora un vero protocollo di terza ondata per questi disturbi. Esistono però molti studi che confermano l’esistenza dei processi di terza ondata nella picopatologia dell’anoressia e della bulimia: il rimuginio e la ruminazione prima di tutte. Tra questi studi, non tantissimi, ci sono quelli del nostro gruppo di ricerca. Non so se sono i migliori, ma sicuramente quelli più prolungati nel tempo. È del 2005 la pubblicazione del nostro primo lavoro sul rimuginio nei disturbi alimentari. Il secondo nostro contributo è proporre la variabile del controllo come mediatore tra variabili di contenuto, come la bassa autostima e il perfezionismo, e variabili di processo, come rimuginio e ruminazione. Il passo successivo sarà lo sviluppo di un protocollo mirato sui processi per i disturbi alimentari e la sua verifica di efficacia sul campo.
Amit Bernstein e la rilevazione delle oscillazioni attenzionali
L’ultimo simposio a cui assisto è quello più ricco di promesse per il futuro. Quattro relazioni coordinate da Amit Bernstein, ricercatore israeliano che avevo già ascoltato ieri. Bernstein ha messo a punto una tecnica controllabile di rilevazione delle oscillazioni attenzionali che permette di rappresentarla graficamente come un’onda sinusoidale. Bernstein ha dimostrato che nei pazienti l’attenzione va incontro a oscillazioni molto più ampie che nei controlli. Non basta, ha anche dimostrato, e questo interessa a tutti quelli che si occupano di rimuginio, che le oscillazioni verso l’alto corrispondono a momenti di ipervigilanza e quelle verso il basso a momenti di evitamento cognitivo.
Insomma Bernstein forse è riuscito a rilevare i micromomenti dell’ordine dei decimi di secondo in cui diamo troppa importanza agli stimoli avversivi e i micromomenti in cui tentiamo disperatamente di cacciarli dalla nostra mente. Non sembra che Berstein stia parlando di rimuginio, che è appunto questo convivere di iperfocalizzazione ed evitamento? E se poi i non pazienti hanno oscillazioni meno ampie non significa forse che costoro riescano dare agli stimoli avversivi il loro giusto peso, senza iperfocalizzarsi su di essi e senza evitarli? Insomma, forse li mantengono in uno stato di consapevolezza distaccata.
Come si vede, è abbastanza per interessarsi a questi lavori. L’elemento che sembra più promettente di tutto questo è che mi è sembrato che lo strumento di Bernstein permetta di vedere graficamente e quindi operativamente se stiamo riuscendo a tenere questo stato di consapevolezza distaccata o meno, senza cascare nell’ipervigilanza e/o nell’evitamento. Insomma, potremmo finalmente addestrare i pazienti a non rimuginare in diretta, senza ricorrere alle mille metafore che siamo costretti a utilizzare quando tentiamo di spiegare cosa sia questo stato tranquillo in cui non rimuginiamo, non evitiamo e non iperfocalizziamo sui pensieri che ci disturbano.
Il gruppo di Bernstein ha parlato anche di altri concetti che ho compreso meno. Tra questi spiccava quello dell’attenzione “covert”, ovvero la capacità di essere consapevoli di qualcosa senza iperfocalizzarci solo su di essa. Non so se ho capito proprio bene, ma se fosse così mi pare che questo strumento renderebbe possibile ancora una volta misurare –e rafforzare in una specie di biofeedback- uno stato di attenzione consapevole e non rimuginativa sugli stimoli avversivi.
Quest’ultimo simposio forse ci ha fatto intravvedere il futuro in cui la terapia cognitiva potrà tirarsi fuori dalla crisi parziale in cui è incappata. Crisi che forse è particolarmente evidente nell’ambiente EABCT, a causa delle scelte di alcuni anni fa. Anni in cui le spinte innovative delle terapie ACT e MCT furono rigettate.
Senza il loro stimolo innovativo, l’EABCT negli anni ha oscillato tra conservazione celebrativa e innovazione limitata a una mindfulness integrata con la terapia cognitiva solo in teoria. Integrazione che nella pratica non mi pare che si sia vista. Il rischio della mindfulness è la sua tendenza anti-protocollare, tendenza rispettabile quando si parla di tecniche di meditazione non terapeutica, ma che se applicata alla clinica rischia di creare un corto circuito tra mentalità sapienziale –allusiva e iniziatica- e mentalità scientifica –controllabile e riproducibile-. Un incontro impossibile.
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LETTURE CONSIGLIATE: Archivio dei reportage dai congressi EABCT
Congresso EABCT 2015 di Gerusalemme
SLIDES DAL SIMPOSIO:
Reviewing Cognitive Treatment for Eating Disorders: From Standard CBT Efficacy to Worry, Rumination and Control Focused Interventions