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La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario

Resoconto del I Seminario sulla Disciplina Interiore del Terapeuta

di Giampaolo Salvatore
con
Anna Maria Barbarulo, Valeria De Liso, Elisa Langone, Nicoletta Manfredi, Raffaella Marciano, Antonella Pallotta, Mariagrazia Proto, Anna Sateriale, Marianna Serio, Laura Vitagliano

 

Aveva una struttura mentale particolare,
non attribuiva molta importanza alla
propria persona: non era, ai suoi occhi,
quella creatura rara e insostituibile che
ogni uomo vede quando pensa a se stesso.

Irène Némirovsky

 

I PARTE

Il rendez vous

Spacco il secondo. Di solito sono vittima della mia urgenza di essere puntuale. Ha qualcosa a che vedere col timore di essere rimproverato. Stavolta ci si mette anche una certa tensione. Ho chiaro in testa cosa vorrei realizzare con questo primo esperimento, ma non so assolutamente se sarò capace di realizzarlo. Però immagino, un po’ infantilmente, che il punto di partenza per iniziare a realizzarlo sia rispettare il programma. La tabella di marcia del primo seminario intensivo sulla disciplina interiore del terapeuta. Che tra l’altro non suona mica male.

Dieci giovani psicoterapeute. Appuntamento alle otto del mattino. Arrivano cariche di aspettative, impazienza, curiosità e speranza. Qualcuna di loro arriva lottando contro una specie di attrito col suolo. L’inerzia frenante dell’incognita. Che fa stridere un po’ l’asfalto ma non intacca la voglia di essere lì. Nella mente di tutte il viaggio è iniziato parecchio prima della partenza:

AM: Vari interrogativi affollano la mia mente “ma la disciplina interiore del terapeuta implica autocontrollo?”… “e lo può ottenere qualsiasi persona con qualsiasi temperamento di base??”… “riuscirò a far tacere e a ridimensionare le mie emozioni vivaci e incalzanti??”…. “qual’è la giusta misura tra il sentirsi intensi sul piano emotivo e l’autocontrollo?”…quale sarà la giusta via di mezzo e come si fa a mantenerla stabile come fa lui? Un giorno l’ho paragonato a Spock, il vulcaniano di Star Trek, e da allora questo soprannome gli è rimasto. Nelle supervisioni individuali e di gruppo spesso lo stesso suggerimento “metti tra parentesi te stessa” altrimenti perdi di vista il paziente; COME SE FOSSE FACILE! E noi spesso in coro… “Spock ma come si fa praticamente?” Ed ecco il seminario esperenziale. Ha deciso di farci vedere praticamente il suo percorso, di farci vedere come lui ha imparato a mettersi tra parentesi, ad osservare la sua mente e il suo corpo senza giudicarsi severamente e a regolare le emozioni e le azioni improduttive! Potrò trasformare il mio bisogno di “verità assoluta” in una “verità pragmatica” e smettere di intellettualizzare. Due giorni intensivi in un’oasi del WWF: dormiremo insieme, mangeremo insieme ….che atmosfera da GRANDE FRATELLO! Mi sento già una delle protagoniste di una nuova serie televisiva “l’ISOLA DEI TERAPEUTI”. Come si comporta un gruppo di psicoterapeuti messi insieme per due giorni a disciplinarsi? Come allenano questa difficile funzione della mente per poi aiutare al meglio i loro clienti?

 

R: Sabato mattina ore 7.30, la partenza tanto attesa. Direzione Senerchia! Molti sono i pensieri, le aspettative “Chissà se riuscirò a dimostrare che sono brava nel mio lavoro… chissà cosa penseranno di me…. Chissà…” Arriviamo a destinazione, con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia. Tanti sono i nuovi sorrisi… l’imbarazzo cresce e la paura di essere giudicata resta, però la voglia di apprendere è tanta!

 

AN: Non volevo partecipare al Seminario! E probabilmente non lo avrei fatto se non mi fossi sentita costretta dagli eventi … eh già, perché questa è una costante per me …. i timori di fare brutta figura, di non essere all’altezza, di essere giudicata male, di sbagliare e di perdere quell’aura di perfezione a cui tenacemente sono stata aggrappata per anni, di non riuscire ad integrarmi eguagliano e spesso superano di gran lunga il desiderio di affrontare le situazioni che mi piacciono.

 

V: Sono in auto da sola, e penso, penso.. chissà cosa ci aspetta, chissà chi ci sarà, se riuscirò a lasciarmi andare come vorrei o sarò la solita evitante che prima di lasciar trasparire aspetti di sé ha bisogno di tempo tempo tempo.. Presentazioni, saluti, baci, quanta gente.. già mi sento piccola, e che cavolo!

 

E: Arrivano Giampaolo (G.) e le altre. Imbarazzo misto a sorpresa. Il momento dei saluti. Quanto odio quei baci, quelle mani. Non so mai come comportarmi. Mi sento sempre un’impedita. Come quando sono in fila da altre parti, tipo in chiesa, seguo la massa e copio i loro atteggiamenti.

 

Senerchia. Borgo medievale che, Wikipedia insegna, esiste dal IX secolo. Cultura contadina con la schiena deformata dalla lotta quotidiana contro la devastazione della dignità; l’ultima volta, dal terremoto dell’80. Senerchia nuova è stata ricostruita accanto a quella vecchia, la città fantasma in cui si avventura qualche gatto con problemi di appartenenza. Hanno deciso che le generazioni future avrebbero dovuto avere sempre a portata di sguardo le macerie, lo sgomento, per capire cosa significhi uscirne vivi.

Le cime del Boschetiello e del Croce. Le conosco bene. Le guardavo da bambino quando giocavamo al pallone nella piazza vecchia. I portieri hanno tempo per guardare le montagne. Ora lascio che quelle cime rivolgano uno sguardo di sfuggita, distratto, all’operosità un po’ da formiche che scandisce l’ambientamento del gruppo nella villa. La concitazione per stabilire prima possibile le condizioni minime di familiarità, e sottrarre più alimento possibile a quell’angoscia serale che molti di noi provano quando sono lontani da casa, in mezzo a parziali sconosciuti (come se poi gli sconosciuti potessero esserlo parzialmente).

Tinì, la proprietaria, si fa aspettare dieci minuti tondi (secondo me apposta, per mascherare a modo suo l’ansia prestazionale che prova). Si è sempre fatta chiamare Tinì (per i più anglofoni, Tiny o Tinj), ma in realtà si chiama Concetta. Un altro pezzo della mia connessione storica con Senerchia, oltre alla mia breve carriera di portiere. Mi ha visto crescere nonostante io abbia pochi anni meno di lei.

Siamo sempre noi che decidiamo chi ci vede crescere, per poi dire in sua presenza, a qualcuno da cui vogliamo farci conoscere un po’, “mi ha visto crescere” (Spesso qualcuno dice di noi a qualcun altro “l’ho visto crescere” e a noi dà fastidio perché non lo abbiamo deciso noi). Comunque, Tinì. I suoi cinquantun’anni non l’hanno privata di quella capacità che ha da quando ne aveva quindici: la simulazione autoironica della vezzosità. Efficacissima per mettere da subito a proprio agio le persone. Per disinnescare sul nascere qualsiasi predisposizione dell’altro (soprattutto, dell’altra) all’agonismo. Mi sfotto – e mi ci diverto – dicendo che siamo in ritardo di ventitré minuti e quattordici secondi sul programma.

 

L’introduzione

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 1

Ho quattro cose da trasmettere al gruppo prima di iniziare:

a) che la disciplina interna non è come il dialogo socratico, una tecnica che si può applicare quando serve; quando un paziente difficile lo rende necessario (che so, perché ci fa saltare i nervi, sentire incapaci, impotenti, privi di valore, non amabili, ecc.); al contrario, solo se è un assetto interno costantemente coltivato dal terapeuta attraverso un percorso personale funzionerà quando serve col paziente difficile;

b) che quello che cercheremo di fare insieme funzionerà solo se compiremo insieme una virata radicale dalla dimensione del giudizio su noi stessi e sugli altri a quella dell’accettazione equanime di sé e dell’altro e della condivisione; per cui da questo momento in poi sarà tutto concesso; qualsiasi manifestazione emotiva (piangere, ridere, andarsene, arrabbiarsi con me, arrabbiarsi e basta, fare la pipì in pubblico, ecc.);

c) che non sono lì per insegnare; insegnare implicherebbe, almeno idealmente, che chi insegna fosse giunto alla fine del percorso che si accinge a insegnare; piuttosto sono lì per mostrare la strada che io seguo quotidianamente per tentare di funzionare meglio con i pazienti; poi loro sceglieranno se fa al caso loro e se approfondire;

d) che seguire una strada del genere significa sapersi guardare continuamente allo specchio e ammettere con umiltà quando da quella strada ci si allontana, per poi, se possibile, riprenderla.

La via più diretta verso questo quadruplice scopo è essere il primo a mettersi in gioco:

 

 

R: Tavolo, lavagna improvvisata, introduzione teorica… e a un tratto, inaspettatamente avviene una condivisione importante, carica di emozioni forti e di aperture profonde, la sua forza è tale da sgretolare una parte del mio muro di pregiudizio. Inizio a stare a mio agio, anche se ancora avverto molta confusione dentro di me…

 

AM:Silenzio, attenzione condivisa su un caso clinico complesso di Spock: i suoi interventi sono chiari e mirati ma il paziente chiuso nella sua sfida a demolirlo non li coglie; lo conosco e so quanto è bravo a tollerare anche pazienti cosi ostili, ma questa volta la mia attenzione è rapita da un colpo di scena inatteso: cambia la prosodia della sua voce, non ha più il solito tono rassicurante e di apertura all’altro, alza il tono e il volume della voce in un confronto dialettico e critico…non sono abituata a vedere Spock arrabbiato…..per un momento mi disoriento….lo sta cacciando fuori dallo studio?…si lo ha cacciato, non lo vuole piu vedere! Respiro, sono stupita e commossa! Bravo Spock, mi sei piaciuto!…..la distanza emotiva che spesso avvertivo si riduce…lo sento più vicino, mi sento più in sintonia con lui! Subito dopo, mentre spiega e parla anche di se e della fase di vita in cui ha visto quel paziente, mi diventa molto chiaro cosa significa conoscere le proprie aree di vulnerabilità, gli stati contingenti del terapeuta, lo scenario interiore e l’agire le azioni improduttive! Tutto molto più chiaro! Osservo gli altri, mi rivedo nei loro sguardi, sento in maniera molto forte che siamo di nuovo accomunati dalla stessa emozione di stupore e affetto per lui! Si è strutturata la coesione del gruppo, anche se non ci conosciamo bene, abbiamo tutti noi qualcosa in comune con lui; è il nostro comune denominatore e ci riconosciamo in lui e tra noi. Questo rispecchiamento mi piace, mi perdo e mi ritrovo nello sguardo e nelle parole degli altri, è una bella sensazione, è come se nessuno dicesse qualcosa che sento “fuori posto”, avverto una strana libertà di espressione e di movimento.

 

AN: La premessa di G….”dobbiamo fare esercizio di sospensione del giudizio”! Il primo a mettersi in gioco è proprio lui quando ci fa ascoltare la registrazione di una seduta con un suo paziente durante la quale si mostra ben diverso dal terapeuta perfettamente disciplinato e imperturbabile che siamo abituate a conoscere. Lo stupore è generale. Non riesco immediatamente a sospendere il mio giudizio. Nella mia testa si affollano domande sul motivo per cui si sia arrabbiato tanto e sul perché non sia riuscito a controllarsi… A molte delle mie riflessioni danno voce i miei compagni e le motivazioni più profonde vengono espresse. Ciò che mi colpisce, tuttavia, è il clima sereno con cui G. si sottopone al fuoco di domande. Sembrano essersi scambiati i ruoli, non so più chi è il supervisore e chi il supervisionato. Non vedo in lui la paura di mostrarsi inefficace, vulnerabile o infallibile come terapeuta e come persona (come accade spesso a me e a molte delle mie colleghe) e ciò mi rassicura perché mi offre un esempio di come essere “bravi” non sia sinonimo di essere “perfetti”. E poi lo sento davvero vicino, come noi….un amico che può capire come ci sentiamo quando sbagliamo e preda delle stesse violente onde emotive.

 

MG: “Osservare se stessi, spostandosi coscientemente dal giudizio alla condivisione”. Di supervisioni di gruppo ne ho fatte tante, ma per la prima volta sento dentro di me un clima interno favorevole per prendere le distanze dall’assetto giudicante. È il momento della famosa registrazione. È lui il primo a mettersi a nudo, mostrando anche la sua di vulnerabilità. Vedo lui e sento che nei giorni a venire potrò fare lo stesso e superare un mio limite…per un istante mi sento più serena, tranquilla in quel luogo.

 

N: Il passaggio dal giudizio all’accettazione. G. da subito ci mostra la sua vulnerabilità… una seduta audioregistrata in cui trova spazio la parte umana del terapeuta…sento il suo dolore. Mi risuona la mia voce interna “ti prego fermati!”… Accettare la sofferenza emotiva diventa l’unica per l’autodisciplina … forse per la prima volta nella mia vita ho sentito che la rabbia è davvero l’espressione del dolore …

 

E: …la sua spiegazione sul valore di sé e sull’amabilità come dimensioni fondamentali che il terapeuta sente spesso messe in pericolo mi rispecchia appieno. Io lo vivo in modo costante da sempre. È il momento della sua registrazione. Che paura quando lui grida rivolto al paziente. Quando G. gli dice che il giorno prima era morta sua madre mi sento triste. Penso subito “anche G. ha perso sua madre come me”. Il mio pensiero va a lei, a quanto è difficile far finta che tutto vada bene, al male che in vita le ho procurato, al mio immenso senso di colpa…A un certo punto interviene Tiny. Penso “che c’entra questa donna con noi? Perché si intromette”. Poi mi fermo e dico attenta al giudizio, aspetta. In realtà questa donna fa delle uscite inaspettate, ma non è inopportuna, solo schietta, dice quello che vuole nel momento in cui lo sente. Che scoperta! Sarebbe bello parlare senza cercare di anticipare l’effetto che potrebbero fare le proprie parole sugli altri.

 

A: G. è il primo ad esporsi…non immaginavo una rabbia così intensa… Mi parte l’accudimento e penso a quanto sia stronzo il paziente….poi mi distacco dal giudizio sul paziente, d’altronde mette in atto il suo funzionamento, e vedo la sofferenza di G. e come quanto anche lui sia umano…come anche lui nei momenti difficili può sbagliare, ma resta pur sempre una “guida” ….per un attimo provo il mio dolore di qualche tempo fa e mi viene in mente il giorno in cui ero devastata e scelgo comunque di vedere pazienti….m’interrogo sul perché avessi scelto di vederli…sulla mia necessità a volte di far la “super donna”, quella che non si può far perturbare dal suo dolore, anche se le casca il mondo addosso, per non apparire fragile e debole, …che si corazza nel suo dolore ed esternamente appare fredda e distaccata…G. ha sbagliato, lo riconosce ed utilizza questo errore come materiale didattico….mi si apre un mondo….il clima di gruppo diviene sempre più vivo.

 

V: Non poteva esserci premessa migliore.. ora ho il permesso di essere così come sono (o almeno lo credo). Grazie. È quello di cui ho bisogno, sento un’energia che mi dà il permesso, un’energia proveniente da G. e da tutte loro. Penso che pur non conoscendoci abbiamo già tante cose in comune; il percorso di studi, gli anni di specializzazione, la scoperta graduale di noi stesse, i primi dubbi sulla professione, il bisogno di rivolgerci a una guida; e poi siamo qui, tutte a Senerchia, in questo luogo immerso nel verde, tutte con la voglia di scoprire cosa questo seminario ci regalerà; tutte attente, desiderose di imparare, capire, riuscire.

 

CONTINUA

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II PARTE

Tai chi chuan

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 2

Ricordate la premessa (si veda I parte)? Non sono qui per dispensare soluzioni universali, ma solo per mostrare loro i miei metodi per affinare la disciplina interna; li indosseranno, valuteranno come li sentono addosso, e poi sceglieranno).

Ho sperimentato che per affinare la disciplina interna la mente deve essere aiutata a ricordare il potere che il corpo ha su di lei. Anzi, per dirla alla Damasio, il cervello deve essere aiutato a ricordare il potere che su di lui ha il resto del corpo. Quanto chi kung e tai chi siano potenti per questo processo l’ho già descritto in questa sede (si veda il post “Arti marziali e benessere psicologico; I e II parte”). Ho descritto anche come la scienza occidentale riporti risultati sperimentali sempre più stringenti sul loro potere terapeutico e preventivo.

 

Insegno loro le basi essenziali della respirazione taoista, o diaframmatica inversa. Faccio loro sperimentare cosa significhi pacificare la mente attraverso questa potentissima forma di respirazione; spostare la mente dalle sue stanze abituali, spesso stagnanti nell’odore di chiuso, all’addome, il punto da cui il respiro nasce, muore, rinasce; far scaturire dalle alterne, lente fasi del respiro, ogni movimento; essere in costante, impercettibile movimento anche quando apparentemente fermi, e fermi, centrati, radicati, anche nel movimento più rapido ed esplosivo.

Non pretendo che imparino in due giorni, ma che osservino, così che nella loro mente simulante si riattivi una connessione posseduta ma andata in disuso. Col tempo potrebbero comprendere che si può provare a essere centrati, fluidi, potenti, essenziali come nel tai chi anche al cospetto del paziente.

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 4

AM: Aiuto, il corpoooo? Questo sconosciuto che spesso trascuro e ignoro! E’ il momento del TAI CHI che ci aiuterà a imparare la respirazione al meglio, strumento essenziale per gestire l’intensità degli stati emotivi! Tutti noi osserviamo Spock affascinati: esegue una serie di movimenti lenti e circolari che sembrano una danza silenziosa ma in realtà mimano la lotta con un opponente immaginario. I movimenti sono coordinati con la respirazione. Ci chiede di ripeterli con lui, è paziente e incoraggiante; é difficile, ma ci impegniamo al meglio, ogni tanto ci guardiamo divertiti e interrompiamo il movimento con chiassose risate…è rilassante non giudicarsi e guardarsi con benevola ironia.

 

N: è il momento del Tai chi… un cerchio disegnato dal gruppo nel verde… i movimenti di G., lenti ed estremamente coordinati… mi arrabbio come sempre con me stessa quando non ci riesco…poi la respirazione… La dolcezza del corpo in pace con la propria mente… è un’apertura tra il mondo e te stesso…. fra te e l’altro… non penso per una volta… mi piace…

 

R: Il corpo come mezzo per accarezzare la propria anima, il corpo come strumento per disciplinarsi. Ecco, movimenti strani, apparentemente non naturali… Tai Chi… boh! da subito l’ho vissuto come una cosa totalmente lontana da me, essere goffo, impacciata nei movimenti, non elastica…davanti ai miei occhi solo i miei limiti! E succede di nuovo, si crea un clima di condivisione ed accettazione… la pratica, l’esempio diretto mi guidano verso il modo giusto di vivere il mio corpo… per la prima volta mi sono esercitata insieme ai miei stessi limiti… e ad un tratto quelli che sembravano insormontabili sono spariti… non sarò Bruce Lee, ma nemmeno Gamba di Legno!

