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S.P.I.M. Settimana di Prevenzione dell’Invecchiamento Mentale

Al via l’VIII edizione dell’iniziativa promossa in tutta Italia da Assomensana.

Dal 21 al 26 settembre 2015 è possibile richiedere un check-up gratuito per valutare lo stato di salute delle proprie abilità mentali.
Per prenotare l’appuntamento è sufficiente mettersi in contatto direttamente con l’esperto più vicino al proprio territorio consultando l’elenco suddiviso per regioni e città sul sito www.assomensana.it.

Gli specialisti aderenti alla S.P.I.M. (psicologi, neuropsicologi e geriatri) effettueranno il controllo gratuitamente fornendo al termine utili informazioni sul proprio funzionamento neuropsicologico (memoria, attenzione, linguaggio ecc.) e sulle strategie più efficaci per mantenerlo in buona salute.

Secondo le evidenze scientifiche, infatti, esercizi mentali specifici e un corretto stile di vita consentono di conservare buone prestazioni cognitive.

 

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Due partite (film, 2008): la femminilità a confronto tra 2 generazioni

RUBRICA I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM – Due partite (Nr. 04)

 

REGIA: Enzo Monteleone

ANNO DI USCITA: 2008

TEMI PSICOLOGICI TRATTATI: femminilità, emancipazione della donna, maternità, relazioni di coppia, rapporto madre-figlia

TRAMA:

Con il film Due partite del 2008, il regista Enzo Monteleone ha voluto trasporre nella dimensione cinematografica il testo teatrale di Cristina Comencini.

Il film è diviso in due parti, tutte al femminile: nella prima parte, ambientata negli anni ‘60, quattro madri si incontrano ogni giovedì pomeriggio con la scusa di una partita a carte, in realtà trascorrono il tempo a confrontarsi su diverse tematiche, come il matrimonio, la cura dei figli, i bisogni frustrati a scapito della famiglia, gli amori nascosti e i segreti di un passato lontano. Tutta la prima parte ha un’unica ambientazione, richiamando l’atmosfera della pièce teatrale. Grazie all’immutabilità dell’ambiente i dialoghi assumono una posizione centrale, così come le caratteristiche delle personalità delle protagoniste.

 

CONTINUA DOPO IL VIDEO DEL TRAILER:

Beatrice (Elena Ferrari) è la figura più ingenua e sognatrice del gruppo, ama la lettura e idealizza in modo romantico il marito, che invece di parlarle le scrive dei biglietti. Claudia (Marina Massironi) rappresenta la donna perfetta per la società medio-borghese dell’epoca, attenta al decoro e all’immagine sociale, e a mantenere in piedi un matrimonio con un marito fedifrago. Gabriella (Margherita Buy) è una donna che ha abbandonato il proprio talento per tutelare la carriera del marito e la crescita di sua figlia, è quindi in costante lotta con se stessa, divisa tra l’amore per la famiglia e il rimpianto di sogni mai realizzati. Infine c’è Sofia (Claudia Cortellesi), donna cinica e aspra, ammette l’infelicità coniugale che cerca di alleviare con una relazione clandestina.

I dialoghi sono incalzanti, accesi, fino a diventare taglienti, esprimono rabbia verso una società in cui non c’è spazio per gli interessi e le aspirazioni delle donne. Emerge il dolore, la frustrazione e la rabbia taciuta, alla quale solo Sofia avrà il coraggio di dar voce, in un indimenticabile monologo di Paola Cortellesi.

CONTINUA DOPO IL VIDEO DEL MONOLOGO:

 

Nel frattempo, le loro quattro figlie sono in un’altra stanza a giocare, non compaiono mai di fronte alla telecamera, se non trent’anni dopo, per il funerale di una delle madri. Da qui inizia la parte più dinamica del film, la seconda. Le quattro giovani donne si ritrovano attorno a un tavolo, ora davanti a una tazza di thè, e si confrontano a loro volta su temi appartenenti alla società in cui vivono: i ritmi di vita incalzanti, i problemi coniugali, le ambizioni professionali e il bisogno di maternità.

Pur avendo abbandonato i pizzi e i merletti degli anni ‘60, i simili tratti di personalità metteranno le giovani donne di fronte agli stessi schemi di comportamento e allo stesso modo di affrontare gli eventi di vita delle loro madri. Dal punto di vista psicologico, questo è l’aspetto più interessante del film.

E’ una commedia leggera ma raffinata, che affronta il tema della femminilità in due epoche diverse, i mutamenti del ruolo sociale della donna e il tema complesso del rapporto madre-figlia.

 

 

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Vedere una perdita come un guadagno: conoscere il contesto di scelta fa cambiare i circuiti cerebrali che elaborano l’esito delle nostre decisioni

Dott. Giorgio Coricelli

 

Vedere una perdita come un guadagno: conoscere il contesto di scelta fa cambiare i circuiti cerebrali che elaborano l’esito delle nostre decisioni.
Lo rivela uno studio dei ricercatori del CIMeC apparso oggi sulla rivista Nature Communications. 

TRENTO (Italia) – Tramite punizione o ricompensa? Il dibattito su quale sia la strategia di apprendimento più efficace continua. Come reagiamo all’esito delle nostre azioni e delle nostre scelte, sociali o squisitamente economiche, infatti, influenza le nostre decisioni future. È dunque naturale che si indaghino questi meccanismi, con l’obiettivo di capire anche quale sia la strategia di apprendimento più rapida ed efficace. Di questo si è occupato uno studio appena apparso su Nature Communications del neuroeconomista Giorgio Coricelli del Centro Mente/Cervello dell’Università degli Studi di Trento e collaboratori che hanno cercato di affrontare i due principali problemi irrisolti dell’apprendimento per punizione che è tanto efficace quanto quello per ricompensa.

I due aspetti da chiarire: computazionale e anatomico

Negli ultimi anni si sono fatti moltissimi progressi nella comprensione delle basi neuronali e computazionali dell’apprendimento per rinforzo basato sulle ricompense (reinforcement learning). Di contro, i meccanismi computazionali e neuronali dell’apprendimento per punizione, in cui bisogna apprendere il modo migliore per evitare la perdita maggiore, non sono ancora stati chiariti.

Il primo problema è computazionale, infatti, l’apprendimento basato sulla punizione presenta un apparente paradosso [blockquote style=”1″]Quando si evita una punizione con successo, la risposta strumentale (cioè l’azione che permette di evitare la punizione) non è più rinforzata. Come conseguenza, i modelli teorici d’apprendimento di base predicono una performance migliore per l’apprendimento per ricompensa (dove l’azione che conduce ad una ricompensa viene scelta con maggiore probabilità in futuro, i.e. rinforzo positivo) rispetto all’apprendimento per evitamento della punizione, contrariamente al fatto che i soggetti umani mostrano la stessa performance di apprendimento nei due contesti[/blockquote] spiega il professor Giorgio Coricelli.
Il secondo problema è neuroanatomico [blockquote style=”1″]Un dibattito aperto nelle neuroscienze cognitive riguarda il fatto che le stesse aree cerebrali (lo striato e la corteccia ventrale prefrontale) rappresentino sia valori positivi che negativi, o alternativamente che l’apprendimento e la codifica dell’apprendimento per punizione avvenga in un sistema neuronale opposto (“opponent system”, composto dall’insula e la corteccia dorso mediana prefrontale) a quello della ricompensa.[/blockquote]

L’ipotesi di lavoro: tutto dipende dal contesto

I ricercatori hanno ipotizzato che una soluzione dei due problemi possa venire considerando la contestualizzazione del valore, in altre parole dalla capacità del cervello di contestualizzare le opzioni di scelta, cioè di valutarle in modo relativo alle altre opzioni presenti nel contesto decisionale. Quindi, per esempio, una perdita minore in un contesto di perdite potrebbe essere considerata come un risultato positivo, alla stregua di una ricompensa. Inoltre [blockquote style=”1″]risultati divergenti di studi di risonanza magnetica funzionale relativi alle differenze tra apprendimento per ricompensa vs. apprendimento per punizione potrebbero essere riconciliati dal fatto che in assenza di informazione contestuale, la punizione e le ricompense potrebbero essere computate da due sistemi separati; mentre, in seguito all’ acquisizione dell’informazione contestuale (cioè l’identificazione chiara del contesto di scelta) la rappresentazione del valore assegnato ad ogni opzione di scelta convergerebbe su un unico sistema composto dalla corteccia frontale e dallo striato.[/blockquote]

Lo studio

Nel corso dell’esperimento, partecipanti sani sono stati sottoposti alla risonanza magnetica funzionale durante un compito comportamentale di apprendimento, riguardante una serie di scelte tra due opzioni (due simboli che indicavano due slot machines, un compito chiamato in inglese: two-armed bandit), in cui una delle due opzioni è migliore rispetto all’altra, e seguito da un compito di verifica dell’apprendimento dei valori di ogni opzione di scelta.

Nel contesto delle ricompense, con l’opzione migliore si poteva vincere 0.5€ il 75% delle volte o altrimenti ottenere 0€ e con l’altra opzione si vinceva 0.5€ solo il 25% delle volte; mentre nel contesto delle punizioni, con l’opzione migliore si perdeva -0.5€ il 25% delle volte e 75% si otteneva 0€ e con l’opzione più sfavorevole si perdeva -0.5€ il 75% e 0€ per il 25% delle volte in cui si sceglieva tale opzione.
Il compito presentava due caratteristiche fondamentali: in primo luogo il compito confrontava l’apprendimento per ricompensa (in cui i risultati possibili erano 0.5€ o 0€) con quello per punizione (in cui i risultati possibili erano -0.5€ o 0€); in secondo luogo, in contesti di scelta specifici, venivano presentati i risultati dell’opzione scelta e di quella rifiutata, questo per indurre una valutazione relativa del risultato ottenuto con quello che si sarebbe potuto ottenere con la scelta alternativa (outcome controfattuale). Questa procedura sperimentale (cioè il confronto tra informazione parziale e informazione completa) è stata introdotta per indurre l’apprendimento del valore medio del contesto di scelta (cioè il valore del contesto, “context value”).

Risultati: dall’insula allo striato

[blockquote style=”1″]Abbiamo trovato evidenza comportamentale e neuronale coerente con l’idea che presentare sia il risultato dell’opzione scelta sia quello dell’opzione non scelta (outcome controfattuale) favorisca l’apprendimento di un “reference point” specifico del contesto[/blockquote] hanno spiegato il responsabile dello studio Giorgio Coricelli e il primo autore dello studio Stefano Palminteri dell’Institute of Cognitive Neuroscience (ICN) dell’University College London (UCL). [blockquote style=”1″]A conferma delle predizioni del nostro modello computazionale dei valori relativi, i risultati comportamentali illustrano come i partecipanti abbiano imparato ugualmente bene nei contesti di ricompense o punizioni. [/blockquote]

Inoltre, il circuito che elabora l’esito della nostra scelta cambia e diventa quello della ricompensa perché, anche se di fatto non vinciamo, non perdiamo tanto quanto avremmo potuto. Inoltre, i dati di risonanza hanno permesso di riconciliare dati sperimentali di studi precedenti che erano considerati contraddittori. [blockquote style=”1″] Infatti, l’aumento osservato della discriminazione tra i due contesti (di ricompense e di punizioni) nella condizione di informazione completa si è visto essere associato ad uno spostamento dell’elaborazione neuronale dell’outcome negativo (i.e. punizione) dall’insula verso lo striato ventrale, a dimostrazione della codifica della punizione e delle ricompense nella stessa struttura neuronale.[/blockquote]
Quindi il cervello è in grado di contestualizzare le opzioni di scelta e di utilizzare efficientemente un’unica procedura di apprendimento sia nel contesto delle ricompense che in quello delle punizioni.

 

GIORGIO CORICELLI
Giorgio Coricelli è professore associato in Economia e Psicologia presso la University of Southern California a Los Angeles e professore ordinario del Centro Interdipartimentale Mente/Cervello (CIMeC) dell’Università degli Studi di Trento, dove è responsabile di un progetto di ricerca Europeo (ERC), un consolidator grant di quasi 2 milioni di euro dal titolo “Transfer learning within and between brains”. Il professor Coricelli si occupa di neuroeconomia, un approccio multidisciplinare (economia, psicologia e neuroscienza) allo studio del comportamento economico. La sua ricerca riguarda il ruolo delle emozioni, come il rimpianto, e dei processi cognitivi in contesti di scelte individuali e sociali. I sui studi sono stati pubblicati in importanti riviste internazionali come Science, Nature Neuroscience e PNAS.

Il professor Giorgio Coricelli si trova a Los Angeles per lavoro ed è disponibile unicamente via mail [email protected] o via skype giorgiocoricelli.

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L’alessitimia come disturbo della regolazione affettiva e sua origine

Giorgia Di Fabio

Esistono persone che hanno una profonda difficoltà nel contattare le proprie emozioni, nel riconoscerele e metterle in parole; non si tratta di persone ‘semplicemente fredde o riservate ma di persone che soffrono di una sindrome detta Alessitimia (dal greco a-:  mancanza, lexis: parola e thymos: emozione; letteralmente non avere le parole per le emozioni).

Il concetto di regolazione affettiva è recentemente entrato in forma compiuta nella ricerca sulle emozioni, tuttavia sin dalla teoria psicoanalitica emerge il concetto dell’esigenza di una struttura matura che sappia dare forma, controllare e regolare il magma emozionale dell’uomo e allo stesso tempo permetta l’espressione di un qualcosa di primitivo e grezzo in origine.

Le emozioni si presentano a tre dimensioni: fisiologica, motorio-comportamentale e cognitivo-esperenziale e si esprimono attraverso una forma di comunicazione interpersonale molto complessa.

Il soggetto alessitimico risulta carente soprattutto nella componente cognitivo-esperenziale e nella comunicazione interpersonale dell’emozione: i livelli fisiologico e motorio-comportamentale rimangono privi di una regolazione cosciente, cognitiva, verbale a livello individuale, inoltre sono deficitari della possibilità di usare i rapporti interpersonali nella regolazione affettiva ed è soprattutto questa carenza di condivisione sociale che impedisce di identificare le emozioni: l’alessitimia viene dunque ad essere concettualizzata come un disturbo della regolazione affettiva (Taylor e al., 1991).

La maggior parte delle teorie di orientamento psicoanalitico più recenti sostengono che la regolazione, il contenimento di esperienze primitive, avvengano nei primissimi anni di vita del bambino all’interno del rapporto con l’accudente primario (Bion 1962, Winnicott, 1965, Kohut, 1976; Bowlby, 1989; Main, & al. 1985).

Il filone dell’Infant Reserch ha poi posto l’accento sulla specificità della regolazione reciproca madre-bambino: non solo il caregiver regola gli stati emotivi primitivi del bambino, ma viceversa i segnali affettivi provenienti dal bambino regolano l’affettività e il comportamento della madre (Stern, 1984,1985; Emde e al. 1991) ponendosi in parallelo col concetto di sintonizzazione.

