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La meditazione Zen migliora l’apprendimento sensomotorio

La meditazione Zen avrebbe effetti anche sui processi di apprendimento secondo quanto dimostrato dai ricercatori della Ruhr-University Bochum e della Ludwig-Maximilians-University di Monaco.

Lo studio è stato condotto durante un ritiro di meditazione Zen di praticanti con diversi anni di pratica: il ritiro prevedeva il completo silenzio con 8 ore di meditazione al giorno.

Tutti i soggetti praticavano una meditazione caratterizzata dalla attenzione consapevole dei propri pensieri, stati interni e stimoli esterni. In aggiunta ad alcuni partecipanti è stato chiesto di meditare per due ore al giorno focalizzandosi sulle sensazioni del dito indice della mano destra, allenando la consapevolezza delle percezioni e sensazioni relative a questa specifica parte del corpo.

Nelle fasi pre e post assessment è stato valutato quantitativamente il livello di percezione tattile mediante un indice che misura la soglia che misura quanto distanti debbono essere due stimoli affinchè siano discriminati come due distinte sensazioni. Sono proprio i praticanti che hanno meditato per un certo periodo di tempo sul loro dito destro a mostrare significativi miglioramenti (di circa il 17%) nell’acuità tattile del dito indice della mano destra rispetto al gruppo di controllo.

Un aumento, effetto della meditazione, che è comparabile ai cambiamenti conseguenti all’allenamento e alla stimolazione fisico-corporea. Questi risultati vanno anche letti considerando le evidenze empiriche a supporto della grouded cognition e dell’utilizzo della mental imagery a scopo riabilitativo e di training fisico: gli stati mentali essendo in qualche misura embodied hanno margini di effetto sulle componenti senso-motorie dell’esperienza e delle azioni. Ora questa ricerca ha mostrato che la “semplice” attenzione consapevole (un processo mentale) sulle proprie sensazioni tattili è in grado di modificare le soglie percettive e l’acuità sensoriale, agendo sui meccanismi di apprendimento sensomotorio.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Massimo Recalcati e il mito della soggettività sotto assedio

Di Iacopo Camozzo Caneve

Il mito della soggettività sotto assedio

Su “ma la vita psichica non si spiega con i numeri”

 

Sul numero di lunedì 7 settembre di Repubblica, esce, con occhiello in prima pagina, un interessante articolo a riferire del Reproducibility Project, uno studio condotto a partire dal 2011 da un gruppo di 270 psicologi dell’Università della Virginia nel quale sono stati riprodotti 100 studi pubblicati da tre importanti riviste scientifiche per valutarne l’effettiva riproducibilità (elemento chiave di ciò che viene comunemente definito “scienza”).

Il risultato è che solo il 36 % degli esperimenti riprodotti ha dato risultati sovrapponibili agli originali. Dunque uno studio, che usa il metodo della scienza, mette in discussione i risultati di altri studi, anch’essi scientifici e dunque frutto dell’applicazione del metodo scientifico.

Così funziona la scienza, questo ci permette l’applicazione del rigore scientifico, e per questo, ci si augura, le siamo tutti grati.

Risultato assolutamente interessante, dunque, tanto da aprire immediatamente un vivace dibattito, portato avanti con gli strumenti stessi della scienza – sia in seno alla psicologia che nelle cosiddette “scienze dure” che di numeri ed esperimenti naturalmente vivono- sul significato da dare a questo risultato, e sui possibili rimedi da apportare nei disegni di ricerca per poter limitare ulteriormente la possibilità di risultati fallaci (forse a volte dovuti a contingenze economico-politiche più che a intrinseca debolezza del metodo stesso).

Il dibattito, insomma, è aperto.

Ciò che più colpisce, nelle due pagine di giornale, non è però tanto l’articolo in questione, quanto quello che dovrebbe esserne il “commento” (questa la dicitura sopra il titolo), a firma di Massimo Recalcati, commento che si dibatte tra l’essere l’ennesima apologia della psicoanalisi e la non certo ultima tirata contro un non meglio definito, se non nell’essere quanto di più sgradito all’Autore, “mito dell’oggettività”.

 

 

 

Il discorso di Recalcati si snoda attraverso quattro passaggi principali:

1) Assume l’esistenza di una stortura nel pensiero occidentale, figlio malato della scienza: il “mito dell’oggettività”, nelle righe seguenti confuso e scambiato a piacimento con la scienza tout court.

Aderire alla scienza significa essere oggettivi, non è un Mito, è un criterio del metodo, è il metodo stesso. Altrimenti, si fa altro dalla scienza, legittimo, ma altro.

2) Identifica alcune evenienze di tale fenomeno nella psicologia: il criteri di creazione del DSM, gli studi sugli effetti della dopamina durante l’innamoramento e l’esperienza dell’Autore durante un recente congresso scientifico internazionale sui disturbi dell’alimentazione nel quale “dati statistici, numeri, procedure e percentuali hanno letteralmente dissolto la soggettività del paziente”.

Ma la soggettività del paziente è nel paziente, al più nella stanza di terapia; lamentarne la mancanza in un convegno scientifico internazionale significa cercarla là dove non è richiesto si palesi. Dissolverla, ammesso sia possibile, è ben altra cosa.

3) Fa scivolare il concetto di oggettività su quello di media statistica (la prima però è un aspetto di metodo, la seconda una sintesi di risultati), a sua volta confuso con il concetto di “normalità” (un giudizio di valore confuso con la sintesi di risultati); poggiando su questo fallace doppio passaggio, il “mito dell’oggettività” pretenderebbe dunque che tutto ciò che ricade fuori dalla media sia stortura e anormalità.

Ma, si oppone Massimo Recalcati, “non è forse in questa devianza che dovremmo definire l’unicità irripetibile dell’esistenza come tale?”, scagliandosi contro un nemico immaginario appena costruito per l’occorrenza.

4) Giunge infine, al culmine di cotanta costruzione narrativa, come in ogni lieto fine che si rispetti, a identificare nella psicoanalisi l’ultimo baluardo a salvare l’unicità dell’essere umano in quanto tale, ponendosi come “modello di scienza che non può essere ridotto al furore scientista della quantificazione”.

Cosa ciò significhi esattamente non è detto, quale modello di scienza alternativo sia proposto rimane un mistero, ma ci sentiamo certamente tutti meglio sapendo che le nostre soggettività sono al sicuro dal mostro malefico dei numeri….

Per lo psicoanalista, conclude -a intendere sia diverso per chi anche con i numeri e le percentuali di uno studio cerca la maggior efficacia clinica possibile- per lo psicoanalista, dunque, “ogni caso è unico, non riproducibile, non comparabile”.

Ci congratuliamo.

A me pare serpeggi sotto questo para-ragionamento in 4 fasi uno strisciante gioco di parole, mai svelato del tutto, ma insinuato per tutto il testo, per cui l’obiettività della scienza sia in contrasto con la soggettività dell’umano.

A parte il suggestivo gioco di parole, che come ogni gioco di parole ha il potere di insinuarsi nella nostra mente con una carica di Verità gratuita e non guadagnata sul campo, c’è da chiedersi perché e in che modo la scienza in quanto tale, che è un paradigma con i suoi scopi, le sue proprie regole e i suoi definiti ambiti di applicabilità, debba o anche solo possa essere in opposizione con l’irripetibile unicità dell’esistenza, e tantomeno con la squisita irripetibilità di ogni essere umano.

Come dire, se si scopre che durante quel fenomeno tra due appartenenti alla specie umana denominato innamoramento i livelli di dopamina cerebrale hanno un certo andamento, questo non si spiega come possa avere a che vedere con la conturbante esperienza soggettiva dell’essere innamorati, con dita tremanti che si sfiorano o con la vibrante eccitazione dell’attesa dell’incontro con l’amato/a. Le mani intrecciate non conoscono dopamina.

La scienza scopre regolarità nel multiforme gioco del reale, identifica schemi generali che si ripetono; e con questo noi umani possiamo gettare lo sguardo al di là delle apparenze, possiamo conoscere, capire, prevedere. Conoscendo e prevedendo possiamo intervenire.

Intervenire, per noi clinici, significa che nella meravigliosa e irripetibile unicità dei nostri pazienti leniremo più rapidamente la sofferenza. Questo è il nostro scopo come conoscitori del funzionamento della mente, e se possiamo portare a termine il nostro compito è proprio grazie all’oggettività che ci consente di prevedere.

Dunque, prof. Recalcati, anche per chi utilizza la ricerca e i numeri come mezzo per conoscere, può starne certo, ogni caso è unico, non riproducibile, non comparabile.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Repubblica 7.9.15 Ma la vita psichica non si spiega con i numeri –  di Massimo Recalcati.

Il nostro tempo è assillato dal culto della cifra: tutto dovrebbe essere misurato, pesato, tradotto in numeri, quantificato. Il mito dell’oggettività al di là di ogni interpretazione non anima solo alcune recenti correnti filosofiche, ma sembra essere diventato una sorta di imperativo “morale” diffusosi in tutte le aree del sapere. Nemmeno la psicologia può sfuggire a questa tendenza. Anzi, essa sembra sposare con sempre più determinazione l’idea propria delle scienze “dure” — come la matematica o la fisica — che una ricerca per essere considerata degna di scientificità non solo debba galileianamente essere riproducibile in termini sperimentali ma, soprattutto, produrre numeri, percentuali, cifre attendibili. Nemmeno la dimensione labirintica della vita psichica deve costituire una eccezione al nuovo impero dell’oggettività. L’impeto della valutazione — oggi diffuso in tutti gli ambiti del sapere — sospinge gioco forza la psicologia verso la psicometria: misurare atteggiamenti, conoscenze, abilità, credenze, sentimenti, personalità. L’intera classificazione delle malattie mentali proposta dai vari Dsm, per esempio, si fonda su un principio descrittivo basato su ricorrenze statistiche. Nelle Università, non solo italiane, la psicologia tende sempre più ad abbandonare il campo delle cosiddette scienze umane per scivolare verso quello delle scienze obbiettive, ispirate al criterio della quantificazione dei risultati. Una tesi di laurea che non sia corredata da sequenze di numeri, grafici matematici, curve statistiche, oltre che da “inglesismi” di ogni genere, viene ormai considerata, a priori, come una tesi di serie B. Anche il fenomeno che più di tutti esalta la soggettività umana, com’è quello dell’innamoramento, viene spiegato dalle neuroscienze come un fenomeno determinato dall’effetto biochimico dell’azione della dopamina su alcune zone del cervello e destinato fatalmente a spegnersi tra i sei e gli otto mesi. In un recente congresso scientifico interazionale sui disturbi dell’alimentazione al quale ho partecipato ho ascoltato esterrefatto relazioni di colleghi nord-americani che avevano letteralmente dissolto la soggettività del paziente in dati statistici, numeri, procedure anonime, percentuali. Del paziente, della sua anamnesi, della sua storia clinica, delle sue particolarità più proprie, non restava più nulla. Il feticismo della cifra e della generalizzazione protocollare aveva semplicemente inghiottito quello che ogni scienza medica dovrebbe invece rispettare: l’incomparabilità assoluta del soggetto. Il problema è scottante: esiste davvero la possibilità di misurare la vita psichica? E come non vedere che questa domanda trascina con sé la tendenza insidiosa — segnalata con forza da Michel Foucault e da Franco Basaglia — di una medicalizzazione violenta della vita umana? La spinta feticistica alla misurazione vorrebbe, infatti, cancellare il carattere singolare e irripetibile della soggettività umana segregando come “vita malata” quella che si trova fuori dalla media statistica stabilita che definisce la normalità. È questa la dimensione più politica che è al fondo della riduzione della psicologia alla psicometria: quello che devia da una supposta normalità è una deviazione statistica che deve essere trattata affinché ritorni nel suo alveo mediano. E se allora si gettasse nel lazzaretto dell’anormalità anche il pensiero critico, non omologato, quello deviante dalla universalità della norma? Ma, ancora, non è forse in questa devianza che dovremmo definire l’unicità irripetibile dell’esistenza come tale? L’esistenza, in altre parole, non è sempre una deviazione dalla norma? La psicoanalisi offre alla psicologia un modello di scienza che non può essere ridotto al furore scientista della quantificazione. Ogni caso è per lo psicoanalista unico, non riproducibile, non comparabile. Eppure la pratica clinica della psicoanalisi non può essere senza principi, non è una improvvisazione irrazionale. Essa offre, piuttosto, il modello di una pratica epistemica che invita a diffidare di ogni generalizzazione per considerare l’”uno per uno”, la singolarità deviante della vita umana. “