 

A: “Forse è meglio mi metta dietro”…. “Sono troppo alta, coprirò la visuale e tutti saranno concentrati sui miei movimenti goffi”….pian piano scopro questa nuova disciplina e penso riuscirò mai ad imparare qualcosa? In fondo ho visto da spettatrice diversi allenamenti di arti marziali, ma non mi sono mai reputata capace di eseguire quei movimenti…Comincio a muovermi, mi sento un po’ impacciata…mi lascio guidare dal respiro, ma gli arti sono del tutto privi di coordinazione…smetto di giudicarmi e continuo a provare…poi provo a lavorare con L. La vedo molto concentrata, la seguo…ma ad un certo punto non sono più attenta alla prestazione, ma al piacere di condividere l’esercizio con lei…

 

E: Mosse strane. Io non so fare niente. Di fianco ho MG., la vedo più brava di me. Glielo dico e lei mi confessa che in realtà non fa molta attività fisica. Qualcosa cambia. L’atmosfera muta. I movimenti sono strani per me e non li ho mai fatti. Non mi sento più giudicata. Anzi rido insieme agli altri per gli sforzi che facciamo tutti. Negli esercizi in coppia io sono con R. Quante risate… Sono imbranata, ma non mi pesa esserlo.

 

MG: Durante l’esecuzione vengo ipnotizzata dai movimenti precisi e calmi che un corpo umano è in grado di eseguire, trasmettono pace anche in chi semplicemente osserva. Mi impegno per quanto mi è possibile, di tanto in tanto mi distraggo, incrocio qualche sguardo e rido per poi ritornare concentrata.

 

M: L’armonia. I corpi leggeri ed armonici si muovono nello spazio. I corpi si muovono con il tai chi. I piedi, le gambe, le mani, il bacino, l’anca spostano delicatamente l’aria e generano energia. Non importa il saper fare, fai. Osservo il mio corpo, la fatica che ne deriva e i miei limiti. Siamo noi, siamo tra noi.

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 3

 

Supervisione I

Emmanuele Carrère è uno scrittore francese che ci tiene molto a dichiarare sempre “da dove parla”, “da dove scrive”. E si tratta sempre di luoghi interni. Di fasi storiche del sé. I suoi romanzi si richiamano continuamente l’uno con l’altro, come per mantenere attivo un sottotesto autobiografico che prescinde dalla trama narrativa contingente. Il risultato è che se leggi tutti i suoi romanzi capisci che attraverso la scrittura questo autore ha cercato di capire chi è nonostante i suoi molteplici radicali cambiamenti nel tempo; e nonostante lui sia uno scrittore geniale e noi no, ti fa sentire nella stessa barca con lui rispetto alla frustrazione che può derivare da questa ricerca. In un paio dei suoi romanzi Carrere cita un sutra buddhista che fa capire essere stato importante per la sua maturazione:

“Chi crede di essere superiore, inferiore, o uguale a un altro essere umano, non capisce la realtà”.

Non so se qualcuno di loro abbia mai letto questa frase, ma mentre sediamo attorno al tavolo si comportano come se ne comprendessero il significato. Ci sentiamo indubbiamente ‘nella stessa barca’, liberata della zavorra del giudizio percepito, dalla credenza cancerosa (spesso non errata) che si insinua negli interstizi dei rapporti umani: ‘il mio errore, e l’infelicità che ne consegue, renderà sottilmente felice l’altro’:

 

AM: Propongo il mio caso; non è la prima volta che parlo di questo paziente, è un caso complesso che Spock mi ha spinto ad accettare: dice che impariamo a disciplinarci meglio accettando la sfida a risolvere i casi che ci spaventano. La psicosi l’avevo studiata bene dai libri ma gestirla nello spazio di terapia è tutt’altra cosa. Spock aveva ragione, alla fine mi sono molto legata a questo paziente che mi mette cosi a dura prova sull’efficacia terapeutica. Evidenzio un momento di stallo, in cui provo dispiacere rispetto ad una regressione del mio paziente e mi chiedo ‘perché non mi tiene presente nella sua mente quando si sente spaventato’…..e qui, all’improvviso, si introduce nella mia mente una scena di me piccola che si sente sola e non vista….cerco di reprimerla, ma ritorna..Spock mi aiuta ad esprimerla. Mi imbarazzo, ma questa volta cerco di abitare questa sensazione e di superarla. Lei entra, gli altri l’accolgono in maniera cordiale, io la osservo con benevola ironia, non sorrido per distanziare il dolore ma per accoglierlo senza drammi. Incrocio lo sguardo di An. e A., che mi guardano con tenerezza, e il loro sguardo mi incoraggia a non vergognarmi della mia parte vulnerabile. Cercherò di preoccuparmi meno di essere nella mente del mio paziente e di trovare un modo per farlo sentire meno compreso, cosi come sarò più benevola e comprensiva rispetto alla mia parte vulnerabile e alla mia storia. Le osserverò in maniera indulgente e la metterò tra parentesi! Poi tocca a M. Anche lei presenta una caso tosto e un momento terapeutico durissimo: il paziente in seduta non parla, lunghi silenzi in seduta, M. cerca argomenti condivisi, ma niente! Che angoscia, come la capisco! ….mi sembra che abbia gestito al meglio quel silenzio insopportabile ma Spock incalza anche con lei….e anche M. ci presenta la sua parte vulnerabile. Wow, due psicoterapeute dal temperamento diverso, due pazienti diversi, due momenti terapeutici diversi, ma lo stesso processo mentale. Tutto più chiaro Spock!….piano piano i miei quesiti cominciano a trovare la loro risposta.

 

M: Semplicemente mi sento parte del gruppo. Parlo del paziente ma in realtà parlo di me. Sento silenzio dentro e fuori di me, nessun giudizio. Non c’è spazio per il giudizio.

 

MG: Tutti intorno al tavolo, Am. inizia a descrivere il suo paziente. G. la porta al nucleo personale. Il desiderio di essere importante per il suo paziente; più in profondità, la paura di non essere importante per l’altro. Mi fa tenerezza perchè leggo il bisogno di affetto che è anche il mio.

 

E: Supervisione. Ascolto quella di Am. Mi ricordo del mio primo paziente, schizofrenico. Poi piano piano mi distacco da questo pensiero, mi concentro su Am. e sulla sua esigenza di essere vista. È molto simile alla mia, la sento vicina. È la volta di M. che con voce tremante esprime la sua difficoltà con il suo paziente. Quando racconta di sé e del suo imbarazzo vedo un pezzetto di me, di tutte le volte che mi sento diversa e mi piacerebbe fare parte del gruppo, la tristezza di essere l’ultima di tre figli che vive all’ombra del principe.

 

A: Ecco comincia il lavoro di supervisione… “Io chi porterò…boh….ascolterò gli altri, sicuramente non parleremo tutti”…è Am. lei a rompere il ghiaccio. …nella sua esposizione ci fa sorridere continuamente….mentre parla ci guarda, come a chiedere di essere sostenuta…la osservo con tenerezza….e mi rendo conto che anche lei ha le sue paure come me….la vedo nelle sue fragilità e la sento sempre più vicina …La parola passa poi a M.…delle volte mi vedo un po’ come lei…ho paura di espormi, di non dire la cosa giusta….poi G. ci chiede un feedback della giornata….ecco il mio turno… “Che dico ora? Quello che sento”…ma ad un certo punto mentre parlo mi trema la voce per il significato che quei contenuti hanno per me, sento un brivido nel corpo, lo riconosco, ma riesco comunque a dire quello che volevo.

 

AN: Il focus è centrato su di noi. La paura di dovermi esporre, di dover lasciare quel posto sicuro costituito dai miei silenzi e dal mio “saper ascoltare” per timore di essere giudicata, derisa o forse semplicemente perché é più semplice mantenere il proprio fragile equilibrio se a parlare sono gli altri. E invece, con mio stupore, mi ritrovo ad ascoltare pezzi della mia storia in ciascuna di loro: nella difficoltà di M. di integrarsi nel gruppo dei coetanei, che mi riporta a tutte le volte che è accaduto a me in passato, o forse ancora oggi, sebbene sia diventata molto brava a dissimulare; nel desiderio di Am di essere pensata dal suo paziente che, anche se per motivi diversi, fa parte del mio vissuto. Rivedo me stessa, le reazioni che ho con i pazienti e provo un sentimento di vergogna e senso di colpa perché spesso anch’io non mi sintonizzo con loro a causa delle reazioni emotive che mi suscita il contatto con i loro stessi sentimenti o atteggiamenti e che mi fa reagire “contro” di loro. Ma, d’altro canto, sono umana, così come le mie colleghe, e mi conforta il pensiero di condividere con loro molte ansie, preoccupazioni e temi di vita.

 

N: Discussione sui casi… il clima è aperto… Am. per prima, poi M. Esprimono le loro difficoltà con due pazienti difficili perché attivano in loro i propri bisogni preesistenti e all’improvviso dentro di me cambia tutto… non solo sento il loro bisogno ma per la prima volta rintraccio il mio … mi sposto sul loro piano provo a rappresentarmi cosa si sarebbe attivato in me con quei pazienti e capisco…mi viene alla mente una scena con una mia paziente… domani ne parlerò… le ringrazio senza di loro non ce l’avrei fatta…

 

Dormiamo pochissimo perchè a cena tiriamo fino a tardi. Tiní ha tenuto banco raccontando aneddoti su senerchiesi illustri, gli stessi che raccontava suo padre, “o’ prufessor'”, mio padre di riserva (anche se il titolare se la cavava benissimo). Ha anche raccontato di me da piccolo. La scalata interna dell’atleta per soppiantare il nerd. Sull’aneddoto della mia prima comunione contornato da quattro damigelle il gruppo tocca l’estasi:

 

AM: E’ sera, siamo tutti un po’ affaticati nel corpo e nella mente…mi piace questa sensazione di fatica…mi fa sentire il momento del pasto un ristoro meritato. Conversiamo in maniera sciolta e fluida e sembriamo tutti stupiti e divertiti dai racconti di Tinj sulla vita di Spock. Ci svela particolari anche intimi della sua giovinezza in maniera naturale e spontanea. Tinj comunica senza filtri, i suoi schemi di pensiero cosi liberi, si incastrano pienamente col tema della giornata. Sospendere il giudizio e lasciar fluire la mente. Osservo Spock e non mi sembra infastidito dai suoi racconti, sembra quasi divertito, avverto che sono uniti da un affetto storico molto solido.

V: Nottata di insight!

 

La domenica mattina, alle 6.30, vedo un gruppo di zombie riacquisire in mezz’ora qualità umane.

Dopo l’allenamento mattutino di tai chi e la colazione mi osservo pensare che il seminario sta andando benissimo. Molti sorrisi pieni. Mi vengono in mente frasi da animatore turistico, tipo ‘ehi ragazzi, sento un’energia positiva (tre punti esclamativi)’ , che però non dico, perchè mi hanno sempre fatto venire i nervi quando le ho sentite dagli animatori turistici che ho subìto nella vita.

Poco dopo succede una cosa. Ricevo una notizia tragica. Realizzo quanto quello che sta succedendo – una combinazione semplicissima: qualcosa va benissimo mentre qualcos’altro malissimo – sia una versione concentrata, iperbolica, quasi caricaturale, della realtà delle cose. Mi viene sbattuta in faccia l’applicazione pratica di uno dei contenuti più nucleari tra quelli che cerco di trasmettere in questo seminario: un successo significativo e il più tragico dei fallimenti sono la stessa cosa; entrambi non ci accadono, accadono e basta. Come se un testimone dicesse: ‘vuoi insegnare roba del genere, ma sai veramente di che parli?’. Andare fino in fondo è l’unico modo per capire se so veramente di che parlo.

CONTINUA

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III PARTE

La cascata

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 7

Il torrente Acquabianca alza sempre più la voce man mano che ci avviciniamo a quella spaccatura del monte che crea la cascata. Trenta metri di forza pura, inconsapevole di sé. Il gruppo mi segue in silenzio. Hanno paura della cascata. Di quello che immaginano proveranno. Ci sono passato. Freddo, paura, vergogna, panico. Hanno paura di quello che immaginano. Come quando sono davanti a un paziente difficile che li porta a immaginare di non valere o di essere non amabili. Penso di nuovo ‘siamo nella stessa barca’, anche in questo preciso momento. Anche io ho paura. L’unica differenza è che io ho paura che oggi la cascata non mi basterà. Poi osservo questa paura mentre cammino. Arriviamo. Conosco l’effetto che fa a chi la sa ascoltare e guardare. Il dono spiazzante, che non ti aspettavi:

 

E: Scene indimenticabili. Pietre enormi. Il rumore dell’acqua che scorre. Che pace. Tutto è grande. Mi sento piccola. Quello che vedo mi piace. Attraversiamo l’ultimo ponte. Ecco la cascata. Bisogna attraversare un tratto d’acqua breve, ma non è difficile come me lo immaginavo. G. ci mostra come fare. Ci dice di urlare e “tirare fuori tutto”. Lui va per primo e poi resta fermo lì. C’è per ciascuno di noi. Io mi metto dietro a V. Ci sosteniamo l’un l’altra. Sento un’energia dentro. È il mio turno, mi avvicino e mi immergo. Vedo la luce dell’arcobaleno. È bellissima. Urlo anche se è un urlo strozzato. Sento la mano di G. che m’invita a rimanere ancora lì. Resisto un po’. Mi volto e non sono sola. Lui c’è per aiutarmi e ci siete anche voi compagni di avventura. Riprovo di nuovo ad andare. Ora è diverso. Lo faccio per sentire ancora.

 

N: Zainetto in spalla siamo all’ingresso dell’oasi…gli scorci che si presentano ai miei occhi devo racchiuderli in fotografia. Resteranno per sempre con me…quelle rocce immense da cui respiro la brezza dell’aria pura e austera mi sostengono…la fermezza è nella mia mente. Finalmente la cascata tanto attesa. G. si avvicina alla cascata. La sua postura ferma con le braccia bloccate, la guarda con le spalle rivolte a noi. Lì capisco: ‘Cascata aiutami, svuotami’. Lui per primo ci insegna ad avvicinarci… l’urlo per anestetizzare il freddo, la calma per essere un tutt’uno con essa….lo seguo e mi sento forte, viva, libera… dopo di me uno dopo l’altro l’euforia di ognuno sostiene il prossimo, cresce la condivisione … fortissimo il mio abbraccio con Mg. L’esperienza che ci stringe …più unite di prima… io e Mg. riproviamo…questa volta senza paura.

 

MG: Ho le gambe doloranti, ma sono emozionata per la tanto attesa cascata… “se mi fa paura posso anche non farlo, anche questo sarebbe un atto di coraggio”. Cammino lungo la valle, dietro a quell’uomo che a volte vivo come schivo, ma che per me è un gigante buono. Sono un passo dietro di lui, nel silenzio, solo il rumore dei nostri passi e dello scorrere dell’acqua. Vedo lui cosa fa e nel suo urlo mi sento un po’ sollevata. Poi la mia mano viene stretta, sorretta, sostenuta, incoraggiata…io non saprei rifarlo un urlo come il suo, però sotto quella cascata ho urlato il mio dolore e mi sono sentita piacevolmente svuotata e poi compresa, accudita, amata da quella montagna. Infreddolita, ho cercato riparo per poi ritrovarmi in un emozionante abbraccio con N.

 

A: All’Oasi ci si para davanti uno scenario incantevole…osservo il paesaggio, respiro aria di tranquillità, mi sento rilassata…ogni angolo sembra una nuova scoperta…è imponente, decisa …solo ad osservarla diffonde energia…ci spogliamo per preparaci alla nostra esperienza…mi avvicino timorosa, sento freddo…ho paura di non riuscire…sono in fila…osservo il gruppo e l’urlo di ciascuno diventa un po’ il mio…solo quando giunge il mio turno mi accorgo di essere l’ultima…ma c’è già qualcuno pronto a farlo di nuovo…mi dico “dai forza” e vedo la mano di G. tesa verso di me…è proprio il mio turno…mi affido a quella mano e mi lascio andare…è un momento unico, meraviglioso …difficile da mettere in parole…improvvisamente non ho più freddo, sento l’acqua attraversare tutto il mio corpo, come se mi “ripulisse” anche interiormente di tutti quei pensieri e sciocchi timori che attraversavano la mia mente…mi sento svuotata, finalmente libera con una potente sensazione di leggerezza …mi volto verso la mia sinistra e trovo ancora lì quella mano tesa…e poi i volti elettrizzati dei miei compagni di viaggio… sento quanto sia emozionante lasciarsi andare e ritrovare comunque gli stessi punti di riferimento lì ad aspettarmi, a sostenermi ad incitarmi…sento l’energia di quella cascata e mi sento un tutt’uno con essa.

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 5

L: …quando ci siamo uniti tutti con gli occhi chiusi vicino la cascata. Piena di paura serro le palpebre e comincio a respirare, tremo per il freddo che arriva da lei. Sento il suono sferzante dell’acqua che cade violenta e libera goccioline che come cristalli di ghiaccio raggiungono la mia schiena. Mi lascio trasportare dal freddo e dallo spaventoso suono… e improvvisamente il miracolo, non percepisco nè il freddo nè la paura. Tutto è scivolato via e senza timore abbraccio e mi lascio abbracciare dalla cascata.

 

R: Ecco l’acqua scendere ed attraversare il mio corpo, portandosi via un po’ di quella fuliggine che mi opprime il petto. Non c’era freddo, non c’era più nessuno…. Io, il vuoto calmante della mente e l’abbraccio dell’acqua…Esci e ritorni alla realtà, ritrovi la stessa mano che ti ha mostrato la giusta strada guidandoti … e guardi negli occhi dei tuoi compagni di avventura e non c’è più bisogno di parlare…Ora si, mi sento pronta a condividere parte di me… il mio muro del pregiudizio è sparito!

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 8

 

AM: Stranamente non ho paura, mi sento unita alla volonta degli altri, è come se non fossi io a decidere ma il gruppo e non posso trasgredire al patto di metterci alla prova, di sperimentare nuove sensazioni, sento che siamo tutti uniti in un vortice di coraggio contagioso e potente. La forza della natura, la forza di Spock, la forza del gruppo. Ce la posso fare, voglio far parte di loro fino in fondo. Inizia lui, la forza del suo corpo si confonde con quella dell’acqua in un urlo acuto e liberatorio che ancora mi sembra di sentire; l’adranalina sale, il coraggio aumenta, è il turno di N. poi Mg, poi M. Mi nutro del loro coraggio, l’adrenalina continua a salire, mi sento forte…vado…mi avvicino….sento la mano di Spock che con delicatezza mi trattiene sotto l’acqua, è fredda, violenta ma incredibilmente piacevole….urlo e cerco nel vuoto il suo sostegno per uscire. Mi sento forte, soddisfatta! Non dimenticherò più quella scena, sarà uno dei miei posti sicuri nella mente e potrò richiamarla ogni volta che avrò paura e starà li a ricordarmi che non sono sola e che ce la posso fare! Tutti abbiamo una strana voglia di farlo ancora, abbiamo gia dimenticato tutti i nostri timori; sono affascinata dal potere di questa unione natura-gruppo alla guida di un uomo coraggioso. Dimentico il mio imbarazzo per il costume e mi stendo al sole tranquilla, quasi incurante degli sguardi altrui, sono troppo concentrata sulle mie sensazioni, sento il fresco del costume ancora bagnato, il sole che mi accarezza il corpo affaticato ma stranamente vigoroso, il silenzio interrotto solo dal rumore della cascata e da qualche voce in sottofondo, l’odore del verde. Spock è dentro e fuori la scena, in dei momenti è con noi sul ponte a lasciarsi scaldare dal sole e in altri è solo su una roccia immersa nel verde in una posizione da osservatore distaccato. Facciamo la foto di gruppo sul ponte. Stupenda. Resterà anche lei nella mia mente come esempio di piena condivisione ed unione per un obiettivo comune.