Bion (1962) evidenziava il bisogno che le protoemozioni, sensazioni primitive prive di elaborazioni significanti (gli elementi β) derivati dall’esperienza, venissero trasformati, attraverso la funzione α, in rappresentazioni mentali di emozioni, sogni, fantasie, pensieri coscienti (elementi α), metabolizzati attraverso il contenimento (la funzione di reverie) della madre perché potessero emergere come rappresentazioni mentali del mondo interno del bambino, altrimenti in qualità di elementi β, indigeriti, non sarebbero pensabili ed evacuate come cose attraverso il corpo e la sensorialità o tramite l’azione.

Il modello bioniano aiuta a comprendere anche perché un soggetto alessitimico possa arrivare a piangere senza capirne il motivo: il pianto può avere due funzioni molto diverse, quella di esprimere un’emozione quindi come tale percepita e vissuta, e quella di evacuare una cosa dolorosa di cui in realtà non si conosce origine e significato (elemento beta).

Nella concettualizzazione di Bion lo sviluppo della funzione alfa nel rapporto di accudimento, che poi verrà gradualmente interiorizzata dal bambino, collega il concetto di regolazione/disregolazione affettiva con quello di un disturbo della relazione con l’oggetto regolatore e in tal senso Bion anticipa, e in parte vi si pone in parallelo, la posizione di Winnicott (1965) sull’origine e sulla natura della capacità di regolazione affettiva del bambino a proposito del concetto di holding e poi di oggetto transizionale come fase intermedia dell’interiorizzazione della regolazione.

In Kohut (1976) la regolazione affettiva si realizza nel rapporto con l’oggetto-sé e la possibilità di acquisire questa regolazione si verifica mediante l’interorizzazione trasmutante pur restando necessario il rispecchiamento con oggetti-sé maturi.

Grotstein & al. (1997) attribuisce alla buona riuscita o meno della regolazione affettiva e fisiologica, realizzata inizialmente nella reciprocità dello scambio tra il soggetto accudente e il bambino e poi in via autonoma, i fondamenti della salute e della patologia di un individuo; i disturbi psicofisici sono considerati, allora, come carenze di tale regolazione dell’organismo e le stesse pulsioni della teoria psicoanalitica vengono così interpretati alla luce del tentativo di ripristinare tale regolazione affettivo-fisiologica ottimale.

Grotstein (1986) sostiene che una carenza di contenimento, di sintonizzazione, un disturbo comunque nelle relazioni primarie, farebbe sì che l’emozione rimanga ad uno stadio estremamente primitivo e pericoloso: per evitare di essere travolto da una valanga di emozioni ingestibili, il soggetto alessitimico metterebbe in atto meccanismi difensivi massicci contro l’affettività. Soggetti con elevati livello di alessitimia possono presentare sia un’espressione emotiva scarsa che un’espressione emotiva esagerata, non calibrata rispetto alle circostanze: questa sarebbe la differenza tra emozione elaborata ed emozione non elaborata come per l’ansia ed il panico, con valore adattivo la prima, immediato e terrificante il secondo.

Infine Fonagy e coll. (1991) ritengono che la capacità di regolazione affettiva sia indispensabile allo sviluppo della teoria della mente ovvero il modo in cui ciascuno di rappresenta il funzionamento mentale proprio ed altrui e reciprocamente considera la capacità di rappresentare mentalmente un’emozione come fondamentale per evitare che l’emozione stessa diventi dilagante, annientante. Entrambe le due capacità risultano gravemente danneggiate se il soggetto è stato sottoposto ad esperienze traumatiche, specie se prolungate (Fonagy & Target, 1996).

Per quanto concerne la riflessione sulle cause e sulle origini del disturbo, si pensa che nell’eziologia dell’alessitimia siano in gioco diversi fattori, tra cui: le variabili socioculturali (vedi la maggior prevalenza nei maschi e nei ceti svantaggiati), i deficit neurobiologici, le variazioni nell’organizzazione cerebrale (ad esempio una disfunzione dell’emisfero destro – tradizionalmente connesso alla neurobiologia delle emozioni o un deficit del trasferimento interemisferico). In particolare è stata messa in luce l’influenza critica, estremamente significativa, delle prime esperienze relazionali e di attaccamento.

Studi osservativi condotti su neonati nell’interazione con il loro caregiver principale (solitamente la madre), mostrano che nel bambino è rintracciabile, fin dai suoi primi mesi di vita, un’attività comunicativa centrata sull’espressione delle emozioni (Crugnola & Baioni, 2002). Se è quindi dimostrata la presenza di emozioni innate di base, espresse fin dall’inizio dal punto di vista comportamentale e fisiologico, l’aspetto soggettivo-esperenziale delle emozioni di base e le emozioni più complesse (amore, vergogna, invidia, orgoglio, colpa) si sviluppano durante la prima infanzia.

Quelli che nel neonato sono stati indifferenziati di soddisfazione e disagio, pian piano si differenziano in una complessa gamma di emozioni specifiche e conoscono una progressiva desomatizzazione: le acquisizioni, nel secondo anno di vita, della capacità rappresentativa e del linguaggio hanno un impatto fondamentale nella sviluppo della consapevolezza emotiva soggettiva e nella capacità di identificare e regolare gli affetti, sia a livello intrapersonale che nelle relazioni con gli altri.

La madre ha, secondo la concezione di Bion (1962) un ruolo di contenitore, cioè ha la funzione di assorbire, contenere, elaborare e interpretare gli stati affettivi del suo bambino, soprattutto quelli disturbanti (Taylor & al., 2000); laddove questa funzione di contenitore e regolatore fallisce, il bambino (e poi l’adulto) sviluppa un contenitore interno difettoso, le emozioni non sono trasformate in rappresentazioni mentali e oggetti di pensiero, ma rimangono a livello di percezioni, sensazioni, impulsi all’azione (di qui l’alto rischio di disturbi psicosomatici).

Tutte queste riflessioni hanno una rilevanza particolare per il costrutto di alessitimia, in quanto forniscono una concettualizzazione originale e interessante dell’importanza evolutiva delle primissime relazioni di attaccamento, in cui il soggetto impara a regolare non solo il suo funzionamento interpersonale, ma anche quello mentale ed emotivo. Grazie ad un legame di attaccamento sicuro e ad una buona sensibilità, responsività e sintonizzazione del caregiver, il bambino impara a utilizzare la valutazione cognitiva per modulare gli affetti e gli affetti per arricchire la cognizione.

Secondo la Teoria dell’Attaccamento (Main & al.,1985) i problemi di inibizione o disregolazione affettiva nascono da stili di attaccamento insicuri; questi si associano con schemi interni e modelli di rappresentazione che riflettono un mancato processo di integrazione delle informazioni affettive con quelle cognitive. In particolare, il bambino con attaccamento insicuro-evitante (il cui caregiver risulta rifiutante, emotivamente non disponibile e scarsamente espressiva) tende a sviluppare dei problemi di riconoscimento ed espressione degli affetti e impara a basarsi esclusivamente sulla cognizione; il bambino con attaccamento insicuro-ambivalente (il cui caregiver fornisce risposte affettive incoerenti, fuorvianti, non prevedibili) non sviluppa la capacità di usare la cognizione per modulare gli affetti e funziona sulla base di affetti non regolati.

In conclusione, quello dell’alessitimia e più in generale dei problemi della regolazione affettiva, è un argomento importante in quanto fornisce una nuova chiave di lettura del disagio psichico (come conseguenza di un deficit dello sviluppo affettivo), e mette in luce la necessità di rivedere i classici modelli concettuali psicoanalitici (basati sulla concezione del sintomo come manifestazione di conflitti intrapsichici irrisolti); approfondisce e problematizza l’importante influenza dei legami di attaccamento sul funzionamento della mente nel corso dell’intero ciclo vitale; sottolinea la connessione intima e quasi indissolubile esistente tra affetti e cognizione, e come le emozioni, anche se radicate nella biologia, includano una fondamentale dimensione cognitiva e soggettivo/esperienziale.

 

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Trauma e memoria: il misinformation effect

Ilenia La Rocca, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

La memoria può generare una vera e propria ricostruzione del ricordo quando influenzata da differenti fattori di tipo cognitivo, emotivo e motivazionale. Gli studi condotti nell’ambito della memoria autobiografica dimostrano, infatti, il ruolo centrale esercitato dall’emozione sulla memoria e la direzione di tale influenza vede generalmente far corrispondere ad un aumento dell’intensità emotiva una maggiore vividezza del ricordo.

Nella vita quotidiana raramente ci possiamo aspettare di avere accesso, dopo alcuni anni, all’originale della nostra percezione o esperienza passata. Molto spesso, infatti, la memoria non è la semplice riproposizione di una percezione antica bensì il resoconto di un’esperienza, ovvero il risultato di una ricerca di significato che apporta un “valore aggiunto” all’accadimento originale, creato dalla nostra reinterpretazione soggettiva (Jedlowski, 1994).

Tre sono le fonti di distorsione del ricordo:
1. Interne, cioè legate esclusivamente alle caratteristiche dell’osservatore;
2. Esterne, quando le informazioni successive all’evento incidono sulla fissazione del ricordo del soggetto;
3. Relazionali, cioè nella testimonianza la rievocazione può essere influenzata da aspetti relazionali e comunicativi con l’interlocutore.

La memoria, dunque, può generare una vera e propria ricostruzione del ricordo quando influenzata da differenti fattori di tipo cognitivo, emotivo e motivazionale. Gli studi condotti nell’ambito della memoria autobiografica dimostrano, infatti, il ruolo centrale esercitato dall’emozione sulla memoria e la direzione di tale influenza vede generalmente far corrispondere ad un aumento dell’intensità emotiva una maggiore vividezza del ricordo.

La letteratura descrive delle tipologie di ricordi che si formano in condizioni di alta attivazione emozionale: ricordi emozionali (Reisberg, Heuer, 1992), ricordi vividi (Rubin, Kozin, 1984), ricordi traumatici (Christianson, Loftus, 1987) e ricordi fotografici (Brown, Kulik, 1977). Una serie di studi conferma che i ricordi di esperienze traumatiche si presentano vividi, ricchi di dettagli centrali e alquanto stabili nel tempo.

Tuttavia si potrebbero anche generare dei falsi ricordi, distorsioni della memoria che vengono create quando le persone qualche volta sviluppano una serie di ricordi vividi e dettagliati di eventi che non hanno mai esperito; oppure, le persone confondono gli eventi che si sono verificati prima o dopo l’evento target con l’evento stesso (Gallo e Roediger, 2004; Loftus, 2003; Scarry e Schacter, 2000).

A volte ci si riferisce ad essi come pseudo – memoria o ricordi illusori. Diversamente dal mentire, le persone che hanno dei falsi ricordi credono in buona fede che gli eventi non esperiti si siano verificati. Dal 1970 c’è stato un enorme interesse per gli studi empirici sui falsi ricordi (McDaniel e Roediger, 2007). Oggi la ricerca sui falsi ricordi è applicativa in diversi ambiti, come l’accuratezza e l’attendibilità della memoria del testimone nel setting legale; l’autenticità della memoria dei bambini abusati; i cambiamenti nell’atteggiamento e nel comportamento causati dai falsi ricordi; le tecniche di suggestione in marketing e nella pubblicità; la scoperta della pseudo – memoria indotta dall’ipnosi o dall’interpretazione del sogno nella psicoterapia (Cahill e Loftus, 2007).

Molti ricercatori hanno proposto delle teorie sulla natura dei falsi ricordi, come quella del monitoraggio della fonte, la fuzzy – trace theory, la teoria della memoria costruttiva, la fluency – misattribution perspective, l’activation – monitoring account (Brainerd e Reyna, 2005; Gallo, 2006; Mecklenbrauker e Steffens, 2007). I falsi ricordi sono stati creati nei setting sperimentali usando una varietà di paradigmi.

Tra questi, il misinformation method (creando ricordi di dettagli di eventi passati che non si sono verificati) (Loftus, 2003), il Deese – Roediger – McDermott (DRM) paradigm (creando falsi ricordi di parole che non erano state presentate) (McDermott e Roediger, 1995), e il rich false memory approach (“impiantando” interamente falsi ricordi di eventi che non sono mai avvenuti) (Loftus, 2005).

Tra questi, il misinformation e il DRM paradigm sono usati maggiormente. Il classico misinformation paradigm include tre fasi standard: l’aver esperito un evento, l’aver ricevuto la misinformation dopo l’evento e l’esser testati sul ricordo dell’evento (Loftus, 2005). Anche se diversi paradigmi possono tutti indurre falsi ricordi, ci sono controversie circa la natura di alcuni falsi ricordi (Lam e Pezdek, 2007; Wade et al., 2007) e circa la possibilità che i processi che portano alla formazione dei falsi ricordi siano simili nei vari paradigmi.

Alfred Binet, divenuto famoso come il creatore (assieme a Theodore Simon) del primo test di intelligenza di successo (Fancher, 1985), è stato uno dei principali studiosi del misinformation effect sulla memoria. Il misinformation effect corrisponde all’introduzione di un’informazione inaccurata nella propria rievocazione e, in ambito legale, alle conseguenze sulla testimonianza delle informazioni post – evento acquisite dal testimone attraverso i colloqui con agenti di polizia, gli interrogatori precedenti o le discussioni informali con amici e parenti.

Dunque, il post – event misinformation effect non è altro che l’effetto sul ricordo di un’informazione fuorviante fornita dopo l’evento (Loftus, 2005). Questo effetto può avvenire in situazioni sociali (Brainerd e Reyna, 2005; Ercolin e Gulotta, 2004; Gabbert et al., 2004; Justice, Self e Wright, 2000) e non sociali (Lindsay, 1990; Loftus e Palmer, 1974).

 

 

Studi pioneristici condotti da Loftus (Burns, Loftus e Miller, 1978) hanno messo in luce come i ricordi riportati dai testimoni oculari siano facilmente modificabili ed influenzati dall’esposizione, in seguito all’evento, ad informazioni scorrette (post – event misinformation effect). In un classico studio condotto da Burns, Loftus e Miller (1978), ai partecipanti veniva mostrato un filmato che riguardava un incidente stradale avvenuto nei pressi di un segnale di stop, in seguito venivano poste diverse domande sull’evento. Tra queste, una si riferiva erroneamente ad un segnale di precedenza anziché al segnale di stop (leading questions). Quando successivamente veniva chiesto ai partecipanti se avessero visto un segnale di stop o un segnale di precedenza nei pressi dell’incidente stradale, quelli che avevano ricevuto l’informazione scorretta tendevano a rispondere in maniera sbagliata più frequentemente dei partecipanti del gruppo di controllo. A partire da questo paradigma, una serie di studi ha dimostrato come le informazioni a cui l’individuo inevitabilmente è esposto dopo aver vissuto un evento emozionale possono modificare il ricordo rendendolo meno accurato e, di conseguenza, meno attendibile (Loftus, 1980).