Il dolore cronico: la necessità di un approccio multisistemico

Silvia Vitaloni, Eleonora Girani – OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Il dolore svolge un’importante funzione per l’adattamento: percepirlo e anticiparlo implica l’attuazione di una serie di comportamenti necessari a garantire la sopravvivenza dell’individuo. Ma quando la sua durata si protrae oltre il tempo di guarigione, esso perde il carattere funzionale di allarme e acquisisce le caratteristiche della malattia cronica.

Il dolore è una spiacevole esperienza sensitiva ed emotiva associata ad un reale e/o potenziale danno (Cugno et al, 2010). L’esperienza dolorifica si divide in dolore acuto, finalizzato ad allertare il corpo della presenza di stimoli pericolosi o potenzialmente tali, e dolore cronico definito non solo come un’estensione di un dolore acuto ma come una risposta di mal adattamento del dolore (Cugno et al, 2010). Il dolore svolge un’importante funzione per l’adattamento: infatti percepirlo e anticiparlo implica l’attuazione di una serie di comportamenti necessari a garantire la sopravvivenza dell’individuo. Ma quando si trasforma da episodio acuto in condizione cronica, cioè quando la sua durata si protrae oltre il tempo di guarigione, esso perde il carattere funzionale di allarme e acquisisce le caratteristiche della malattia cronica (Cugno et al, 2010).

I pazienti affetti da dolore cronico possono essere suddivisi in base a delle classificazioni standard in:

  • Pazienti con dolore obiettivo, ovvero individui con un buon adattamento pre-morboso, una normale reazione al dolore ed una lesione ben definibile;
  • Pazienti che esagerano il dolore, ovvero individui con problemi psicopatologici come parte dell’adattamento pre-morboso, un’insolita reazione al dolore (mancanza di depressione o ansia) e il riscontro di elementi organici minimi;
  • Pazienti con dolore indeterminato, ovvero individui con un buon adattamento pre-morboso, una normale reazione al dolore, in assenza di riscontri fisici obiettivi;
  • Pazienti con un dolore caratterizzato da una componente affettiva o associativa, ovvero pazienti con uno scarso andamento pre-morboso, in totale assenza di riscontri fisici obiettivi (Hendler, 1981).

Oltre a essere in relazione con fattori fisici il dolore può essere la conseguenza di processi cognitivi ed emozionali. Infatti risulta ampiamente dimostrato (Michielin, 2004) che lo stato emozionale influenza le caratteristiche e l’intensità di dolore percepito. Un recente studio ha messo in evidenza come i fattori psicologici possano causare un’iper-reattività muscolare in risposta ad uno stress psicologico che contribuisce allo spasmo muscolare e pertanto, all’aumento dell’effetto nocicettivo e all’esacerbazione del dolore. Quest’ultimo a sua volta potrebbe agire come un ulteriore fattore stressante, aumentando ancor di più la tensione muscolare, provocando la formazione di punti scatenanti (trigger point) e contribuendo al perpetuarsi del ciclo tensione-dolore (Michielin, 2004).

Ma prima di soffermarci sui fattori psichici coinvolti nella percezione dello stimolo dolorifico, risulta importante comprendere come il corpo e la mente sentono il dolore.

In generale lo stimolo nocivo viene raccolto da nocicettori (i recettori periferici del dolore) che si suddividono in termici, chimici, meccanici e polimodali, e trasmesso alle aree corticali deputate all’elaborazione dello stimolo tramite vie ascendenti e discendenti che possiedono diversi livelli di integrazione (Cugno et al, 2010). La percezione finale da parte del sistema nervoso centrale costituisce il dolore accusato dal paziente; ad elaborare lo stimolo infatti partecipano diverse strutture cerebrali centrali a più livelli tra cui: cervelletto, talamo, insula, corteccia cingolata superiore e molte altre. Soggettivamente, il dolore è vissuto come un’emozione a connotazione negativa che ostacola qualsiasi attività psicologica. Può essere associato a rabbia, aggressività, paura, preoccupazione e, molto frequentemente ad umore depresso. Questo è particolarmente vero nei casi di dolore cronico, in cui viene meno il comportamento auto-protettivo e i meccanismi neurobiologici di base sono più complessi (M. Muehlbacher, M. K. Nickel, C. , 2006) .

Il dolore cronico viene definito psicogeno quando la sintomatologia dolorosa non ha evidente causa organica ma è attribuibile a fattori psichici, ovvero a una sofferenza affettivo-emotiva. Per tale motivo risulta importante in questi casi offrire al paziente che riporta tale sintomatologia la possibilità di essere sottoposto a valutazione psicodiagnostica poiché in tali manifestazioni il quadro risulta ampiamente complesso, tale da richiedere una presa in carico multifattoriale ( psicoterapeutica e farmacologica).

Nell’articolo ci soffermeremo su due tipologie di dolore cronico: la Sindrome da Fatica Cronica e le cefalee. Nel dicembre 1994, un gruppo internazionale di studio costituito dai Centers for Disease Control (CDC) di Atlanta – USA, ha pubblicato sugli Annals of Internal Medicine una nuova definizione della Sindrome da Fatica Cronica (CFS, Chronic Fatigue Syndrome) come Una fatica persistente per almeno 6 mesi che non è alleviata da riposo, che si esacerba con piccoli sforzi e che provoca una sostanziale riduzione dei livelli precedenti delle attività occupazionali, sociali o personali (Carlo-Stella et al., 2004) modificando in parte la definizione data da Holmes e Coll. alcuni anni prima.

Per poter porre tale diagnosi è necessaria le presenza di 4 o più dei seguenti sintomi, anche questi presenti per almeno 6 mesi:

  • Disturbi della memoria e della concentrazione tali da ridurre i precedenti livelli di attività occupazionale personale.
  • Faringite.
  • Dolori delle ghiandole linfonodali cervicali ed ascellari.
  • Dolori muscolari e delle articolazioni, senza infiammazioni o rigonfiamento delle stesse.
  • Cefalea di tipo diverso da quella presente eventualmente in passato.
  • Sonno non ristoratore.
  • Debolezza post esercizio fisico, che perdura per almeno 24 ore.

Va poi sottolineato che la Sindrome da Stanchezza Cronica non è una forma di depressione, tuttavia tale patologia può essere presente in soggetti con CFS, quale reazione alla stanchezza cronica.( Razzaboni e Ercolani, 2000). La CFS risulta essere una patologia debilitante ed invalidante: in Italia si riscontrano circa 200-300.000 casi di CFS; si tratta quasi esclusivamente di individui giovani o di mezza età, sia uomini che donne, mentre si conferma pressoché assente in età più avanzata (Carlo-Stella e Cuccia, 2009). Le cause di questa sindrome sono tutt’ora oggetto di studio.

Sono ipotizzati modelli multifattoriali e non esistono esami specifici per confermare la diagnosi di CFS (Razzaboni e Ercolani 2000). Per quanto riguarda le prospettive terapeutiche, purtroppo non vi è alcun farmaco in grado di guarire definitivamente la malattia (Craig e Kakumanu 2002). Dai risultati che provengono da diversi studi (Demitrack, 1996), si può affermare che circa il 10-30% dei pazienti con CFS ha avuto almeno un episodio di depressione negli anni precedenti l’insorgenza della CFS, mentre un 50-70% ha sviluppato depressione negli anni successivi alla comparsa della CFS. Se si tiene conto che queste cifre sono più elevate rispetto alla prevalenza della depressione nella popolazione generale (circa il 5-10%), si può desumere che una storia passata di depressione può rendere una persona più vulnerabile alla CFS e che una depressione reattiva è spesso una parte importante di una malattia come la CFS. Negli stati di CSF vengono utilizzati farmaci antidepressivi, come per esempio l’amitriptilina altri principi secondari sono sono Fluoxetinae la Duloxetina: i risultati appaiono discreti ma vengono dati nel breve periodo. Per tale motivo, infatti, in un articolo pubblicato sulla rivista Psychological Medicine (P. D. White, K. Goldsmith, A. L. Johnson, T. Chalder and M. Sharpe (2013).) vengono riportati i risultati di una ricerca condotta dall’Università Londinese Queen Mary dimostrando che il recupero dei sintomi associati alla sindrome da stanchezza cronica (CFS) sia possibile, per alcuni pazienti, grazie all’associazione tra psicofarmacologia e terapia Cognitivo Comportamentale.

Così come per la CFS anche per le cefalee è importante riflettere sull’importanza di un approccio di cura ad ampio raggio. Le cefalee vengono distinte in cefalee primarie (emicrania, cefalea muscolo-tensiva, cefalea a grappolo) e cefalee secondarie (secondarie a patologie cerebrali, craniali, internistiche o psichiatriche, oltre a quelle derivanti da abuso di farmaci). L’elemento più importante per un corretto inquadramento diagnostico di tutte le cefalee è una precisa analisi dei sintomi riferiti (ad es. frequenza, localizzazione esatta del dolore, durata, tipo, presenza di altri segni clinici associati come ad es. nausea oppure lacrimazione) e delle circostanze in cui si manifestano. Emicrania e cefalee tensive sono spesso in comorbilità con disturbi d’ansia nel 52% dei casi (con maggiore incidenza del disturbo d’ansia generalizzato), depressione nel 36,4% dei casi (con maggiore incidenza nella distimia) e nei disturbi somatoformi nel 21,7% dei casi (Puca et al., Cephalgia, 1999). Per quanto concerne la comorbilità depressione-emicrania, la correlazione risulta bidirezionale: il rischio di onset dell’emicrania in pazienti con depressione varia da 2.8 a 3.5 e il rischio di onset della depressione in pazienti con emicrania varia da 2.4 a 5.8 (Antoniacci et al., J Headache Pain, 2009). La compresenza di entrambe le patologie può portare a condizioni disabilitanti con una riduzione della qualità di vita e della capacità lavorativa e un forte impatto sul decorso e sulla prognosi dell’emicrania. Alla base di questa comorbilità ci sarebbero dei meccanismi patogenetici comuni, tra i quali: disfunzione serotoninergica, disfunzione dopaminergica, abuso di medicinali, oscillazione degli ormoni ovarici (Antoniacci et al., J Headache Pain, 2009).