 

AN: Da principio non riesco a fidarmi….già, perché è sempre una questione di fiducia….che sia un’attività davvero utile alla nostra crescita personale ma anche che non sia pericolosa…ma ad un tratto il mio sguardo incontra quello sorridente di G., che mi comunica sicurezza. In sottofondo le mie compagne urlano a gran voce “Anna Anna Anna…” . Mi incitano come fossi un atleta durante le Olimpiadi, come ho visto fare tante volte alla Tv, e penso “non posso deluderle” anche se ho paura. Le loro voci mi sostengono, prendo la mano di G. e sono sotto la cascata ghiacciata…intorno è solo fragore quasi assordante dell’acqua. Riesco a sentire il mio respiro che sembra rimbombare. Apro gli occhi e mi sorprendo a scorgere un arcobaleno sulla parete…è bellissimo con i suoi colori intensi. Mi lascio avvolgere da quella pace e non sento più il freddo dell’acqua. Mi sembra di non sentire nulla oltre al respiro e mi sento piena, carica, felice.

 

V: Non ci sono più dubbi, non ci sono paranoie, non c’è più nessuno.. ci sono io negli altri e gli altri in me. E tutte fuse con la spettacolare natura che ci circonda. Siamo lì sul ponte, tutte ferme, nella pace e nel relax più assoluto. Il sole ci scalda e ci asciuga, il suono della cascata ci accompagna, la guardiamo e ora è nostra amica, piccola, calda.

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 6

 CONTINUA

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IV PARTE

Supervisione II

 

Per l’ultima volta attorno a un tavolo, a parlare di sé attraverso il racconto dei pazienti. Alla cascata è successo qualcosa. Qualcosa ha fatto un click dentro. Avrà bisogno di tempo per essere elaborato, trasformato in concetti da scambiarsi, ma questo non gli impedisce di agire:

 

R: Dopo la cascata sono pronta a buttare fuori ciò che provo… ciò che sento.. finalmente riesco a chiedere aiuto… Lì succede una magia, individui diversi per carattere ed esperienze di vita, si sintonizzano su di me… sulle mie emozioni con estremo tatto e delicatezza… accolgono la parte di me che temo di più, che cerco di nascondere disperatamente, mettono fuori gioco la facciata della donna acida, stakanovista… quella che non ha bisogno di nessuno, per lasciar emergere la mia parte fragile ed estremamente delicata. E proprio come la cascata, ho buttato tutto fuori una piccola parte di quel dolore, di quella rabbia che non mi permetteva di ritrovarmi. Mi ritrovo imbarazzata, ma con la sicurezza di avere tante mani pronte a sorreggermi… una sensazione unica, potente… leggerezza, serenità! La potenza della condivisione incondizionata, dell’accettazione di sé e dell’altro, non c’era più differenza, l’emozione dell’altro diventa un po’ tua.

 

N: Rientriamo…il tempo di pranzare e poi intorno al tavolo a discutere dei casi è il turno di R. Una paziente le ripropone continuamente in terapia la sua devitalizzazione proprio quando lei si sente allo stesso modo… il dolore bloccato, e che ti blocca, perché per esprimerlo hai bisogno che prima qualcuno si occupi del dolore di tua madre. Poi tocca a me. La scena di una mia paziente che si mostra bambina, dipendente, incapace di reagire, mi riporta alla mia infanzia. Due scene, le più dolorose. Capisco la mia rabbia, abbraccio me stessa…per la prima volta mi sento vista per quella che sono e ringrazio tutti per avermi accolta.

 

MG: Da ieri osservo R., non la conosco, ma sembra sofferente, ripete spesso di sentirsi devitalizzata ed ora ne capisco il perchè…parla, si commuove e sulla mia guancia scorre una lacrima. So molto bene cosa prova, quel senso di impotenza che ti logora e ti spegne. Nella mia mente un susseguirsi di immagini di vita vissuta, chiudo gli occhi.

 

E: R. parla della sua devitalizzazione. Fa uscire tutta la sua sofferenza. Cerco di starle accanto. È dolcissima. Mi dispiace troppo che stia male. So che però questo in quel momento le serve per poter stare bene. Poi N. parla del suo caso, ma soprattutto di lei. Dietro a quella facciata da dura esprime la sua fragilità. Anche lei come me ha avuto una mamma depressa. Che dolore…Osservo come G. ci aiuta a riflettere su di noi e centrarci su quello che sentiamo.

 

AN: Basta che R. apra una piccola finestra sulla sua storia perchè in un attimo ci sentiamo tutte figlie della stessa madre malata ma combattiva. Siamo tutte R. e sentiamo tutte il suo dolore farsi largo nei nostri cuori. Dice di vergognarsi di piangere ma io vorrei dirle soltanto “grazie” perché non si può far altro che essere grate ad una persona che ti permette di vedere la sua parte più fragile e sceglie di farsi consolare dal gruppo piuttosto che viversi il dolore in uno sterile isolamento. Come solita fare io del resto, per non dare fastidio, per non essere un peso nelle giornate degli altri o per sembrare più forte di ciò che sono. Come se la forza o la debolezza dipendessero da quanto riusciamo a controllare e dissimulare la nostra sofferenza…Mi rendo conto in quel momento che ho ancora tanta strada da fare a livello personale per accettare e accogliere la mia vulnerabilità. Quella che tutti abbiamo ma che io ho visto sempre come una nemica da sconfiggere e da tenere a debita distanza di sicurezza. R. si è lasciata andare e adesso mi sembra più forte di prima. Anche il racconto di N. mi tocca molto. Mi rivedo nella bambina N. alle prese con i suoi problemi di salute e con la determinazione di chi non vuole arrendersi al destino crudele e beffardo che rischia di minare irrimediabilmente la sua autonomia, nel tentativo di dimostrargli “io sarò più forte” ma soprattutto nel suo desiderio di tranquillizzare i genitori nascondendo le sue paure, le sue difficoltà dietro una facciata di iperefficienza.

 

V: Ultima supervisione. Non sono pronta ma non mi interessa. Ho la spinta adatta per andare a guardare lì dove non mi piace guardare e questo è un successo. Va bene così, pazienza se non è il mio momento. Ci penso su e questo mi aiuterà. Non andrò via a mani vuote. Quello che le altre mi lasciano è ugualmente prezioso o forse di più.. risulta più semplice guardarmi attraverso le altre piuttosto che guardare direttamente me stessa. Ascolto le loro parole, le difficoltà, le espressioni e tutto diventa più nitido, le vedo così come sono. Grazie.

 

Meditazione

L’ultima pratica prima di salutarci. Molti non si sono mai seduti su uno zafu. Non sanno nemmeno cosa sia. (N, per esempio, ha comprato da Decatholon una specie di mattone grigio sorcio di gomma pressata che chiama “sedile da yoga” e che le anestetizzerà le natiche). Per altri non è una novità. Provengono da scuole di specializzazione in cui parecchie ore sono dedicate alla mindfulness.

Insegno loro le basi essenziali della postura. Li rassicuro sul fatto che in questi quarantacinque minuti è escluso che verranno folgorati dal samadhi. Quindi è importante evitare la perdita di tempo di ricercarlo e sentirsi frustrati nel non trovarlo. Dovranno solo ascoltare il loro respiro e le cose che leggerò.

Uso il metodo di uno dei miei maestri di arti marziali, un monaco zen, che dopo l’allenamento ci faceva sedere in zazen e leggeva alcuni brani tratti dai testi classici. Immobili, senza alcuna fatica, ascoltavamo e respiravamo. Un brano, poi una lunga pausa, poi un altro brano. Nelle nostre posture, diventavamo macigni, ma le parole, quella voce, non incontravano alcuna resistenza. La semplice realtà delle cose entrava nel ventre:

 

 

E: Trovo il mio posto. Ascolto i brani. La mente va. Vedo scene confuse e il pensiero si distrae. Lo riporto alla situazione presente ancorandomi al respiro, ma la mente si distrae. Mi fanno male i muscoli. Perdo la posizione. Voglio concentrarmi. Poi mi rivedo nel brano IO SONO, in quello che parla di abbandonare la centratura su sé. Lo voglio fare nei giorni a venire.

 

 

N: In meditazione non so se riuscirò a star ferma. Ci provo, poi G. mi rassicura. Le sue parole profonde, semplici mi consentono di continuare a rilassarmi e ascolto attraverso i concetti sempre più me stessa, il mio corpo in contatto leggero con la mia mente..

 

MG: Le luci sono soffuse, ognuno sul suo zafu per iniziare la meditazione “le gambe mi fanno male in questa posizione, non mi piace chiudere gli occhi e ho difficoltà a stare ferma”. G. inizia a leggere e io decido di trovare una posizione più comoda. Ha una voce calda e penetrante, i contenuti sono profondi e mi rilassa ascoltarlo.

 

A: la voce rassicurante di G. mi guida verso la calma e il rilassamento…sento dolore alle gambe, aggiusto la posizione e riprendo il piacevole contatto con il mio corpo, abbandonandomi alla serenità.

 

V: Momento meditazione. Ginocchia a pezzi… parole che si insinuano nella mia mente e trovano un posto comodo. Ci stanno benissimo.

 

Commiato

Ci salutiamo un po’ frettolosamente, quasi distrattamente, come se dovessimo rivederci di lì a poco e si attivasse un termostato anti-enfasi. Una specie di imbarazzo nel leggere, ciascuno nel viso dell’altro, per non più di una frazione di secondo, quanto sia, per quanto necessario, piuttosto innaturale salutarsi. Penso: ‘ho regalato loro un’esperienza nuova, forse l’inizio di un importante cambiamento interno…’; poi si aggiunge un altro strato di pensiero: ‘…hanno fatto lo stesso con me’.

 

N: Il momento dei saluti. La prima cosa che penso è che é come se avessimo prima di questo momento condiviso altro, come se ci fossimo già conosciuti …poi penso che c’è bisogno di proseguire…ognuno di noi sente che dovremmo riunirci presto, ritornare qui.

E: Ci mettiamo in macchina e parliamo delle cose che ci porteremo di questa esperienza. Per me saranno la certezza che le cose non sono difficili come credo, il mondo è più importante della mia sola esistenza e soprattutto il mio essere stata bambina non può influenzare continuamente il mio essere adulta. I propositi per il futuro sono pensare meno prima di parlare, fare e dire le cose solo perché ho voglia di farlo e portare meno l’attenzione a me e più al mondo. Senerchia è stata un’occasione per scoprire che si è al mondo non per forza per produrre qualcosa ma solo per stare.

R: Avere un modello non vuol dire solo avere un contenitore con tante caselle dove inserire le persone…. Avere un modello vuol dire interiorizzarne i significati, abbracciare uno stile di vita, abolire il giudizio e promuovere la condivisione genuina di tutte le parti di sé, anche quelle poco piacevoli. Dove la differenza tra te e l’altro non esiste.

MG: Siamo in macchina, guardo dal finestrino Senerchia, sto ferma, sono calma e serena.

L: Le osservo, senza giudizio, per quello che oggettivamente sono: la celata delicatezza di A., la forte tenerezza di An., la calma determinazione di M., la dolce energia di N., il silenzio birbante di Mg, la solare inquietudine di R., la delicata profondità di V., la silenziosa cura di E., lo spaventato affetto di Am. La felice tristezza di L.
Sarà questa la disciplina interiore? Lasciarci guidare dalle cose che ci spaventano senza evitarle? Osservare ciò che ci circonda senza giudicare, arricchendoci del nostro guardare l’altro mentre guardiamo noi stessi? Si dice che all’essere umano fa paura ciò che non conosce. Noi a Senerchia abbiamo convissuto con ciò che non conoscevamo.

 

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Master Online in Disturbi Specifici dell’Apprendimento

Dislessia, disgrafia, discalculia e disortografia: queste sono alcune problematiche che si possono riscontrare in alcuni bambini in età scolare e prescolare e che rientrano nella categoria dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).

I DSA consistono nella mancanza di alcune abilità specifiche nella lettura, nella scrittura e nella capacità di padroneggiare numeri e calcoli: tale carenza non permette al soggetto di essere autonomo nell’apprendimento.

Spesso questi disturbi, ancora poco conosciuti sia dal personale docente che dagli stessi genitori, sono causa di grande stress psicologico e di emarginazione del bambino, oltre che di compromissione del percorso formativo.

Riconoscere i sintomi dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento e attuare misure di intervento tempestive è quindi fondamentale per guidare il bambino verso l’autonomia e la completa integrazione nel gruppo.

Il MIUR garantisce il diritto allo studio delle persone affette da DSA, secondo quanto stabilito dalla legge 170/2010.

E proprio il MIUR ha riconosciuto anche I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l tra gli enti idonei a somministrare percorsi formativi in materia.

I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l offre un Master Universitario Primo Livello Online sui Disturbi dell’Apprendimento, per formare personale specializzato in questo settore, in grado di fornire tutte le competenze necessarie per conoscere e riconoscere la presenza di questi disturbi e introdurre misure di sostegno contro l’insorgenza di eventuali insuccessi scolastici.

Il Master, erogato completamente online, si sviluppa in 1500 ore da distribuire in 12 mesi.

È possibile usufruire anche di un finanziamento della Comunità Europea per coprire parzialmente il costo, oltre alla disponibilità di accedere a pagamenti rateizzabili.

Essendo I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l un Istituto Universitario, l’attestato che sarà rilasciato “Master Universitario primo livello Disturbi Specifici dell’Apprendimento, 60 CFU e 50 ECM” ha valore legale sia in Italia che all’estero, utile per:

  • concorsi pubblici
  • libera professione
  • graduatorie scolastiche
  • cooperative sociali
  • avanzamento di carriera

Ai professionisti nel settore sanitario verrà rilasciato un Certificato di 50 Crediti Formativi / ECM (Educazione Continua in Medicina), in quanto, I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l. è stata accreditata presso il Ministero della Salute in qualità di Provider n. 4182 per la formazione ECM – Educazione Continua in Medicina.

Ai Liberi Professionisti, Dipendenti Pubblici o Privati iscritti presso Ordini/Albi/Collegi verranno riconosciuti Crediti Formativi Professionali.

Il piano di studio prevede la disamina dei seguenti argomenti:

  • I Disturbi Specifici dell’Apprendimento: caratteristiche generali e tipologia
    • I DSA e Problemi Sociali ed Emotivi Connessi
    • Legge 08/10/2010 n. 170
    • Il Ritardo Mentale: caratteristiche del disturbo
    • La Famiglia e DSA – le Connessioni dei Disturbi
    • La Dislessia Evolutiva: caratteristiche del Disturbo e Funzionamento dei soggetti Dislessici
    • I fattori Eziologici della Dislessia
    • La Diagnosi di Dislessia: criteri e strumenti Diagnostici
    • La Riabilitazione Neuropsicologica della Dislessia
    • Dislessia test
    • La Disortografia Evolutiva: caratteristiche del Disturbo
    • La Disgrafia: caratteristiche del Disturbo – criteri e strumenti diagnostici
    • La Disprassia: caratteristiche del Disturbo – criteri e strumenti diagnostici
    • La Discalculia: caratteristiche del Disturbo – criteri e strumenti diagnostici
    • Esercitazione Pratica: Relazione Clinica DSA ed Esercizi
    • Esempio Prove di Lettura e Scrittura
    • Strumenti di Diagnosi
    • Esempio Redazione Piano Educativo Personalizzato.

 

Per maggiori informazioni visita il sito www.icotea.it o scrivere a [email protected]

Mi chiamo Chuck, ho diciassette anni e, stando a Wikipedia, soffro di disturbo ossessivo-compulsivo di Aaron Karo – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 02

RUBRICA I CONSIGLI DELL’ESTATE DI LIBRI E FILM – Mi chiamo Chuck, ho diciassette anni e, stando a Wikipedia, soffro di disturbo ossessivo compulsivo di Aaron Karo (Nr. 02)

TEMI PSICOLOGICI TRATTATI: disturbo ossessivo-compulsivo, adolescenza, relazioni tra pari, bullismo.

Chuck Taylor ha diciassette anni e si lava continuamente le mani, controlla i fornelli e vive nel terrore che i germi possano contaminarlo. Trascorre le sue giornate sempre in bilico tra il bisogno di assecondare i pensieri ossessivi e i goffi tentativi di costruirsi delle relazioni sociali. Ha un unico amico del cuore, Steve, vittima delle angherie dei bulli della scuola e una sorella, Beth, che al contrario è amata dai coetanei e prende le distanze da Chuck fino a non accettare la sua amicizia su Facebook.

Le giornate del giovane protagonista sono costellate da regole, imposizioni rigide e ripetuti controlli. Ha una collezione di Converse All Star di diverso colore, che indossa a seconda dello suo stato emotivo, rosse quando è arrabbiato, gialle quando è nervoso, e così via.

I genitori sono sempre più preoccupati e lo convincono, nonostante le sue rimostranze, a rivolgersi a uno psichiatra. Sarà poi l’arrivo di una nuova compagna di classe a dare una svolta alla sua vita e a fargli aggiungere un nuovo colore alla collezione di scarpe da tennis.

La lettura di questo libro è piacevole e divertente, nonostante venga trattato un tema delicato come il disturbo ossessivo-compulsivo negli adolescenti. Lo sguardo si amplia anche nel trattare le dinamiche dell’amicizia e del difficile rapporto con i coetanei, che non sono pronti ad accettare la diversità che accompagna il sintomo di un disturbo.

I genitori del ragazzo sono una grande risorsa, perché lo avvicinano alla cura in modo supportivo e lo aiutano ad affrontare il delicato tema del farmaco, senza imposizioni o comportamenti iper-protettivi.

Un buon libro da leggere sotto l’ombrellone e da consigliare a tutti gli interessati all’ argomento, psicologi dell’età evolutiva, educatori, genitori e figli che vivono da vicino situazioni analoghe.

 

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Il catalogo dei seminatori – Tracce del Tradimento Nr. 20

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XX: Il catalogo dei seminatori

Cosa guida il comportamento dei seminatori? Perché non sono più attenti? Perché lasciano tracce che inevitabilmente complicheranno la vita e forse porteranno alla fine stessa del tradimento?