Diversi studi di laboratorio hanno cercato di analizzare i meccanismi che portano a modificare i ricordi. Un interessante studio è stato condotto da Crombag, Van Koppen e Wagenaar (1996) in merito allo scontro avvenuto tra un Boeing 747 e un palazzo di undici piani, ad Amsterdam nell’ottobre del 1992. La televisione olandese riportò tutti i momenti dell’evento ma non trasmise alcuna immagine del momento dello schianto. I telegiornali riportarono la notizia del disastro per alcuni giorni. La ricerca, tesa a sondare il ricordo del terribile evento, evidenziò che 61 dei 93 studenti che parteciparono all’esperimento risposero in modo affermativo alla domanda: “Hai visto in televisione il filmato del momento in cui l’aereo ha colpito il palazzo?”. Tale domanda in realtà conteneva una falsa informazione, ovvero che il filmato dello schianto fosse stato mostrato in televisione; inoltre, molti testimoni fornirono numerosi dettagli dell’inesistente video dell’impatto dell’aereo.

Sono state elaborate numerose teorie sugli effetti del misinformation, basate sul ricordo di stimoli neutri o lievemente stressanti. Quando un evento è molto stressante l’aspetto principalmente stressante (stressor) è quello più ricordato a causa dei processi e degli innalzati processi di attenzione e della più rilevante prova e ampio consolidamento. Molti studi teorici ed empirici confermano che l’informazione centrale che elicita reazioni emozionali fortemente negative tendono a essere conservate con particolare accuratezza (Bahrick, Fivush, Goldberg, Parker e Sales, 2004; Berntsen e Thomsen, 2005; Christianson e Hubinette, 1993).

Gli studi sull’attivazione dell’amigdala supportano alcuni di questi risultati (Cahill e McGaugh, 2003; LeDoux, 2000; Phelps, 2006). Al contrario, relativamente a eventi non stressanti, i dettagli periferici dello stressor sono ricordati spesso in modo meno accurato rispetto ai dettagli degli eventi neutrali (Burke, Heuer e Reisberg, 1992; Burns e Loftus, 1982; Brown, 2003; Goodman e Paz-Alonso, 2006). Comunque, Bornstein, Deffenbacher, McGorty e Penrod (2004) sostengono che questi studi non hanno incluso eventi traumatici tali da produrre una reazione difensiva per poter interferire con la memoria (ad esempio un pericolo di vita).

Pertanto un ricordo particolarmente accurato dell’informazione centrale rispetto a quella periferica priva di eventi stressanti non è necessariamente un fenomeno stabile o generalmente accettato (Merckelbach, Van der Kooy e Wessel, 2000). Oltretutto, la valenza e la stimolazione possono corrispondere a diversi processi neurali distinti tra loro. Ciononostante, informazioni con valenza negativa anche se non stimolanti (emotivamente), sono ricordati meglio di quelle neutrali (Corkin e Kensinger, 2004a, 2004b).

Il dibattito sul distress (angoscia, pena) e sulla memoria è rilevante nel momento in cui ci si chiede se eventi traumatici e stressanti sono immuni da effetti di misinformation. In particolare, se caratteristiche focali di eventi altamente negativi sono ricordate con particolare accuratezza potrebbero essere resistenti al misinformation effect post – evento specialmente dopo un intervallo temporale breve dall’evento al momento della sollecitazione del ricordo (ad esempio con un test). I pochi studi che hanno esaminato gli effetti del misinformation sulla memoria di alcuni eventi hanno preso in considerazione “incidenti pubblici” che poi sono diventati oggetto di principale discussione e dibattito dei media.

Ad esempio, Bernstein, Loftus e Nourkova (2004) hanno sperimentato se sia possibile contaminare, a livello sperimentale, il ricordo di eventi traumatici. Nel loro studio, degli adulti russi hanno riportato il loro ricordo sia sui bombardamenti terroristici del 1999 alle costruzioni di Mosca sia sugli attacchi del World Trade Center (WTC) di New York del 2001. Dopo sei mesi hanno ricordato separatamente gli eventi sopra descritti. Sul secondo evento ricordato i ricercatori hanno fornito delle informazioni sbagliate indicando che i partecipanti avevano visto un animale ferito negli attacchi al WTC e l’ hanno menzionato nei loro report iniziali. Circa il 13% di coloro che erano stati testati sull’episodio di Mosca avevano accettato l’informazione fuorviante. Questo gruppo ha soppesato la significatività personale dei bombardamenti terroristici di Mosca come più rispetto a coloro che avevano resistito alla suggestione. Al contrario, nessuno di quelli che fu interrogato sull’evento al WTC fu suggestionato dall’influenza ricevuta (probabilmente era meno plausibile immaginare un animale ferito durante gli attacchi al WTC rispetto al bombardamento di Mosca), (Hodge e Pezdek, 1999; Kirsch, Mazzoni, Relyea e Scoboria, 2004).

Sebbene queste ricerche supportino l’idea che il ricordo di eventi traumatici sia a volte malleabile e influenzabile, la domanda sulla misinformation (il ricordo di informazioni sbagliate) post – evento traumatica fu sicuramente più focalizzata sul ricordo precedente all’evento dei partecipanti al test piuttosto che all’evento traumatico di per sé. In un altro studio relativo agli effetti della misinformation, Birt, Porter e Spencer (2003) hanno presentato fotografie raffiguranti adulti che esprimevano emozioni altamente positive o negative o neutrali seguiti da un test di memoria dopo un intervallo temporale di un’ora. Non furono evidenziate significative differenze tra le varie condizioni emotive sul ricordo corretto nonostante la misinformation. La misinformation ha mostrato un effetto negativo sulla memoria di dettagli periferici fuorvianti rispetto ai dettagli centrali. Comunque, per quanto riguarda la falsa informazione sul ricordo della presenza di un animale ferito nella scena (incidente a WTC o attacco a Mosca) l’emozione negativa fu associata con suscettibilità più frequente/più crescente alla informazione fuorviante. Questi studi indicano che la memoria di eventi stressanti può essere contaminata dalla misinformation. Ciononostante, la maggior parte degli studi ha enfatizzato come non ci siano differenze tra le informazioni centrali e periferiche.

 

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Fulvio Giardina eletto membro del Comitato Scientifico sulle tematiche LGBT- Comunicato stampa

Il presidente del Cnop, Fulvio Giardina, eletto membro nel Comitato Scientifico sulle tematiche LGBT presso il dipartimento delle Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri

Roma, 5 agosto 2015 – Il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, Fulvio Giardina, è stato nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, membro del Comitato scientifico sulle tematiche LGBT. Il Comitato avrà il compito di fornire una validazione scientifica dei contenuti del Portale LGBT, favorendo il confronto, lo scambio e la divulgazione delle conoscenze e dei saperi scientifici delle tematiche LGBT.

L’idea di creare uno staff di lavoro su questi argomenti è nata dopo l’istituzione del Portale, con il quale si intende prevenire le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, assicurare una corretta informazione, affidabile e scientifica.

Il progetto è stato lanciato dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dall’ Unar, Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, e dal Comune di Torino. [blockquote style=”1″]L’obiettivo è quello di abbattere i pregiudizi e le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale attraverso la conoscenza. Il Portale, infatti, offre a tutti un patrimonio internazionale fatto di ricerche, articoli, banche dati, video e interviste sull’identità di genere[/blockquote] afferma il presidente Giardina.

Il Comitato scientifico composto da esperti di elevata qualifica professionale e esperienza sul campo dei diritti, della cultura e delle scienze nell’ambito delle tematiche LGBT lavorerà anche per stimolare l’opinione pubblica alla conoscenza dell’argomento, allontanando pregiudizi e discriminazioni che purtroppo, ancora, sono all’ordine del giorno.

Dopo l’estate ci saranno altre novità in tal senso. Il presidente Giardina ha infatti annunciato una iniziativa che coinvolgerà accademici, professionisti, associazioni e istituzioni che lavoreranno per coinvolgere anche i cittadini in un percorso di conoscenza e diritti. Perché dietro ogni diritto negato c’è l’individuo. E, perciò, il ruolo delle Pubbliche amministrazioni deve essere quello di garantire a tutti la possibilità di vivere con libertà la propria vita.

Il Comitato scientifico che cura anche il Portale è composto, oltre che dal presidente del Cnop, Fulvio Giardina, anche dallo scienziato Umberto Veronesi, dal magistrato Francesco Crisafulli, dal giurista Stefano Rodotà, dai professori, Marilisa D’Amico, Nicla Vassallo, Giovanni Bachelet, Maurizio Calipari, Giuseppina De Simone, Vittorio Lingiardi, Sebastiano Maffettone e Maria Michela Marzano, dal teologo Vito Mancuso, dal presidente dell’IPA (International Psychoanalytical Association), Stefano Bolognini, dal professor Aldo Morrone, dalla sociologa Chiara Sacco, dal Garante nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, Vincenzo Spadafora, dal prefetto, Fulvio Della Rocca.

L’Ufficio stampa CNOP

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Nuovo trattamento per la depressione grave: alta efficacia e minori effetti collaterali cognitivi

Irene Rossi

 

Una nuova ricerca della UNSW (University of New South Wales) ha rilevato che una stimolazione ad impulsi ultra-brevi è quasi altrettanto efficace della TEC standard, ma con molti meno effetti collaterali cognitivi.

La Terapia Elettro Convulsiva (TEC) rimane a tutt’oggi uno dei trattamenti più efficaci per la depressione grave resistente alla terapia farmacologica, nonostante determini spesso effetti collaterali a livello cognitivo.

Una nuova ricerca della UNSW (University of New South Wales) ha rilevato che una stimolazione ad impulsi ultra-brevi è quasi altrettanto efficace della TEC standard, ma con molti meno effetti collaterali cognitivi.

Lo studio, pubblicato pochi giorni fa su The Journal of Clinical Psychiatry costituisce la prima revisione sistematica che è andata ad esaminare e confrontare l’efficacia e gli effetti collaterali sul funzionamento cognitivo del trattamento TEC standard, che prevede una stimolazione ad impulsi brevi, rispetto al più recente trattamento, conosciuto come TEC ad impulso ultra-breve unilaterale destro.

La TEC standard rilascia, mediante elettrodi applicati sullo scalpo, una corrente elettrica altamente controllata sulla corteccia prefrontale del cervello, che risulta ipoattivata nelle persone che soffrono di depressione. La stimolazione ultra-breve rilascia impulsi di elettricità con una durata più breve di quella standard e separati da delle piccole pause, in questo modo la stimolazione del tessuto cerebrale viene ridotta di un terzo rispetto alla stimolazione standard.

La ricerca in oggetto arriva in letteratura dopo una serie di prove che hanno portato a risultati contrastanti e permette di far luce sulle potenzialità di questo nuovo trattamento. Sono stati comparati sei studi internazionali sulla TEC, analizzando i dati di 689 pazienti con età media di 50 anni.

In questo modo è stato trovato che la TEC standard è leggermente più efficace per il trattamento della depressione richiedendo quindi in media una seduta in meno di trattamento rispetto alla terapia ad impulsi ultra-brevi. Tuttavia questi vantaggi hanno come rovescio della medaglia una maggior incidenza di effetti collaterali sul versante cognitivo, in particolare sulle funzioni mnestiche.

La stimolazione ultra-breve invece diminuisce significativamente il rischio potenziale di distruzione delle memorie formate prima del trattamento ed è efficace quasi allo stesso livello della TEC standard. Per questo motivo questo nuovo trattamento, che si sta gradualmente inserendo nella pratica clinica in Australia, costituisce uno dei più significativi sviluppi nel trattamento clinico della depressione severa degli ultimi 20 anni. È stato stimato che più di 10.000 Australiani che soffrono di depressione, e non sono responsivi alla terapia farmacologica, potrebbero beneficiare di questo nuovo trattamento che ad ora è svolto solo in alcune strutture ospedaliere.

Nonostante i benefici della stimolazione ultra-breve siano significativi, gli autori dello studio sottolineano come la TEC standard non possa essere accantonata, anzi debba sicuramente esse considerata come via terapeutica nei casi che richiedono una risposta più veloce al trattamento a causa di condizioni di urgenza ed emergenza.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Addio a Oliver Sacks: il neurologo con la sensibilità dello scrittore

Una notizia improvvisa, il 30 agosto 2015, ha colpito la comunità scientifica e non solo: Oliver Sacks è morto per una grave forma di cancro.

La notizia, seppur improvvisa, non può dirsi inaspettata: lo stesso Sacks aveva annunciato in una sua lettera, pubblicata sul New York Times a febbraio, di aver scoperto la sua malattia e di dover scegliere il modo migliore in cui vivere i suoi ultimi mesi di vita.

Oliver Sacks è stato un neurologo e scrittore, ha lavorato come professore di Neurologia e Psichiatria presso importanti Università, quali la Columbia University e la New York University School of Medicine. Ha dedicato gran parte del suo lavoro allo studio di particolari condizioni neurologiche e psichiatriche (fino a battersi per favorire una maggiore conoscenza delle sindromi di Tourette e di Asperger nel panorama scientifico e non solo).

Oliver Sacks ha manifestato una grande dedizione nel lavoro e nella ricerca sulle encefaliti letargiche e nella cura di pazienti con lesioni cerebrali, ed è proprio di questi che racconta, nel 1985, in una delle sue opere più importanti e più conosciute: L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello.

Grazie alle sue risapute doti di scrittore, attraverso il racconto di alcuni casi clinici seguiti, egli pone l’attenzione sul paziente e sul tentativo di quest’ultimo di conservare la sua identità, nonostante la malattia.

Altra pietra miliare dei suoi scritti è il saggio del 1973 Risvegli, raccolta di riflessioni e osservazioni personali nate dalla sua attività professionale svolta presso una struttura che ospitava pazienti in lungodegenza, affetti da patologie neurologiche, da cui è stato tratto l’omonimo film con Robin Williams e Robert De Niro.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO DEL TRAILER:

Il tatto con cui Sacks scrive della malattia mentale, l’empatia e l’ironia che usa per descrivere l’altro in quanto persona prima che paziente, sono il riflesso di un professionista che ha svolto il suo lavoro con rispetto per la sofferenza altrui e con una sensibiità riconosciutagli da tutti i suoi pazienti e colleghi.

Forse ‘merito’ della storia personale di Sacks: un fratello schizofrenico e l’aver sofferto in prima persona di prosopoagnosia, hanno portato il neurologo a sentirsi più vicino alla realtà di chi soffre. Sacks ha inoltre fondato un’associazione non profit, impegnata nel migliorare la comprensione del cervello umano e della mente attraverso il potere della narrativa non fiction e dei casi di studio, mission della Fondazione era ridurre lo stigma della malattia mentale e neurologica, supportando un approccio umano alla neurologia e alla psichiatria.