Sia per quanto concerne la depressione che l’emicrania abbiamo un’alterazione dei livelli di serotonina: nel primo caso si osserva un abbassamento cronico dei livelli, mentre nel secondo un aumento di concentrazione durante l’attacco di emicrania seguito da una diminuzione tra un attacco e l’altro; per quanto riguarda invece le fluttuazioni ormonali si osserva come l’abbassamento del livello di estrogeni aumenti la probabilità che si verifichino attacchi di emicrania e fluttuazioni del tono dell’umore (Baskin et al., Neurol.Sci., 2009). Considerando quindi che alla base del legame depressione-emicrania ci sarebbe un meccanismo neurobiologico comune, alcuni antidepressivi infatti sono oggi utilizzati con risultati soddisfacenti non solo nel trattamento della depressione, ma anche nella profilassi dell’emicrania (Baskin et al., Neurol.Sci., 2009). Anche se non esistono delle linee guida universali per agevolare la scelta del farmaco antidepressivo in pazienti con emicrania, alcuni farmaci come la sertralina, fluoxetina e venlafaxina hanno riportato benefici e miglioramenti (Finocchi et al., Neurol. Sci, 2010).

Considerato che i pazienti con emicrania sono ad alto rischio rispetto all’insorgenza della depressione e che quest’ultima a sua volta può compromettere la prognosi dell’emicrania, nell’individuare le strategie terapeutiche maggiormente adeguate alla cura delle cefalee è oggi chiaro quanto sia importante nelle fasi di valutazione un accurato screening psicologico e un trattamento che preveda l’utilizzo della terapia cognitivo comportamentale.

La presa in carico più efficace per il paziente affetto da dolore cronico è multidisciplinare, prevede più figure professionali con competenze differenti che lavorano in equipe in modo da affrontare tutti gli aspetti legati alla patologia. 

L’approccio cognitivo-comportamentale è stato definito dalle linee guida Nazionali ed Internazionali come quello di prima scelta, sia che il trattamento del dolore preveda o meno la somministrazione di un farmaco (Michielin, 2004).

Il protocollo cognitivo comportamentale ha come scopo i seguenti obiettivi:

  • Aumentare la compliance del paziente,
  • Migliorare la qualità di vita contrastando l’insorgenza di atteggiamenti ansioso-depressivi che inevitabilmente accompagnano la sintomatologia dolorosa cronica,
  • Ottenere una diminuzione nella percezione soggettiva del dolore e quindi un minor consumo/abuso di farmaci analgesici e raggiungere il massimo livello di prestazionalità funzionale del paziente, compatibilmente con la patologia di base.
  • Ristrutturazione cognitiva circa le convinzioni errate o disfunzionali sul dolore
  • Apprendimento abilità di fronteggia mento del dolore (Michielin, 2004).

Risulta ormai chiaro come il lavoro psicoterapeutico possa essere utile al trattamento di un problema che risulti globalmente di natura e orientamento principalmente corporeo; anche in quest’ultimo caso si tenderà sempre meno a considerare mente e corpo come elementi separati in favore di una conoscenza del funzionamento umano maggiormente embodied.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Psicologia della satira e del riso: mostrare le zanne per attacco o per divertimento?

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta Domenica 06 settembre 2015

La satira forse è davvero troppo per un animale. Eppure gli animali qualcosa fanno che somiglia al riso: essi scoprono i denti. Come ha potuto un atto minaccioso come l’esibizione dei denti diventare un atto così (apparentemente) innocente e fraterno come ridere? Forse ridere non è del tutto innocente, forse non è un atto che non vuole nuocere e per il quale i denti non servono. Del resto oggi si parla di satira, che non è un riso innocente.

Gli uomini fanno satira e ridendo, castigano le abitudini e i comportamenti. Quando gli etologi, a cominciare da Lorenz, osservarono che gli animali non ridono ritennero anche che essi non fossero capaci di un’acrobatica operazione mentale: essere consapevoli di un certo modo di fare e di comportarsi e metterlo in ridicolo, satireggiarlo.

Vero, la satira forse è davvero troppo per un animale. Eppure, sarà altrettanto vero che gli animali non ridono? Vediamo meglio. La mimica della faccia umana, controllata da un elevatissimo numero di muscoli, è molto più complessa di quella degli animali non primati, privi di questa sofisticata strumentazione motoria. Un cane può essere espressivo con gli occhi, ma ha un potere limitato su quel che accade più in basso, sulle guance e intorno alla bocca e non mette in atto le mille sfumature del riso umano estese dal dolce sorriso alla risata rabbiosa e sprezzante, dal sorriso sardonico all’ilarità conviviale.

Eppure gli animali qualcosa fanno che somiglia al riso, qualcosa che porta diritto alla satira. E cosa fanno? Essi scoprono i denti. Secondo Konrad Lorenz, l’etologo entrato nell’immaginario per le sue passeggiate con gli anatroccoli, l’atto animale più vicino al riso umano è la rivelazione della dentatura, della chiostra di zanne. Un atto minaccioso e proprio dei carnivori. Gli erbivori non scoprono i denti, sarebbe –è il caso di dirlo- ridicolo per loro che li usano per nutrirsi e non per aggredire. Gli erbivori non ridono.

Come ha potuto un atto minaccioso come l’esibizione dei denti diventare un atto così (apparentemente) innocente e fraterno come ridere? Forse ridere non è del tutto innocente, forse non è un atto che non vuole nuocere e per il quale i denti non servono. Del resto oggi si parla di satira, che non è un riso innocente.

Per un animale mostrare i denti è una minaccia, indubbiamente. È un segnale di attacco, ti dico che voglio usare i denti su di te per mordere. Però, attenzione, la comunicazione è qualcosa di sofisticato in tutti gli animali sociali, non solo nei primati.

Nei predatori che operano in gruppo, in branchi organizzati socialmente, mostrare i denti è un segnale ricco d’informazione la cui complessità è necessaria per comunicare durante la caccia, un’impresa collaborativa non banale. Cacciare non è forza bruta; è esplorazione del territorio, ricerca della preda e comunicazione ai compagni di branco della presenza e della possibilità di attaccare. I predatori comunicano socialmente per indicare la preda.

Indicare è l’atto di nascita della comunicazione e del linguaggio (Liotti, 2001). Indicando attiriamo l’attenzione dei nostri compagni di branco su un oggetto e proponiamo delle intenzioni, dei progetti, degli scopi. Insomma comunichiamo e quindi parliamo, creiamo un linguaggio. Linguaggio mimico e impreciso, ma che un giorno diventa –nelle specie evolute- linguaggio vocale e poi verbale e concettuale, e quindi preciso.

Il predatore che mostra i denti vuole attirare l’attenzione dei compagni di branco per segnalare la presenza di una preda. Tra un po’, quando avrà ottenuto l’interesse dei compagni, unendo sonori versi animali all’esibizione dei denti, volgerà il muso verso la preda per indicarla e lo farà continuando a mostrare i denti. E lo farà continuando a tenere le labbra ritirate all’indietro e in alto e in basso in modo da tenere scoperto il bianco luccicare delle zanne e continuando a emettere sempre più sonoramente il verso della propria specie animale: l’ululato canino, il ruggito felino. Verso che ben presto si propagherà contagiosamente all’intero branco.

Denti scoperti, suoni vocali che si diffondono nel gruppo per imitazione contagiosa. Non vi ricorda nulla? Queste sono risate. Il branco ha trovato la sua preda e ride mentre si slancia all’attacco. C’è l’aggressività, ma anche la gioia dell’atto sociale, la felicità del sentirsi parte di un gruppo.

E c’è il sollievo: anche per oggi abbiamo guadagnato la pagnotta. È un po’ triste trovare nel riso questo fondo aggressivo verso la preda, verso il debole. A questo si riduce anche il riso umano, perfino nelle sue forme più sofisticate: la gioia dell’aggressività condivisa verso il nemico?

Non sempre. La civilizzazione ci permette di superare questo fondo pessimistico che troviamo nelle emozioni animali e umane. Si può depurare il riso della sua aggressività e filtrarne la componente fraterna, ridere assieme agli altri per esprimere solidarietà, condivisione, dolcezza. È quel che accade nel sorriso degli innamorati, degli amici e degli ospiti che ci accolgono nei viaggi verso paesi lontani.

Tuttavia nel riso rimane un triste fondo aggressivo che ci delude, che lo rende uno strumento da maneggiare con cura. Ridendo si castiga, com’è proprio della satira. Si crea comunicazione e solidarietà ai danni del satireggiato, ma un dubbio serpeggia tra i compagni di satira: quanto durerà questa solidarietà? Chi sarà il prossimo a essere deriso? Non possiamo rilassarci mentre ridiamo e già iniziamo le manovre per trovare la prossima preda, per volgere l’aggressività del gruppo su qualcuno: che sia un altro, che non sia io il prossimo.

Il giudizio e la condanna di una vittima purtroppo spesso avvelenano il piacere di ridere assieme. Si ride assieme, ma si ride di qualcuno. È inevitabile.

Siamo affascinati dal giudicare e dal castigare ridendo. È la forza della satira, e un riso troppo innocente alla lunga stucca. Sono orgasmi dell’anima che conferiscono dignità e senso ai propri troppo umani rancori.

Tuttavia, anche del sapore piccante della satira ci si stufa. Nella satira si cela il rischio della deriva rancorosa. Forse è quello che è accaduto in Italia dopo la grande abbuffata satiresca iniziata negli anni ’70 con Il Male -non so quanti ricordino quel giornale- e poi proseguita con Cuore negli anni ’80. Dopo un’abbuffata di satira si smette, è da un po’ abbiamo smesso di ridere con quella ferocia; ma è solo un pendolo destinato a tornare indietro. La tristezza seriosa che segue una serata tra amici eccessivamente ridanciana ben presto ci stanca, e ricominciamo a cercare qualcuno o qualcosa da deridere in compagnia degli amici. Fraternamente e ferocemente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Liotti, G. (2001). Le Opere della Coscienza. Milano: Raffaello Cortina Editore
  • Lorenz, K. (2008). L’Aggressività. Milano: Il Saggiatore. Das sogenannte Böse zur Naturgeschichte der Aggression. Verlag Dr. G Borotha-Schoeler, 1963.

Gli occhi sono veramente lo specchio dell’anima?

Gli occhi sono veramente lo specchio dell’anima? Che risposte hanno dato la psicoanalisi e la psicologia empirica durante il secolo scorso?

Nel romanzo di formazione di Charlotte Brontë “Jane Eyre” appare la seguente citazione: [blockquote style=”1″]The soul, fortunately, has an interpreter – often an unconscious but still a faithful interpreter – in the eye[/blockquote] (Brontë, 1847, p. 267).

Tale affermazione racchiude e anticipa alcuni dei temi fondamentali della psicoanalisi freudiana e della psicologia sperimentale, sebbene provenga da un romanzo redatto in un periodo antecedente alla nascita delle due discipline, ossia sottolinea come lo sguardo abbia una connotazione essenziale per la comprensione delle emozioni, delle angosce e degli stati dell’Altro. In realtà l’importanza dello sguardo e dell’espressività è inscritta nella storia dell’uomo fin dai suoi albori, come testimoniano le più antiche opere d’arte e letterarie, a partire dall’Antica Grecia fino ad arrivare alle forme più “recenti” di Romanticismo ed Espressionismo.