I seminatori hanno il coltello dalla parte del manico, nel senso che sanno come stanno le cose effettivamente, mentre il partner è disperatamente orientato a capirlo. Già questo li rende meno simpatici delle loro vittime perché ci appaiono come il gatto che gioca crudelmente con il topo destinato al sacrificio. Tratteniamo tuttavia i moti dell’animo, dettati anche dalla nostra tendenza a identificarci con l’uno o con l’altro, e proviamo a descriverli. I seminatori li dividiamo i due grandi categorie:

  • coloro che lasciando tracce vogliono che si verifichi un cambiamento del rapporto
  • coloro che sono certi che pur lasciando tracce non ci sarà un cambiamento del rapporto.

La prima categoria dei seminatori che vogliono un cambiamento del rapporto si divide ulteriormente in due sottoclassi:

  • la prima classe è costituita da quelli che sostanzialmente desiderano arrivare a una conclusione del rapporto e mandano messaggi perché l’altro lo capisca o la situazione diventi esplosiva fino a giungere alla rottura: fanno di tutto per essere lasciati senza avere il coraggio di affrontare apertamente il problema e per questo saranno d’ora in avanti denominati codardi;
  • la seconda classe raduna coloro che non vogliono una vera e propria fine del rapporto ma che desiderano che si modifichi, che diventi più vivo e denso di quelle emozioni dell’inizio quando nulla era scontato e per questo il desiderio era sempre attivo. E’ come se volessero segnalare al partner la possibilità di perderli per ravvivare il suo interesse e per questo li chiameremo provocatori.

Anche la seconda categoria, vale a dire quelli che non vogliono un cambiamento del rapporto e che dunque vogliono solo godersi qualcosa in più fuori dal legame stabile senza tuttavia voler rinunciare ad esso, si divide in due classi:

  • la prima classe è costituita da coloro che sono certi che non saranno mai scoperti perché non riescono ad osservarsi da fuori, a vedere i segnali che mandano e non riescono a mettersi nei panni dell’altro cogliendo ciò che prova e che può pensare. Sembra quasi che abbiano un deficit metacognitivo, una difficoltà a immaginare e costruire i pensieri e le emozioni degli altri, una sorta di incapacità di leggere la mente altrui; per questo li chiameremo deficitari;
  • la seconda classe comprende i seminatori che non si preoccupano di far attenzione per non lasciare tracce perché ritengono che anche se fossero scoperti non sarebbero mai lasciati perché sono troppo importanti per l’altro che sarebbe disposto a perdonargli qualsiasi cosa pur di non perderli. Addirittura la scoperta del tradimento e il suo perdono sarebbero un’ulteriore prova della loro grandezza. Per questo d’ora in avanti li chiameremo narcisi.

Nei prossimi articoli ci addentreremo nella psicologia dei quattro tipi di seminatori identificati: i codardi, i provocatori, i deficitari e i narcisi per definire gli scopi che li guidano, le strategie che adottano, i ragionamenti che fanno e, più avanti, le situazioni che creano a seconda di quali cercatori di tracce incontreranno.

 

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Il Binge Eating Disorder (BED): aspetti di personalità e difficoltà nell’espressione delle emozioni

Caterina Micalizzi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Il Binge Eating Disorder (BED) o disturbo da alimentazione incontrollata, secondo il DSM-IV-TR (APA, 2000) è caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate, senza l’uso regolare di inappropriati comportamenti compensatori, tipici invece della bulimia nervosa. Tale disturbo sembra avere origine nel periodo dell’adolescenza, in una situazione di normopeso, spesso a seguito di una significativa perdita di peso dovuta ad una dieta autogestita o scorretta.

Questi pazienti manifestano difficoltà in svariati ambiti della loro vita: – disagio sociale e giovanile esteso alla maggior parte dei rapporti interpersonali; – distorsione nella visione del proprio corpo che alimenta un senso di insicurezza e d’inadeguatezza; – pressione e stress dovuti alla grande quantità di tempo trascorso sotto regime dietetico; – in alcuni casi abuso di alcool o droghe; – difficoltà a gestire gli stati d’animo o a esprimere/manifestare le proprie emozioni, compresa la rabbia; – senso di impotenza legato all’incapacità di controllare il proprio comportamento alimentare e il conseguente aumento di peso.

Il 50% dei pazienti con disturbo da alimentazione incontrollata soffre di depressione maggiore, disturbo di panico e di alcuni disturbi di personalità. Il sintomo dell’abbuffata infatti andrebbe a compensare una sensazione pervasiva di sconforto persistente presente nel momento della crisi. Un elevato sovrappeso può contribuire al mantenimento e all’accentuazione del sintomo compulsivo, in quanto restituisce a chi ne soffre un senso di fallimento, di colpa e di vergogna che autoperpetua la condotta alimentare incontrollata. Durante gli episodi di abbuffata il soggetto è inconsapevole di quello che sta facendo, per cui c’è una perdita di controllo (Mannucci, Ricca, Rotella, 2001). In seguito è in preda a sentimenti di disgusto.

I pazienti con binge eating disorder sono caratterizati da specifiche caratteristiche di personalità e proprio questi aspetti vengono considerati come fattori di vulnerabilità individuale, cioè fanno sì che coloro che ne sono portatori siano più esposti di altri a sviluppare il disturbo. Essi presentano: bassa autostima che spinge gli individui a sovrastimare l’apparenza corporea, riponendo nel raggiungimento della migliore forma fisica aspettative irreali di successo e di realizzazione personale. Inoltre, contribuisce ad interpretare in maniera eccessivamente negativa eventuali “sconfitte” o “ricadute” alimentari, favorendo l’insorgere di un altro aspetto comune nei soggetti con disturbi alimentari, e cioè il “senso di colpa”; pensiero dicotomico: il paziente sarebbe soggetto a estremizzazioni ripetute ed oscillazioni nel giudizio di se stesso e dell’ambiente. La mancanza di una sufficiente consapevolezza di sé facilita l’insorgenza e il mantenimento di comportamenti estremizzati anche in ambito alimentare, producendo l’ alternarsi di restrizioni ed abbuffate, tali da riproporre all’ individuo la propria incapacità di condurre un’ esistenza equilibrata e risulta pericoloso poiché rafforza il senso di fallimento di fronte anche ad una piccola “ricaduta” alimentare, favorendo l’insorgenza dei sensi di colpa, l’insinuarsi e il successivo perpetuarsi dei sintomi depressivi; perfezionismo patologico: valutazione di Sé eccessivamente dipendente dall’inseguimento e dal raggiungimento di determinati standard personali esigenti ed autoimposti (Dalle Grave, 2003). La persona pensa che potrà essere accettata solo a condizione di dare il massimo delle proprie possibilità senza la minima smagliatura. Il giudizio altrui viene considerato l’unico modo per stimare il proprio valore. Alessitimia: in quanto presentano difficoltà a identificare e a descrivere i propri sentimenti, associati a un senso di generale inadeguatezza e a perdita del controllo sulla propria vita (Brunch, 1973). I soggetti BED si può dire che non conoscono le mezze misure: manifestano comportamenti impulsivi o comportamenti ossessivi, presentano difficoltà a gestire le emozioni, sentendole troppo forti e intense al punto da reagire senza riflessione.

Vari studi, come quello di Fassino et al., 2002, si sono avvalsi del Temperament and Character Inventory (TCI) uno strumento specifico utilizzato per analizzare il profilo temperamentale e caratteriologico dei DCA. Essi hanno evidenziato che i pazienti con Binge eating disorder (BED) confrontati con pazienti obesi senza BED ottengono alti punteggi nella scala HA (Harm Avoidance), per cui sono soggetti più insicuri, timidi, apprensivi, nervosi, irascibili e impulsivi, più passivi e si scoraggiano più facilmente. Secondo un altro studio (Marcus et al., 1990; De Zwaan el al., 1994; Kirkley et al., 1992) i pazienti BED tendono ad ottenere tramite tale strumento bassi livelli di SD (autodirezionalità) e di C (cooperatività) per cui mostrano maggiore immaturità, debolezza, fragilità, tendenza alla colpevolizzazione altrui, scarsa capacità integrativa e sono più critici, autocentrati, intolleranti, incapaci di aiutare e opportunisti. Da tale studio emerge pure che i soggetti con disturbo da alimentazione incontrollata, rispetto ai soggetti senza tale disturbo, manifestano un livello di ansia e di depressione maggiormente elevato, una maggiore insoddisfazione per il proprio corpo, un elevato impulso alla magrezza e tendenze bulimiche. Inoltre il disturbo è associato a disturbi psichiatrici, quali il disturbo borderline di personalità, il disturbo evitante di personalità, il disturbo paranoide di personalità e il disturbo istrionico di personalità.

L’approccio psicobiologico, che ha effettuato studi tramite il TCI, ha evidenziato tratti di personalità caratteristici del BED quali: un’alta ricerca della novità, un alto evitamento del danno ed un’autodirettività inadeguata. L’elevato evitamento del danno è la dimensione temperamentale caratteristica del soggetto BED che attiene allo spettro depressivo, che predispone alla deflessione del tono timico, alla presenza di maggior rischio suicidario e ad una bassa qualità di vita, condizioni tra loro associate, e spesso presenti nella popolazione degli obesi essenziali, ma più evidente negli obesi-BED (Fassino, Leombruni, Pierò et al., 2002). Di questi tre tratti, però, soprattutto l’autodirettività sembra l’indicatore personologico più caratteristico e rilevante dal punto di vista clinico, sia per discriminare più efficacemente dal punto di vista psicopatologico i diversi quadri sintomatologici e comportamentali, che come elemento predittivo di esito. Secondo alcuni modelli teorici (Vinai, Todisco, 2007) le persone affette da disturbo da alimentazione incontrollata riescono a percepire le emozioni solo quando raggiungono una certa intensità, al di sotto della quale sono come anestetizzati, ma appena iniziano a percepirle non sono più in grado di tollerarle. Nei pazienti con bassa autostima, la tendenza al controllo e al perfezionismo provocano facilmente emozioni negative.
Mitchell e collaboratori (1999) hanno evidenziato che nei pazienti BED l’abbuffata ha un valore edonico. Infatti essi tendono ad apprezzare in maniera significativa l’odore, il gusto, la consistenza del cibo.

Secondo Williamson, White et al. (2004) gli stimoli ambigui, informazioni riguardo al corpo o all’alimentazione attiverebbero dei bias cognitivi (attenzionali, mnestici etc) relativi allo schema corporeo, che portano a valutazioni negative sul proprio peso e corpo (sovrastima del corpo e del peso) e conducono ad emozioni negative intollerabili. Per cui vi sarebbe un alterazione della percezione corporea dei pazienti che è vissuta in modo pervasivo elicitando comportamenti adatti a far fronte a stati emotivi insostenibili.
Stice (2001) suggerisce che nel binge eating disorder il bisogno di mangiare viene decritto dai pazienti stessi come incoercibile e l’assunzione di cibo come una vera e propria compulsione all’insegna della perdita di controllo su quanto ingurgitato e sulla durata dell’abbuffata stessa (Apfeldorfer, 1996).

Tra i fattori che la letteratura recente indica come determinanti nella genesi e nel mantenimento del disturbo vi sono l’esperienza e la regolazione disfunzionale delle emozioni: le persone a rischio di questi disturbi spesso presentano difficoltà nella gestione delle emozioni, sperimentano frequentemente emozioni negative molto intense e utilizzano il cibo per regolarle (Polivy e Herman, 2002; Bardone-Cone e Cass, 2006; Macht, 2008). Alcuni soggetti riferiscono che il loro comportamento alimentare incontrollato viene scatenato da alterazioni disforiche dell’umore, come depressione, ansia, irritabilità e tristezza variamente associate. Altri non sono in grado di individuare precisi fattori scatenanti, ma riferiscono sentimenti aspecifici di tensione che ricevono sollievo dal mangiare senza controllo. Anche la quantità e la qualità di cibo ingerito paiono correlare con le emozioni provate dal paziente. Le maggiori quantità sarebbero assunte in risposta all’ansia, mentre nei casi di umore depresso vi è la tendenza a ricercare cibi particolari in cui è la qualità ad essere consolatoria. Inizialmente il paziente sente delle sensazioni di gratificazione legate al cibo e al senso di pienezza, ma ciò lascia rapidamente posto a spossatezza, fastidio fisico e deflessione del tono dell’umore (Wegner et al., 2002). Si evidenzia quindi una stretta relazione fra esperienze emozionali e comportamento alimentare. Infatti, i risultati di alcuni studi rilevano anche che l’alimentazione viene usata dalle persone con questi disturbi come regolatore degli stati affettivi (Evers, Marijn Stok e Ridr, 2010), in particolare come strumento per evitare o inibire l’esperienza emozionale.

Alcuni studi riportano nelle ragazze con Disturbi dell’Alimentazione incontrollata minore consapevolezza delle emozioni e maggiore difficoltà nella loro regolazione (Harrison, Sullivan, Tchanturia e Treasure, 2009), con un uso prevalente o esclusivo di strategie di regolazione emozionale disfunzionale, come la soppressione o l’evitamento delle emozioni (Oldershaw et al., 2012), e minore ricorso a strategie adattive come la rivalutazione cognitiva e il problem solving (Aldao e Nolen-Hoeksema, 2010). Secondo la letteratura (Speranza, Loas, Wallier, et al., 2007), l’alessitimia, conseguenza deficitaria o strategia messa in atto rispetto a una gestione emotiva disregolata o disfunzionale, è una delle caratteristiche principali dei disturbi del comportamento alimentare, incluso il BED. Elevati livelli di alessitimia corrispondono a una significativa difficoltà nell’identificare le emozioni e i sentimenti, specialmente rabbia e stati emotivi negativi, e nell’esprimerli verbalmente, associata a un senso di generale inadeguatezza e a perdita del controllo sulla propria vita (Schimdt, Jiwany, Treasure, 1993).

Sviluppi teorici classici suggerivano una stretta relazione tra deficit emozionali e binge eating, attribuendo ai soggetti BED peculiari strategie psicopatologiche “difensive”. Clinicamente si osserva il tentativo di evitare sentimenti paurosi e sgradevoli e di limitare l’esperienza emozionale in generale (Markey, Vander, 2007) . Inoltre, si è osservato in uno studio condotto da Carano, De Berardis, Gambi, et al., (2006) che ha indagato la relazione tra immagine corporea e presenza del costrutto alessitimico nei soggetti con BED, che questi ultimi mostrano una maggiore gravità del disturbo alimentare (indici di massa corporea più elevati) e una maggiore insoddisfazione per il proprio corpo rispetto ai pazienti non alessitimici. I soggetti BED alessitimici rispetto ai soggetti BED non alessitimici rispondono meno ai trattamenti psicoterapeutici e nutrizionali, mostrando elevati tassi di drop-out. Nello specifico, i pazienti BED alessitimici hanno difficoltà a identificare e a descrivere sentimenti ed emozioni senza presentare caratteristiche di pensiero orientato esternamente.

Come affermano Taylor e al., (1997), le persone affette da BED sono fondamentalmente alessitimiche, in quanto presentano deficit nel riconoscimento dei propri stati interni (fame, sazietà, senso di vuoto), nell’esplorazione del proprio mondo interiore e nella competenza necessaria per riconoscere ed esprimere le proprie emozioni. La mancanza d’informazioni sul proprio stato di benessere e sui propri desideri e bisogni, ostacola la creazione di confini stabili con gli altri, aumentando, di conseguenza, la dipendenza dall’ambiente esterno per avere conferme e sicurezze. Quindi emerge in tali pazienti una mancanza di consapevolezza enterocettiva, con conseguente confusione e incertezza nel riconoscere e rispondere in modo preciso agli stati emotivi.

Secondo le moderne teorie biopsicosociali i deficit di regolazione delle emozioni possono essere spiegati da fattori relazionali precoci, quali, in particolare, l’incapacità del caregiver di facilitare attraverso la funzione riflessiva, un pattern di attaccamento sicuro nei propri figli, determinando un’insufficiente maturazione della mentalizzazione e della regolazione emotiva (Fonagy & Target, 2001; Schore, 2001; Caretti & e La Barbera, 2005).

 

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La caffeina contrasta lo stress cronico

 

Un maggior consumo di caffeina diminuirebbe la probabilità di sviluppo di depressione e preverrebbe le alterazioni cerebrali stress indotte.

Un recente studio condotto presso l’Università di Coimbra in Portogallo, ha messo in luce la relazione esistente tra l’assunzione di caffeina e lo stress cronico. Un maggior consumo di caffeina diminuirebbe la probabilità di sviluppo di depressione e preverrebbe le alterazioni cerebrali stress indotte.

È noto che lo stress rappresenti un importante fattore di rischio per lo sviluppo di conseguenze cognitive, emotive, fisiche e comportamentali negative, come depressione, perdita di memoria e di concentrazione. In particolare la ricerca, pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), fornisce nuove conoscenze sui meccanismi molecolari alla base della correlazione tra consumo di caffeina e disturbi psichiatrici.

Le molecole di caffeina agiscono legandosi principalmente ai recettori dell’adenosina e bloccandoli. La ricercatrice Manuella P. Kaster e colleghi hanno osservato il comportamento dei topi sottoposti a situazioni stressanti, che includevano letto umido, la condivisione dello spazio di vita con gli altri, la privazione di acqua e cibo, bagni freddi e gabbie inclinate a 45 °; è emerso che lo stress altera sia il comportamento che le sinapsi, molte delle quali appaiono atrofizzate, soprattutto nell’ippocampo, regione preposta al consolidamento della memoria e all’inibizione comportamentale. I circuiti ippocampali infatti sono ricchi di recettori dell’adenosina.

Lo studio ha previsto il coinvolgimento di due ulteriori gruppi di topi (sottoposi alle stesse situazioni stressanti del primo gruppo): uno geneticamente modificato in modo che i neuroni non esprimessero i recettori dell’adenosina, l’altro di topi normali in cui tali recettori erano stati bloccati farmacologicamente.

Bloccando il funzionamento dell’adenosina in condizioni di stress cronico nei topi e somministrando loro caffeina, si è osservato come questi avessero migliori prestazioni di memoria e sinapsi meno atrofizzate rispetto al gruppo di topi stressati ma non trattati con la caffeina.

L’assunzione di caffeina potrebbe essere un tentativo inconsapevole di questi animali di auto-medicarsi, allentando la tensione e riducendo l’incidenza di depressione.

Potrebbe, in tal modo, essere spiegata la necessità impellente di caffeina da parte di chi è sottoposto a condizioni continue di stress; inoltre questa scoperta potrebbe aprire la strada a un nuovo possibile approccio alla terapia dei disturbi dell’umore e della memoria dovuti allo stress cronico.

 

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La stabilità dell’ambiente di riferimento: un fattore di protezione per i disturbi da uso di sostanze

FLASH NEWS

Un senso di stabilità e di controllo sul proprio ambiente di riferimento può modificare il modo in cui i circuiti cerebrali si strutturano, riducendo la sensibilità al consumo e all’abuso di sostanze e quindi l’impatto delle sfide che la vita pone.

Numerose ricerche hanno dimostrato che condizioni di stress e di deprivazione ambientale possono conferire un certo grado di vulnerabilità per lo sviluppo di disturbi da uso di sostanze nel caso degli uomini, mentre nel caso degli animali per il comportamento di ricerca delle sostanze; d’altro canto un senso di stabilità e di controllo sul proprio ambiente di riferimento può modificare il modo in cui i circuiti cerebrali si strutturano, riducendo la sensibilità al consumo e all’abuso di sostanze e quindi l’impatto delle sfide che la vita pone.