La morte è giunta improvvisa, dunque, ma non inaspettata: eppure per chi conosceva e seguiva Sacks, le sue opere, la sua professionalità, è stato difficile prepararsi a una notizia del genere. Egli ha scritto:

Non riesco a fingere di non avere paura, ma il sentimento predominante è la gratitudine: sono stato un essere senziente, un animale pensante, su questo splendido pianeta, e questo è stato un privilegio e un’avventura.

Eppure, oggi, ciò che viene spontaneo scrivere è come sia stato un privilegio per questo splendido pianeta avere un animale pensante come te.

 

Di seguito, la raccolta degli omaggi delle maggiori testate giornalistiche resi al Neurologo:

Sacks è stato soprattutto apprezzato per la sua attività divulgativa, tanto da essere spesso definito un ‘poeta’ della medicina moderna. I suoi libri, molti diventati bestseller, generalmente erano scritti in forma di aneddoti: i suoi pazienti più famosi sono quelli descritti nel libro ‘Risvegli’, pubblicato nel 1973 e successivamente adattato in un film di Penny Marshall, candidato all’Oscar.

da Il Post: E’ morto Oliver Sacks

 

A dispetto di una serie disparata di problemi medici e chirurgici che includevano un cancro allora superato, gravi problemi di vista e alle ossa, Sacks scriveva di essere ‘felice di essere vivo’. Felice ‘di aver provato tante cose – alcune meravigliose, altre orribili – di aver saputo scrivere decine di libri e di aver ricevuto innumerevoli lettere da amici, colleghi e lettori. Di aver goduto quella che Nathaniel Hawthorne aveva definito ‘una comunione col mondo”.

da Repubblica.it: È morto Oliver Sacks, neurologo e autore di ‘Risvegli’

 

…si considerava «un naturalista o un esploratore» del cervello: così’ aveva scritto lui stesso in «Su Una Gamba Sola» … Attirando l’attenzione su sindromi fino ad allora poco note, l’autismo, Tourette o Asperger, umanizzandole e smitizzandole, Sacks aveva raggiunto un livello di popolarità raro tra i suoi colleghi scienziati

da La Stampa: Addio a Oliver Sacks, il neurologo scrittore

 

Infine l’omaggio video reso dal New York Times, giornale al quale Oliver Sacks ha affidato i pensieri e le riflessioni legati alla malattia da poco diagnosticata:

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L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) di Oliver Sacks – Recensione

Psychiatry’s identity crisis: commento all’articolo di Richard Frieman pubblicato sul New York Times

Non è la prima volta che il New York Times propone ai suoi lettori una riflessione critica sullo stato della psichiatria. Il 17-7-2015 è stato pubblicato un articolo dal titolo Psychiatry’s identity crisis. L’autore è Richard Friedman, psichiatra e psicofarmacologo, docente di Psichiatria Clinica al Weill Cornell Medical College.

La tesi che sostiene è duplice, una riguarda la terapia e l’altra la natura stessa dei disturbi psichiatrici. In primo luogo, Friedman avanza il dubbio che tanti anni di ricerca e enormi investimenti non abbiano prodotto la scoperta di farmaci veramente innovativi rispetto a quelli disponibili già da anni, e nemmeno abbiano identificato le cause neurologiche delle malattie mentali.

Forse, suggerisce Frieman, è arrivato il momento di dare più spazio alla psicoterapia. Le ragioni sono riassumibili in tre. Innanzitutto, per molti disturbi, l’efficacia della psicoterapia, o meglio di alcuni interventi psicoterapici, è maggiore dei farmaci. In secondo luogo, non sembra proprio che disturbi molto diffusi, come i disturbi di personalità, siano curabili con i farmaci, mentre lo sono con la psicoterapia. Infine, scrive Friedman, [blockquote style=”1″]in molti casi non c’è un sostituto per la conoscenza di sé che si ottiene con la psicoterapia. Certamente come psichiatri, possiamo controllare l’ansia del paziente, migliorarne l’umore e schiarire la psicosi con appropriati interventi farmacologici. Ma non c’è una pillola – e forse non ci sarà mai – per molti problemi dolorosi e emotivamente distruttivi, come la rabbia narcisistica o l’ambivalenza paralizzante, solo per citarne due.[/blockquote]

Aggiungerei un’altra considerazione. La ricerca ha certamente approfondito le nostre conoscenze sui meccanismi d’azione farmacologica e ormai disponiamo di nozioni molto raffinate sulle modalità con cui gli psicofarmaci incidono sul sistema nervoso centrale interagendo con i diversi recettori. Tuttavia, appare carente la spiegazione del meccanismo d’azione psicologico degli psicofarmaci. Perché e come un farmaco che, ad esempio, aumenta la serotonina disponibile nel cervello, può migliorare il tono dell’umore, far riprendere gli interessi e aumentare i livelli di motivazione? La depressione maggiore è un fenomeno complesso che si manifesta con sintomi numerosi e diversi fra loro. Altrettanto complessi sono i processi psicologici di mantenimento e aggravamento del disturbo. Su quale di questi fattori e processi incidono le variazioni biochimiche indotte dal farmaco?

Il paziente assume il farmaco antidepressivo e questo aumenta la serotonina disponibile ma quali cambiamenti psicologici, fra i tanti possibili, sono prodotti dall’ aumento della serotonina, e quali di questi, a loro volta, migliorano il quadro clinico complessivo? Qual è il cambiamento psicologico causato dal farmaco? Una risposta possibile, stando ad alcune ricerche (vedi i lavori della Hammer), è che una dose anche minima di serotoninergico orienti l’attenzione verso le informazioni positive e la distolga da quelle negative. Questo fenomeno è osservabile anche nelle persone non depresse. Una risposta, quindi, che sembrerebbe dare ragione al modello cognitivo della depressione di Beck. Tuttavia la ricerca farmacologica segue prevalentemente due direzioni: lo studio degli effetti cerebrali degli psicofarmaci e la misurazione del cambiamento dei sintomi. Le conoscenze degli effetti dei farmaci sui meccanismi psicologici alla base dei singoli disturbi, invece, sono a tutt’oggi poco sviluppate e pertanto non si è in grado di rispondere ad alcune domande piuttosto ovvie: perché, ad esempio, i serotoninergici sono efficaci sia nella depressione sia nel disturbo ossessivo, sia in diversi disturbi d’ansia? Quale effetto psicologico indotto dai farmaci si rivela utile per ridurre sintomatologie così diverse fra loro? Perché l’effetto dei serotoninergici è selettivo sul piano psicologico, ma non lo è su quello neurale? Intendo dire, ad esempio, che i serotoninergici, quando sono efficaci, possono ridurre anche del 70% la paura che un paziente ossessivo ha di aver lasciato il gas aperto e il conseguente investimento in controlli prudenziali. Ma perché non riducono del 70% la paura e la prudenza nei domini non sintomatici, ad esempio la prudenza con cui lo stesso paziente guida l’automobile? Cioè, non si osserva che il paziente ossessivo riduce del 70% il rispetto del codice stradale.

Forse la ricerca farmacologica sarebbe avvantaggiata se tenesse conto dei solidi modelli psicologici prodotti dalla cosiddetta Experimental Psychopathology.

In secondo luogo, Friedman avanza l’idea che, negli ultimi decenni la psichiatria, supportata dalle neuroscienze, sia stata orientata dalla tesi che “The diseases that we treat are diseases of the brain,” come esplicitamente sostenuto nell’editoriale apparso nel numero di maggio dell’influente e prestigioso JAMA Psychiatry. Ciò, secondo Friedman, avrebbe implicato la sottovalutazione del ruolo eziologico dei traumi psicologici precoci, dei maltrattamenti, degli abusi, dell’incuria affettiva, della deriva sociale e della solitudine. Davvero si può pensare ai disturbi psicopatologici più diffusi come a malattie del cervello? Molti dubbi analoghi erano stati sollevati dal Prof Bentall, noto esperto di psicosi, che pochi mesi fa, in occasione del II° Roman Workshop on Experimental Psychopathology, ha esaminato in modo critico la letteratura su cause genetiche ed ambientali della schizofrenia, dimostrando l’importanza cruciale delle esperienze negative sociali ed interpersonali e le carenze delle tesi genetiche della schizofrenia. (La video registrazione della main relation è disponibile nel sito www.apc.it nella sezione Cognitivvù. Nello stesso sito, nel blog, sono disponibili i commenti di Elena Bilotta e di Maurizio Brasini).

Prendendo spunto dall’articolo di Friedman, vorrei ora sollevare alcune questioni teoriche riguardanti la tesi “The diseases that we treat are diseases of the brain”. Le obiezioni a questa tesi, come quelle di Friedman e di Bentall, di solito sono risolte facendo appello al modello biopsicosociale: cause biologiche, psicologiche e sociali interagirebbero nel determinare i disturbi psicopatologici. Non trovo del tutto convincente questa soluzione, pur non potendole negare alcuni meriti diplomatici. Non la trovo del tutto convincente per diverse ragioni. Innanzitutto è banale perché può valere per qualunque fenomeno: anche la tubercolosi è multifattoriale. Per sviluppare la malattia, infatti, serve il bacillo di Koch, un calo delle difese immunitarie, magari facilitato da cause psicologiche, un ambiente sociale degradato, cioè promiscuo e insalubre, ed entra in gioco un fattore genetico: ad esempio, i longilinei sono più a rischio di tubercolosi perché ventilano di meno gli apici polmonari facilitando la permanenza del bacillo di Koch, ed essere longilinei è geneticamente determinato. In secondo luogo, a differenza di quanto accade per la tubercolosi, il modello biopsicosociale, applicato alla psicopatologia, non mette in chiaro i modi dell’interazione fra variabili biologiche, psicologiche e sociali, perché è prevalentemente fondato su correlazioni fra variabili che non consentono di definire la direzione e la qualità dei nessi fra le variabili. Il modello biopsicosociale, poiché privilegia la ricerca basata su correlazioni, non è in grado di differenziare tra cause necessarie e/o sufficienti e semplici fattori di vulnerabilità, e, quindi, può consentire tutt’al più previsioni probabilistiche ma non spiegazioni.

Tuttavia il vero limite della tesi “The diseases that we treat are diseases of the brain” è che si presta ad alcuni equivoci. Due, in particolare, connessi fra loro ma ben distinti. Il primo equivoco riguarda non solo la psichiatria ma anche le neuroscienze nel loro complesso e nasce dall’idea, del tutto condivisibile, che mente e cervello siano la stessa cosa e che parlare di mente e cervello significhi utilizzare due piani di descrizione diversi. Il primo equivoco sorge se si ritiene che assumere la riducibilità della mente al cervello implichi l’inutilità delle descrizioni e delle spiegazioni mentali. Cioè l’idea che la ricerca sul cervello renderà superflua la psicologia. Assumere una posizione materialista, cioè che mente e cervello siano la stessa cosa, non implica assumere che la ricerca sul cervello renderà ragione dei fenomeni mentali soppiantando le spiegazioni psicologiche, che si riveleranno superflue.

Sulla presunzione che le descrizioni mentali siano inutili ci sono, infatti, delle perplessità. La crosta terrestre è indiscutibilmente composta di atomi e, dunque, ogni cambiamento della crosta terrestre è riducibile a un cambiamento dei suoi atomi, la cui dinamica è conoscibile e prevedibile grazie alle leggi della fisica atomica. Ma se il problema è prevedere i terremoti, forse il piano di descrizione della fisica atomica non è il più adatto. Tentare di descrivere, spiegare e prevedere i movimenti della crosta terrestre ricorrendo alle sole leggi della fisica atomica, appare un’impresa a dir poco assai complicata ma soprattutto con il rischio di lasciarsi sfuggire fenomeni che si svolgono ad un livello assai più macroscopico, ad esempio il tempo necessario perché due parti della crosta terrestre arrivino a toccarsi.

Siamo sicuri che la conoscenza del cervello sia il piano ottimale per spiegare, ad esempio, come gli esseri umani traggono inferenze, come calcolano le probabilità di un evento, le condizioni alle quali cambiano opinione, provano vergogna, costruiscono o rompono relazioni? Un’accurata indagine psicologica, ad esempio, può consentire di prevedere e spiegare le specifiche circostanze in cui una persona proverà vergogna e quelle, apparentemente simili, in cui non proverà vergogna. Una indagine neurale può arrivare a tanto? Difficile da credere. Ma ammesso che lo sia, sarebbe vantaggioso o non sarebbe più utile il linguaggio mentalistico?

La questione a mio avviso va ribaltata. La conoscenza del cervello, finalizzata alla spiegazione della mente, dovrebbe essere guidata dalle conoscenze psicologiche. Se non si tiene conto di quanto la ricerca psicologica ci ha fatto capire delle relazioni fra emozioni e processi cognitivi, che senso potremmo dare alle scoperte sulla interazione fra amigdala, corteccia prefrontale e ippocampo?
Certamente la conoscenza del cervello è utile per mettere alla prova ipotesi psicologiche. Ad esempio, si tende a dare per scontato che il senso di colpa sia una emozione unitaria, in realtà la ricerca sul cervello suggerisce la opportunità di distinguere almeno due sensi di colpa, e ci mostra anche che uno dei due è strettamente connesso al disgusto. Ma senza una adeguata analisi psicologica del senso di colpa, che significato potremmo dare ai risultati delle neuroscienze?

Connesso col precedente, ma distinto da esso, è il problema della natura neurologica o psicologica dei disturbi mentali. Ovviamente il problema è empirico, tuttavia alcuni equivoci inquinano l’interpretazione dei risultati della ricerca. Esistono malattie psichiatriche che sono malattie del cervello, l’esempio più chiaro è la paralisi progressiva. Si tratta di una grave forma di lesione del cervello causata dal treponema della sifilide che si manifesta, tra l’altro, con alterazioni dell’umore e con deliri, a volte di grandezza. La sintomatologia è prevalentemente psichiatrica e la causa è esclusivamente neurologica, in particolare infettiva.

Consideriamo un caso diverso. È ben noto che l’incidenza di psicopatologia nelle persone con ritardo mentale sia più elevata che di norma. Difficile mettere in discussione che alla base del ritardo mentale vi sia un danno del cervello causato da noxae infettive, metaboliche, traumatiche o genetiche. È altrettanto evidente che gli esiti cognitivi di questi danni interagiscono con variabili psicologiche, ad esempio con una maggiore difficoltà a regolare le emozioni, e con variabili sociali, ad es. l’emarginazione, che a sua volta interagisce con variabili psicologiche come l’autostima, producendo sintomi psichiatrici. Anche in questo caso esiste un danno neurologico, ma la lesione cerebrale e le sue conseguenze cognitive sono un fattore di vulnerabilità psicopatologica e non la causa necessaria e sufficiente, come invece accade nella paralisi progressiva.