Ma gli occhi sono veramente lo specchio dell’anima? Che risposte hanno dato la psicoanalisi e la psicologia empirica durante il secolo scorso?

La psicoanalisi freudiana e post-freudiana, sebbene fortemente divisa su alcune tematiche, ha da sempre mostrato una linea di pensiero unica e condivisa per quanto concerne l’importanza dello sguardo nello sviluppo della mente, dell’empatia e, in generale, delle relazioni sociali e affettive tra gli esseri umani. Lo psicoanalista Jacques Lacan (Recalcati, 2015) sottolineava, in particolare, come lo sguardo dell’Altro non sia solamente un elemento centrale per sintonizzarsi affettivamente col mondo interiore di un’altra persona, bensì anche un elemento costitutivo per la nostra stessa esistenza e per l’immagine che sviluppiamo di noi stessi, che si fonda su un rispecchiamento nell’altro, parafrasando Fonagy, ossia nella capacità di costituire noi stessi a partire dall’immagine che osserviamo nell’Altro di noi.

Questo concetto è in linea con la teorizzazione di Martin Heidegger, il quale sottolinea come il presupposto ontologico dell’empatia sia nella possibilità di incontrare un altro che sia costitutivo della nostra essenza, ossia: [blockquote style=”1″]L’esserci in quanto siffatto essere-nel-mondo è contemporaneamente un essere-l’uno-con-l’altro, un essere con altri […] un incontrarsi l’un l’altro, un essere l’uno con l’altro nel modo d’essere-l’uno-con-l’altro[/blockquote] (Heidegger, 2008, p. 32).

Si può comprendere come la dimensione espressiva degli occhi e dello sguardo umano non sia solo centrale per la capacità di entrare in contatto col vissuto dell’Altro, quindi di empatizzare, ma anche per la capacità di guardare dentro al proprio mondo, alla propria essenza, arrivando a giungere il “K bioniano” che abita in noi. Queste considerazioni vanno a legittimare, dunque, un altro proverbio molto famoso che sostiene come la conoscenza degli altri passi necessariamente da una forte capacità introspettiva verso noi stessi. Queste considerazioni di carattere psicoanalitico e filosofico trovano un riscontro evidente nella psicopatologia. Si pensi, ad esempio, a quelle patologie che potremmo definire “patologie della cognizione sociale”, ovvero patologie dove il mondo dell’Altro diventa incomprensibile, alieno e impossibile da accedere, ma soprattutto patologie dove il proprio mondo interiore tende ad alienarsi.

Il caso principale e più conosciuto è sicuramente quello dell’Autismo, dove il soggetto vive in una condizione di totale distacco dal mondo degli altri, in cui la realtà emotiva, propria e altrui, viene mortificata a favore dei dettagli (comportamento espresso nelle classiche stereotipie e nelle cosiddette abilità savant, come il calcolo del calendario), come descritto nella cosiddetta teoria della coerenza centrale debole (Happé & Frith, 2006) e nella teoria del cervello sistematizzatore (Baron-Cohen, 2005). Attorno ai numeri, alle ripetizioni e alle sistematizzazioni si creano le basi di un muro che separa il soggetto autistico dalla dimensione emotiva. L’espressione fenotipica di questa dinamica è stata osservata in alcuni esperimenti che hanno utilizzato la tecnica dell’ Eye-Tracker, ossia una tecnica che, attraverso un’ analisi dei movimenti oculari, riesce a indicare dove il soggetto sta maggiormente tenendo il proprio focus attentivo.

Lo studio del gruppo di Michael Spezio (2007) ha messo in rilievo come i soggetti autistici tendano a non osservare dettagli socio-emotivi cruciali nei volti come la bocca e, in particolare, gli occhi, rispetto al gruppo di controllo. La chiusura verso l’Altro, dunque, passa innanzitutto da una “naturale” mancanza di attenzione verso quello che l’Altro prova e può sentire in un dato istante.

Altri dati empirici su altri gruppi di pazienti hanno messo in evidenza gli aspetti sottolineati dal gruppo di Lo Spezio. Ad esempio, l’equipe di Mark Dadds (2006) ha mostrato come bambini con forti tratti psicopatici (ossia bambini che, con ogni probabilità, svilupperanno psicopatia da adulti) palesino forti difficoltà a mantenere l’eye contact con visi umani, determinando una gravissima difficoltà di sintonizzazione e riconoscimento delle emozioni negli altri esseri umani. Il deficit di sintonizzazione e riconoscimento dell’espressione facciale non sarebbe, quindi, di per sé un difetto nella rappresentazione semantica di questi stati, bensì, come sottolinea anche Adolphs (2010), un deficit nella capacità primordiale di porre automaticamente l’attenzione su social cues (e.g. occhi). Tale dato risulta avvalorato dal fatto che i bambini dell’esperimento di Dadds, così come la paziente con lesione all’amigdala (regione cruciale per quest’abilità) S.M., riuscissero ad individuare e sintonizzarsi con l’emozione che l’Altro stava esperendo, se richiesto loro di focalizzarsi esplicitamente sui loro occhi.

Questi dati supportano le considerazioni psicoanalitiche e filosofiche di Lacan e Heidegger. La vuotezza emotiva ed empatica dei soggetti psicopatici si esprime in un danno strutturale nell’esser-ci nel mondo dell’Altro e/o rispecchiarsi nel mondo dipinto negli occhi dell’Altro. Ed ecco come la psicologia empirica sottolinea il carattere fortemente evolutivo di questo danno che non ha solo delle radici genetiche, che comunque esistono come egregiamente descritto nel libro di Simon Baron-Cohen “La Scienza del Male” (2012), bensì arcaiche, evolutesi durante le primissime interazioni col “primo Altro”: la madre.

Il famoso esperimento della “Still Face” di Edward Tronick (1978) o lo studio sulla Depressione Anaclitica di Spitz e Wolf (1946) mostrano egregiamente come in presenza di un Altro emotivamente assente, attraverso la sua assenza fisica o la sua assenza emotiva (sguardo spento, “morto”, non comunicativo), la vita del bambino tenda a precipitare nel vuoto, nello sconforto fino ad arrivare, come nel caso degli studi di Spitz, alla morte biologica. Inoltre, sempre Mark Dadds e il suo gruppo (2012) hanno messo in rilievo come i bambini con tratti psicopatici mostrino, fin dai primissimi anni di vita, un’incapacità nel condividere il proprio sguardo con un’altra persona anche nell’ambito dell’interazione primaria con la loro madre.

In uno studio, in fase di pubblicazione, condotto nell’ambito di un progetto per la mia tesi di laurea con la professoressa Fulvia Castelli (De Angelis & Castelli, 2015), si è cercato di dare un senso a tutte le considerazioni fin qui fatte, attingendo alle fonti qui citate e ad altri studi presenti nella letteratura. Si è considerata l’abilità di Emotional Attention (Vuilleumier, 2005), ossia l’abilità di porre l’attenzione su dettagli rilevanti da un punto di vista socio-emotivo, come precursore principale dell’empatia.

Dunque, è stata ipotizzata l’esistenza di due stili cognitivi, uno stile emotigeno “hot”, maggiormente focalizzato su dettagli socio-emotivi, e uno stile analitico “cold”, maggiormente focalizzato su dettagli poco emotigeni e fortemente analitici. In un paradigma ispirato a quello di Tania Singer e collaboratori (2004), in cui i soggetti prendevano visione di un filmato di un loro parente e/o amico in una situazione di dolore, le persone che adottavano uno stile cognitivo “hot” risultavano significativamente più empatiche con il/la loro caro/a dei “cold”. Questo risultato ha posto non solo un mattoncino importante all’impianto teorico dei lacaniani e degli “heideggeriani”, ma ha anche rappresentato un supporto alle teorie, prima citate, sugli effetti negativi di uno stile cognitivo sistematizzatore e orientato ai dettagli sui livelli di empatia degli esseri umani.
In conclusione, le considerazioni riportate in questo articolo mettono in evidenza come effettivamente gli occhi siano lo specchio dell’animo umano.

Una vita “senza sguardi” è una vita “cold”, una vita dove l’incontro con l’Altro è precluso e, quindi, precludendo l’incontro con l’Altro si va a precludere l’incontro con il Me-rispecchiato nello sguardo dell’Altro che mi costituisce. Oramai è evidente come le psicopatie e l’autismo stiano aumentando a dismisura a causa di un mondo, fondato sull’oggettificazione dell’Altro come oggetto di godimento feticistico e assoluto, dunque fondato sulla mercificazione degli esseri umani tipica del modello capitalistico attuale.

Nel nostro tempo, e non solo nella psicopatologia, è importante che la psicologia clinica e la psichiatria rioffrano al soggetto la possibilità di tornare “a guardare gli occhi dell’Altro”, sia da un punto di vista riabilitativo che relazionale. Esistono già dei nuovi trattamenti per la psicopatia in via di sperimentazione (Baskin-Sommers et al., 2014) che lavorano sulla possibilità di modificare il deficit empatico strutturale grazie a un lavoro sui bias attentivi suddetti, restituendo la possibilità a questi soggetti di “rivedere” il mondo emotivo attorno a loro, “smuovendosi” dal loro stile cognitivo cold.

Questo passaggio non può prescindere però dall’incontro con un Altro, da una relazione fatta non solo di vista e di sguardi, ma anche di suoni e odori (la vista non è l’unico canale di veicolazione emotiva!), in modo che le vite, a trecentosessanta gradi, riacquisiscano il senso perduto. Per farlo bisogna imparare a specchiar-si negli occhi, perché gli occhi lo sono: sono lo specchio dell’anima.

 

 

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Note sull’autore

Jacopo De Angelis è Dottore in Psicologia presso l’Università degli Studi di Pavia (Psicologia Sperimentale e Neuroscienze Cognitive). Attualmente è in procinto di avviare un progetto di ricerca, nell’ambito del suo programma di tirocinio, con l’Università Bicocca (MI) sulle tematiche inerenti l’empatia.
Per contattarlo scrivere al seguente indirizzo: [email protected]

Il lutto. Psicoterapia cognitivo-evoluzionista e EMDR (2015) – Recensione

Queste pagine hanno l’abilità di inserirsi nel delicato equilibrio tra il lutto come processo psicologico umano naturale, inevitabile e auspicabile, e il lutto patologico, dove il dolore diventa qualcosa di troppo, troppo forte, troppo grande che ha il potere di disorganizzare l’esistenza della persona, arrivando in alcuni casi a tramandarsi come fattore di vulnerabilità nella vita delle generazioni successive.

Una cosa prima di tutte; difficile recensire il libro di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa con la stessa lucidità, profondità e delicatezza con la quale è stato scritto.
La scelta di un una chiave di lettura psicologica e psichiatrica del fenomeno non impedisce al lettore di scorgere, attraverso una finestra sempre aperta, l’aspetto biologico – evoluzionistico, antropologico, storico, religioso, letterario e profondamente umano.
Come possiamo concepire l’assenza, il non essere, la non esistenza di qualcuno che è stato parte della nostra vita e del nostro essere, della nostra identità? Che forma prende? Che luogo abita fuori o dentro di noi chi “non c’è più” ?