Con l’obiettivo di confermare le evidenze sopra dette la ricerca presente ha considerato un breve training cognitivo come strumento efficace per ricreare appunto una certa solidità e sicurezza, in quanto esso media processi di apprendimento e la formazione di ipotesi basate sulle informazioni che possono essere ricavate dall’ambiente.

In particolare lo studio ha sottoposto a tele training 74 topi che, tramite prove ed errori, dovevano infatti apprendere associazioni arbitrarie discriminando tra diversi stimoli sensoriali e ricevendo in cambio ricompense di cibo.

I topi sono stati divisi in tre gruppi, quelli del primo gruppo sono stati esposti al training cognitivo per 9 giorni e hanno ricevuto le ricompense ogni volta che dimostravano di aver appreso le giuste associazioni; il secondo gruppo di topi è stato sottoposto al training ma i rinforzi non erano conseguenti al successo durante la prova, piuttosto gli animali venivano ricompensati ogni volta che i topi del primo gruppo ricevevano il cibo; infine il terzo gruppo non è stato esposto al training e durante i 9 giorni veniva lasciato in uno stato di deprivazione di cibo. Trascorsi i 9 giorni di training venivano fatte passare 4 settimane al termine delle quali i topi venivano condizionati all’uso della cocaina.

La ricerca ha voluto verificare in una prima fase il mantenimento del comportamento di ricerca della sostanza esponendo settimanalmente i topi al condizionamento della cocaina mentre nella seconda fase un’esposizione giornaliera alla sostanza è stata programmata per controllare l’estinzione del comportamento di ricerca della cocaina.

I risultati hanno mostrato che tutti i topi hanno sviluppato un’eguale preferenza alla cocaina il primo giorno di esposizione alla sostanza, tuttavia il comportamento degli animali cambia con il ripetersi dell’assunzione.

In particolare si è osservato che il training cognitivo ha un effetto protettivo generale rispetto al mantenimento del comportamento di ricerca, mentre nel caso dell’estinzione della preferenza per la cocaina solo i topi che fanno parte del primo e del secondo gruppo, cioè quelli che ricevono il training, mostrano una riduzione della stessa.

Tali esiti confermano le ipotesi di ricerca e le conclusioni degli studi precedenti e cioè che un maggior senso di controllo e di stabilità del proprio ambiente di riferimento può rappresentare un fattore di resilienza e di protezione rispetto ai disturbi da abuso di sostanze.

 

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Cambiamento in psicoterapia: il modello dei fattori aspecifici

Alessia Offredi, OPEN SCHOOL MODENA

 

 

Il modello dei fattori aspecifici nasce dalla convinzione che esista una serie di fattori comuni a tutte (o quasi) le terapie, responsabili dei benefici della psicoterapia, più degli elementi peculiari dei vari approcci.

[blockquote style=”1″]Everybody has won and all must have prizes[/blockquote] (Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, cap.3)

Saul Rosenzweig (1936) prende spunto dal capolavoro di Carroll per coniare un modo di dire che sarà alla base di un grande dibattito in ambito psicologico, attivo ancora oggi. Si tratta del verdetto del Dodo e nasce dall’episodio narrato nell’opera in cui l’uccello Dodo indice una gara tra i vari personaggi, senza specificare i parametri che avrebbero decretato il vincitore. Per questo motivo, alla fine della gara, per accontentare i partecipanti desiderosi di sapere chi avesse vinto, l’uccello risponde: “Tutti hanno vinto e tutti devono essere premiati”.

Rosenzweig afferma che i fattori aspecifici sono i maggiori responsabili del cambiamento in psicoterapia, pertanto non c’è nessuna differenza nell’applicazione di una o dell’altra tecnica specifica, dato che ognuna può portare a risultati apprezzabili. Questa posizione viene ripresa nel 1975, quando Luborsky e colleghi conducono il primo studio comparativo su diversi tipi di psicoterapie, riscontrando poche differenze significative tra di esse. Questo lavoro ha dato origine alla conduzione di numerosi studi pro o contro il verdetto del Dodo, che si susseguono tuttora nella letteratura internazionale.

Il modello dei fattori aspecifici si muove a favore del verdetto del Dodo, portando sempre più numerosi studi a sostenere il ruolo secondario delle tecniche scelte. Tra questi, la metanalisi di Smith e Glass (1977) considera più di 400 trial controllati, confrontando popolazione che si era sottoposta a psicoterapia e campione di controllo e mostrando l’efficacia della terapia al di là della base teorica da cui era stata sviluppata. Successivamente, Wampold (2001) non riscontra differenze tra gli effetti di differenti trattamenti e afferma che una ricerca metodologica più rigorosa non avrebbe comunque trovato delle differenze.

Il modello dei fattori aspecifici nasce quindi dalla convinzione che esista una serie di fattori comuni a tutte (o quasi) le terapie, responsabili dei benefici della psicoterapia, più degli elementi peculiari dei vari approcci.

Partendo da questo presupposto, mancava però in letteratura una visione condivisa e definita dei fattori aspecifici, che per loro natura sembrano difficilmente operazionalizzabili. Grencavage e Norcross (1990) effettuano una grande revisione dei lavori pubblicati fino a quel momento, citando tutti i fattori individuati dai colleghi e illustrati altrove. Ne risulta un elenco molto ricco (89 fattori per l’esattezza) suddiviso in 5 macro-categorie:
– processi di cambiamento (acquisizione e pratica di nuovi comportamenti, autoconsapevolezza, apprendimento emotivo e interpersonale, feedback dalla realtà, …);
– qualità del terapeuta (si mostra speranzoso o condivide le proprie aspettative, è accogliente, si pone in un atteggiamento di ascolto empatico, …);
– elementi della relazione (sviluppo di una buona alleanza terapeutica, ingaggio del paziente, …);
– elementi del trattamento (uso di tecniche o rituali, esplorazione dei contenuti emotivi, aderenza a una teoria, comunicazione verbale e non verbale);
– caratteristiche del paziente (aspettative positive, il paziente cerca aiuto in modo attivo, …).

Wampold chiarifica che i fattori aspecifici così come descritti da Grevncavage e Norcross (1990) non possono da soli giustificare un cambiamento, ma devono essere considerati nel sistema di aiuto descritto da Frank. Jerome Frank (Frank & Frank, 1993) sembra avere il merito di aver dato il via alla creazione di una cornice teorica maggiormente definita a tale approccio; successivamente Wampold e colleghi hanno ripreso e perfezionato il modello (Wampold, 2001, Wampold & Budge, 2012), concettualizzando la psicoterapia come una pratica di cura socialmente fondata.

Da questa prospettiva, vengono identificati cinque fattori considerati necessari e sufficienti a produrre un cambiamento: (a) un legame forte e emotivamente connotato tra paziente e curante, (b) un setting di cura riservato e adeguato, (c) un terapeuta che offra una spiegazione di carattere psicologico e culturalmente coerente dell’origine del disturbo emotivo, (d) una spiegazione adattiva e accettabile per il paziente, e (e) una serie di procedure che conducano il paziente a comportarsi in modo più adattivo, utile e positivo.

In questo modello l’adozione di una teoria e dei relativi protocolli nella pratica clinica non è l’elemento primario che indica il percorso di cura del paziente, bensì solo uno dei molti fattori che concorrono al cambiamento della persona. Le implicazioni di questa prospettiva sono diverse, come sottolineano Laska e coll. (2014); innanzitutto ogni terapia che contenga tutti gli elementi sopra descritti sarà efficace nel trattamento di un problema.

Secondariamente, i fattori relazionali come empatia, condivisione dell’obiettivo e collaborazione, alleanza terapeutica e buona considerazione dell’altro, potrebbero predire i risultati della terapia: ciò implica la possibilità di riscontrare differenze tra i terapeuti, a seconda di quanto siano abili nel considerare e coltivare gli elementi della relazione. Infine, ogni trattamento terapeutico (con le caratteristiche descritte) sarà più efficace di un semplice supporto o di “condizioni psicologiche placebo” (Laska, Gurman & Wampold, 2014).

Il modello descritto trova alcune aree di vicinanza con l’approccio evidence-based, che tenta invece di individuare quali siano le tecniche specifiche maggiormente funzionali per le diverse problematiche nel campo della salute mentale. In particolare, l’applicazione di procedure volte a migliorare la qualità della vita del paziente è proprio uno dei fattori aspecifici necessari e sufficienti al cambiamento.

La possibilità di integrazione che si trova in questo punto del modello è sempre stata un punto di forza secondo i suoi sostenitori, che così facendo lasciavano “spazio per tutti”. Tuttavia, sembra mancare l’attenzione verso il processo della terapia, vista la libertà lasciata al terapeuta di agire indipendentemente da ciò che si è dimostrato efficace, ma solo in accordo con la propria coscienza e la propria “buona fede”.

Lambert e Ogles (2014), che ben sottolineano tali punti d’incontro tra modelli, pongono tuttavia qualche riflessione in merito alla posizione di Laska e colleghi (2014), i quali sostengono una maggior diffusione del modello dei fattori aspecifici come linea teorica più completa e esaustiva rispetto agli approcci evidence based. Per sostenere tale posizione, affermano Lambert e Ogles, occorrerebbe che il modello dei fattori aspecifici si presentasse come una teoria in grado di spiegare le patologie, il loro trattamento e i processi di cambiamento, cosa che attualmente in letteratura non sembra esserci, sicuramente non in modo condiviso, né supportato da dati empirici. Non si fa attendere la risposta di Laska e Wampold, che tentano di far chiarezza sull’approccio da loro difeso indicando un decalogo di “cose da sapere prima di parlare dei fattori aspecifici”.

1 – I fattori aspecifici sono incorporati in una teoria scientifica
La teoria a cui fanno riferimento gli autori è quella di Jerome Frank (Frank & Frank, 1993), con le relative estensioni più recenti (ad esempio, Wampold & Budge, 2012). Tale teoria non si limita a definire una lista dei fattori aspecifici, ma consiste in una spiegazione scientifica di come avviene il cambiamento in psicoterapia. Gli autori affermano che alla base del loro approccio c’è la scienza che analizza come le persone guariscono nei contesti sociali e descrive fattori specifici sottostanti alle ipotesi su cosa dovrebbe essere osservato nelle varie condizioni.

2 – I meccanismi di cambiamento dei modelli supportati empiricamente sono specifici per patologia
Wampold e colleghi (2010) analizzano il caso del disturbo post traumatico da stress, identificando 17 possibili elementi di efficacia nel trattamento del disturbo secondo il modello CBT: secondo Laska e Wampold, questo rende impossibile l’identificazione e la spiegazione del reale meccanismo di cambiamento sottostante.

3 – I modelli dei fattori aspecifici non sono un sistema chiuso, ma operano con l’obiettivo di identificare cosa renda una psicoterapia efficace, attraverso studi in continua evoluzione.

4 – Non c’è niente di paragonabile al modello dei “fattori aspecifici” – e la questione della struttura
Data la natura del modello e la sua strutturale integrazione con tecniche di intervento e teorie specifiche, è impensabile per gli autori paragonare un intervento evidence based con un intervento basato sui fattori aspecifici. Teoricamente, un intervento senza alcun razionale non risulterebbe tanto efficace quanto un intervento in cui il razionale sia chiaro e condiviso: tale posizione è in linea con la sopra citata teoria di Jerome Frank (Frank & Frank, 1993).

5 – Anomalie: occorre affrontarle
La presenza di anomalie, che possono arricchire un modello se adeguatamente integrate, possono anche inficiare la validità di un trattamento, qualora risultino eccessive e difficilmente inquadrabili. Gli autori affermano provocatoriamente: “Se l’efficacia di esposizione prolungata o EMDR sono dovuti alla presenza di elementi di esposizione, cosa conferma la necessità di una particolare tecnica di esposizione?” (Frost, Laska & Wampold, 2014).

6 – Quali sono le ipotesi sottostanti alla teoria degli approcci supportati empiricamente?
In questo punto gli autori si rivolgono ai colleghi invitandoli a riconsiderare le proprie posizioni. In letteratura è stato dimostrato che non ci sono differenze di outcomes in differenti tipologie di trattamento (ad esempio, sui disturbi alimentari, Zipfel et al., 2014), trattamenti privi di fondamento teorico si sono dimostrati efficaci (Cuijpers et al., 2012) e la rimozione di alcuni elementi non inficia l’efficacia di un intero percorso terapeutico (Ahn & Wampold, 2001). Resta quindi da chiedersi cosa aspettino i terapeuti di vari approcci a riconsiderare il loro modo di lavorare alla luce di questi dati.

7 – I fattori aspecifici non implicano che “una cosa vada bene per tutti”
Una delle critiche maggiormente mossa al modello dei fattori aspecifici consiste proprio nel fatto che tale modello sembri incoraggiare l’assunzione della stessa posizione per ogni disturbo e scoraggiare, d’altra parte, l’adozione di tecniche specifiche. Come sottolineato da Beutler (2014), il vantaggio di adottare un approccio basato sui fattori aspecifici risiede proprio nella flessibilità e nella possibilità di adattamento ad ogni paziente. Così, se il paziente preferisce un trattamento meno rigido, il terapeuta sarà libero di realizzarlo senza essere imprigionato nelle trame della propria teoria di riferimento.

8 – Le omissioni sono importanti
Ad oggi sembrano non esserci evidenze sufficienti a favore della diffusione di modelli basati sull’efficacia; non abbiamo alcuna prova in letteratura che investire in questa direzione porterà a ottenere dei miglioramenti. Inoltre la conduzione di studi di efficacia comporta ingenti costi per la loro realizzazione: Laska (2012) ha calcolato che dal 1999 al 2009 sono stati spesi 11 milioni di dollari nella conduzione di trial clinici, senza ottenere risultati processabili.

9 – I trial clinici randomizzati non sono l’unica via per la conoscenza
Kazdin (2007, 2009) afferma che i trial clinici non evidenziano i meccanismi di cambiamento, ma si limitano a sottolineare correlazioni tra meccanismi e outcomes. Inoltre, sebbene sia arduo dal punto di vista etico e metodologico, è possibile considerare i fattori aspecifici all’interno delle sperimentazioni, per esaminarne gli effetti. Ad esempio, nel caso dell’empatia, è stato dimostrato che l’interazione con clinici empatici migliora i risultati ottenuti con pazienti che soffrivano di sindrome dell’intestino irritabile, relativamente a qualità della vita e sintomatologia (Kaptchuk et al., 2008; Kelley et al., 2009).

10 – “Pensieri diversi per diversi strizzacervelli”
Per concludere, gli autori evidenziano la necessità di lasciare un certo spazio di movimento ai terapeuti, in modo da poter includere qualità e predisposizioni individuali all’interno della terapia, arricchendola e creando una sorta di pratica evidence based individualizzata.

Il dibattito è ancora aperto e aspettiamo di vedere quale sarà la risposta dei colleghi al decalogo riportato. Senza dubbio conoscere e considerare i fattori aspecifici è di fondamentale importanza per qualsiasi professionista: condurre una terapia senza considerare l’alleanza del paziente è pressoché impossibile. Sebbene in letteratura si riscontri un forte dibattito volto a sostenere questo approccio, manca una chiarificazione di cosa comporti sposare il modello dei fattori comuni e di come ciò sia realizzabile.

Anche il decalogo qui riportato, apparentemente molto semplice ed essenziale, in realtà risulta caratterizzato da contraddizioni e mancanza di chiarezza. Se un terapeuta si svegliasse domattina volendo diventare esperto di fattori aspecifici potrebbe leggere i lavori di Jerome Frank e probabilmente sperare di avere delle qualità intrinseche adatte al mestiere, ma poco altro. Questi aspetti, ampiamente studiati, per loro natura sembrano sfuggire alla possibilità di essere insegnati e appresi e non risulta nemmeno che questa sia l’intenzione dei sostenitori (si noti il punto 10 del decalogo). L’impressione è che si richieda a gran voce una loro diffusione, ma senza l’uso di trial (costano e non aggiungono conoscenze) o forse sì (possono comunque essere indagati), che vengano considerati da tutti i professionisti (che prove gli servono ancora?), ma senza definizioni o rigidità (il professionista deve poter muoversi nella conduzione della terapia).

Il rischio, dal punto di vista della ricerca scientifica, è di focalizzarsi molto sul come funzionano i meccanismi del cambiamento (elemento che non è tralasciato nemmeno nelle terapie evidence based) e smettere nel contempo di cercare cosa funziona, tralasciando i numerosi dati a sostegno delle tecniche specifiche finora applicate e suggerite dalle linee guida (Sassaroli & Ruggiero, 2015). Emerge infine lo stereotipo purtroppo diffuso del professionista che si attiene ai modelli evidence based come fosse un enorme diagramma di flusso incapace di gestire una risposta non preconfezionata. E per fortuna non è proprio così.

 

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Davanti allo specchio: il disturbo di dismorfismo corporeo

Il Disturbo di Dismorfismo Corporeo è grave, la sua diffusione è sottovalutata e i pazienti chiedono aiuto a specialisti diversi da quelli che si occupano di salute mentale. Il disturbo è stato studiato in modo continuo e sistematico solo negli ultimi due decenni. 

davanti allo specchio-Manet
Davanti allo Specchio – Manet

Il Disturbo di Dismorfismo Corporeo è grave, la sua diffusione è sottovalutata ed è poco studiata sia dagli psicoterapeuti che dai farmacologi e i pazienti chiedono aiuto a specialisti diversi da quelli che si occupano di salute mentale.

Nel DSM-5 (APA, 2014) il disturbo di dismorfismo corporeo è stato inserito nella categoria dei disturbi ossessivo compulsivi e disturbi correlati e diagnosticato con i seguenti criteri:

  • Preoccupazione per uno o più difetti o imperfezioni percepiti nell’aspetto fisico che non sono osservabili o appaiono agli altri in modo lieve;
  • A un certo punto, durante il decorso del disturbo l’individuo ha messo in atto comportamenti ripetitivi (ad esempio, guardarsi allo specchio; curarsi eccessivamente del proprio aspetto; stuzzicarsi la pelle, ricercare rassicurazioni) o azioni mentali (ad esempio, confrontare il proprio aspetto fisico con quello degli altri) in risposta a preoccupazioni legate all’aspetto.
  • La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti;
  • La preoccupazione legata all’aspetto non è meglio giustificata da preoccupazioni legate al grasso corporeo o al peso in un individuo i cui sintomi soddisfano i criteri diagnostici per un disturbo alimentare.

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali richiede di specificare se il disturbo è presente con dismorfia muscolare e con quale grado di insight. Nel primo caso l’individuo è preoccupato dall’idea che la sua costituzione corporea sia troppo piccola o insufficientemente muscolosa, mentre il grado di insight è classificato in buono o sufficiente (l’individuo riconosce che le convinzioni relative al Body Dysmorphic Disorder (BDD) sono decisamente o probabilmente non vere o che possono o non possono essere vere), scarso (l’individuo pensa che le convinzioni relative al disturbo siano probabilmente vere), assente con convinzioni deliranti (l’individuo è assolutamente sicuro che le convinzioni circa il BDD siano vere) (APA, 2014, p. 280).