Il cervello delle persone con paralisi progressiva e con ritardo mentale è diverso da quello di altre persone senza sintomi psichiatrici.
Anche il cervello dei pianisti professionisti è diverso da quello di altre persone ma non nello stesso senso dei due casi precedenti, nei quali i neuroni sono patologici cioè anomali rispetto alle leggi della anatomia e della fisiologia. Nel caso della paralisi progressiva e nel ritardo mentale i neuroni sono lesionati, anche se lo sono in modi diversi e per ragioni diverse. Nel caso dei pianisti, i neuroni sono diversi da quelli dei non pianisti ma non sono lesionati piuttosto sono ben funzionanti rispetto alle leggi della neuroanatomia e della neurofisiologia.

Analogamente, possiamo supporre che un appassionato ed esperto di calcio abbia una struttura e un funzionamento cerebrale diverso da una persona del tutto disinteressata al calcio. Anche in questo caso possiamo parlare di diversità ma non possiamo dire che il cervello del tifoso sia anomalo rispetto alle leggi biologiche che definiscono un cervello sano e lo differenziano da uno patologico.
È evidente che non basta osservare una diversità per parlare di neuropatologia.

Consideriamo, ora, il caso di una persona che è mossa da una passione che non è per la musica o per una squadra di calcio ma è per la pulizia ed è esperta non di pianoforti e nemmeno di schemi di gioco ma di prevenzione e neutralizzazione di contaminazioni.
Osserviamo che il suo cervello è diverso da quello di altre persone. Supponiamo ora che uno psichiatra ci dica che è affetto da Disturbo Ossessivo Compulsivo, cioè da una psicopatologia.
Questa diagnosi sarebbe sufficiente per affermare che la diversità osservata sia analoga a quella del paziente affetto da paralisi progressiva o da ritardo mentale? No, a meno di non osservare condizioni anatomo funzionali che siano anomale rispetto alle leggi biologiche, quelle che discriminano un sistema nervoso sano da uno patologico, ad esempio lesioni degenerative, esiti di traumi, segni di infezione o di reazioni autoimmunitarie.
Intendo dire che non è legittimo inferire una neuropatologia solo perché si osserva una diversità, anche se la diversità osservata nel cervello corrisponde a una psicopatologia.

Se non si ammette questo vincolo, si rischia un paradosso. Vediamolo. Possiamo presumere, per i nostri fini attuali, che il cervello di una persona omosessuale sia diverso da quello di un eterosessuale. Nessuno, oggigiorno, direbbe che l’omosessualità sia una forma di psicopatologia, dunque la diversità osservata appare analoga a quella riscontrata nei pianisti: diversi interessi, diversi modi di essere che corrispondono a diversi cervelli.
Ora supponiamo di tornare indietro nel tempo, a sessant’ anni fa. L’omosessualità era considerata una forma di psicopatologia. Questo avrebbe implicato che la diversità del cervello degli omosessuali fosse analoga a quella del paziente affetto da paralisi progressiva?
Cioè, può una diversità cerebrale essere neuropatologica o cessare di esserlo, soltanto come conseguenza di decisioni convenzionali su cosa è o non è psicopatologico?
In conclusione, sembra che l‘affermazione dell’editoriale di JAMA “The diseases that we treat are diseases of the brain” sia molto spesso frutto di un equivoco che non è sciolto dall’approccio biopsicosociale il quale, al contrario, lo nasconde.

Francesco Mancini,
Medico, specialista in Neuropsichiatria Infantile
Scuola di Psicoterapia Cognitiva, SPC srl, Roma
Università Guglielmo Marconi, Roma

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Come il worry e la rumination influenzano la nostra funzionalità cardiovascolare

Camilla Bongiovanni, OPEN SCHOOL MODENA

Worry e rumination sono processi generalmente definiti come pensieri perseverativi (Brosschot & Thayer, 2004), intendendo con questa espressione l’attivazione ripetuta o cronica della rappresentazione cognitiva di uno o più fattori di stress.

Solitamente sono coinvolti in molti stati emozionali negativi, come ansia e depressione, e hanno delle conseguenze sulla salute, essendo associati all’attività di molti sistemi fisiologici, tra cui quello cardiovascolare, e in particolare prolungando l’attivazione di questi ultimi (Brosschot & Thayer, 2004; Thayer & Siegel, 2002).

Brosschot, Gerin e Thayer (2006) hanno presentato la loro ipotesi sul pensiero perseverativo:

grafico pensiero perseverativo e funzionalità cardiovascolare

Figura 1. Modello di base dell’ipotesi del pensiero perseverativo come mediatore dello stress sul disturbo somatico. La differenza tra le due risposte allo stress riflette l’idea che la risposta prolungata ipotizzata duri molto più a lungo rispetto la risposta durante e immediatamente dopo un evento stressante

Il pensiero perseverativo, così come si manifesta nel worry e nella rumination, rappresenta una comune risposta allo stress, in particolare media le conseguenze dei fattori di stress sulla salute, prolungando l’attivazione fisiologica ed affettiva legata allo stress, sia prima che dopo l’esposizione a tali fattori (Figura 1). Sulla base dell’associazione evidenziata fra il worry, la rumination, lo stress anticipatorio e un’aumentata attività cardiovascolare, endocrina, immunologica e viscerale, è stato suggerito che il pensiero perseverativo possa agire direttamente sullo sviluppo dei disturbi somatici attraverso un’attivazione aumentata del sistema cardiovascolare, endocrino, immunitario e neuroviscerale. Quindi, questa modalità di pensiero prolunga le conseguenze degli stressors sotto forma rappresentativa, questo continua a sollecitare l’organismo, sottoponendo l’individuo ad un livello costante di vigilanza e quindi di attivazione moderata ma cronica. Da questa prospettiva è facile individuare nello stile di pensiero perseverativo un possibile fattore di coocorrenza del rischio cardiovascolare.

Inoltre, gli autori hanno sottolineato che la letteratura fino ad oggi ha dedicato l’attenzione esclusivamente alla fase di reattività allo stress, non considerando invece quella di recovery, ovvero il momento successivo la scomparsa dello stress. Questo viene fortemente criticato, alla luce dell’idea che soltanto un’attivazione prolungata o cronica possa portare alla malattia, che a sua volta può poi condurre alla nascita di disturbi organici. Recentemente si è iniziato a esaminare la fase di recovery e si è tentato di comprendere i fattori responsabili della persistenza dell’attivazione fisiologica durante questa fase. La rumination, ovvero il fatto di ripensare ad un’esperienza stressante, sembra che contribuisca, insieme ad altri fattori, al mancato ritorno ai livelli di baseline. Quindi, questa modalità di pensiero può portare ad una successiva riattivazione del sistema cardiovascolare ed influenzare, insieme ad altri fattori, la fase di recovery cardiovascolare.
Sulla base di questa ipotesi, Pieper, Brosschot, van der Leeden e Thayer (2010) hanno condotto uno studio sull’insorgenza del rischio cardiovascolare in soggetti incapaci di arrestare il pensiero perseverativo legato a situazioni ambientali. In particolare è stato dimostrato che il worry, in risposta ed eventi momentanei percepiti come stressanti, esercita degli effetti prolungati sull’attività del sistema cardiovascolare, che si possono riscontrare anche dopo qualche ora dall’evento.

Come agisce questo stile di pensiero sulla nostra attività cardiovascolare?
A partire dai pioneristici lavori di Friedman e Thayer (1998) e da quelli di Porges (1995), sono stati chiariti i rapporti fra attivazione del sistema nervoso autonomo e rischio cardiovascolare. Il modello teorico elaborato da Porges, chiamato “Teoria polivagale”, descrive lo schema che contribuisce alla regolazione, a partire dal nervo vago, di numerose attività viscerali incluse quelle cardiache. Questa teoria è stata introdotta per spiegare le differenti funzioni dei due nuclei del vago, chiamati “nucleo ambiguo” e ”nucleo dorsale motorio”. In particolare viene enfatizzata la prospettiva filogenetica e ipotizzato che l’organizzazione del tronco encefalico sia caratterizzata da un complesso vagale-ventrale che comprende il nucleo ambiguo collegato a processi quali l’attenzione, il movimento, l’emozione e la comunicazione. Il modello predice che la competizione fra nucleo ambiguo e nucleo motorio dorsale sia legata allo sviluppo di diversi stati patologici e comunque di numerosi livelli di rischio.

A partire da questa ipotesi generale, sono state sviluppate negli ultimi anni numerose ricerche centrate sul ruolo dell’alterazione di processi mentali superiori sul disturbo cardiovascolare.

Ad esempio, Sowden e Huffman (2009) hanno analizzato il ruolo di processi psicologici disadattavi nell’insorgenza e nell’aggravamento di patologie cardiovascolari. Gli autori sostengono che accanto ai tradizionali fattori di rischio cardiaco quali il fumo, l’ipertensione e l’obesità accettati in maniera consolidata, devono essere considerati anche espressioni sia psicopatologiche che di alterazione del processamento cognitivo ed emotivo di eventi ambientali e soprattutto di una esagerata preoccupazione per le attese di ciò che possa accadere nel prossimo futuro. Gli autori sottolineano inoltre che accanto ad un opportuno trattamento farmacologico basato sulla somministrazione di antidepressivi e benzodiazepine, appaia di particolare rilievo un trattamento psicologico di tipo cognitivo comportamentale privo tra l’altro di potenziali effetti collaterali.

La tematica è ripresa con particolare enfasi da Thayer e Lane (2009), i quali hanno costruito un modello di integrazione neuro viscerale nel quale un set di strutture neurali coinvolte nella regolazione cognitiva affettiva ed autonomica sono collegate con la Variabilità Cardiaca Interbattito e la performance cognitiva. Gli autori, utilizzando tecniche di neuro immagine, hanno dimostrato l’esistenza di strutture neurali che collegano il sistema nervoso centrale con la variabilità cardiaca interbattito negli umani. Le conclusioni degli autori dimostrano l’esistenza di un’importante relazione fra performance cognitive, variabilità cardiaca interbattito e funzioni neurali prefrontali, capaci di determinare importanti implicazioni sia per la salute fisica che per quella mentale.

A partire dai modelli di integrazione fra i sistemi sopra ricordati, si sono sviluppate numerose ricerche sia di tipo neuropsicologico che neuroendocrino, tutte finalizzate a descrivere attività di sincronizzazione/desincronizzazione dei sistemi neurali e viscerali come fattori eziologici di patologie o anche semplicemente di rischi di patologie.
Per quanto riguarda gli aspetti neuropsicologici, Fang, Huang e Tseng (2013) hanno dimostrato che rimuginare, attivando in particolare il ramo simpatico del sistema nervoso autonomo, determinerebbe una serie di sintomi capaci di interferire sulla funzionalità cardiovascolare.
Studi simili sono stati condotti sull’alterazione della pressione arteriosa e del disturbo gastroenterico (Mayer, Nabiloff, & Craig, 2006).

Inoltre, Tully, Cosh, e Baune, (2013) hanno riscontrato che esiste una letteratura sempre più vasta sull’associazione tra il worry e lo sviluppo della malattia coronarica, e che il legame tra il worry, il disturbo d’ansia generalizzato e i fattori di rischio della malattia coronarica (come la pressione sanguigna), insieme all’HRV (heart rate variability; variabilità cardiaca interbattito) sono i meccanismi principali di cardiopatogenesi in grado di influire sulla funzione cardiovascolare. In particolare, da molti studi emerge un’associazione tra worry e HRV diminuita, così come tra il disturbo d’ansia generalizzato e HRV più bassa, e ciò suggerisce una minore influenza del parasimpatico e una maggiore attività del simpatico.

Infine, rispetto agli aspetti neuroendocrini, Goldman-Mellor, Hamer e Steptoe (2012) hanno esaminato l’associazione fra le risposte del cortisolo a stressor psicologici indotti in laboratorio e la progressione della calcificazione nell’arteria coronaria, in soggetti sani. Lo stress psicosociale è uno dei possibili fattori di rischio per i disturbi coronarici. E’ stato suggerito che una disfunzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, di cui la reattività del cortisolo è un indice, possa rappresentare un possibile meccanismo attraverso cui lo stress influenza il rischio di disturbo coronarico. I risultati hanno infatti dimostrato tale associazione, in particolare tra un’ aumentata reattività del cortisolo allo stress e la progressione della calcificazione, supportando così l’idea alla base di questo studio.

Anche in un altro studio è stata esaminata l’associazione fra disagio psicologico, la risposta del cortisolo allo stress indotto in laboratorio e la calcificazione subclinica nell’arteria coronaria, in soggetti sani. Il disagio psicologico è infatti collegato al disturbo coronarico ed è stata nuovamente ipotizzata una disfunzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene come meccanismo alla base. Dai risultati emersi è stata confermata l’associazione fra disagio psicologico a lungo termine e una calcificazione severa nei soggetti più anziani, in particolare quei soggetti, sia con disagio psicologico che con un’aumentata risposta del cortisolo, sono a rischio di calcificazione severa (Seldenrijk, Hamer, Lahiri, Penninx, & Steptoe, 2012).

Concludendo, sulla base di tutte le ricerche esposte e dei risultati emersi è possibile confermare l’ipotesi che individua nello stile di pensiero di tipo perseverativo un fattore di co-occorenza del rischio cardiovascolare.
Infatti, tali modalità di pensiero rappresentano potenti fattori di attivazione dell’autonomo e di alterazione dei livelli di cortisolo, con importanti effetti a livello del funzionamento cardiovascolare.

 

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La comunicazione con il medico in un contesto di cura non tradizionale: un’analisi qualitativa di interviste a pazienti oncologici

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

La comunicazione con il medico in un contesto di cura non tradizionale: un’analisi qualitativa di interviste a pazienti oncologici

Autore: Claudia Rosetti (Università La Sapienza)

Abstract

Parallelamente alla continua evoluzione della disciplina medica come teoria e tecnica della conoscenza riguardante il funzionamento del corpo umano, il rapporto tra l’ammalato e il suo curante si è configurato nel tempo come rapporto in cui l’aspetto relazionale ed interpersonale, prima ancora che tecnico, costituisce una componente fondante la disciplina medica stessa.

 Considerando tali premesse, l’obiettivo della presente ricerca è  indagare il ruolo della comunicazione tra medico e paziente nello specifico ambito oncologico e, in particolare, indagare i bisogni comunicativi e relazionali rilevanti nell’interazione con il medico da parte di pazienti che si rivolgono ad una terapia alternativa alle cure tradizionali. Al fine di rilevare il punto di vista dei pazienti in relazione ai vissuti e alle esperienze di malattia, si è fatto ricorso ad una metodologia di tipo qualitativo, la quale ha compreso l’osservazione partecipante del contesto,  interviste ai pazienti e  intervista al medico, al fine di cogliere anche il punto di vista dello specialista cui i pazienti si rivolgono. Per l’analisi delle interviste ci si è riferiti alla prospettiva dell’Analisi della Corversazione (AC) e, in particolare, per quanto riguarda le analisi dei contenuti delle risposte degli intervistati, ci si è rifatti ai principi metodologici e alle risorse analitiche disponibili nell’Analisi del Discorso (AD). Lo studio ha permesso di identificare dei repertori relativi al ruolo e alle funzioni del medico, utili ad incoraggiare l’indagine , dal punto di vista dei pazienti, su cosa un medico può fare e comunicare al paziente.