Gli autori attraversano con ricchezza di riflessioni teoriche e cliniche il cordoglio, fenomeno così radicato nella natura vulnerabile dell’uomo ma di cui tuttavia si è persa familiarità. Queste pagine hanno l’abilità di inserirsi nel delicato equilibrio tra il lutto come processo psicologico umano naturale, inevitabile e auspicabile, e il lutto patologico, dove il dolore diventa qualcosa di troppo, troppo forte, troppo grande che ha il potere di disorganizzare l’esistenza della persona, arrivando in alcuni casi a tramandarsi come fattore di vulnerabilità nella vita delle generazioni successive.

Per orientarci nella ricca esposizione che attraversa la fenomenologia del cordoglio, i fattori che lo influenzano, le strategie fisiologiche di adattamento e le strade attraverso le quali il lutto si complica, gli autori ci suggeriscono un luogo privilegiato di osservazione, quello della dimensione intersoggettiva, che nel lutto sopravvive e trova conferma.

Che cosa accade quando perdiamo qualcuno al quale siamo profondamente legati?
Ci sentiamo inizialmente storditi, increduli, confusi e distaccati, sprovvisti di un senso, reazioni simili a quelle osservabili dopo un trauma acuto ma contraddistinte dal peculiare significato del trauma da separazione. Cerchiamo.

E’ una ricerca allarmata, inquieta, in cui il desiderio per la persona che “non è più” diviene pervasivo, totalizzante, persistente, e compare la collera per l’abbandono subito. Si attiva in modo potente il nostro innato sistema dell’attaccamento. Di fronte all’impossibilità del ricongiungimento, che costantemente ci si palesa, compaiono disperazione, una generalizzata e profonda tristezza, disinteresse; uno stato in cui la separazione viene vissuta in termini di mutilazione, con prevalenza di un umore depresso, fino all’accettazione, se ci riusciamo, della perdita.

E che cosa accade a questo punto e, ancora una volta, dov’è chi non c’è più, chi non è più con noi, dove siamo noi ora? Quando e come un lutto può definirsi “risolto”?
I teorici del lutto, dettagliando percorsi simili, mettono in luce la necessità di attraversare il cordoglio, sopportare tutto il dolore emotivo che l’accompagna, accettare l’ineluttabilità della perdita e riorganizzare la relazione perduta esplorando un nuovo modo di “stare nel mondo” e una nuova relazione interna, viva, con il defunto; non di fine si tratta, dunque, ma di trasformazione.

Ed è quel particolare tipo di relazione, unica e indissolubile, a rendere il cordoglio, se pur universale in molte delle sue manifestazioni, così soggettivo. La natura soggettiva del cordoglio diviene ancor più evidente se pensiamo al mondo preesistente di relazioni, divenuto parte dell’individuo. Solo conoscendo la relazione e le emozioni di cui è connotata possiamo comprendere la risposta di una persona davanti ad una perdita. Pur constatando la carenza di studi sulla relazione tra attaccamento e lutto, non possiamo non considerare, sotto la guida degli autori, quanto la forma che assume il cordoglio di un individuo sia plasmata da memorie implicite potentemente riattivate dal dolore della perdita e in grado di guidare rappresentazioni di sé, dell’altro e delle relazioni.

Pensiamo, nel migliore dei casi, ad un lutto affrontato con capacità di sentire, comprendere, esprimere la sofferenza ed organizzarla in un senso di sé coerente e pensiamo, d’altra parte, a quando un lutto irrompe in una storia di sviluppo traumatico; la perdita riattiva esperienze precoci e disorganizzate di paura e impotenza e al dolore del lutto si sovrappone la minaccia alla propria incolumità. L’attivazione di sistemi arcaici come quello di difesa, con la conseguente cronica attivazione di risposte di allarme attive e passive, può rappresentare in questi casi l’unica soluzione possibile.
Gli autori descrivono e tracciano questo ed altri percorsi attraverso i quali diverse variabili (dal background bio – psico – sociale al “gradiente” di traumaticità legato al tipo di perdita e alle circostanze in cui si verifica) concorrono a complicare il lutto o, in alcuni casi, a generare una reazione post-traumatica a tutti gli effetti.

Le diverse forme di lutto patologico condividono l’impossibilità di riconoscere la perdita come definitiva.
Se nel processo fisiologico del lutto la relazione si trasforma e troviamo un graduale riattivarsi della capacità di reinvestire in nuovi interessi, attività, relazioni, quando il lutto si complica diviene impossibile riappropriarsi di un senso e di un senso di padronanza sulla propria vita, che resta ferma e disorientata in uno stato di minaccia, attesa, ricerca disperata, collera. E’ un lutto radicato nel corpo, isolato e bloccato in una memoria somatica impossibile da integrare, sganciato dalla parola, non pensabile, non verbalizzabile, e senza un significato che possa contenerlo in qualche forma.

Come può allora riprendere o avere inizio il processo di risoluzione, riorganizzazione, trasformazione di sé e della relazione quando la dimensione della perdita si incontra o si sovrappone a quella del trauma?

Si comprende qui la necessità di un intervento terapeutico in grado di individuare il punto di rottura e riattivare il processo naturale che conduce dalla perdita alla trasformazione della relazione.
Gli autori ben ci spiegano come questo sia possibile solo garantendosi un duplice accesso, quello della mente, guidato dalla parola, dal linguaggio interno riattivato nel dialogo terapeutico e quello del corpo, depositario della memoria procedurale del lutto traumatico.

Gli autori descrivono possibili strade terapeutiche, come la Psicoterapia cognitivo – evoluzionista e l’EMDR, attraverso le quali il dolore incastrato tra corpo e mente si riorganizza e diventa sufficientemente tollerabile da poter essere vissuto; l’individuo può allora recuperare memorie connotate emotivamente e riappropriarsi della capacità di “pensare la propria mente” costruendo nuove rappresentazioni e nuovi significati dai quali partire per continuare a vivere in un nuovo mondo dove l’amore in presenza diventa amore in assenza.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Onofri, A., La Rosa, C. (2015). Il lutto. Psicoterapia cognitivo – evoluzionista e EMDR. Giovanni Fioriti Editore, Roma.

Overclaiming: la convinzione di sapere ciò che in realtà non si sa

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Psychological Science la conoscenza può diventare affar pericoloso, dal momento in cui più ci si sente sicuri di sapere più è facile cadere in errore.

Il fenomeno che gli studiosi chiamano overclaiming (che si potrebbe tradurre come “iper-asserire con convinzione”) sarebbe spinto dalla convinzione di sapere, di avere già visto qualcosa anche in assenza di una vera traccia nella memoria del nostro bagaglio concettuale. Secondo gli studiosi dunque, avere un alto livello di expertise in una disciplina può portare a fenomeni in cui si è convinti di conoscere ciò che in realtà non si sa.

In una serie di esperimenti i ricercatori hanno chiesto ai soggetti (più di 500) di valutare la familiarità con una serie di concetti di una certa disciplina (ad esempio, finanza, biologia, filosofia, etc.), alcuni dei quali erano plausibili ma inesistenti.

Dai risultati è emerso che più le persone sono esperte e conoscitrici di una certa disciplina maggiore è la probabilità che si sentano troppo sicuri della propria conoscenza e cadano in errore, percependo di conoscere vocaboli e concetti in realtà falsi e inesistenti – proprio nella loro specialità.

Un esempio è questo: per un biologo è molto più semplice credere di conoscere la parola meta-tossina (falsa e inventata) rispetto a un non biologo. Il meccanismo sotteso richiama la familiarità dei concetti appresi: avere la mente piena di parole quali “metabolico, retrogrado, tossina” può più facilmente trarre in inganno nel farci credere di conoscere un falso nel vocabolario della biologia.

E la percentuale di tali errori rimane alta anche quando i partecipanti vengono allertati rispetto al fatto che vi potrebbero essere dei falsi tra i concetti loro presentati. Ma non sembra essere una questione di desiderabilità sociale, di non perdere la faccia visto che sei un esperto: proprio per i più competenti può essere difficile riconoscere ciò che ignorano. Ulteriori ricerche indagheranno anche i fattori emotivi e personologici in gioco nel moderare questo inatteso fenomeno.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Lo faccio domani: capire le emozioni di chi procrastina

In Psicologia si definisce procrastinazione quel comportamento che spinge a ritardare volontariamente un’azione nonostante prevedibili conseguenze future negative: si opta per il piacere di breve durata a costo dei benefici a lungo termine.

A chi di voi non è mai capitato di rimandare qualcosa con la classica frase Lo faccio domani e, ovviamente, quel domani non è più arrivato, a meno che non si siano subìti gli effetti negativi di tale rimandare? Oppure, nota dolente per molti, quante volte il famoso Lunedì dieta ha visto il susseguirsi di settimane e poi di mesi e ancora di stagioni?

Può capitare quasi a tutti, dunque, di rimandare alcuni compiti, perdendo di vista gli annessi obiettivi futuri, e diventare dei procrastinatori.

 In Psicologia si definisce Procrastinazione quel comportamento che spinge a ritardare volontariamente un’azione nonostante prevedibili conseguenze future negative: si opta per il piacere di breve durata a costo dei benefici a lungo termine.

Vi sono individui che tendono solo raramente a rimandare i propri impegni, mentre vi sono persone che danno priorità al piacere momentaneo, sacrificando così il proprio futuro, costantemente e in quasi tutti gli ambiti della loro vita (o per lo meno quelli più importanti): in questo caso si parla di procrastinatori cronici.

La procrastinazione tocca diverse sfere di vita, da quella lavorativa a quella relazionale, e può dunque spesso portare chi procrastina a spiacevoli conseguenze, sia sul piano fisico che psicologico. Cosa succede però, a livello emotivo, che porta una persona a rimandare continuamente un’azione?

Spesso alcuni interventi terapeutici tendono a dare maggiore priorità a una migliore gestione temporale: dividere dunque il progetto in piccoli passi e condurre il paziente a iniziare pian piano da questi. Gran parte del lavoro andrebbe anche indirizzato sulla sfera emotiva del paziente, sull’ansia e sulla ‘miopia temporale’ (l’incapacità di pensarsi adeguatamente nel futuro) tipiche di chi procrastina assiduamente.

Fortunatamente la letteratura a riguardo è ampia e la ricerca in continua evoluzione. Nell’articolo consigliato vengono riportati i più recenti passi in avanti in tema di procrastinazione: ricercatori dell’Università di Stoccolma, hanno per esempio studiato gli effetti di una terapia online e di una terapia di auto aiuto sui procrastinatori cronici. Altri esperti, studiando le distorsioni cognitive più diffuse tra i procrastinatori, hanno offerto riflessioni interessanti per gli interventi terapeutici da effettuare in questi casi, concentrando la loro attenzione sulle emozioni dei pazienti. Viene inoltre riportata una piccola To do list per procrastinare sempre meno.

L’articolo è ricco di spunti interessanti per terapeuti, psicologi e per gli stessi procrastinatori…a meno che, questi ultimi, non rimandino anche tale lettura a domani!

