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L’Effetto Lucifero e la labilità della dicotomia Bene-Male

I protagonisti dell'esperimento carcerario di Stanford sembrano aver perso la bussola morale mettendo in atto comportamenti descritti come Effetto Lucifero

Di Giulia Campanale

Pubblicato il 19 Gen. 2023

Nel 1971 lo psicologo statunitense Philip Zimbardo ideò e realizzò un interessante esperimento meglio conosciuto come “Esperimento carcerario di Stanford”, che portò all’emergere dell’Effetto Lucifero.

 

C’è qualcosa, nel cosiddetto Male assoluto, che non è affatto mostruoso e non-umano, ma proprio umano, troppo umano: qualcosa che ci riguarda tutti, almeno come terribile possibilità non ancora espressa (Roberto Escobar, Prefazione all’edizione italiana del libro L’effetto Lucifero di P. Zimabrdo, 2008).

Introduzione

 L’etica e l’esperienza morale sono aspetti della vita umana che coinvolgono quotidianamente ognuno di noi, nessuno escluso. Il fenomeno morale non è di facile comprensione, ma si può dire che esso prenda forma nel tentativo di colmare un divario tra due aspetti presenti nella nostra quotidianità: da un lato troviamo i nostri desideri, bisogni e impulsi, elementi che semplicemente fanno parte di noi; dall’altro, in quanto esseri sociali, viviamo calati in una realtà che presuppone il rispetto di norme, precetti e regole alle quali siamo inevitabilmente soggetti. Quindi da un lato vi è il modo in cui siamo fatti, dall’altro il contesto socioculturale che definisce i limiti del nostro agire.

Se si parte dal presupposto che l’etica sia una scienza dell’essere, è istintivo pensare che l’indole buona o cattiva di una persona si rifletta di conseguenza anche nelle sue azioni. In realtà, però, l’etica non è solo una questione di indole o predisposizione al Bene piuttosto che al Male, ma potrebbe implicare anche un certo grado di consapevolezza e libertà nel saper scegliere come agire. Il confine tra Bene e Male che siamo abituati a considerare come netto e invalicabile diventa allora molto più permeabile, perché tutti noi, in mancanza di uno di questi due elementi, potremmo ritrovarci a compiere azioni radicalmente discordanti rispetto ai nostri valori abituali.

Philip Zimbardo e l’Esperimento carcerario di Stanford

Nel 1971 lo psicologo statunitense Philip Zimbardo ideò e realizzò un interessante esperimento meglio conosciuto come “Esperimento carcerario di Stanford” con il quale si proponeva di osservare durante l’arco di due settimane il comportamento di 24 studenti maschi inseriti all’interno di un carcere riprodotto nel seminterrato del dipartimento di psicologia dell’Università di Stanford. Vennero selezionati 24 ragazzi ritenuti psicologicamente e fisicamente sani, e vennero poi casualmente attribuiti a uno di due gruppi: guardie e detenuti. Erano questi i due ruoli che i partecipanti avrebbero dovuto fingere di ricoprire durante l’esperimento, per un compenso di 15 dollari al giorno.

Senza esporre regole specifiche né particolari criteri di comportamento, a coloro che avrebbero ricoperto il ruolo di guardie venne semplicemente detto che avrebbero dovuto fare quel che ritenevano necessario per mantenere l’ordine tra i secondi, cioè i detenuti. L’unica cosa di cui vennero avvertiti fu che avrebbero dovuto evitare abusi e punizioni fisiche di ogni tipo.

La mattina del 15 agosto 1971, con la collaborazione realistica dei poliziotti di Palo Alto, i detenuti vennero raggiunti senza preavviso nelle loro abitazioni, arrestati e sottoposti a vari rituali di degradazione: vennero fotografati, schedati, denudati e disinfettati. Vennero poi rivestiti con sandali, uniformi alle quali era stato applicato un numero di identificazione sul petto e sulla schiena, e una calza di nylon da indossare in testa. Venne poi arrotolata attorno alle loro caviglie una pesante catena. Alle guardie, invece, vennero date uniformi color cachi, manganelli, fischietti da poliziotti e occhiali da sole a specchio che occultavano il loro sguardo. Tutti insieme si riunirono per discutere e redigere un corpo di regole cui i detenuti si sarebbero dovuti attenere durante le due settimane successive.