English Abstract

With the development of medical discipline such as theory and technique about functioning of human body, the relationship between patient and physician is configured as a connection where the relational and interpersonal feature is a key component. Considering these assumptions, the purpose of this research was to investigate the role of the communication between patient and physician in oncology and, in particular, in a non-traditional care setting. In this research was chosen a qualitative methodology: participant observation of the context, interviews with patients and with physician. More specifically was chosen Conversation Analysis and Discourse Analysis. The survey identified repertories related to the role and tasks of physician.

Keyword: rapporto medico-paziente, bisogni comunicativi e relazionali, curare e prendersi cura, oncologia, cura alternativa.

 

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Identity Development and Knowledge Construction in the Dual Learning Model

 

In a system of school autonomy, educational institutions have to interpret cognitive needs, social breaks and cultural aspirations of the community in which school works; reason why, the construction of educational processes cannot happen without a trait d’union with the working environment.

The education and pedagogical system should completely reflect the contemporary society in which it is integrated, to ensure appropriateformative and socialization processes for younger generations.

Clause 4 of the Law n° 53, of the 28 March 2003, introduces, in Italy, a didactics option that provides the opportunity for students to gain experience in a real working environment. Therefore, school world starts to confer importance to the world of work, to planning and realise integrated pathways of concreate experiences (Fig1).

 

Figure 1_ Dual Learning Model
Figure 1

 

In Italy, Legislative Decree n° 77/2005, also establishes that the student, who has turned fifteen, can earn a vocational qualification; student can reach this title following a full-time school, or opting for an educational program that alternates school lessons and work experiences, in private or state companies.

Seeing as, education based on experience is necessary for the human being, to coherently adapt to his context, the dual training model becomes an opportunity for social, cultural and educational renewal, both in the high school and in the system of vocational training. Students, followed by business and school mentors, have the opportunity to perform work activities in the company, carrying out tasks related to their course of study. Dual training model, or, as it is defined in Italy, Alternanza scuola-lavoro, is regulated by the Legislative Decree n° 77/2005 (definition of general rules concerning work related learning) and by the D.P.R. (Presidential Decree) n° 87, 88, 89/2010 (Reorganization regulations about vocational schools, technical institutes and high schools) represents, therefore, the connection between school and the world of work; nevertheless, this work experience does not establish a business relationship between student and company.

Tacconi (2012) says that:

The encounter with the company represents an additional incentive for studying and scholastic commitment; it is a way of learning to find a job, through a strong and targeted professional preparation.

The dual training model is a support for pedagogical and didactics action, useful to promote motivation, research ability and for studied argument deepening.

In this sense, working reality,including the relationship between individuals, groups, tools and practice communities, gives to the adolescent that learn, the possibility to achieve different levels of expertise, which in turn influence his professional and social identity. Staying in a classroom and staying in a company represent for the student a formative moment for the construction of his identity, through the development of self-assessment competences, in relation to the experience done (Pozzi&Pocaterra, 2007).

The process of identity construction is characterized by the close connection between self-consciousness and social recognition made by the other, that, in the specific case of the dual training model, for the student is realized through the duty- participation dyad. Duty is the set of tasks and procedures that the student implements to perform his educational experience; participation, however, is the student’s ability to organize his work, including through the group interaction. It is clear that the synergy between duty and participation is the central idea, useful for collaboration and democratic participation (Prilleltensky& Nelson, 2000).

Dual learning model allows that activities planned by the school together with the company, will be assessed and certified as skills acquired by the student. In this sense, the labor market’s supply and demand proceed to an intersystemic construction, where work becomes means for the personal development, that remains the end (Bertagna, 2003). School and work together promote experiential learning (Kolb, 1984) in practices communities, that allow students to learn tools and strategies, useful to do a work of which they have not yet knowledge. (Fig. 2)

 

Figure 2_Dual Learning Model
Figure 2

 

Experiential learning is an approach, internationally known, that assumes experience as a crucial criterion for training. Dual training model, or job education, does not fosters only learning, but it offers a contribution to the community, in terms of well-trained human resources. Moreover, dual training model stimulates educational talents and excellences, promoting healthy competition. Cooley (1902) says that, the self-discovery and development is closely related to the interaction with the other; then it could say, as Vygotsky asserts, that we become ourselves through others, and this refers not only to the personality as a whole, but also in each function’s history. With the dual training model and the experiential learning, student builds meanings transforming the reflective observation in active experimentation. (Fig. 3)

 

Figure 3_Dual Learning Model
Figure 3

 

Thanks to the synergy between theory (at school) and practice (in a company), continuous processes of cognitive, learning and biopsychosocial transformation are born, in a shared dimension, where all are actors, protagonists and partial directors of the community learning process, as well as their own. In the dual training model, student reflecting on his own experience, develops forms of self-awareness training and lateral thinking, useful cognitive and social processes to become true knowledge worker.

 

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L’effetto negativo della deprivazione di sonno sull’equilibrio metabolico e sul ritmo circadiano

Un recente studio si è posto l’obiettivo di verificare gli effetti che la deprivazione di sonno di un’intera notte ha sull’equilibrio metabolico dei soggetti.

Diverse ricerche condotte su soggetti umani, così come studi su modelli animali, hanno cercato, nelle sessioni sperimentali, di simulare le turnazioni di lavoro che molte aziende predispongono per i lavoratori per verificare se esse hanno degli effetti sul fisico e se questi effetti siano positivi o negativi; ciò che emerge dai risultati è che gli orari di lavoro imposti dai turni possono causare una riduzione nell’impiego di energie, la compromissione della disponibilità generale di glucosio e una maggiore assunzione di cibo, condizioni che nel tempo possono risultare in uno scompenso metabolico ed in un acquisto di peso non indifferente.

Tuttavia se le conseguenze di una breve mancanza di sonno sull’omeostasi dell’organismo e sull’espressione dei geni clock implicati nella regolazione dei ritmi circadiani e nei processi metabolici dei tessuti periferici sono note, poco si sa circa quelle di un’intera notte di veglia; tale è la tematica su cui la presente ricerca ha tentato di far luce e ciò rende lo studio particolarmente interessante dato che oggi almeno il 15% della forza lavoro è impiegata in occupazioni che implicano turnazioni di lavoro con la maggior parte dell’attività che si svolge durante la notte.

Per questi motivi lo studio si è posto l’obiettivo di verificare gli effetti che la deprivazione di sonno di un’intera notte ha sull’equilibrio metabolico dei soggetti; a questo scopo sono stati considerati 15 uomini sani che hanno partecipato a due diverse condizioni sperimentali intervallate da quattro settimane, la prima prevedeva che i soggetti dormissero per tutta la notte, la seconda al contrario li costringeva ad una veglia forzata. La mattina seguente le due sessioni sperimentali veniva misurato il livello di cortisolo e venivano eseguite delle biopsie del muscolo scheletrico e del tessuto adiposo sottocutaneo per l’analisi della metilazione del DNA e dell’espressione dei geni clock.

I risultati hanno mostrato che un’acuta deprivazione di sonno riduce la trascrizione dei geni clock, provocando un rimodellamento epigenetico degli stessi e quindi delle conseguenze metaboliche deleterie come l’alterazione della tolleranza al glucosio; in particolare la perdita di sonno per una notte intera causa un’ipermetilazione del DNA dei geni clock, effetto che è stato riscontrato nel caso del tessuto adiposo ma non in quello del muscolo scheletrico.

I risultati della ricerca, nonostante i limiti che hanno caratterizzato la procedura dell’esperimento come ad esempio il fatto che le luci sono state tenute accese solo durante la condizione di veglia, mettono in evidenza le conseguenze negative che le alterazioni del sonno hanno sull’equilibrio omeostatico e sul ritmo circadiano e quindi il rischio maggiore di disfunzioni metaboliche che è riscontrabile tra le persone a cui sono richieste turnazioni di lavoro.

 

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Fattori di mantenimento interpersonali nei disturbi del comportamento alimentare: il ruolo della famiglia

 

Nel corso della mia esperienza clinica con le persone affette dai disturbi del comportamento alimentare, ho sviluppato la convinzione sempre più marcata della necessità di coinvolgere il sistema familiare. Tale coinvolgimento sembra potenziare il buon esito dell’intervento terapeutico, migliorando la qualità della vita sia per chi soffre che per tutti gli altri membri della famiglia e il mantenimento nel tempo dei risultati raggiunti (Treasure e coll., 2007).

Il disturbo del comportamento alimentare, per la complessità che lo caratterizza, la difficoltà del trattamento e la delicatezza degli aspetti personali, relazionali e sociali che coinvolge, necessita di un intervento in équipe multidisciplinare che possa coinvolgere in modo significativo le figure di riferimento oltre che il portatore del sintomo. Così facendo sarà possibile creare una rete di sostegno attorno alla persona in difficoltà e tra le figure che la prendono in carico.

Spesso sono gli stessi familiari che mi contattano per avere informazioni, conoscere, capire cosa sia un disturbo del comportamento alimentare tanto familiare per chi se ne occupa, oscuro e sconcertante per chi, non addetto ai lavori, si trova d’improvviso a farlo entrare nel proprio mondo.
Spiego che il loro ruolo è fondamentale, poiché la persona (spesso adolescente o giovane adulta) e il disagio che riporta, richiedono necessariamente una messa in gioco e un adattamento del sistema familiare in cui vivono.

Inoltre, la famiglia presenta una duplice potenzialità: se coinvolta e valorizzata può diventare o ritornare ad essere una risorsa estremamente preziosa, se lasciata ai margini può contribuire al mantenimento del disturbo in quanto molto spesso ciò che si fa per tentare di ridurre i sintomi produce l’effetto contrario (Treasure e coll., 2008). I sintomi dei disturbi del comportamento alimentare possono avere delle profonde implicazioni sociali ed emotive per le figure di accudimento. I sintomi variano per forma ed impatto, spaventano e sono frustranti ed intrusivi. Ogni parvenza di “normalità” scompare.

Janet Treasure e coll. (2008), in un interessante articolo, propongono una lista di caratteristiche e/o di reazioni presenti nei caregiver e in chi circonda la persona con disturbo del comportamento alimentare che possono contribuire al mantenimento del problema e che, quindi, vanno tenute in debita considerazione nell’intervento terapeutico.

– Rigidità e preoccupazione per i dettagli. Interferiscono nella possibilità di creare nuove forme di comportamento. Non consentono l’apertura ad una visione d’insieme, ma rinforzano l’attenzione su aspetti specifici, tipici della patologia.

– Emozionalità espressa: criticismo, ostilità ed eccessivo protezionismo. Non consentono alla persona di sviluppare in autonomia le proprie capacità e propensioni e di affrontare le sfide della vita. Un buon esito della terapia è connesso all’attivazione di un percorso terapeutico familiare parallelo a quello della persona con disturbo del comportamento alimentare.

Colpa, vergogna e stigma. Possono contribuire alla chiusura e all’isolamento sociale sia della famiglia che della persona ammalata, impedendo il confronto con modalità comportamentali e relazionali più funzionali. Tali atteggiamenti rendono difficile il potersi confrontare e parlare apertamente del problema.

– Mancata comprensione del disturbo del comportamento alimentare. Contribuisce ad appesantire il clima e a complicare le relazioni interpersonali conducendo all’utilizzo di strategie di gestione spesso improprie.

– Comportamento accomodante nei confronti della malattia. Spesso per paura di peggiorare la relazione, di accrescere l’ostilità ed evitare conseguenze peggiori, i familiari consentono alle regole del disturbo del comportamento alimentare di prendere il sopravvento regolamentando la quotidianità. Questo è forse uno dei fattori di mantenimento più potenti in quanto consente alla patologia di predominare e prosperare.

Accudire una persona cara con un disturbo alimentare è un compito difficile.
Secondo il modello di intervento proposto da Treasure e coll. (2008) lo scopo del coinvolgimento delle figure di riferimento è quello di renderli “allenatori” in grado di incoraggiare e supportare la persona, aiutandola a liberarsi dalle trappole in cui è imprigionata. I familiari della persona malata entrano, quindi, a pieno titolo nel percorso terapeutico. In questo modo sarà possibile costruire la continuità e la coerenza dell’intervento, necessari per un sostegno efficace.

L’intervento è volto a fornire strategie per poter migliorare le loro personali reazioni alla malattia e fronteggiare le difficoltà in modo funzionale, evitando di raggiungere livelli di stress troppo elevati.

Viene fornito un modello di comprensione e analisi del disturbo del comportamento alimentare, con particolare attenzione alla presenza e al ruolo dei fattori di mantenimento sopracitati. La presenza di “controllo” ed “emotività espressa” e le possibili combinazioni di queste due variabili, forniscono importanti informazioni circa gli stili di accudimento, che secondo gli autori rivestono un ruolo fondamentale.

Vengono presentati due stili di accudimento funzionali cui aspirare, adottando analogie dal regno animale per renderli più comprensibili ed applicabili (Treasure e coll., 2007):
– Il “delfino” presenta la giusta quantità di accadimento e controllo. È in grado di sospingere dolcemente verso la “salvezza”, a volte nuotando davanti e mostrando la strada, altre volte nuotando a fianco ed incoraggiando, oppure nuotando tranquillamente dietro.
– Il San Bernardo presenta la giusta quantità di compassione e coerenza. È calmo e padrone di sé, anche nelle situazioni più pericolose. Si dedica al benessere e alla sicurezza delle persone che si perdono. Una risposta di accudimento ottimale corrisponde ad un atteggiamento di calma, calore e compassione. Diventare modelli di calma e compassione aiuterà chi soffre a prendersi maggiormente cura di se stesso come importante passo verso il cambiamento.

Si lavora, inoltre, sulle rigidità e sui comportamenti estremi, sulla comprensione del “trasferimento” agli altri membri della famiglia di una elevata emotività espressa, in modo tale che ognuno possa migliorare le proprie capacità di regolazione emotiva.
Si forniscono strumenti per una comunicazione aperta, chiara ed efficace che possa consentire ad ognuno di poter esprimere adeguatamente il proprio vissuto senza colpevolizzare, ma attraverso l’accoglienza dell’altro.
Infine, si cerca di attivare o creare attorno alla persona e alla famiglia una rete sociale supportiva in questo delicato e lungo percorso (Treasure e coll. 2008).

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Che ruolo ha l’empatia nell’attuazione di condotte etero-lesive?