The essence of procrastination is ‘we’re giving in to feel good’ (…) Procrastination is ‘I know I should be doing it, I want to, it gets under my skin -when I don’t-.’ (…) ‘If you’re an occasional procrastinator, quit thinking about your feelings and get to the next task. But if you’re a chronic procrastinator, you might need therapy to better understand your emotions and how you’re coping with them through avoidance’.

To Stop Procrastinating, Start by Understanding the Emotions InvolvedConsigliato dalla Redazione

New research suggests procrastination is a way some people cope with stress and avoid the feeling of anxiety before a new assignment or task. (…)

Tratto da: WSJ

 

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Dal suono al significato: i bambini prelinguistici sanno che le parole “stanno per” qualcos’altro?

Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, SISSA

 

Senza la comprensione della “funzione referenziale” del linguaggio (le parole come “etichette verbali” che simboleggiano altre cose) è impossibile acquisire una lingua. Questa conoscenza implicita è presente già precocemente nei bambini in età prelinguistica?

Uno studio condotto dal laboratorio di Linguaggio, cognizione e sviluppo della SISSA dice di sì. La parola “mela”, quando la pronunciamo, è una sequenza di suoni (fonemi) che usiamo ogni qual volta vogliamo riferirci all’oggetto che indica. Se non sapessimo che esiste un legame referenziale fra suono e oggetto sarebbe per noi impossibile usare, e imparare, un linguaggio. Da dove arriva questa conoscenza implicita, e quanto precocemente si manifesta nello sviluppo dell’essere umano?

A questa domanda hanno cercato di rispondere Hanna Marno con altri colleghi della SISSA, Marina Nespor e Jacques Mehler, in collaborazione con Teresa Farroni, dell’Università di Padova, in una ricerca appena pubblicata su Scientific Reports. [blockquote style=”1″]La sensibilità ai suoni linguistici è già presente nei neonati. Questo tipo di suoni sono infatti speciali fin dai primi giorni di vita, e vengono processati in maniera diversa da altri tipi di stimolo sonoro. Cosa rende questo tipo di stimolo così speciale per il neonato?[/blockquote] si chiede Marno.

[blockquote style=”1″]Sicuramente c’è una valenza ‘sociale’: i suoni linguistici segnalano l’interazione fra conspecifici, importante per la sopravvivenza del piccolo. Ma c’è anche un altro aspetto importante, quello della referenzialità: le parole sono simboli che portano dei significati e veicolano messaggi. Se il bambino non lo sapesse, seppur implicitamente, non sarebbe in grado di acquisire il linguaggio[/blockquote].

[blockquote style=”1″]Provate a immaginare un neonato che vede la mamma, in più occasioni, alzare una tazza tenendola in mano mentre pronuncia la parola ‘tazza’, potrebbe anche solo pensare questo è quello che la mamma fa quando ha in mano una tazza, una sua strana abitudine. Invece in breve tempo imparerà che le parole si riferiscono a degli oggetti, come se fosse ‘programmato’ a farlo[/blockquote] spiega ancora la ricercatrice.

Per provare questa ipotesi Marno ha condotto degli esperimenti con bambini in età prelinguistica (4 mesi). I piccoli osservavano una serie di filmati dove una persona poteva (o meno) pronunciare il nome (inventato) di un oggetto, indicando (o meno) con lo sguardo la posizione dello schermo dove l’immagine dell’oggetto sarebbe apparsa. Monitorando lo sguardo dei bambini, Marno e colleghi hanno osservato che in corrispondenza degli stimoli linguistici il bambino orientava più velocemente lo sguardo verso l’oggetto sullo schermo, segnale che era stato ‘indirizzato’ a cercare un potenziale referente per le parole udite. Se invece la persona nel video restava in silenzio o se l’audio veniva sostituito con suoni non linguistici, la stessa cosa non avveniva.

[blockquote style=”1″]Il solo fatto di sentire degli stimoli linguistici poneva i piccoli nella condizione di aspettarsi che apparisse un oggetto da qualche parte, da associare alla parola, mentre la stessa cosa non accadeva in assenza di linguaggio parlato, anche quando la persona del video spingeva con lo sguardo il bambino a guardare dove sarebbe apparso l’oggetto. Questo suggerisce che già a questa età precoce i bambini hanno sono in qualche modo consapevoli della relazione fra le parole che sentono e il mondo fisico intorno a loro e sono pronti a cercare queste relazioni, pur non sapendo nulla del significato delle parole.[/blockquote]

Marno conclude con una raccomandazione ai genitori:

[blockquote style=”1″]Parlate ai vostri neonati, potrebbero infatti capire molto di più di quello che danno a vedere, e in questo modo riuscirete a guidare efficacemente la loro attenzione, aiutandoli ad acquisire il linguaggio, ma anche a comprendere del mondo in cui stanno crescendo.[/blockquote]

LINK UTILI: • Articolo originale su Scientific Reports (link attivo dal 1 settembre 2015): www.nature.com/articles/srep13594

IMMAGINI: • Crediti: Rebecca Trynes (Flickr: https://goo.gl/8wnaMJ)

Contatti e informazioni sulla SISSA

 

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Disturbi Alimentari e EMDR – Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia, Milano

Sara Palmieri – OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI 

Durante il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP), tenutosi a Milano dal 7 al 10 luglio scorso, è stato organizzato un simposio sul tema dei disturbi alimentari ed EMDR.

Negli ultimi decenni la ricerca sui disturbi alimentari è in aumento, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della regolazione delle emozioni e il legame tra questi disturbi e una storia di eventi di vita traumatici. A partire dalla teoria del trauma (Schwartz & Gay, 1996) lo sviluppo di un disturbo del comportamento alimentare potrebbe essere visto come un tentativo di gestire emozioni travolgenti, ricordi e fattori di stress sperimentato nel trauma. Cole e Putnam (1992), infatti, hanno sottolineato come questi eventi traumatici potrebbero portare a deficit nella gestione di emozioni molto forti ed altre esperienze interne a questi individui.

Per quanto riguarda la terapia dei disturbi alimentari c’è un consenso tra i terapeuti rispetto alla possibilità di integrare diverse strategie di intervento, come la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia familiare, la terapia dialettica e il supporto psico-educativo. Inoltre è stata suggerita un’integrazione con un metodo focalizzato sui ricordi traumatici: l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR).

L’EMDR è caratterizzata da otto fasi progettate per affrontare le esperienze negative del passato, i trigger attuali dei sintomi sviluppati da quelle esperienze e di tutti i blocchi futuri al funzionamento efficace (Shapiro, 2001). L’efficacia dell’EMDR per il trattamento del trauma è stata ben dimostrata in diverse meta-analisi e numerose ricerche negli ultimi decenni hanno sottolineato l’efficacia della tecnica EMDR nel trattamento dei disturbi alimentari.

Alla luce di ciò l’obiettivo del simposio è stato quello di valutare l’efficacia del metodo EMDR sui sintomi principali dei disturbi alimentari rispetto alle terapie standard. L’ipotesi è che l’integrazione del trattamento EMDR alle impostazioni terapeutiche standard potrebbe portare a risultati migliori rispetto alla sola terapia standard.

Innanzitutto è stata descritta l’esperienza dell’unità per i disturbi alimentari presso la Casa di Cura “Villa Margherita” di Arcugnano, specializzata in un approccio multidisciplinare: cognitivo – comportamentale, riabilitazione psico-nutrizionale e intervento sulle esperienze traumatiche dei pazienti. Inoltre sono stati mostrati dati sull’effettiva efficacia di questo tipo di approccio su un campione di pazienti con disturbi alimentari che avevano vissuto o meno eventi traumatici.

Altri due contributi italiani ad opera di Simona Anselmetti (Ospedale San Paolo di Milano) e Maria Zaccagnino (Università di Lugano) hanno confermato l’efficacia dell’integrazione dell’EMDR con la CBT per i pazienti con disturbi alimentari. In particolare l’EMDR si è mostrata efficace nel condurre a una risoluzione del materiale non risolto, a modificare la rappresentazione della relazione di attaccamento precoce con i caregivers e a diminuire le credenze negative sull’autostima e la vulnerabilità individuale (Zaccagnino & Cussino, 2013).

Il simposio si è concluso con la presentazione di un trattamento, attuato in Spagna dalla Dott.ssa Natalia Seijo in un ambulatorio privato, per la distorsione dell’immagine corporea dal punto di vista EMDR al fine di poter lavorare sulla consapevolezza del corpo reale e raggiungere l’accettazione.

 

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L’eco della violenza: l’ EMDR per il trattamento di vittima e aggressore

BIBLIOGRAFIA:

La depressione post-natale: definizione, conseguenze cognitive ed emotive nei figli e trattamento

Marta Merenda, Noemi Monti, Francesca Turra, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder; American Psychiatric Association) considera la depressione post-natale come una forma di depressione generale specificata come “depressione postpartum” se ha esordio entro le prime quattro settimane successive al parto.

 

In molte culture, tra cui quella occidentale, la nascita di un bambino viene sempre accolta e considerata come un evento felice e un’occasione di festa. Questa immagine idealizzata della maternità è però, talvolta, in forte contrasto con il vissuto intimo della madre stessa. La nascita di un figlio non è sempre una strada in discesa e costellata solo di rose e fiori: diventare madre comporta molti cambiamenti nella vita della donna e della coppia.
La nuova vita comporta l’integrazione del ruolo di genitore, oltre che la modificazione dei ruoli precedenti: le continue richieste di accudimento del neonato, una nuova organizzazione del proprio tempo e delle proprie abitudini, eventuali difficoltà nell’ambito lavorativo sono solo alcune delle difficoltà che la donna incontra in questa delicata fase di vita.

Anche la relazione con il partner può incontrare alcune avversità legate al nuovo assetto di vita; il coniuge, molto spesso, viene avvertito dalla compagna come poco presente e supportivo rispetto alle sue maggiori necessità di aiuto e sostegno. Se a tutto ciò si sommano problemi ulteriori, quali la mancanza di una rete sociale, difficoltà finanziarie o un parto inaspettatamente problematico, lo sviluppo di manifestazioni depressive di varia intensità è un evento al quale non è assolutamente raro assistere (Zaccagnino, 2009).

Nei giorni immediatamente successivi al parto è considerato fisiologico un periodo caratterizzato da calo dell’umore e instabilità emotiva (la cosiddetta baby blues o maternity blues): si stima che una percentuale collocabile tra il 30% e l’85% delle donne (O’Hara et al., 1990; Gonidakis et al., 2007) sperimenta e manifesta sintomi associabili a una leggera depressione post partum, ma caratterizzati da transitorietà (presentano una durata variabile da poche ore ad alcuni giorni) e che non necessariamente si trasformano in un vero e proprio disturbo.

La notevole diffusione del baby blues suggerisce un adattamento psicofisico  agli importanti cambiamenti che intervengono nella vita di una donna quando diventa madre; per il suo carattere transitorio e la scarsa entità della sintomatologia non richiede generalmente trattamenti specifici e non implica conseguenze a lungo termine. E’ importante tuttavia identificare le donne con maternity blues perché è stato stimato che circa il 20% dei casi evolve in un episodio depressivo maggiore nel corso del primo anno successivo al parto (Najman et al., 2000).