Il disturbo è stato studiato in modo continuo e sistematico solo negli ultimi due decenni. Le conoscenze sulle caratteristiche cliniche, l’epidemiologia e il trattamento sono cresciute, e iniziano a emergere significativi dati neurocognitivi e neurobiologici.

Alcuni studi epidemiologici hanno riportato una prevalenza di punto che va da 0,7% a 2,4%. Secondo tale prevalenza il disturbo di dimorfismo corporeo è dunque più comune di disturbi come la schizofrenia o l’anoressia nervosa (APA, 2000).

Il disturbo è presente con una prevalenza che varia dal 9% al 12% nei pazienti dermatologici, dal 3% al 53% nei pazienti sottoposti a interventi di chirurgia estetica, dall’8% al 37% in soggetti con disturbo ossessivo compulsivo, dal 10 al 13% nei soggetti con fobia sociale e dal 14% al 42% in quelli con disturbo depressivo maggiore ( APA, 2014).

Il BDD può essere un po’ più comune nelle donne, ma colpisce anche molti uomini. I maschi hanno più probabilità di avere preoccupazioni legate ai genitali, mentre le femmine hanno più di frequente un disturbo alimentare in comorbidità (APA, 2014).

 Inoltre il rischio relativo di presentare il disturbo cresce tra coloro che non sono sposati, tra i divorziati e tra i disoccupati (Scarinci, Lorenzini, 2015). Quindi sembra che situazioni di frustrazione e perdita e il vissuto di non accettazione possano esprimersi nel disturbo.

La dismorfofobia comincia solitamente durante l’adolescenza, l’età media all’esordio è di 16 anni con un decorso cronico, se non viene trattata.

E’ spesso in comorbidità con altri disturbi mentali. La più comune è con il disturbo depressivo maggiore (75%); seguono i disturbi da uso di sostanze (dal 30% al 48,9%); il disturbo ossessivo compulsivo (dal 32% al 33%); la fobia sociale (dal 37% al 39%), i disturbi del comportamento alimentare e i disturbi di personalità (Wilhelm, Phillips, Steketee, 2013).

L’eziopatogenesi del disturbo è legata all’identità e costruita in relazione al corpo. L’attribuzione estetica che si forma sulle rappresentazioni definisce l’autoimmagine che è parte dell’autostima e predica sul valore personale.

Una minaccia all’immagine di sé comporta un danneggiamento all’autovalutazione positiva con la necessità di adottare comportamenti di salvaguardia che tendano a ripristinare un’immagine che, sia nel confronto sociale, sia nell’assunzione delle valutazioni altrui su di sé, possa uscire conforme agli standard e soddisfacente.

I processi di valutazione affettiva del proprio corpo possono generare cognizioni e comportamenti automatici ricorsivi disfunzionali anche per l’influenza della cultura d’appartenenza. Non è forse un caso se negli ultimi tempi questa patologia si è largamente diffusa. Nella nostra società il look è definito da canoni estetici rigidi, quasi autoritativi che impongono un rispetto assoluto pena l’esclusione e la svalutazione.
E ‘ stato riscontrato che un’effettiva discrepanza con l’ideale dell’immagine corporea è correlata a sintomi e a sentimenti di insoddisfazione e alcune caratteristiche della self discrepancy possono determinare, oltre a un’instabilità emotiva, anche una deiezione del soggetto, un modo di essere inautentico che sfocia in un’estraneazione dal mondo e dagli altri (Scarinci, Lorenzini, 2015).

Molti sono gli stati emotivi che il soggetto sperimenta spesso con forte intensità.

 La percezione di avere qualcosa che non va rende diversi e mette inevitabilmente fuori dal gruppo, e l’emozione della vergogna pervade il soggetto. La perdita di un’immagine corporea bella lo rende triste e quando si rende conto di essere affetto da un disturbo grave l’intensità assume livelli ancora più intensi. La consapevolezza che il problema sia gravissimo e dunque comprometta molti degli scopi del BDD comporta un’intensa ansia e comportamenti di controllo del corpo per verificare l’evoluzione del problema. Inoltre l’invidia chiude il soggetto in un isolamento rancoroso.

Le emozioni sperimentate più intensamente, sono correlate preminentemente a due sistemi motivazionali interpersonali (Liotti, Monticelli, 2008): il sistema di rango (vergogna, invidia, tristezza da sconfitta, paura da giudizio) e il sistema di attaccamento (rabbia, tristezza da perdita).

In definitiva, il dismorfofobico avverte uno specifico difetto ben circoscritto (poco importa se del tutto inesistente o lievemente presente) che rende impossibile l’esistenza. Il difetto diventa il concentrato di tutto quello che nel soggetto non va.

Di fronte ad un compito esistenziale importante, ad esempio l’uscita dalla famiglia e la collocazione nel mondo, il soggetto può sperimentare un’angoscia profonda. Tutta la sua identità ed il suo valore sono messi in gioco e se i processi di assimilazione e accomodamento di questa esperienza dirompente falliscono può vivere qualcosa di simile all’umore predelirante. Quando l’insight è scarso o assente si affaccia l’esperienza dell’eureka e la nascita del delirio che permette di salvare la propria identità con un ragionamento del tipo: non sono io che non vado bene, è la mia cicatrice che mi rende orribile e inaccettabile e se riuscirò a eliminarla tutto andrà a posto.

L’intervento con questi pazienti presuppone, perciò, una rielaborazione cognitiva e la critica agli errori di valutazione che dovrebbe portare all’accettazione della propria identità, vero problema sottostante all’espressione sintomatologica (per un approfondimento del trattamento si veda Scarinci, Lorenzini, 2015).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Si può incrementare la felicità con dei semplici esercizi?

 

Lo psicologo Martin Seligman, insieme ad altri colleghi, ha condotto una ricerca in cui ha misurato empiricamente l’efficacia di alcuni esercizi per aumentare la felicità e diminuire la depressione.

Quando si parla di felicità, crediamo subito di sapere di cosa stiamo parlando, finché non proviamo a definirla: viene fuori che ognuno ha una sua concezione. Fermatevi un momento prima di continuare a leggere e chiedetevi cosa significa per voi essere felici.

Anche nella letteratura psicologica non esiste un concetto univoco di felicità, ma ben tre filoni di significato (Seligman, 2002):

  • le emozioni positive e il piacere (la vita piacevole);
  • l’impegno (la vita impegnata);
  • il senso (la vita piena di significato).

Secondo Seligman le persone soddisfatte sono quelle che si orientano verso tutti e tre tipi di obiettivi, con il maggior peso trasportato all’impegno e al significato (Peterson, Parco, e Seligman, 2005b).

Lo psicologo Martin Seligman, insieme ad altri colleghi, ha condotto una ricerca pubblicata sulla rivista American Psychologist (Positive Psychology Progress, 2005), in cui ha misurato empiricamente l’efficacia di alcuni esercizi per aumentare la felicità e diminuire la depressione, verificando i risultati attraverso la somministrazione, prima e dopo 6 mesi, di un test per misurare la felicità – Steen Happiness Index (SHI) e di uno per misurare la depressione (Beck Depression Inventory).

Uno degli esercizi era focalizzato sulla costruzione della gratitudine, due erano focalizzati sulla crescente consapevolezza di ciò che è risultato più positivo di se stessi, e due erano concentrati sull’individuazione dei propri punti di forza. La ricerca è stata randomizzata e prevedeva un gruppo di controllo che effettuava un esercizio placebo.

Gli esercizi erano i seguenti:

  • Esercizio di controllo placebo: i partecipanti sono stati invitati a scrivere i loro primi ricordi ogni sera per una settimana.
  • Esercizio di gratitudine: ai partecipanti è stato assegnato il compito di scrivere e poi consegnare una lettera di ringraziamento a una persona che era stata particolarmente gentile con loro, ma non era mai stata adeguatamente ringraziata.
  • Tre cose belle: ai partecipanti è stato chiesto di scrivere per una settimana ogni sera tre cose che sono andate bene durante il giorno e perchè.
  • Al tuo meglio: i partecipanti sono stati invitati a scrivere di un tempo in cui erano al loro meglio, di rileggere una volta al giorno la storia e quindi di riflettere sui punti di forza personali individuati.
  • Utilizzare i punti di forza in un modo nuovo: i partecipanti sono stati invitati a fare un test on-line sull’inventario dei punti di forza e a ricevere un feedback personalizzato per il loro primi cinque punti di forza (Peterson et al., 2005a). Si chiedeva successivamente di utilizzare uno di questi primi punti di forza in una nuova situazione e in modo diverso ogni giorno per una settimana.
  • Identificare i punti di forza: simile al precedente, ai partecipanti veniva chiesto di individuare i cinque punti di forza con il questionario e di utilizzarli più spesso durante la settimana.

Tanti dei partecipanti hanno continuato a fare gli esercizi anche dopo la settimana di prova e sono stati monitorati dal gruppo di ricerca. Due degli esercizi – Utilizzare i punti di forza in un modo nuovo e Tre cose belle – hanno avuto come effetto l’aumento della felicità e la diminuzione dei sintomi depressivi per sei mesi. L’esercizio della gratitudine ha generato grandi cambiamenti positivi, ma solo per un mese. Gli altri due esercizi e il controllo con placebo hanno creato effetti positivi ma comunque transitori sulla felicità e sui sintomi depressivi.

Quindi, se volete essere felici, provate a scrivere ogni sera tre cose positive capitate durante la giornata per un periodo minimo di sei mesi, oppure, dopo averli individuati, cominciate a utilizzare i vostri punti di forza in modi nuovi.

Se qualcuno pensa che sia più facile fare gli esercizi insieme agli altri, per Tre belle cose esiste un evento su Facebook a cui si può partecipare condividendo ogni giorno le proprie belle cose. Un modo per utilizzare il social in maniera intelligente, ispirando e lasciandosi ispirare.

E visto che voglio dare il buon esempio, scrivere questo articolo è stato per me una bella cosa. Sapere che qualcuno è diventato più felice sarebbe la seconda…la terza è l’attesa dei vostri risultati!

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Seligman, M. E. P., Steen, T. A., Park, N.,  Peterson, C.,(2005), Positive Psychology Progress. Empirical Validation of Interventions.  American Psychologist, 60(5), 410-421. DOWNLOAD

Stimolazione transcranica con correnti dirette per il trattamento dei deficit cognitivi nella schizofrenia

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

L’applicazione di una lieve stimolazione elettrica al cervello dei pazienti con schizofrenia migliora alcuni aspetti del loro funzionamento cognitivo, secondo un recente studio condotto dagli psicologi della Gertrude Conaway Vanderbilt University e pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

I network cerebrali che coinvolgono la corteccia frontale ci consentono di adattare il nostro comportamento alle richieste che provengono dall’ ambiente in cui siamo inseriti e ad aggiustare la nostra modalità di elaborare le informazioni in caso di errori. Una disfunzione a questo livello può interessare una varietà di disturbi psichiatrici, tra cui la schizofrenia, in cui i deficit di controllo del comportamento adattivo costituiscono un sintomo centrale. Un indice di controllo adattivo rilevabile in laboratorio e compromesso nei pazienti con schizofrenia è la presenza di un riduzione quasi impercettibile della velocità di risposta a seguito di un errore.

La mancanza di questo rallentamento esemplifica il comportamento rigido, perseverante e maladattivo che caratterizza questi pazienti, dotati generalmente di scarse capacità di automonitoraggio. Il correlato neurofunzionale del controllo adattivo è costituito dalla presenza di onde theta (oscillazioni elettriche a bassa frequenza rilevabili attraverso l’elettroencefalogramma) a livello della corteccia fronto-mediale, tramite cui il sistema esecutivo invia dei segnali alle funzioni cognitive subordinate (percezione, attenzione etc) per regolarne il funzionamento.

In uno studio precedente, il Dr. Robert M.G. Reinhart, primo autore della ricerca, è riuscito a potenziare le capacità di monitoraggio dell’errore in soggetti sani applicando alla loro corteccia fronto-mediale una stimolazione elettrica a basso voltaggio. Si tratta della cosiddetta ‘stimolazione transcranica con correnti dirette’ o tDCS (dall’inglese ‘transcranial Direct Current Stimulation’), una metodica di stimolazione cerebrale non invasiva capace di indurre cambiamenti funzionali nella corteccia cerebrale. Questa tecnica consiste essenzialmente nell’applicare sullo scalpo degli elettrodi eroganti una corrente continua di bassa intensità, in grado di raggiungere il cervello e influenzarne in funzionamento.

Dopo il successo ottenuto sui soggetti sani, il nuovo obiettivo che si ponevano i ricercatori era dunque di valutare la possibilità di replicare un simile miglioramento anche nei pazienti con schizofrenia. Dai risultati ottenuti è emersa innanzi tutto la presenza, tanto nei soggetti sani, quanto nei pazienti, di un’attività a bassa frequenza a livello della corteccia fronto-mediale, che, mentre nei primi era regolare e sincronizzata, nei secondi si mostrava debole e disorganizzata. A livello comportamentale, inoltre, i pazienti non presentavano, come ipotizzabile, il classico rallentamento nella velocità di risposta a seguito della commissione di errori. Subito dopo aver applicato la stimolazione elettrica, tuttavia, si è osservata una normalizzazione della prestazione comportamentale dei pazienti, che li rendeva indistinguibili dai soggetti di controllo.

[blockquote style=”1″]Questi risultati indicano che tramite tDCS è possibile ripristinare il monitoraggio dell’errore negli schizofrenici, con importanti implicazioni per il trattamento dei loro deficit cognitivi[/blockquote] spiegano gli autori. Chiaramente c’è ancora molto lavoro da fare prima di essere certi che la tDCS possa essere proposta come trattamento standard. È infatti necessario approfondire la comprensione dei processi attraverso i quali avviene il miglioramento, identificare la durata dei benefici e la possibile presenza di altri effetti non preventivati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Reinhart, R. M., Zhu, J., Park, S., & Woodman, G. F. (2015). Synchronizing theta oscillations with direct-current stimulation strengthens adaptive control in the human brain. Proceedings of the National Academy of Sciences, 201504196.  DOWNLOAD

Il Mobbing – Introduzione alla Psicologia Nr. 25

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 25)

 

 

Con mobbing si indica solitamente una forma di terrore psicologico esercitata sul posto di lavoro da parte di colleghi o superiori ed è caratterizzato da comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti nei confronti di un collega o di un sottoposto.

 

Mobbing è un termine preso in prestito dall’inglese to mob, che significa assalire, aggredire, affollarsi attorno a qualcuno, circondarlo.

Con mobbing, dunque, si indica solitamente una forma di terrore psicologico esercitata sul posto di lavoro da parte di colleghi o superiori ed è caratterizzato da comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti nei confronti di un collega o di un sottoposto.

La vittima si vede emarginata, calunniata, criticata; gli sono affidati compiti dequalificanti, ed è sistematicamente messa in difficoltà di fronte a clienti o superiori, attraverso critiche, diniego e svalutazione. Nei casi più gravi si arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni poco lecite per riuscire a mandar via definitivamente il mal capitato.

La messa in atto di tale comportamento può essere di varia natura, ma sempre volto all’annientamento dell’altro. Lo scopo è eliminare una persona divenuta in qualche modo scomoda, per motivi non sempre concreti, spesso si tratta di problematiche inerenti alla sfera emotiva. In questo modo la persona è indotta a rassegnare le proprie dimissione, perché stremata dalle vessazioni, o in alcuni casi lo stress ripetuto provoca problematiche lavorative tali che portano inevitabilmente al licenziamento.

Il Mobbing consiste in azioni ripetute per un lungo periodo di tempo e compiute in maniera sistematica. Il mobbizzato è letteralmente accerchiato, soggiogato, e aggredito intenzionalmente dal o dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale. L’invettiva diventa il principale lavoro quotidiano esercitato nei confronti del mobbizzato, fino alla distruzione mentale e corporale.

Il Mobbing provoca effetti devastanti, poiché mira a danneggiare a menomare volutamente le sua capacità lavorativa e la fiducia in se stesso pian piano cede il posto alla tristezza più totale.

Per questo, il mobbizzato non riuscendo a smaltire lo stress mostra manifestazioni psicosomatiche, stati depressivi o ansiosi, tensione continua e incontrollata. Le ricerche hanno dimostrato che il Mobbing può portare a un danno psichico o psicofisico permanente, tale da consentire una regolare richiesta di risarcimento per invalidità professionale.

Il Mobbing ha quindi effetti deleteri e distruttivi, acuiti dalle scarse possibilità di difesa, perché la paura prepotente e costante di perdere il lavoro e di non avere più altre possibilità, porta la vittima a subire gli attacchi in maniera indefessa.

La vittima, dunque, è sempre in una posizione inferiore, inteso come status, rispetto ai suoi avversari e gradualmente perde la sua posizione lavorativa, il rispetto degli altri, il suo potere decisionale, la salute psichica, la fiducia in se stesso, l’entusiasmo nel lavoro e, soprattutto, la propria dignità.

I più coraggiosi ricorrono alla legge ma, in merito a tale materia, è scarsa e ambigua, di fatto il confine tra lecito esercizio del comando in termini lavorativi e puro arbitrio aggressivo è impalpabile e molto flebile.

Purtroppo, è ancora difficile far riconoscere il Mobbing come una vera malattia professionale risarcibile e come pratica criminale punibile penalmente. Di recente comincia a muoversi qualcosa, ma la luce in fondo al tunnel è ancora lontana.

Ricordiamo, però, che il Mobbing vero e proprio è un abuso vero, che dovrebbe essere combattuto, denunciato, e riconosciuto, non solo a livello individuale ma anche sociale nella speranze possa essere anche punito in futuro.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Open source per il sociale: arriva Symhelper, il software per facilitare la creazione degli In-Book

logo SymHelper

Comunicato Stampa

Grazie ad una campagna di crowdfunding è stato possibile realizzare l’applicativo, completamente gratuito, utile per l’apprendimento dei bambini con disabilità nella comunicazione

Milano, 22 luglio – Dopo due anni di sviluppo e collaborazione tra tecnici informatici e utenti finali, è finalmente pronta la versione 1.0 di Symhelper. Il software, completamente gratuito, facilita l’importante operazione di riquadratura per gli In-Book: libri i cui testi sono tradotti in simboli, utilizzati all’interno di percorsi di Comunicazione Aumentativa Alternativa (C.A.A.).

 

Symhelper permette di velocizzare e semplificare la creazione di pagine con simboli già riquadrati, in maniera che autori o genitori possano concentrarsi sull’impaginazione, sulla disposizione dei simboli oppure sull’inserimento di immagini, invece che sull’operazione meccanica di riquadratura dei simboli svolta fino ad ora manualmente. Symhelper è capace di riconoscere in maniera automatica i simboli non riquadrati del file PDF che analizza, producendo un documento con simboli riquadrati in formato ODF (Open Document Format) per successive modifiche o integrazioni tramite LibreOffice o OpenOffice.

L’idea di realizzare Symhelper nasce da Luca Errani (membro della Comunità dell’Arca L’Arcobaleno) e dall’esperienza diretta con sua figlia Chiara, una ragazza che comunica e apprende da sempre tramite la C.A.A.