Roberta Cattani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

L’empatia consiste nella capacità di assumere la prospettiva altrui e quindi di comprendere quelli che possono essere i sentimenti di una persona in una certa situazione, e nella capacità di risuonare emotivamente, immedesimandosi nello stato emotivo dell’altro e rispecchiandone interiormente le emozioni.

In letteratura esistono numerose evidenze del fatto che l’empatia non è un tratto stabile ma che può invece essere considerata come una risposta di stato volontaria.

La maggior parte della discussione clinica relativa al costrutto di empatia e soprattutto la maggioranza delle sue misurazioni sperimentali si sono infatti per lungo tempo occupate di indagarne le manifestazioni in base all’assunzione che la capacità empatica fosse una disposizione trasversale a tutte le situazioni emotivamente salienti, stabile nei confronti di tutte le persone e costante nel tempo. Cottrell (1942) fu il primo ad avanzare invece delle critiche a questo approccio, ritenendolo inadeguato e sostenendo la necessità di identificare un contesto situazionale di riferimento, le cui caratteristiche fossero l’elemento cruciale in base al quale definire il peso dei processi empatici e quindi l’eventuale possibilità di sospensione degli stessi in determinate situazioni.

L’importanza di una contestualizzazione dell’empatia è stata sostenuta anche da Hoffman (1982), sulla base dell’idea che se gli esseri umani non fossero in grado di inibire volontariamente le loro naturali risposte empatiche in determinati momenti, essi esperirebbero un eccessivo coinvolgimento nella maggior parte delle situazioni quotidiane. Da ciò si evincerebbe perciò, secondo l’autore, l’importanza per la specie umana di essere in grado di reprimere talune spinte empatiche nelle situazioni che lo richiedano, allo scopo di funzionare in modo più adattivo ed efficace nelle interazioni sociali.

Nell’esperienza quotidiana sarebbe infatti possibile trovare numerose tracce di momenti in cui un funzionamento adattivo ed efficiente richieda una minimizzazione del rispecchiamento empatico, come negli esempi offerti da attività di evasione quali romanzi o film, i quali basano un sano coinvolgimento nella loro trama tanto sulla capacità di identificazione del lettore e dello spettatore nelle vicende e nei sentimenti dei protagonisti, quanto sulla possibilità di relativizzare tale partecipazione empatica all’artificiosità degli avvenimenti proposti.

La ricerca recente, superando la precedente concezione dell’empatia come tratto stabile e non condizionato da elementi esterni, sta in effetti fornendo sempre maggiore supporto all’idea che si tratti piuttosto di una risposta di stato, conseguente alla volontaria scelta del soggetto di agire secondo scopi più o meno prosociali, sulla base di una varietà di fattori contestuali.

Studi effettuati su campioni di sexual offenders hanno infatti dimostrato con particolare evidenza il fatto che la mancanza di empatia non risulti necessariamente un deficit generale ed esteso nei confronti di tutte le persone, ma che possa piuttosto verificarsi in maniera selettiva nei riguardi di una precisa vittima o di un gruppo.

Marshall e colleghi (1995) hanno infatti riscontrato in aggressori sessuali e in molestatori infantili deficit di empatia specificatamente circoscritti nei confronti rispettivamente di donne e di giovani ragazzi. A conferma di questa ipotesi, Fernandez e colleghi (1999) hanno testato un gruppo di soggetti pedofili resisi rei di molestie a danno di giovani vittime, attraverso l’uso di vignette raffiguranti tre diversi tipi di situazioni stressanti, in cui venivano coinvolti dei bambini: nel primo caso, il bambino protagonista dell’immagine risultava sfigurato a seguito di un grave incidente stradale; nel secondo caso, un bambino subiva molestie sessuali da parte di un estraneo ed infine, in una terza vignetta, veniva rappresentata la vittima stessa del soggetto testato. Una volta mostrate ai partecipanti tali vignette, veniva loro chiesto di scegliere lungo un elenco le emozioni attribuite ai bambini protagonisti di ciascuna immagine. In un secondo momento veniva poi chiesto di indicare nello stesso modo anche le emozioni da loro provate a fronte di ciascuna immagine.

Dai risultati sono emersi livelli empatici nella norma ed analoghi a quelli del gruppo di controllo nei confronti dei bambini sfigurati in incidenti stradali e punteggi solo leggermente più bassi durante l’osservazione delle vignette raffiguranti una generica violenza sessuale su minori. Significativamente, invece, tali livelli di empatia risultavano azzerarsi quasi completamente nel caso in cui l’immagine avesse per protagonista la loro stessa vittima.

I dati di questo studio hanno così confermato la presenza, in un campione di molestatori infantili, di una normale capacità di empatia nei confronti di bambini in generale, ma della possibilità di una sua inibizione selettiva nei confronti delle proprie vittime, ovvero in casi in cui determinati stimoli possano far prevalere la motivazione a subordinare il benessere altrui al prioritario soddisfacimento di piacere personale.

Anche Fernandez e Marshall (2003) hanno individuato analoghe soppressioni di empatia vittima-specifiche in molestatori autori di violenza su donne adulte. Analogamente ai risultati della ricerca precedente, anche in questo studio sono emersi livelli di empatia significativamente più bassi nei confronti di donne in cui i soggetti potevano riconoscere le loro stesse vittime, rispetto ai più alti punteggi di empatia emersi invece nei confronti di donne vittime di altri accadimenti violenti.

In considerazione degli analoghi risultati ottenuti da diversi altri studi (Farr et al., 2004; Fisher, 1997; Fisher et al., 1999; Marshall et al., 1997; Webster and Beech, 2000; Whitaker et al., 2006), si può quindi ritenere che tali dati forniscano sostegno alle più recenti ipotesi che fanno ritenere l’empatia come una risposta di stato volontaria, nonché suggeriscano degli elementi di maggiore comprensione clinica di alcune forme di comportamento deviante e di aggressività strumentale, come l’esito di una deliberata scelta di sospensione della risposta empatica in modo vittima-specifico, ossia nei riguardi di una precisa persona o gruppo di individui identificati come bersaglio della propria violenza.

L’aggressività strumentale, tipica ad esempio degli individui psicopatici, si distingue infatti da quella reattiva per il fatto di dipendere meno da aspetti di disregolazione impulsiva e di essere invece maggiormente finalizzata al raggiungimento di scopi e vantaggi personali.

In relazione a questa strategia inibitoria, ricerche di Ward e colleghi (1997) e di Marshall e collaboratori (2001) hanno riscontrato in campioni di molestatori sessuali una significativa correlazione tra il verificarsi di tali sospensioni di empatia in modo vittima-specifico e l’utilizzo di particolari bias cognitivi: questi consistono in modalità distorte e disadattive di ragionamento e di interpretazione della realtà, che permettono di adattare le informazioni ai propri convincimenti in modo coerente ed utilitaristico, giustificando così comportamenti immorali passati e facilitandone il mantenimento in futuro (Marshall et al., 1999).

Tra i bias più comuni nell’ambito delle condotte antisociali figurano soprattutto la dislocazione della responsabilità, attraverso la quale viene operato un processo di attribuzione causale delle responsabilità di un atto ad altre persone o alle circostanze, e la non considerazione o distorsione delle conseguenze, nella quale viene invece operata una minimizzazione o una selezione strumentale nella rappresentazione mentale delle conseguenze positive o negative di un’azione. Tali processi di distorsione cognitiva del contesto e della vittima possono così agire sinergicamente nel determinare un transitorio allentamento delle capacità empatiche ed una loro temporanea sospensione.

Un tipo di meccanismi in base ai quali si ritiene che vengano attuate temporanee soppressioni di giudizio morale sarebbero quindi le distorsioni che agiscono a livello rappresentativo, andando transitoriamente ad inibire le capacità empatiche ed i sentimenti prosociali, momentaneamente messi al servizio di scopi devianti dalla norma, in situazioni in cui vengano meno le motivazioni a dare peso morale ai danni procurati all’altro.

A conferma del fatto che le difficoltà empatiche rilevate in tali casi possono essere la conseguenza di deliberate soppressioni di sentimenti prosociali, alcune ricerche hanno individuato anche nello spostamento del focus attentivo un altro meccanismo rilevante ai fini di agevolare l’attuazione e la perpetuazione di comportamenti immorali: si ritiene infatti che l’evitamento dello sguardo della vittima possa rappresentare un modo per minimizzare volontariamente la percezione della sofferenza procuratale ed allontanare così la possibilità che eventuali accessi empatici di senso di colpa o di rimorso possano avere la meglio e trattenere il soggetto dal portare a termine i propri progetti.

Una serie di ricerche ha dimostrato infatti che la capacità di riconoscere le emozioni altrui è in genere pesantemente influenzata dal focus dell’attenzione e che, nello specifico, l’incapacità di provare empatia per i segnali di disagio espressi dalle vittime si normalizza nel caso in cui tali manifestazioni rientrino nel loro campo attentivo.
In una ricerca di Glass e Newman (2006) condotta su individui psicopatici, non è infatti stata trovata alcuna difficoltà di processamento emotivo nella condizione sperimentale in cui ai partecipanti veniva chiesto di identificare, tra diverse espressioni facciali presentate, quella che rappresentava una certa emozione, ossia nella situazione in cui tale indicazione veniva fornita visivamente in forma di parola circa un secondo prima della presentazione delle espressioni facciali stesse, dando così la possibilità al soggetto sperimentale di prepararsi a rivolgere la propria attenzione su quegli specifici aspetti indicativi di un certo stato emozionale.

In uno studio di Dadds e collaboratori (2006) è stato riscontrato tale fenomeno anche in bambini e in adolescenti con tendenze psicopatiche: è stato osservato che la loro capacità di riconoscimento delle espressioni facciali soprattutto di paura si normalizzava nel momento in cui venivano invitati a guardare specificamente gli occhi delle persone coinvolte nello studio come stimolo sperimentale.

Sostegno a quest’ipotesi proviene anche da un altro studio di Richell e colleghi (2003), nel quale è emerso che la capacità di attribuire stati mentali nel test di lettura degli occhi non appare in genere alterata negli psicopatici e che, quando si rintraccia invece una difficoltà di questo tipo, questa sembrerebbe dipendere proprio dal focus dell’attenzione e dunque, plausibilmente, sarebbe funzione dello stato mentale attivo nella mente del soggetto.

Questi dati dimostrano allora che la minore empatizzazione nei confronti delle vittime, da parte di chi commette azioni devianti o agisce aggressività strumentale, potrebbe dunque essere considerata come la conseguenza di un proattivo dislocamento dell’attenzione dagli elementi che abbiano rilevanza emotiva, tra i quali in particolare lo sguardo della vittima.

Queste ricerche suggeriscono dunque che la capacità di alcuni soggetti di agire in modo gravemente antisociale e lesivo del benessere altrui possa essere spiegabile come parte di una strategia tesa ad inibire l’attivazione di sentimenti prosociali e a poter mantenere un atteggiamento freddo, distaccato ed aggressivo nei confronti dell’altro, senza essere in ciò disturbati da risonanze empatiche che potrebbero sorgere se l’attenzione dovesse soffermarsi sullo sguardo della vittima.

In conclusione, in base ai dati della ricerca emersi, la perpetrazione della violenza e di alcune forme di aggressività sembra essere sostenuta da soppressioni transitorie della sintonizzazione emotiva in modo vittima-specifico, attraverso un insieme di strategie cognitive ed attentive, volte a favorire tale distanziamento empatico.

 

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Un nuovo approccio potrebbe rivoluzionare il trattamento della depressione

Vanessa Smiedth

 

Un nuovo studio condotto da ricercatori dell’Università del Maryland ha individuato promettenti composti che potrebbero trattare con successo la depressione in meno di 24 ore, riducendo al minimo gli effetti collaterali.

Attualmente, la maggior parte delle persone affette da depressione assumono farmaci che aumentano i livelli neurochimici di serotonina nel cervello. I più comuni di questi farmaci, come il Prozac e Lexapro, sono inibitori della ricaptazione della serotonina o SSRI. Purtroppo, gli SSRI sono efficaci solo in un terzo dei pazienti con depressione. Inoltre, anche quando questi farmaci funzionano, in genere impiegano da tre a otto settimane per alleviare i sintomi. Di conseguenza, i pazienti spesso soffrono per mesi prima di trovare una medicina che li fa sentire meglio. Questo non è solo emotivamente straziante; nel caso di pazienti che vogliono suicidarsi, può essere mortale. Sono chiaramente necessari migliori trattamenti per la depressione.

Un nuovo studio condotto da ricercatori dell’Università del Maryland ha individuato promettenti composti che potrebbero trattare con successo la depressione in meno di 24 ore, riducendo al minimo gli effetti collaterali.

Anche se non sono ancora stati testati nelle persone, i composti potrebbero offrire vantaggi significativi rispetto agli attuali farmaci antidepressivi. La ricerca, guidata da Scott Thompson, professore e presidente del Dipartimento di Fisiologia presso l’Università di Medicina del Maryland è stato pubblicato questo mese sulla rivista Neuropsychopharmacology.

Thompson e il suo team si sono concentrati su un altro neurotrasmettitore rispetto alla serotonina, un composto inibitorio chiamato GABA. L’attività cerebrale è determinata da un equilibrio di comunicazione eccitatoria e inibitoria tra le cellule cerebrali.

I ricercatori sostengono che nella depressione, i messaggi eccitatori in alcune regioni del cervello non siano abbastanza forti. Poichè non esiste un modo sicuro per rafforzare direttamente la comunicazione di tipo eccitatorio, è stata esaminata una classe di composti che riducono i messaggi inviati tramite inibitori GABA. Si prevede che questi composti, chiamati GABA-NAM, possano ridare forza eccitatoria e minimizzare gli effetti collaterali indesiderati perché sono precise: funzionano solo nelle parti del cervello che sono essenziali per l’umore.

I GABA-NAM sono stati testati in ratti sottoposti ad un lieve stress cronico che ha provocato negli animali agiti simili a quelli della depressione umana. Dare a topi stressati questi composti ha subito funzionato su un sintomo chiave della depressione: l’anedonia o incapacità di provare piacere.

Sorprendentemente, gli effetti benefici dei composti sono apparsi entro 24 ore, molto più rapidamente rispetto alle molteplici settimane necessarie per gli SSRI per produrre gli stessi effetti. Nei test effettuati con i ratti, i ricercatori hanno scoperto che i composti aumentano rapidamente la forza della comunicazione eccitatoria nelle regioni che sono state indebolite dallo stress e si pensa che esse siano indebolite anche nella depressione umana.

[blockquote style=”1″]Questi composti hanno prodotto effetti più drammatici nello studio sugli animali di quello che avremmo potuto sperare. Ora sarà tremendamente eccitante scoprire se essi producono effetti simili nei pazienti depressi. Se questi composti sono in grado di fornire rapidamente sollievo ai sintomi della depressione umana, come il pensiero suicida, potrebbero rivoluzionare il modo in cui i pazienti vengono trattati[/blockquote] ha detto il dottor Thompson.