Ma successe l’imprevedibile. La finzione si rivelò presto più reale della realtà, al punto tale che lo psicologo statunitense, vittima del suo stesso marchingegno, si trovò costretto a interrompere l’esperimento prima del previsto.

Nonostante l’obiettivo iniziale fosse quello di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti, l’effetto più sconcertante delle dinamiche di gruppo si ebbe sulla trasformazione subita dalle guardie, che da semplici giovani equilibrati si trasformarono in aguzzini spietati. I ragazzi nel giro di poco tempo si calarono nei due rispettivi ruoli di guardie e prigionieri al punto tale da subire un processo di deindividuazione, trasformandosi così in guardiani violenti o in vittime psicologicamente passive.

Lo stesso Zimbardo, pur senza avere avuto un ruolo diretto nelle vessazioni di quei ragazzi innocenti, non fece nulla per porre immediatamente fine agli abusi e appoggiò un sistema arbitrario di norme, regolamenti e procedure che li legittimava e facilitava.

Come poté accadere tutto ciò? É come se i protagonisti di questo interessante studio scientifico avessero perso la loro bussola morale sospendendo la loro capacità inibitoria verso comportamenti scorretti. L’esteriore (la situazione e i ruoli) dominava completamente sull’interiore (l’essere), quasi come se essi non fossero consapevoli di poter scegliere con libertà di agire diversamente.

Siamo abituati e amiamo pensare netto e stabile il confine tra i due lati del nostro comportamento morale: il bene è il bene, mentre il male è il male. Dove inizia uno finisce l’altro. Ma non è così: la linea della dicotomia bene-male è molto più labile e permeabile di quanto crediamo.

 Durante l’esperimento, dei ragazzi del tutto normali, sentendo di appartenere a un’istituzione legittimante (la scienza e l’università che proponevano l’esperimento), si sono sentiti servitori di una buona causa. Ogni azione fatta per essa era dunque il Bene, e se il Bene richiedeva loro di incrudelire per garantire il rispetto delle regole, dovevano e potevano farlo, a prescindere dalle conseguenze e dall’eventuale dolore altrui.

Nel cercare di comprendere le cause del comportamento siamo spesso soggetti a un bias mentale meglio conosciuto come errore fondamentale di attribuzione, il quale ci porta a sopravvalutare l’importanza delle qualità disposizionali e interne di una persona e a sottovalutare la forza delle qualità situazionali. Resistere alle tentazioni situazionali conservando sempre parvenze di moralità e decoro può però rivelarsi molto più complicato del previsto.

A noi piace credere nella bontà essenziale e immutabile delle persone, nella capacità di resistere alle pressioni esterne grazie a una valutazione razionale che porta a rifiutare le tentazioni situazionali. Semplifichiamo la complessità dell’esperienza umana tracciando una stagna frontiera tra il Bene e il Male e costruendo il mito della nostra invulnerabilità alle forze situazionali. Siamo così sicuri della nostra piena umanità che siamo certi che mai potrebbe capitarci di compiere la follia del Male, la quale ci sembra quasi sovrannaturale. Paradossalmente, così facendo, prepariamo in realtà il terreno della nostra rovina, poiché non stiamo abbastanza in guardia contro il potere della situazione.

I ruoli di solito sono legati a situazioni, occupazioni o funzioni specifiche. Vengono recitati quando ci si trova in una determinata situazione e poi si è in grado di abbandonarli quando si torna alla vita “normale”. Con questa convinzione si riesce ad abdicare alle responsabilità delle proprie azioni, addossando la colpa a quel ruolo estraneo alla propria natura abituale. Ma non è sempre così: alcuni ruoli possono essere tremendamente insidiosi e possono essere così fortemente interiorizzati da condurre ad azioni al limite del prevedibile, anche se inizialmente se ne riconosceva la natura temporanea e artificiale legata alla situazione. Si potrebbe dire che obblighi dissonanti costringono le persone a razionalizzare e onorare decisioni sbagliate.