I libri in simboli – spiega Luca Errani – hanno una particolare importanza per il singolo bambino o ragazzo con difficoltà nella comunicazione, perché, attraverso un codice più accessibile, consentono di avere maggiori strumenti in entrata per arricchire la propria esperienza, il proprio vocabolario e la lettura di ciò che vivono. Anche numerose esperienze per l’inserimento di bambini stranieri testimoniano l’efficacia della C.A.A. come mezzo di apprendimento della nuova lingua. Fino ad ora – continua Errani – noi genitori non avevamo a disposizione un software che consentisse una riquadratura automatica dei simboli e lo dovevamo fare manualmente, è per questo che mi è venuta l’idea di crearne uno ad hoc. Idea che è stata subito sostenuta dal Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa del Policlinico di Milano, dall’Ausilioteca di Bologna e dall’Associazione Territoriale per L’integrazione Il Volo Onlus di Fiscaglia (FE).

La realizzazione del software nasce dallo sforzo di tutto il gruppo di sviluppo ed è stata possibile grazie a una campagna di crowdfunding, che ha permesso di raccogliere i fondi necessari. Il coordinamento tecnico del progetto è stato seguito dalla società VNS, attiva da tempo nel mondo Open Source, che ha contribuito donando due risorse tecniche per questo importante contributo nel sociale.

La versione Symhelper 1.0 è scaricabile gratuitamente al seguente indirizzo.

 

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Il figlicidio materno: caratteristiche e fattori di rischio

Maura Crivellenti – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Milano

L’essere madre porta con sé, accanto alla gioia, molte angosce, paure, difficoltà, rabbia, insofferenza, che le donne da sole non sempre possono affrontare, soprattutto quando questi sentimenti diventano insormontabili, arrivando a travolgerle. Perché queste donne sono spesso lasciate sole nelle loro paure, nonostante siano nella maggior parte dei casi circondate da familiari o da mariti, che pur essendoci in realtà non sono presenti affettivamente.

È il 24 Giugno del 2002 quando Simona decide di portare i suoi due bambini al laghetto, Davide di ventuno giorni e Matteo di quattro anni. Mentre passeggia coi bambini Simona pensa: Io a casa non ci torno…io in quella situazione non ci torno, perché dirà poi Sarei rimasta ancora sola…mio marito non poteva capire niente dei miei desideri. Fa caldo e chiede al più grande se vuole rinfrescarsi un po’. La mamma lo aiuta ad entrare in acqua, poi entra lei con Davide. Il più piccino scivola dalle sue braccia e Simona non fa nulla per trattenerlo. Anche Matteo va a fondo, riemergendo poco dopo privo di sensi. Simona si mette sulla schiena e fa il morto nell’acqua. Mi sono sentita andare via (Pannitteri, 2006).

Nessun crimine come l’omicidio di un figlio da parte della propria madre ci lascia così inermi. Di fronte a fatti come questi la domanda che nasce spontanea in ognuno di noi è: Come può una madre riuscire ad uccidere un figlio? Quali sono i motivi che la spingono a compiere questo orribile gesto?. La risposta che tranquillizza la società di fronte a certi casi è senza dubbio quella di attribuire alle madri una patologia mentale, giustificando il gesto come pazzia, perché non è normale che una madre abbia il desiderio di uccidere il proprio bambino. Attribuire questo gesto alla follia ha uno scopo rassicurante, sia perché funge da spiegazione, sia perché allontana da noi l’ipotesi di poterlo commettere in quanto soggetti sani.

Come scrive McKee (2006), questi fatti evocano nella memoria la nostra infanzia, quando avevamo paura della rabbia dei nostri genitori, domandandoci oggi se le nostre madri possono aver avuto l’intenzione o il solo pensiero di ucciderci in quei momenti, di farci del male o d’abbandonarci; per i genitori, rievocano invece episodi della vita in cui si sono sentiti così arrabbiati nei confronti dei figli tanto che la loro reazione è andata oltre i limiti consueti, accettati, spaventati dalla capacità di tale violenza, mai conosciuta prima.

Nel profondo della mente di padri e madri si insinua un pensiero pericoloso e segreto che riguarda la paura che possano anche loro, prima o poi, commettere un atto impulsivo nei confronti del proprio bambino. A volte, però, la patologia non sta solamente nella persona, ma anche nell’ambiente familiare e nelle sue dinamiche. Lo psichiatra americano First e altri suoi collaboratori (Peccarisi, 2004) hanno parlato di sindrome chiamata Disturbo Relazionale (Relational Disorder), nella quale non è considerato malato il singolo individuo, ma un gruppo di soggetti e la relazione che intercorre tra loro. Può quindi accadere che un soggetto con tale disturbo se osservato da solo non riveli nulla di patologico. È il modo con cui alcune persone interagiscono all’interno di specifiche relazioni che può risultare disturbato, con modalità del tutto simili a quelle che caratterizzano la malattia mentale.

La maternità è un periodo spesso idealizzato, dove il male deve essere allontanato. La collettività dipinge, infatti, il periodo della gestazione, del parto e dei primi periodi di vita del neonato come un periodo idilliaco, come un momento che deve appartenere a tutte le donne, un desiderio innato che non si apprende. Ma si può davvero parlare di istinto materno? In realtà, sarebbe meglio parlare di sentimento materno, in quanto culturalmente e non biologicamente determinato (Merzagora, 2003). Così come tutti i momenti della propria vita, la maternità si caratterizza per la compresenza di spinte aggressive e spinte libidiche, se vogliamo parlare coi termini di Freud. È il giusto equilibrio tra queste due spinte emotive a renderci sani. L’essere madre porta con sé, accanto alla gioia, molte angosce, paure, difficoltà, rabbia, insofferenza, che le donne da sole non sempre possono affrontare, soprattutto quando questi sentimenti diventano insormontabili, arrivando a travolgerle. Perché queste donne sono spesso lasciate sole nelle loro paure, nonostante siano nella maggior parte dei casi circondate da familiari o da mariti, che pur essendoci in realtà non sono presenti affettivamente, che ignorano e minimizzano quanto la neo mamma sta attraversando.

I cosiddetti momenti bui, come spesso sono definiti nei racconti successivi al fatto dalle mamme che hanno commesso figlicidio, arrivano senza che nessuno se ne accorga. I sentimenti negativi non possono essere espressi o comunicati perché diventare madre deve essere bellissimo.

Il figlicidio: una definizione e classificazione

Comunemente si tende ad associare il figlicidio materno ad una patologia mentale (tenendolo ben differenziato dal figlicidio commesso dai padri, perché assume caratteristiche differenti). Eppure, il figlicidio non è solo un atto di natura patologica, non sempre deriva da una mano dominata da allucinazioni e deliri psicotici e la nostra società non è nuova a queste vicende. Basta ripercorrere brevemente la storia dell’umanità per rendersene conto.

 L’infanticidio o l’esposizione prolungata dei neonati al freddo (inteso come abbandono) erano metodi comunemente utilizzati ed accettati nella Roma e nella Grecia antica. Al pater familias era lasciato pieno diritto di decisione sulla vita o la morte di ogni figlio che nasceva. Le deformazioni, in particolare, erano considerate un peccato e quando un bambino nasceva sfortunato la sua vita era subito troncata. È solo nel 374 d.C. che la legge Romana decreta che l’uccisione di un infante è considerato omicidio (Palermo, 2002). Gli omicidi dei più piccoli però continuarono, perché nel 400 d.C. ancora si credeva che i bambini che non smettevano di piangere fossero posseduti dal demonio, possibile causa scatenante ancora oggi dell’atto omicida (Palermo, 2002). L’infanticidio, quindi, è stato utilizzato spesso come strumento di controllo demografico, dove anche i fattori culturali hanno un grande peso. Basti pensare che nell’infanticidio il sesso del nascituro è importante, soprattutto in determinate culture, come ad esempio la Cina o l’India.

Una definizione dei termini usati dalla letteratura è di fondamentale importanza per essere consapevoli di cosa intendiamo con la parola figlicidio, rispetto alla parola neonaticidio e infanticidio. Il diritto distingue solamente tra infanticidio e omicidio. Si parla di infanticidio, secondo l’articolo 578 c.p., quando l’uccisione del feto avviene durante o dopo il parto, in condizioni di abbandono materiale e morale. Al contrario si parla di omicidio, in particolare nell’articolo 575 c.p., quando un genitore, non necessariamente la madre, uccide il figlio che può essere anche un neonato, ma senza le condizioni previste nell’articolo precedentemente citato, che spesso risultano di difficile individuazione. In questo contesto è possibile applicare inoltre le aggravanti del caso (Bramante, 2005).

La criminologia, rispetto alla giurisprudenza, fa una distinzione sulla base dell’età della vittima. L’uccisione entro le 24 h dalla nascita è chiamata neonaticidio, l’infanticidio va dal primo giorno di vita al compimento del primo anno di età ed infine il termine figlicidio si utilizza per i bambini uccisi dal primo anno di vita in poi. Anche Resnick (1969), uno tra i più importanti studiosi dell’argomento, preferisce distinguere il neonaticidio dal figlicidio propriamente detto, termine che egli utilizza dalle 24 h di vita in poi (Bramante, 2005). Il motivo di questa distinzione sta proprio alla base della motivazione che porta a commettere il neonaticidio rispetto al figlicidio. Nel primo caso la principale motivazione è quella di impedire l’inizio della vita del feto, per lo più non voluto, e l’istaurarsi quindi di un legame affettivo. Nel secondo caso, invece, il rapporto è già iniziato e le motivazioni possono essere di gran lunga più numerose. Questa prima definizione criminologica sull’età funge anche come prima classificazione, ma presenta diverse limitazioni. Infatti una suddivisione che si basa solo sull’età della vittima, non permette di individuare gli eventuali fattori di rischio e di attuare strategie preventive (McKee, 2006).

La prima importante revisione della letteratura sul figlicidio è stata fatta dallo psichiatra Philip Resnick nel 1969, il quale trovò 155 riferimenti pubblicati dal 1751 al 1967. Egli sviluppò una classificazione del figlicidio basandosi sulle maggiori motivazioni che possono sottostare all’agito materno, suddividendole in cinque categorie:

  • Figlicidio altruistico, nel tentativo di alleviare una sofferenza immaginata o reale al bambino o nel desiderio di evitare una sofferenza futura.
  • Figlicidio psicotico, comprende quelle madri che uccidono sotto l’influenza di un chiaro e grave disturbo psicopatologico, come una schizofrenia o una psicosi post-partum.
  • Figlicidio del bambino non voluto, quando la madre non lo ha desiderato e il legame non si è mai istaurato.
  • Figlicidio accidentale, è una morte non intenzionale causata dalla negligenza della madre o da un abuso fisico per un’eccessiva punizione.
  • Figlicidio come vendetta verso il coniuge, quando l’impulso omicida è diretto verso il bambino nel tentativo di provocare una sofferenza nel proprio partner, come rivendicazione.

Dalla prima classificazione di Resnick ne sono susseguite molte altre. In tutte queste classificazioni non si notano grandi differenze, cambiano le denominazioni delle categorie ma le definizioni sono per lo più molto simili.

Un’importante innovazione nella stesura di un modello di spiegazione del figlicidio è stato effettuato da Ania Wilczynski, nel 1997. L’autrice decide di proporre una classificazione sulla base di motivi primari e secondari, perché spesso le ragioni che spingono il genitore a questo crimine possono essere ricondotte a diverse categorie. Il motivo primario è quello dominante, ragione o causa del figlicidio; il motivo secondario è una ragione con meno importanza nella spiegazione del figlicidio. Per esempio, una madre che sente delle voci allucinatorie che la esortano a punire il figlio, il quale muore a causa delle eccessive percosse, ha come motivo primario senza dubbio la psicosi mentre come motivo secondario la disciplina. Ovviamente se la psicosi è tenuta sotto controllo con i farmaci le due motivazioni saranno invertite: primaria sarà la disciplina, secondaria sarà la psicosi (McKee, 2006).

Nel 2006 un’ulteriore classificazione è stata presentata da McKee, il quale ha condotto lunghe interviste a madri, adolescenti e adulte, accusate di aver ucciso il proprio figlio. La classificazione elaborata da McKee presenta queste categorie: Madri Distaccate; Madri Abusive/Negligenti; Madri Psicotiche/Depresse; Madri Vendicative; Madri Psicopatiche.

Il figlicidio e le sue caratteristiche

Resnick (1969) ha definito il figlicidio propriamente detto come l’atto omicida attuato dalla madre nei confronti del figlio dal primo giorno di vita in poi. Diversamente dal neonaticidio, la madre che commette figlicidio ha già istaurato, più o meno profondamente, un rapporto con il bambino e di conseguenza anche le motivazioni sottostanti sono differenti. Resnick è dell’opinione che il rischio per un bambino di essere ucciso dai propri genitori diminuisce con l’aumentare della sua età. In altre parole, il bambino è più vulnerabile quando il rapporto madre-figlio non ha ancora raggiunto un legame solido e un solido attaccamento materno. Il figlicidio può essere suddiviso in una serie di tipologie non solo motivazionali, ma anche situazionali in un continnum che va dall’assenza di patologia fino alla patologia più grave (Merzagora, 2003).

La porzione più piccola nei campioni riportati nella letteratura è rappresentata dalla Sindrome o Complesso di Medea, dove l’omicidio del figlio è compiuto per vendetta, e richiama il mito greco di Medea. Il fattore scatenante è la conflittualità con il marito. In altre parole, il bambino è utilizzato come un vero e proprio strumento, al fine di creare sofferenza o di attirare l’attenzione di chi è il vero oggetto di ostilità, spesso acuita prima dell’atto omicida da un ulteriore lite con il marito (Merzagora, 2003).

Un altro tipo di figlicidio riguarda quello accidentale, in cui non vi è l’intento di uccidere, ma è l’atto estremo come risultante dell’evoluzione della Sindrome del Bambino Maltrattato, la Batter Child Sindrome, un comportamento impulsivo spesso in risposta al pianto, alle urla o all’applicazione della disciplina. La categoria del figlicidio accidentale è la più grande o la seconda più grande nei campioni studiati in letteratura insieme ad un’altra tipologia di figlicidio caratterizzata da una patologia psichiatrica (McKee, 2006). Le madri che commettono un figlicidio di tipo accidentale hanno spesso un disturbo di personalità, una modesta intelligenza, irritabilità e un’incapacità a mantenere un lavoro stabile (Merzagora, 2003). Sono anche donne che provengono da famiglie numerose e/o che a loro volta sono state più probabilmente vittime di maltrattamenti nella loro infanzia. Queste esperienze possono condurre all’incapacità di sviluppare un sicuro legame di attaccamento nei confronti dei propri figli, fino a portarle nei casi estremi a commettere l’omicidio. Arshad e Anasseril (1984) hanno affermato che esiste una sostanziale differenza tra le madri figlicide e quelle abusanti. Le prime infatti, soffrono di un grave disturbo psichiatrico al momento dell’atto e hanno avuto più frequentemente in passato una malattia mentale, facendo rientrare i figli nei propri deliri. Raramente, inoltre, hanno abusato del figlio prima di ucciderlo e loro stesse hanno meno probabilmente una storia di abuso alle spalle. Al contrario, le madri abusanti hanno una significativa assenza di un disturbo mentale sia al momento della valutazione, sia nel loro passato. Sono spesso però già segnalate ai servizi, sia nel presente come madri abusanti, sia nel passato come vittime di abuso da parte dei propri genitori.

Tra i casi di maltrattamento velato troviamo la Sindrome di Munchausen per Procura, in cui la madre inventa sintomi o segni che il bambino non ha o che lei stessa gli procura somministrandogli farmaci ad esempio, esponendolo di conseguenza ad una serie di accertamenti od operazioni, più o meno invasive, fino a procurargli la morte nei casi estremi (Bramante, 2005). Il comportamento adottato da queste madri è amichevole, collaborante e cordiali e difficilmente portano i medici a pensare di trovarsi di fronte ad una madre maltrattante. Il padre in questi casi è una figura piuttosto debole, ai margini della scena, assente sia fisicamente che emotivamente (Bramante, 2005). La letteratura (Rosen et al. 1984; Bools et al. 1993; Merzagora, 2003) sembra essere concorde nel negare una grave patologia mentale in queste madri, più spesso portatrici di un disturbo di personalità (Borderline, Istrionico, Paranoide) come accade per le altre mamme maltrattanti. Nell’anamnesi si possono poi ritrovare condotte autolesive, utilizzo di sostanze, abusi o maltrattamenti.

Il profilo della madre che commette figlicidio è stato più volte elaborato. L’età media individuata nei studi va dai 25 anni ai 30. Una buona parte presenta un basso quoziente intellettivo, influenzato probabilmente anche dal livello di istruzione più basso. Per quanto riguarda lo stato coniugale la maggioranza di queste donne sono sposate o con una relazione al momento della morte del figlio, ma vivono in una situazione socioeconomica caratterizzata da difficoltà finanziarie. Nella loro infanzia è frequente trovare una storia di abuso, ma è stata rilevata un’alta prevalenza di violenza domestica anche al momento dell’omicidio. Queste madri presentano una percentuale decisamente maggiore di disturbi psichiatrici, sia nell’anamnesi personale che familiare.

Nell’anamnesi familiare non è infrequente trovare una malattia mentale in uno o più familiari della madre, mentre rispetto all’anamnesi personale la letteratura è concorde nel riportare una precedente storia di malattia mentale e di trattamento; infatti, la maggior parte di queste madri era stata antecedentemente ospedalizzata o aveva ricevuto cure psichiatriche in concomitanza al periodo in cui era stato ucciso il bambino. Grande attenzione è stata rivolta alla diagnosi clinica, i disturbi mentali infatti sono individuati in molte review della letteratura. Nonostante le differenze i disturbi più frequenti sono senza dubbio quelli psicotici e quelli dell’umore, oltre a disturbi dell’adattamento, abuso o dipendenza da sostanze e ai disturbi di personalità.

La prevenzione e i fattori di rischio

La prevenzione in casi drammatici come il figlicidio materno riveste un ruolo fondamentale. Cercare di anticipare i comportamenti omicidi o semplicemente gli stati di sofferenza a cui una madre può andare incontro durante la maternità potrebbe salvare la vita di un bambino. Per poter fare prevenzione è necessario sapere innanzi tutto quale comportamento vogliamo evitare e quali sono i segnali premonitori, cioè i fattori di rischio. La letteratura riporta diversi studi in cui si è cercato di fornire un quadro degli aspetti che fanno rientrare una madre in una condizione di rischio e che dovrebbe destare attenzione e allarme sia nella società che nei servizi di salute mentale. I fattori di rischio sono caratteristiche, condizioni, segnali e circostanze ambientali associate a un’elevata probabilità che si manifesti un determinato target. La fonte del rischio può essere individuale, come le caratteristiche demografiche della madre, familiare, cioè legata alle caratteristiche o alle interazioni tra i membri della propria famiglia d’origine, e infine situazionale, associata alle circostanze immediate al fatto. Ovviamente esistono anche dei fattori protettivi, cioè un qualsiasi fattore di rischio mancante, un suo opposto oppure un giusto mezzo tra due estremi di un aspetto.