La vera e propria depressione post-partum o depressione post-natale (DPN) sembra invece colpire circa il 10-15% (Centers for Disease Control and Prevention, 2008) delle donne. Il DSM (Diagnostic and Statistica Manual of Mental Disorder; American Psychiatric Association) considera la depressione post-natale come una forma di depressione generale specificata come “depressione postpartum” se ha esordio entro le prime quattro settimane successive al parto. I criteri del DSM 5 per questo disturbo richiedono che sia presente, quasi ogni giorno per un periodo di almeno due settimane:
umore depresso, per la maggior parte del tempo, quasi tutti i giorni, come riportato dall’individuo (per esempio si sente triste, vuoto, disperato) o come osservato da altri (per esempio appare lamentoso);
marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte della giornata, quasi ogni giorno.

Devono inoltre essere presenti almeno 5 o più dei seguenti sintomi, perduranti per un periodo di almeno due settimane:
significativa perdita di peso, senza essere a dieta, o aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito;
insonnia o ipersonnia quasi tutti i giorni;
agitazione o rallentamento psicomotorio quasi tutti i giorni;
faticabilità o mancanza di energia quasi tutti i giorni;
sentimenti di autovalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati quasi tutti i giorni;
ridotta capacità di pensare o di concentrarsi o indecisione quasi tutti i giorni;
pensieri ricorrenti di morte, ricorrente idea suicidaria senza un piano specifico, o un tentativo di suicidio, o l’ideazione di un piano specifico per commettere suicidio.

I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti. Si presentano in modo conclamato tra le otto e le dodici settimane dopo il parto, periodo che è stato individuato come picco di insorgenza più frequente (Guedeney & Jeammet, 2001).
I sintomi della depressione post partum non sono transitori e possono persistere, variando d’intensità, anche per molti anni, e quindi avere conseguenze più o meno significative non solo sulla salute mentale della donna, ma anche sulla relazione madre-bambino, sullo sviluppo del bambino e sull’intero nucleo familiare.

Effetti della depressione post-natale sulla relazione madre-bambino

Per le madri è molto importante occuparsi del bambino, rispondere appropriatamente alle sue comunicazioni e provvedere alle sue cure stimolandolo dal punto di vista emotivo, cognitivo e sociale. Occorre trovare un buon equilibrio tra i bisogni propri, del neonato e quelli del partner e ciò è difficilmente attuabile in presenza di un disturbo disabilitante quale la depressione. E’ risaputo però come lo sviluppo sociale ed intellettivo dei bambini sia modulato dalle loro precoci esperienze e dal clima emotivo fornito dai genitori (Zaccagnino, 2009). L’importanza della prima relazione madre-bambino per il successivo sviluppo di questo è ampiamente documentata. Esistono degli specifici comportamenti della madre che rendono l’interazione con il bambino positiva ed efficace: il contatto visivo, le risposte immediate ed appropriate ai segnali del neonato, la creazione di un ambiente che suscita l’aspettativa di un’interazione, la ricerca di un equilibrio tra stimolazione e calma, la stimolazione emotiva e fisica.

Ricevere delle risposte appropriate dalla madre aiuta non solo a sviluppare un senso di sé ma anche una relazione di attaccamento sicuro che permette al bambino di essere flessibile, curioso e socialmente competente (Winnicott, 1965). La depressione materna interferisce con gli scambi emotivi e comportamentali ritenuti necessari perché si possa sviluppare un’interazione efficace tra la madre e il bambino (Milgrom et al., 2003). I sintomi della DPN e le cognizioni negative associate comportano una minor abilità di supporto della regolazione emotiva del bambino, espressioni affettive poco positive e sincronizzate e livelli bassi di responsività materna.

La mancanza di un’interazione sensibile, responsiva e psicologicamente disponibile per il bambino in un periodo tanto importante per il suo sviluppo avrebbe delle conseguenze negative dal punto di vista affettivo-relazionale: numerosi studi sostengono che l’esposizione precoce alla depressione materna contribuisca in modo significativo alla formazione di una relazione insicura di attaccamento (Milgrom et al., 2003).

Come già affermato, in letteratura sono numerose le evidenze riguardo al fatto che la depressione interferisca in modo significativo sulle funzioni e sull’accudimento genitoriale e incida profondamente sul comportamento materno, limitando l’espressione emozionale e la qualità degli scambi relazionali madre-bambino (Cohn, 1990; Kurstjens & Wolke, 2001). E’ stato sottolineato come la tristezza, l’irritabilità e il ritiro sociale che caratterizza le madri depresse comprometta la loro abilità di fornire un ambiente responsivo, sensibile e “nutritivo” per i loro bambini. Da un riesame di alcuni articoli emerge che la depressione produce nelle madri una generale limitazione nell’espressione dell’affettività, vale a dire che esse dimostrano di essere meno sensibili e responsive ai bisogni del bambino (Righetti-Veltema et al., 2003; Stanley et al., 2004).

In particolare è frequente che le madri non riescano a provare emozioni nei confronti del bambino, si ritengano incapaci e temano i momenti di solitudine insieme al piccolo nato (Zaccagnino, 2009). La ricerca indica che molte donne affette da DPN incontrano delle difficoltà nell’interazione con i loro bambini: li guardano meno (Field et al., 1985), li cullano meno (Murray, 1992), reagiscono più lentamente alle loro richieste e sono meno affettuose, più ritirate o più intrusive (Bettes, 1988). I figli di madri depresse sono descritti come più assonnati e capricciosi (Cox, 1988; Milgrom et al., 2003), mostrano scarse vocalizzazioni positive, pianti eccessivi, poche espressioni facciali positive e pochi comportamenti interattivi positivi (Monti et al., 2004). Essi sperimentano una predominanza di stati affettivi negativi a cui possono rispondere con la tristezza, con l’isolamento, con il pianto o con la rabbia.

Alcuni studi si sono occupati di indagare il linguaggio delle madri sofferenti di depressione post natale confrontandolo con quello di madri non depresse (Reissland et al., 2003; Kaplan et al., 2001). I due gruppi si differenziano innanzitutto per il contenuto delle verbalizzazioni: le madri depresse verbalizzano molto più frequentemente riguardo a se stesse e non riguardo al bambino; in aggiunta il contenuto di tali verbalizzazioni è negativo e riferito all’ambiente esterno e poco sullo stato interno e sulle emozioni. Un’ulteriore differenza riguarda gli aspetti formali: le madri non depresse si adeguano all’età del bambino, usando ad esempio nei confronti di bambini piccoli frasi più brevi e parole semplici, mentre quelle che soffrono di depressione non riescono a costruire un dialogo con il bambino adeguato alla sua età.

Depressione post-natale: ricadute sul versante emotivo e cognitivo del bambino

La depressione post natale rappresenta un considerevole fattore di rischio per l’esordio di un ampio ventaglio di esiti psicopatologici nel bambino: problemi nei processi di regolazione affettiva; disturbi comportamentali con tendenza all’aggressività; disturbi ansiosi; deficit nello sviluppo cognitivo; deficit dell’attenzione; incompetenza sociale; deficit dell’apprendimento con difficoltà di adattamento scolastico; difficoltà temperamentali; disorganizzazione emozionale; sintomatologia depressiva subclinica o disturbi depressivi veri e propri; modelli di attaccamento di tipo prevalentemente insicuro (Cicchetti, Rogosh & Toth, 1998; Downey & Coyne, 1990; Field, 1989; Goodman & Gotlib, 1999; Spieker & Booth, 1988). I quadri depressivi materni associati al rischio cumulativo di vari fattori di stress psicosociale, sembrerebbero i più forti elementi predittivi delle conseguenze negative nel bambino ad un anno di vita (Seifer, Dickstein, Sameroff, Magee & Hayden, 2001).

E’ stato riscontrato che i figli di madri depresse sono maggiormente esposti a sentimenti negativi e a intense situazioni di stress: questo influisce significativamente sulla loro capacità di regolazione emotiva (Murray, Fiori, Cowley & Hooper, 1996). Come affermato nel paragrafo precedente, la depressione post-partum può compromettere la capacità materna e di conseguenza, anche quella della diade madre-bambino di regolare reciprocamente l’interazione (Cohn & Tronick, 1989); ciò comporterebbe una disregolazione degli affetti nell’interazione che andrebbe ad interferire con il processo di apprendimento del bambino. In particolare la DPN può influenzare due aspetti della regolazione dell’attenzione: la consapevolezza delle contingenze ambientali e la capacità di modulare il proprio stato emotivo contemporaneamente all’ elaborazione dell’informazione (Cooper e Murray, 1997).

In letteratura è emersa una sostanziale differenza a seconda del genere dei figli di mamme affette da Depressione Post-Partum. I maschi sembrano mostrare maggiori problemi d’autoregolazione dell’eccitabilità e delle emozioni (Cooper & Murray, 1997). È stato osservato che lo sviluppo cognitivo, soprattutto nei maschi, in un contesto di depressione materna è fortemente a rischio (particolarmente aggravata qualora sia presente anche una condizione di deprivazione socioeconomica). Inoltre, questi bambini mostrano un livello più elevato di disturbi comportamentali a 5 anni e sviluppano in percentuale superiore un legame di attaccamento insicuro a 18 mesi (Cooper & Murray, 1998). Quando invece la diade è composta da madre depressa-figlia femmina le alterazioni interattive che si osservano sono più numerose, sia per ciò che riguarda compromissioni nelle interazioni corporee vocali e gestuali (maggiore passività e indifferenza negli scambi corporei tra mamma e figlia), sia in termini di mancanza di reciprocità.

Gli aspetti emotivi di questi bambini non sono quindi gli unici ad essere compromessi dalla depressione materna: alcuni studi hanno evidenziato compromissioni riguardanti anche la sfera cognitiva e lo sviluppo. La disregolazione degli affetti nell’interazione causata dalla depressione materna interferisce anche con il processo di apprendimento del bambino.

Nel 1992 Murray ha esaminato quale fosse l’effetto della DPN sullo sviluppo intellettivo del bambino nel corso del primo anno di vita. Il compito cognitivo esaminato era quello del test di permanenza dell’oggetto (Utzgiris & Hunt, 1975) in bambini a 9 e 18 mesi d’età. Ciò che è apparso è che i figli di madri depresse, valutate con l’EPDS (Edimburgh Postnatal Depression Scale; Cox et al., 1987) presentano una maggiore percentuale di fallibilità in questo compito cognitivo. Altri studi hanno utilizzato come strumento il Mc Carthy of Children’s Abilities (Cogill et al., 1986; Sharp et al., 1995) per rilevare la correlazione tra DPN e lo sviluppo cognitivo del bambino. Dal lavoro eseguito da Cogill e colleghi nel 1986 si è effettivamente avuto conferma della discrepanza tra figli di madri depresse e figli di madri non depresse: nel corso del primo anno di vita i primi avevano punteggi inferiori rispetto ai secondi.

Nello studio eseguito invece da Sharp e colleghi nel 1995 il campione era più ampio ma al contempo erano numerose le diadi madre-bambino provenienti da contesti socio-culturali particolarmente deprivati il che ha inciso notevolmente sull’esito dello studio. Nonostante ciò, è stato comunque possibile riscontare l’influenza della depressione materna sullo sviluppo delle abilità del bambino specie se la diade era composta da madre depressa-figlio maschio.