Ecco allora che l’esperimento carcerario di Stanford rivela un messaggio che forse non vogliamo accettare: ognuno di noi, quando si trova nel travolgente crogiuolo delle forze sociali, potrebbe subire trasformazioni caratteriali e comportamentali significative e radicalmente discordanti dai propri sistemi valoriali abituali.

Questo è l’Effetto Lucifero. Questo è il potere della situazione, terreno fertile per la deindividuazione e le peggiori forme di disumanizzazione perpetrate nella storia dell’umanità.

Conclusione

È importante chiarire che qualsiasi comportamento estremo manifestato dalle guardie e dai detenuti durante l’esperimento era sintomo del potere della situazione e non di una loro patologia personale, tant’è che vennero scelti proprio in quanto individui normali e sani. Si potrebbe dire che essi non avevano portato nel carcere nessun tipo di difetto personale ma, al contrario, era stato proprio il carcere a tirare fuori i più imprevedibili eccessi comportamentali.

Alla fine dell’esperimento entrambi i gruppi di partecipanti tornarono ai loro originari livelli di risposta emotiva “normale”. Questo ritorno alla normalità e riaggiustamento d’animo non significa che i ragazzi non siano rimasti turbati dai loro comportamenti e dalla loro incapacità di mettere fine agli abusi (anzi!), ma sembra essere un’ottima conferma della natura situazionale e temporanea delle loro reazioni.

L’esperimento è stato ritenuto poco etico e morale ed è stato parecchio dibattuto e contestato. Tuttavia, esso si è rivelato un fervido appello ad abbandonare il concetto semplicistico che separa nettamente il Bene e il Male, e che presume l’indubbia capacità del “buono” di dominare e distaccarsi sempre dal “cattivo”. Sostenere che esista un’impermeabile dicotomia Bene-Male assolve le persone buone dalle responsabilità liberandole dal dover prendere anche solo in considerazione un loro possibile ruolo nel creare, perpetuare o difendere le condizioni che contribuiscono e legittimano la violenza e gli abusi.

In realtà, solo prendendo consapevolezza della nostra vulnerabilità e riconoscendo la potenziale capacità che le forze situazionali hanno di contagiarci possiamo essere maggiormente in grado di sfidarle, evitarle e impedirle. La consapevolezza è infatti l’unica preziosa bussola in grado di guidarci verso la nostra essenza morale, l’unica in grado di plasmare le nostre azioni attorno al nostro essere interiore preservandone l’integrità più profonda.

Riportando le parole di Zygmunt Bauman: “Essere morali non significa essere buoni. Significa sapere che cose e azioni possono essere buone o cattive. Si potrebbe dire che ciò dipende dalla particella “no” presente in tutte le lingue. Dopotutto, e forse prima di tutto, la moralità riguarda la scelta. Saper dire no, saper disobbedire, conservare “eroicamente” questa capacità, l’unica che ci consenta di decidere e scegliere: questo ci serve per sfuggire all’Effetto Lucifero”.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bauman Z. (2013). Le sorgenti del male, Erickson.
  • Hogg. M. A.; Vaughan G. M. (2016), Psicologia sociale. Teorie e applicazioni, Pearson. Ed. italiana a cura di Luciano Arcuri.
  • Lurigio, A. J. (2009). The rotten barrel spoils the apples: How situational factors contribute to detention officer abuse toward inmates: A review of the lucifer effect by Philip Zimbardo. The Prison Journal (Philadelphia, Pa.), 89(1), 70-80S.
  • Milgram S. (1963), “Behavioral study of obedience”, Journal of Abnormal and Social Psychology, 67, 371-378.
  • Milgram S. (1974), Obedience to authority, Harper & Row, New York (trad. It. Obbedienza all’autorità: uno sguardo sperimentale, Fabbri, Milano, 2014).
  • Volpato C. (2011). Deumanizzazione. Come si legittima la violenza. Laterza.
  • Zimbardo P. G. (2020), Memorie di uno psicologo, Giunti Editore.
  • Zimbardo P. G. (2007), The Lucifer Effect. Understanding how good people turn evil, Random House, New York (trad. It. L’effetto Lucifero, Raffaello Cortina, Milano, 2008).
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