 

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Essere genitori di bambini con autismo: gli effetti positivi del caregiving paterno sulla salute delle madri

Daniela Sonzogni

 

I padri che assumono un ruolo attivo nelle attività di caregiving con i bambini affetti da autismo promuovono un sano sviluppo dei loro figli. Una nuova ricerca, però, suggerisce che incrementano anche la salute mentale delle madri.

Le madri dei bambini con autismo hanno riportato un minor numero di sintomi depressivi a lungo termine (analizzati quando i loro bambini hanno raggiunto i 4 anni d’età) se il padre si è mostrato coinvolto, fin dai primi mesi di vita del bambino, in attività di alfabetizzazione, in attività assistenziali e in attività che calmano il bambino sconvolto.

Daniel J. Laxman, autore della ricerca, ha condotto lo studio analizzando 3550 bambini, di cui 50 con sindrome di autismo, 650 con altre disabilità. Sono state raccolte informazioni sul benessere delle madri e il coinvolgimento dei padri in diverse attività genitoriali come alfabetizzazione, gioco e caregiving quotidiano come fare il bagno.

Un maggiore coinvolgimento dei padri nella cura dei loro bambini affetti da autismo può essere particolarmente importante come dimostra una ricerca precedente che evidenzia come le madri di questi bambini spesso sperimentano livelli più elevati di stress, depressione e ansia rispetto alle altre madri.

I padri che leggono ai loro figli o rispondono quando il bambino piange, può dare tregua alle mamme, permettendo loro di svolgere altri compiti o impegnarsi in attività di autocura che aumentano il loro umore e riducono lo stress.

Uno dei criteri principali dell’autismo è la difficoltà di comunicazione e questo può spiegare perché le madri di questi bambini siano più soggette a stress e depressione.

Può essere molto frustrante per i genitori quando i bambini lottano con la comunicazione, fatto che risulta sconvolgente anche per i bambini stessi.

I padri che leggono, raccontano storie o cantano canzoni ai loro bambini, favoriscono lo sviluppo della loro capacità di comunicazione e per l’apprendimento di parole. Migliorano le capacità comunicative dei bambini e nello stesso tempo, il coinvolgimento dei padri in queste attività, allevia le preoccupazioni e lo stress della madre legate a questi problemi.

Nei sistemi familiari che includono i bambini con autismo, i fattori di stress sono enormi e le madri hanno bisogno di molto sostegno, sia che derivi dal padre del bambino, sia dai social network o dalle risorse online. Le madri hanno continuamente bisogno di sostegno aggiuntivo per essere in grado di continuare a funzionare in modo efficace.

Il campione di studio è stato limitato alle famiglie in cui entrambi i genitori biologici risiedevano con il bambino nei primi quattro anni per garantire la presenza del padre che potrebbe influenzare i sintomi depressivi della madre.

Alcune ricerche precedenti hanno suggerito che il conflitto tra madri e padri aumenta quando gli uomini sono più coinvolti nella cura del bambino. È importante quindi che i genitori discutano di come stanno funzionando nella gestione della disciplina o nelle attività quotidiane quali vestire o nutrire il bambino.

 

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Mindfulness per viaggiare in aereo, il programma di British Airways

 

BRITISH AIRWAYS LANCIA IL PROGRAMMA MINDFULNESS FOR TRAVEL

Che lo si faccia per piacere o per necessità, l’idea di prendere un aereo per tratte più o meno lunghe non è un pensiero che lascia tutti tranquilli. La compagnia British Airways, per rispondere alle esigenze dei suoi passeggeri, ha proposto il programma “mindfulness for travel”.

Negli ultimi anni è diventato di uso frequente in ambito psicologico l’utilizzo di questa parola. Ma che cos’è la mindfulness? Jon Kabat-Zinn, lo studioso che negli anni ’70 ha dato vita all’utilizzo clinico di tale pratica, la definisce come “la consapevolezza che emerge prestando attenzione intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante al presentarsi dell’esperienza momento per momento” (Kabat-Zinn, 2004).

È possibile sviluppare o migliorare questa capacità attraverso la meditazione di consapevolezza che deriva dal buddhismo theravada. Kabaz-Zinn sostiene che la capacità di essere consapevoli sia presente in ciascuno di noi. Quello che occorre fare è allenarsi a coltivare l’attenzione nel qui ed ora.

Capita a tutti noi abitualmente di sprecare tanta energia reagendo in modo automatico agli eventi esterni e a ciò che accade dentro di noi (pensieri, emozioni, sensazioni). Per la maggior parte del tempo la nostra attenzione è rivolta al passato o al futuro piuttosto che al presente, il vero momento in cui la vita si realizza.

Osservandoci, attraverso la pratica, possiamo scoprire che funzioniamo spesso con il “pilota automatico”, meccanicamente, senza renderci conto di ciò che stiamo effettivamente facendo o vivendo.

Possiamo rappresentare la consapevolezza come una lente in grado di concentrare e canalizzare le energie disperse e reattive della nostra mente in un’unica sorgente di energia che può aiutarci a gestire in modo adeguato le situazioni e ad apportare cambiamenti nella nostra vita in una direzione di maggior benessere.

Questa energia ha origine dentro di noi e quindi è potenzialmente sempre disponibile. La sfida è quella di provare a vivere ogni momento della nostra vita, anche quelli di maggior difficoltà, come unico, importante e con cui poter lavorare. Si può imparare ad affrontare la vita in un modo che conduca ad uno stato di armonia interiore, utilizzando la forza di una difficoltà per attraversarla, proprio come un navigatore utilizza la forza del vento per orientare la sua vela.

Meditazione è osservare deliberatamente il nostro corpo e la nostra mente, lasciando che le nostre esperienze scorrano liberamente momento dopo momento e accogliendole nel modo in cui esse si presentano, che ci piaccia oppure no. Meditazione non significa rifiutare, bloccare o reprimere ciò che si presenta, ma lasciar essere, non controllare nulla eccetto la direzione della nostra attenzione.

Quando si comincia a prestare attenzione in modo consapevole il rapporto con le cose cambia. Consente di vedere di più e più in profondità. È come un risveglio dalle abitudini nelle quali eravamo assorbiti poiché il presente è il solo momento di cui disponiamo.

Secondo tale prospettiva, la gestione e la riduzione di stati di tensione, ansia, preoccupazione che possono manifestarsi in chi deve prendere un aereo, sono strettamente connessi alla capacità di affrontarli nel momento in cui essi si presentano, accogliendoli nella propria esperienza senza bisogno di dover reagire o lasciarsi vincere da essi.

Ma in cosa consiste esattamente il programma sviluppato dalla compagnia di bandiera britannica? Grazie alla collaborazione con Mark Coleman, fondatore dell’Institute mindfulness della California, sono stati sviluppati tre brevi video che permettono al viaggiatore di affrontare il volo con maggiore serenità avvalendosi di tecniche meditative. Per aiutare tutti i viaggiatori che hanno paura di volare British Airways organizza anche dei corsi, chiamati Flying with Confidence, grazie ai quali si impara a gestire la paura di volare attraverso una sessione teorica e pratica con l’aiuto di esperti piloti e psicologi.

Il programma si divide in tre fasi, per ogni momento cruciale del viaggio: prima dell’imbarco, in volo e prima dell’atterraggio.

 

VIDEO 1 – Mindfulness prima della partenza

Anche solo raggiungere l’aeroporto può rappresentare una sfida. Dopo aver effettuato il check-in e aver raggiunto il gate, guardare il frenetico movimento attorno a noi e ascoltare il frastuono possono incrementare lo stato di tensione. Coleman suggerisce di prendersi 5 minuti per praticare un esercizio di centramento e radicamento:

Assumete una posizione confortevole, che vi faccia sentire a vostro agio. Chiudete gli occhi oppure fissate lo sguardo e portate la vostra attenzione al respiro. Portate l’attenzione dentro di voi, portate l’attenzione al respiro. Il respiro è un ottimo supporto nella mindfulness poiché vi aggancia al momento presente. Iniziate facendo delle lunghe inspirazioni ed espirazioni, notate le qualità energizzanti dell’inspirazione e quelle rilassanti dell’espirazione.

Rivolgete l’attenzione dentro di voi e prendete lunghi respiri. Immaginate che tutto ciò che vi accade intorno sia come il cielo. Tutto ciò che si presenta attorno a voi in questo momento e nella vostra mente è come nuvole di passaggio nel cielo e potete stare fermi e ben saldi mentre ciò accade, sentendovi a proprio agio, senza reagire. Se vi accorgete che la vostra mente viene catturata da qualcosa nel passato o nel futuro, riportatela gentilmente al momento presente, al vostro corpo seduto sulla sedia, al vostro respiro che va e viene, ai rumori, a ciò che si muove intorno a voi. Se vi sentite agitati o preoccupati per ciò che potrà accadere, riportate l’attenzione al momento presente, al vostro radicamento e a ciò che sta accadendo attorno a voi, conversazioni, bambini che giocano, ecc. e immaginate che tutto questo sia come l’andare e venire delle nuvole nel cielo e voi siete presenti e fermi come il cielo o come un albero in un giorno ventoso. Lasciate che lambisca le vostre estremità mentre rimanete saldi con i vostri piedi, con le vostre gambe. Quando questo passaggio di nuvole si è diradato potete riportare l’attenzione al presente, notando il senso di radicamento. Potete praticare questo esercizio ogni volta che avete bisogno di sentirvi più stabili e centrati.

 

VIDEO 2 – Mindfulness in volo

https://www.youtube.com/watch?v=zJs2EF5M5W8

Una volta raggiunta la quota o dopo un pasto, prendetevi un po’ di tempo per sviluppare un senso di tranquillità e confort per vivere al meglio la vostra esperienza di viaggio.

Prendetevi un momento per sentirvi a vostro agio nella posizione, magari reclinate leggermente lo schienale e allentate le cinture di sicurezza, tutto ciò che può farvi sentire a vostro agio. Trovate stabilità nel corpo e riflettete questa stabilità nella mente. Chiudete gli occhi o fissate lo sguardo e portate lo sguardo e l’attenzione dentro di voi. Prendetevi un momento per notare cosa significa essere seduti, in volo, in questo momento, come si sente il vostro corpo, come si sente la vostra mente. Ci sono alcune cose che possono apportare un senso di rilassatezza. Una di queste è portare l’attenzione nel momento presente, lasciando andare i pensieri e le preoccupazioni per il futuro. Notate se ci sono tensioni in qualche parte del vostro corpo, rilassate ogni muscolo. Quando sentite il corpo rilassato portate l’attenzione al vostro respiro e notate le caratteristiche del vostro respiro. Potete notare le sensazioni dell’inspirazione e dell’espirazioni. Fate alcuni profondi respiri e notatene le caratteristiche. Inspirare apporta un senso di energia e vigore, espirare un senso di rilassatezza e lasciate andare, fate alcuni respiri per fare questo. Mentre prestate attenzione al respiro, spostate l’attenzione dalla vostra idea di respiro all’esperienza che state vivendo, alle sensazioni dell’aria che entra, alla cassa toracica che si espande, alle spalle, ecc. state presenti nel corpo e nel momento presente. Senza cercare di controllare o manipolare il respiro, lasciatelo respirare da sé e siate presenti all’andare e venire del ritmo del respiro. Mentre siete seduti a bordo potete notare tante altre cose, le persone parlare, i passaggi dell’equipaggio, una lieve turbolenza, ecc.

  La pratica di mindfulness consiste nell’essere presenti alla propria esperienza nel momento senza reagire, senza giudicare, senza bisogno di volerla diversa, semplicemente notando queste cose come si presentano e ritornando alla presenza del respiro. Lasciate che sia il vostro rifugio, luogo dove sperimentare un senso di calma e centratura. Potete notare la vostra mente impegnata, pianificante, persa nei pensieri, tornate alla presenza del respiro e alla comodità del vostro corpo sul sedile.

È normale che la vostra mente divaghi più volte nel corso dello stesso esercizio, riportatela al respiro e notate la vostra stabilità tra un’espirazione e l’inspirazione successiva. Possono presentarsi anche emozioni e sensazioni, se succedesse, semplicemente osservatelo, non c’è bisogno di fare nulla e ritornate con l’attenzione al vostro respiro, l’ancora per la vostra attenzione. Una cosa che può interrompere uno stato di benessere e pace è la reattività alle cose. Notate se avete delle reazioni, a cosa succede attorno a voi e cercate una qualità di accettazione di accoglienza rispetto a ciò che sta accadendo, tornando ancora e ancora alla semplicità del momento presente. Prendetevi un momento per notare cosa sentite nel corpo e nella mente e cosa ha prodotto il prestare attenzione al momento presente.

VIDEO 3 – Preparazione all’arrivo

Qualunque sia la vostra destinazione, utilizzate questa pratica per vivere qualsiasi cosa vi aspetti con chiarezza e consapevolezza.

In preparazione all’arrivo, prendetevi un momento per notare cosa sta accadendo dentro di voi. La mindfulness è una forma di autoconsapevolezza che ci informa sul nostro stato e possiamo usare queste informazioni per essere più preparati a ciò che accadrà. Notate come vi sentite alla fine di questo viaggio. La mindfulness informa la nostra esperienza, chiarisce cosa sta succedendo. Notate come sta il vostro corpo. Notate come sta la vostra mente.

Forse avrete una conferenza, prendetevi un momento per notare l’eccitazione o la preoccupazione. Queste informazioni possono essere utilizzate per prepararsi a ciò che accadrà. Prendetevi un momento per riflettere sulle vostre motivazioni, aspettative, obiettivi, preparandovi mentalmente ad essere più presenti e pronti mentre vi avvicinate a quell’esperienza. Alcuni andranno a trovare parenti o torneranno a casa. Prendetevi un momento per riflettere su ciò che troverete o pensando a chi si è preso cura della vostra casa mentre eravate e via e lasciate spazio ad un senso di apprezzamento.

Forse andrete in vacanza e potreste sentirvi eccitati alle varie esperienze che vorrete fare. Prendetevi un momento per vivere questo senso di possibilità, di desiderio. Prendetevi un momento per immaginare i vari passaggi che vi condurranno alla vostra destinazione, la discesa dall’aereo, i controlli di sicurezza, ecc. notate se potete essere presenti con il corpo e con la mente ovunque voi siate con un’attenzione aperta e accogliente. Prendetevi un momento per tornare consapevoli dei vostri pensieri, lasciando le anticipazioni e tornando presenti al vostro respiro, alle vostre emozioni e abbracciando l’esperienza.

Il respiro può aiutarvi a sentirvi radicati in ogni passaggio che dovete affrontare.

 

VEDI ANCHE:  AEROFOBIAMINDFULNESS

BIBLIOGRAFIA

  • Kabat-Zinn, J. (2004). Vivere momento per momento. Sconfiggere lo stress, il dolore, l’ansia e la malattia con la saggezza di corpo e mente. Milano: TEA
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