 Una recente matrice dei fattori di rischio è stata elaborata da McKee, organizzata secondo due dimensioni: il dominio (individuale, familiare, situazionale) e le fasi della maternità (pre-natale, perinatale, primo post-partum, tardo post-partum e tarda infanzia). Sicuramente il figlicidio materno è un evento multifattoriale, cioè è determinato da diverse cause, che potremmo chiamare concause, perché un singolo fattore di rischio non comporta necessariamente un atto omicida verso il figlio: solo la presenza congiunta di diversi fattori rende possibile il suo verificarsi. Inoltre, non possiamo considerare i fattori indipendenti tra loro. Più probabilmente i diversi aspetti si intrecciano e si influenzano l’un l’altro, aumentando la complessità del fenomeno. Il figlicidio materno quindi è un fenomeno composito, caratterizzato da un gruppo di madri molto eterogenee tra loro. È possibile che gruppi di madri figlicide che rientrano in categorie differenti (ad es. figlicidio accidentale e figlicidio con patologia psichiatrica) possano avere fattori di rischio molto differenti.

Tra i fattori di rischio individuali che la letteratura riporta troviamo:

  • età della madre inferiore a 16 anni o superiore a 35 anni
  • profilo intellettivo basso o ritardo mentale
  • livello istruzione basso
  • livello socioeconomico basso, impiego con ridotto profitto o non stabile
  • stato medico della madre (malattia terminale, utilizzo di sostanze)
  • diagnosi di depressione, psicosi, abuso o dipendenza da sostanze psicoattive, disturbo di personalità (Paranoide, Antisociale, Narcisistico e Borderline).
  • presenza di un trauma infantile (abuso fisico o sessuale o negligenza, perdita della madre, divorzio dei genitori o violenza domestica)
  • attitudine materna verso il nascituro (ad esempio gravidanza indesiderata).

Tra i fattori di rischio familiari troviamo:

  • madre poco supportava dal punto di vista materiale ed emotivo, che soffre di malattia mentale o abusa di sostanze illegali
  • presenza di un padre abusante o abusa di sostanze illegali o che soffre di malattia mentale
  • instabilità familiare caratterizzata da separazioni, divorzio, violenza, difficoltà finanziarie o trasferimento.

Tra i fattori di rischio situazionali troviamo:

  • assenza del partner oppure presenza di un partner abusante e coercitivo; bassa soddisfazione e adattamento coniugale
  • condizioni di povertà o dipendenza dall’assistenza sociale
  • più figli da accudire da sola e avere gravidanze ravvicinate nel tempo perché a sua volta aumenta il rischio di depressione post partum
  • bambino con temperamento difficile.

Il maggior rischio per il figlicidio, secondo la letteratura, si ha durante il primo anno di vita del bambino, perciò diventa importante riconoscere i sintomi dei disturbi tipici del post-partum, come la depressione o la psicosi ma anche l’abuso di sostanze, meno tipico ma allo stesso modo molto pericoloso per la possibilità di slatentizzare un disturbo psichiatrico. Quindi diventa necessaria una preparazione anche rispetto ai fattori di rischio dei disturbi puerperali (Craig, 2004).

Gli studi hanno dimostrato che l’aver presentato una depressione precedente al parto è un rischio per lo sviluppo di una depressione post-partum nel periodo del puerperio. Alcune ricerche hanno evidenziato la presenza o l’assenza di pregressi stati psicopatologici al parto e il ruolo del contesto familiare e sociale (Verkerk et al. 2005). Infatti, il funzionamento sociale, insieme alla gravità dei pregressi stati depressivi e al livello di accudimento ricevuto dai genitori durante l’infanzia, sono dei fattori altamente predittivi dell’evoluzione dei disturbi puerperali (King et al. 1997).

Friedman e colleghi (2005) hanno riportato che uno tra i diversi fattori di rischio per i casi di figlicidio-suicidio, in cui la madre oltre a uccidere il figlio si suicida, era un precedente contatto con i servizi di salute mentale, così come i precedenti tentativi di suicidio, confermato anche da studi più recenti (Lysell, 2014). Inoltre, è stato evidenziato che dopo la nascita del primo figlio una condizione depressiva stabile è influenzata dall’abuso di sostanze e da tratti borderline o antisociali di personalità (Lewinsohn et al. 2000).

Grande attenzione è stata data quindi ai disturbi psichiatrici nella ricerca rivolta a individuare i fattori di rischio per il figlicidio. Gli autori tendono a precisare però che sebbene i disturbi psichiatrici siano un fattore di rischio per il figlicidio, la maggioranza delle donne malate non uccide o aggredisce il proprio bambino e alcune delle donne che compiono figlicidio non hanno nessun disturbo (Craig, 2004).

Oltre alla patologia mentale, sono stati citati in letteratura anche altri importanti fattori di rischio, come ad esempio l’eccessiva dipendenza dagli altri e i conflitti presenti all’interno del nucleo familiare. I fattori di rischio per il figlicidio, rispetto a quelli del neonaticidio, offrono maggiori possibilità di prevenzione, attraverso non solo la clinica prenatale, ma anche con follow-up nel post-partum che permettono di seguire i casi ad alto rischio. Diversi interventi sono possibili quando dopo il parto si manifestano sintomi d’ansia e dell’umore.

Sicuramente si può attivare un intervento educativo rivolte alle madri nel tentativo di fornire loro informazioni sulla genitorialità, sulle cure e lo sviluppo del bambino. Si può agire anche all’interno di un supporto empatico o con terapie cognitivo-comportamentali indirizzate sia alle madri che alle coppie di genitori. Ancora ci sono terapie di gruppo pre e post-natali, che aiutano le madri a trovare rassicurazioni nella condivisione delle stesse difficoltà con altre donne, oltre che visite domiciliari, che nei casi di negligenza e di abuso hanno avuto in particolare un grande successo (Olds et al. 1997). Diversi autori hanno esteso questo approccio a tutto il campione di madri figlicide, mentre Overpeck e colleghi (1998) hanno proposto un cross-training per i professionisti della salute per permettergli di individuare la violenza domestica. Ancora molto c’è da fare in questo ambito, perché non bastano solo nuove ricerche che possano ulteriormente confermare i fattori che portano a considerare un caso ad alto rischio, ma è necessaria anche una adeguata formazione professionale per coloro che sono più a diretto contatto con le madri, dai pediatri ai medici di base, così che possano essere messi nella condizione di inviare casi allarmanti a servizi specializzati, in una prospettiva di intervento di rete.

 

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Valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza domestica. Come prevenire?

BIBLIOGRAFIA:

Philip Zimbardo: My journey from evil to heroism – Report Pt. 2

Nel 1971 il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Standford creò una prigione simulata reclutando 24 studenti per impersonare guardie e carcerati. I risultati dell’esperimento condotto da Philip Zimbardo scioccarono il mondo intero.

L’esperimento, da cui è stato fedelmente tratto il film di cui vi abbiamo mostrato il trailer, aveva inizialmente lo scopo di studiare l’influenza dell’autorità sul comportamento umano e sarebbe dovuto durare due settimane. Fu interrotto dopo soli 6 giorni perché gli studenti, persone “normali” (cioè senza alcun tratto psicopatologico) che erano stati assegnati random al ruolo di carcerati o guardie, si erano talmente calati nella parte da dar vita ad uno scenario a dir poco agghiacciante.

Leggendo i primi capitoli del libro “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?” di Zimbardo, in cui viene descritto giorno per giorno l’esperimento, si viene invasi da un profondo senso di frustrazione, impotenza e claustrofobia. Le guardie pian piano cominciano ad esercitare sempre di più il loro potere e ad umiliare, anche gratuitamente, i detenuti, che vengono privati del cibo, denudati, derisi, costretti ad estenuanti ed inutili esercizi fisici, sottoposti a vessazioni di carattere sessuale e a violenza psicologica.

Dall’altra parte i carcerati sono talmente influenzati dal loro ruolo, appunto, di carcerati dall’assumere ben presto un atteggiamento remissivo, rassegnato, impotente. 5 di loro furono forzati ad abbandonare l’esperimento, il primo dei quali dopo sole 36 ore, a causa di gravi crolli psicologico-emotivi. Ciò che più colpisce è che sebbene l’esperimento fosse diventato un inferno, nessuno di loro si appellò alla clausola che gli avrebbe permesso di andarsene in qualsiasi momento. Sebbene nessuno li costringesse a restare lì, non erano più studenti che stavano partecipando ad un esperimento, ma si sentivano e si comportavano come veri carcerati.

Lo studio di Zimbardo dimostrò come il contesto può influenzare in maniera rilevante il comportamento delle persone: un ambiente che favorisce la deumanizzazione, l’esercizio di potere e controllo, la diffusione della responsabilità, la pressione del gruppo, il disimpegno morale, l’anonimato (es. indossare occhiali a specchio), la deindividualizzazione dell’altro (assegnare un numero al posto del nome) può trasformare una brava persona in una cattiva persona.

Ciò non significa, però, giustificare gli atti dell’individuo, bensì riconoscere il contributo che ambiente e sistema possono offrire.
Non tutti, infatti, si comportano in maniera cattiva in determinate situazioni. Quali fattori possono spingere, pertanto, una persona a commettere buone azioni, a comportarsi da eroe? Purtroppo, afferma Zimbardo, non lo sappiamo perché le ricerche in merito sono molto scarse. Per questo motivo Zimbardo ha fondato un’associazione che si pone come obbiettivo quello di insegnare nelle scuole, attraverso programmi psicoeducativi basati sulla ricerca, ad essere degli EROI NEL QUOTIDIANO, insegnando a riconoscere e a lavorare su quei fattori che possono indurre una persona a comportarsi male. Perché oggi più che di supereroi abbiamo bisogno di eroi nella vita di tutti i giorni, perché anche non fare nulla di fronte al male è comunque una forma di male ed è tempo di trasformare la compassione in azione per creare un futuro in cui il male sia sempre meno presente.

 

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Philip Zimbardo: lectio magistralis presso la Sigmund Freud University di Milano, 11 Luglio 2015

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Zimbardo P.G. (2008). L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? Raffaello Cortina Editore: Milano.

Trust (2010): l’adescamento online di minori – Cinema & Psicologia

Scritto e diretto dall’attore David Schwimmer, “Trust” è un film drammatico che racconta una delle piaghe sociali attuali più dolorose: l’adescamento on line di minori.

Il film si apre con la festa di compleanno della protagonista, Annie, un’adolescente quattordicenne che sta per iniziare il primo anno di scuole superiori. Chattando la ragazza conosce un sedicente adolescente, Charlie, con il quale sembra condividere non solo la passione per la pallavolo, ma anche i primi turbamenti e le prime curiosità sessuali. La conoscenza virtuale prosegue, i due diventano sempre più intimi e Charlie inizia a svelare la sua reale identità dichiarandosi prima ventenne e poi venticinquenne. Quando Annie decide di incontrarlo di persona, in occasione di una temporanea assenza dei genitori, è costretta a constatare con sconcerto che si tratta invece di un trentacinquenne il quale non esita, con fare manipolatorio, a portarla ad avere un rapporto sessuale con lui. Da quel momento in poi le sue tracce reali e virtuali si dileguano e, a seguito della segnalazione del reato da parte di un’amica di Annie, inizia un lungo calvario che coinvolge la vittima e la sua famiglia e i servizi sociali.

Se nella prima parte del film, dunque, lo sguardo si sofferma a osservare la subdola dinamica dell’adescamento on line della minore nelle sue varie fasi (primo contatto, instaurazione di un rapporto di fiducia, seduzione esplicita, incontro reale), nella seconda seguono parallelamente le diverse reazioni dei personaggi e la loro evoluzione nel corso della vicenda: il faticoso percorso di elaborazione del trauma da parte della ragazza che, se inizialmente non riesce a vedere lucidamente l’evento, si rende gradualmente conto, anche grazie ad un sostegno psicologico, di essere una delle tante vittime di un adescatore seriale; l’incapacità del padre di accettare l’esperienza traumatica della figlia con la conseguente difficoltà nel sostenerla emotivamente come risulta evidente dall’impegno attivo focalizzato sulla ricerca del delinquente.

Ed è proprio la fiducia (“Trust”) la chiave di lettura di questa pellicola. Fiducia che il molestatore si conquista abilmente ad ogni chat condividendo i vissuti di insicurezza della giovane, divenendo per lei un importante punto di riferimento; fiducia che ingenuamente l’adolescente rinnova allo sconosciuto nonostante le reiterate menzogne sulla sua reale età e fiducia dei genitori nella figlia che non permette loro di cogliere il suo disorientamento adolescenziale prima, e le prime avvisaglie di malessere dopo.

Nell’età adolescenziale l’agile dimestichezza nella navigazione in rete, spesso non compensata da una completa maturità cognitiva ed emotiva, aumenta il rischio di ricerca di relazioni virtuali con sconosciuti che possano facilmente soddisfare il crescente bisogno di intimità e il fisiologico interesse per l’area sessuale.
Parlare dell’adescamento on line, anche tramite la visione condivisa di un film, può costituire un primo passo nel favorire nei giovani il riconoscimento di un pericolo reale e non solo virtuale e, dunque, nel prevenirlo.

 

TRAILER:

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Cartoni animati & alimentazione dei bambini: gli effetti della visione di protagonisti sovrappeso sul consumo di cibi grassi

FLASH NEWS

Secondo uno studio recentemente effettuato da un team dell’Università del Colorado, i bambini tenderebbero a consumare cibi più grassi se appassionati di cartoni i cui protagonisti sono sovrappeso.

La ricerca, pubblicata online sul Journal of Consumer Psychology, dimostra per esempio che i bambini sono influenzati dalle rotondità di Grimace, un “ingombrante” personaggio amante dei milk-shake creato da McDonald negli anni Settanta. La dottoressa Margaret Campbell, docente di marketing presso l’Università del Colorado, afferma: [blockquote style=”1″]I ragazzi che seguono questo cartone consumano una doppia quantità di “cibo-spazzatura” rispetto a coloro che ammirano personaggi più sani o che non ne ammirano affatto.[/blockquote]

La prima scoperta interessante in merito è che i bambini tendono ad applicare gli standard umani di valutazione della massa corporea anche a personaggi immaginari. In altre parole, classificherebbero anche le figure dei cartoni animati, per cui non esistono degli standard definiti, come sottopeso, sovrappeso o sane.

Oltre a ciò, sembra proprio che affezionarsi a un personaggio “paffutello” renderebbe i ragazzi più indulgenti nella scelta del tipo di cibi da consumare. Lo studio coinvolgeva 300 bambini e ragazzi di 8, 12 e 13 anni, testati in gruppi suddivisi per età, ai quali era innanzitutto data la possibilità di esprimere le loro personali credenze sul tema della salute, scegliendo tra sei coppie di figure e parole legate a comportamenti quotidiani più o meno sani (per esempio giocare all’aria aperta vs guardare la tv, oppure latte vs coca-cola) prima di iniziare il test vero e proprio. Questo per cercare di capire in che misura le credenze personali e l’esperienza pregressa potessero influenzare i risultati dei test. Poi si procedeva alla visione di cartoni animati scelti proprio sulla base della forma fisica dei loro protagonisti, e in seguito si somministrava un test del gusto per indagare in che modo le scelte dei bambini si fossero modificate.

Come già accennato, la ricerca dimostra che la scelta dei ragazzi cambia in senso negativo, orientandosi verso scelte meno salutari, in seguito alla visione di questo tipo di cartoni animati. Lo studio ha risvolti importanti, considerando che viviamo in un mondo in cui i bambini si confrontano costantemente con personaggi di svariato genere (nei fumetti, nei videogames, nei film e nei programmi TV). Per questo motivo, sarebbe fondamentale che le grandi aziende facessero scelte di marketing più responsabili.

La dottoressa Campbell aggiunge: [blockquote style=”1″]Credo che i genitori dovrebbero essere consapevoli del modo in cui i loro figli associano cibo e divertimento. Il marchio Kellogg è l’esempio di una scelta responsabile in questo senso: anni fa, la figura della tigre Tony è stata modificata secondo standard più sani, rendendola un personaggio atletico e snello che richiama alla mente idee più salutari sul consumo di cibo.[/blockquote]

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il manicomio chimico: cronache di uno psichiatra riluttante di Piero Cipriano (2015) – Recensione

Il libro del collega psichiatra Piero Cipriano si inserisce in un filone di (auto)denuncia sulla psichiatria di oggi, che in parte trae ispirazione dalle opere del giornalista americano Whitaker, citato a più riprese nel volume.

Cipriano, che si definisce un basagliano, svolge la propria attività in un SPDC di Roma e ha accumulato anni di esperienza nella “trincea” psichiatrica, fino a diventare riluttante all’attuale sistema di cura, che si avvale purtroppo ancora troppo spesso della contenzione fisica, per non parlare di quella farmacologica. Il libro è una sorta di confessione abbastanza confidenziale in cui l’autore racconta in modo critico la sua pratica clinica, arricchendo la narrazione con riferimenti a libri che ha letto, a film che ha visto, a convegni a cui ha partecipato.

Direi un racconto psichiatrico molto umanistico e umano, dove emerge fortemente l’amore dell’autore per la letteratura (in particolare Bolano) e l’interesse per le persone e la loro storia. Cipriano scrive bene, anche se a tratti indugia un po’ troppo sull’autocelebrazione dello psichiatra controcorrente, senza macchia e senza paura, paladino dei poveri pazienti indifesi, spesso vittime di colleghi sadici. Le parti più riuscite sono a mio avviso i racconti delle storie dei pazienti incontrati nell’SPDC romano, ottimo osservatorio dell’attuale patologia psichiatrica metropolitana, con tutti i risvolti sociologici del caso (tra le altre cose si parla anche di rom ed etnopsichiatria, di psicanalisti psicotici, di deliri da cannabis e cocaina, etc.).

Come altri libri del genere la parte di denuncia critico-distruttiva al sistema attuale è di gran lunga superiore a quella propositiva fatta di soluzioni reali e possibilmente efficaci per risolvere alcuni dei problemi della cura della patologia mentale più grave (schizofrenia e dintorni). C’è qualche accenno ad alcune soluzioni ispirate al modello triestino (zero contenzioni, SPDC aperti, Centri di salute mentale aperti 24 ore), che paiono sicuramente affascinanti, ma non hanno mostrato dove applicare queste rivoluzioni in termini di risultati terapeutici.

La denuncia desta sicuramente più clamore rispetto al racconto delle cose che funzionano, all’impegno silenzioso di tanti operatori che fanno del loro meglio per compiere il proprio dovere, spesso in condizioni lavorative difficili. Il problema delle contenzioni è sicuramente vitale e desta sempre molto clamore mediatico, ma pensandoci bene non è forse il problema principale della psichiatria di oggi, come possono esserlo lo stigma, l’esclusione sociale o una riabilitazione psichiatrica realmente efficiente che riporti la persona che soffre di un problema psichiatrico grave a un funzionamento e una qualità della vita accettabili.

Il manicomio chimico è un racconto sicuramente autentico, che a tratti ti fa arrabbiare non tanto per la questione delle contenzioni, quanto perché fa trasparire un certo senso di impotenza che abbiamo di fronte alla follia e alla sua cura.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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