Anche Murray nel 1993 ha messo in relazione la depressione materna con la classe sociale/ livello di educazione materna e il genere sessuale del bambino tramite l’utilizzo del Bayley Scales of Infant Development (BSID; Bayley, 1969). Anche in questo studio la relazione tra la malattia della madre ed il genere del bambino è risultata significativa: nei figli di madri non depresse i maschi presentano punteggi più alti mentre tra i figli di madri depresse i maschi ottengono punteggi inferiori rispetto alle femmine.

Nonostante siano necessarie ancora numerose ricerche, alcuni lavori svolti su primati non umani hanno dimostrato che la causa dell’aumento della reattività emotiva nei piccoli di sesso maschile sia dovuta ad un’ organizzazione cerebrale immatura, a differenza delle femmine, che alla stessa età hanno raggiunto un maggiore grado di regolazione emisferica (Hopkins & Bard, 1993) che nella nostra specie è implicata nella regolazione delle emozioni (Cicchetti et al., 1991).

Il fatto di necessitare di un maggiore aiuto nell’autoregolazione da parte del bambino maschio risulta pertanto un problema dal momento che, nel caso di una madre depressa, ciò non può essere fornito. Per tale ragione, Hay (1997) suggerisce che il genere sessuale rappresenti un fattore di rischio per i maschi ed un fattore protettivo per le femmine.

La depressione materna oltre che influenzare le emozioni, le capacità cognitive ed i comportamenti potrebbe avere anche ripercussioni sulla salute fisica del bambino. I figli di madri depresse sono risultati più vulnerabili ai disturbi del sonno, dell’alimentazione, della digestione, alle infezioni ricorrenti, alle allergie e varie forme di asma (Righetti-Veltema et al., 2003).

In sintesi, gli effetti a lungo termine della depressione postnatale materna sono associati ad un’ampia gamma di persistenti svantaggi nel funzionamento del bambino, che includono rallentamenti nello sviluppo neurocognitivo, disturbi della relazione di attaccamento e sviluppo di psicopatologia specifica dell’età evolutiva. In letteratura è ipotizzato un percorso evolutivo che dai problemi iniziali di attenzione e di regolazione delle emozioni conduca a successivi deficit cognitivi (Murray et al., 2003). Va comunque sottolineato che lo stato di depressione non determina automaticamente un comportamento interattivo alterato della madre; in alcuni casi infatti le madri depresse dimostrano di essere ugualmente in grado di interagire e fornire un feedback adeguato ai bisogni del bambino. Si tratta di situazioni in cui lo stato depressivo non è particolarmente grave e in cui agiscono come fattori protettivi alcuni fattori ambientali, come ad esempio la presenza di un partner supportivo e di sostegno sociale (Monti & Agostini, 2006).

Prevenzione della depressione post-natale

Molto si sta facendo a livello generale per individuare e supportare i cosiddetti “soggetti a rischio” di depressione post partum (incontri psicoeducativi precedenti al parto, screening di routine nelle settimane immediatamente successive al parto, affiancamento e supporto nelle cure al neonato alle donne che ne facciano richiesta dopo il parto da parte del Servizio Sanitario Nazionale sono solo alcuni esempi), ma resta il fatto che spesso la depressione post natale non viene riconosciuta in tempo: in parte per la sua insorgenza insidiosa e in parte perché la maggior parte delle neo-mamme tende a nascondere i propri sintomi di depressione. Sono pochissime quelle che ricercano spontaneamente l’aiuto di uno specialista, così da ridurre la propria sofferenza e limitare quelle che, inevitabilmente, possono diventare le conseguenze che questo disturbo potrebbe avere su madri e figli. E’ dunque fondamentale la tempestività, avere la possibilità di parlarne con professionisti del settore (ginecologi, ostetriche, infermieri, medici di base), che potranno indirizzare le donne interessate a psicoterapeuti specializzati nella cura della depressione post partum.

Trattamento della depressione post-natale

La terapia cognitivo-comportamentale è considerata, ad oggi, la metodologia più efficace nel trattamento della depressione. Nonostante ciò, sono poche le ricerche che si sono occupate di verificare i risultati che questo approccio terapico permette di ottenere nel trattamento di madri con depressione post partum. Più precisamente, non è stato solo il trattamento di questa patologia ad essere trascurato dagli studiosi di settore, ma anche la patologia stessa: la maggioranza delle ricerche sul tema si è occupata di identificare i fattori di rischio per prevenirne l’insorgenza. Negli ultimi anni si assiste invece ad un’inversione di tendenza, tanto che gli studi sulla depressione post partum stanno diventando sempre più numerosi non solo in ottica preventiva, ma anche di trattamento. Un dato che fa riflettere a tal proposito è che da osservazioni cliniche emerge che chi soffre di depressione post natale non chiede facilmente aiuto ai professionisti. Occorre quindi creare degli strumenti e delle opportunità che permettano di identificare precocemente queste donne e coinvolgerle in un programma di trattamento.

Due autori che si sono occupati diffusamente di questa patologia sono J. Milgrom e P. Martin dell’Università di Melbourne in Australia. Il loro modello di intervento è di tipo evidence-based, ovvero si basa sulle prove raccolte nel corso di anni di esperienza clinica con più di 300 donne sofferenti di depressione post natale che li hanno portati ad identificare ciò che funzionava realmente. Questo li ha spinti ad adottare un approccio di tipo cognitivo comportamentale derivato, in parte, dai lavori di Lewinsohn (1984) e di Olioff (1991).

Nell’elaborazione di questo modello, Milgrom e Martin sono partiti dagli approcci che davano buoni risultati nel trattamento della depressione post partum al fine di mutuarne gli aspetti fondamentali:

– il trattamento con approccio cognitivo proposto da Olioff nel 1991 per il trattamento della depressione post partum. Con questo paradigma, l’autore voleva fornire uno strumento terapeutico che, da un lato, consentisse di cogliere la complessità del disturbo e, dall’altro, fosse sufficientemente flessibile da essere utilizzato in diversi contesti. Olioff inoltre, identificò tre differenti tipologie di depressione post natale: depressione post natale con presenza di contenuti cognitivi depressivi, depressione post natale con presenza di schemi di pensieri distorti inerenti la maternità e depressione post natale con presenza di ricorrenti episodi depressivi. Egli infine individuò nei suoi studi tre temi cognitivi che contraddistinguevano le madri che presentavano una depressione post partum da quelle che avevano una diagnosi di depressione durante una diversa fase del ciclo di vita: la percezione di autoefficacia come madre, l’autovalutazione delle proprie abilità materne e la vulnerabilità percepita del bambino;

– il trattamento cognitivo-comportamentale elaborato da Lewinson e collaboratori (1984) per curare la depressione maggiore negli adulti. Esso si basa sul fornire al paziente indicazioni chiare sul programma terapeutico, sull’insegnare abilità sociali che vengono inizialmente sperimentate nel contesto di seduta ma che successivamente devono essere applicate nella vita di tutti i giorni e sull’incoraggiamento a vedere tutti i miglioramenti sul tono dell’umore riscontrati come conseguenze delle abilità acquisite piuttosto che come risultati ottenuti grazie al terapeuta;

– la terapia di gruppo per il trattamento della depressione post natale offre dei vantaggi rispetto a quella individuale, innanzitutto dal punto di vista economico (aspetto significativo considerato che le madri che sono maggiormente colpite da questa patologia appartengono alle classi sociali meno abbienti). In secondo luogo, essa consente alle madri di non sentirsi sole ad affrontare questa “avventura”, e di condividere, con tante altre, gli stessi timori, aspettative irrealistiche, sentimenti di vuoto e incapacità. Avere uno spazio di discussione all’interno di una terapia consente inoltre di percepire, con maggior facilità, le distorsioni cognitive che, donne e madri come loro, mettono in atto nei loro ragionamenti e prendere spunto dai racconti altrui per trovare soluzioni creative alle proprie difficoltà. Nell’ambito della depressione post partum, alcuni autori tra cui Cox (1996) e Stern e Kruckman (1983) hanno riscontrato che le madri che subito dopo la nascita del figlio erano sostenute socialmente presentavano livelli più bassi di depressione. Anche per questo Milgrom e Martin hanno previsto di inserire, all’interno del loro modello di trattamento, il coinvolgimento del padre del bambino.

 

Trattamento farmacologico della depressione post-natale

Discorso a parte merita invece il trattamento farmacologico. Ad oggi i dati di letteratura sull’efficacia del trattamento farmacologico della depressione post partum sono limitati. La motivazione è essenzialmente di tipo etico: le madri sono restie ad assumere farmaci durante il periodo di allattamento per gli effetti che questi potrebbero avere sul bambino. Anche se i pochi studi che sono stati condotti finora sembrano dimostrare che la quantità di farmaci a cui potrebbe essere esposto il bambino è minima (Buist et al., 1998) e che non trattare adeguatamente una depressione post partum potrebbe portare a delle conseguenze cognitive ed emotive più gravi sul bambino (Lanza di Scalea, Wisner, 2010) rispetto al non trattarla affatto, è orientamento diffuso quello di non trattare farmacologicamente queste madri.

 

Trattamento psicoterapico della depressione post-natale

La terapia cognitivo comportamentale risulta essere una valida alternativa: gli studi realizzati hanno portato a equiparare il livello di efficacia nel breve-medio periodo di TCC e farmaci, evidenziando i risultati migliori della TCC nel lungo periodo. Milgrom e Martin, nella loro analisi sugli approcci più funzionali al trattamento della depressione post partum hanno analizzato anche questo tipo di trattamento, decidendo comunque di non inserirlo all’interno del loro modello di intervento.

A partire dall’analisi dei differenti approcci qui presentati, gli autori hanno elaborato un modello biopsicosociale della depressione post partum. Questo modello tiene conto dei fattori di vulnerabilità come degli elementi socioculturali e scatenanti che hanno portato all’insorgenza della patologia, aiutando le donne a divenirne consapevoli. In seguito, con approccio cognitivo-comportamentale affronta i fattori che aggravano e mantengono la depressione.
Il modello prevede un intervento di gruppo che coinvolge sei-otto partecipanti ed è suddiviso in tre fasi:

interventi comportamentali (fase 1);
interventi cognitivi (fase 2);
prevenzione delle ricadute e valutazione (fase 3).

Gli autori raccomandano di formare i gruppi tenendo presenti alcune caratteristiche delle donne interessate: età, numero dei figli, livello di depressione, status socio-economico e affettivo. E’ importante che all’interno dei gruppi ci sia una certa omogeneità così da stimolare il confronto reciproco e il senso di appartenenza. Milgrom e Martin hanno elaborato un programma suddiviso in moduli specifici e costituito da 9 incontri di circa un’ora e mezza ciascuno. Al termine di questi incontri è prevista una sessione di follow up per verificare i risultati raggiunti e la loro “stabilità”.
Nel corso di ciascun incontro alle madri viene fornito del materiale su cui lavorare sia durante l’ora di terapia sia successivamente, a casa. In ogni sessione infatti alle donne vengono forniti dei compiti a casa che tengono conto del loro essere madri.
Il modello qui presentato è pensato per un trattamento di gruppo. Tuttavia, precisano gli autori, è possibile utilizzarlo anche in terapia individuale.

Interventi comportamentali
Gli interventi comportamentali, previsti nei primi quattro incontri, si rivolgono in particolar modo all’analisi dei fattori scatenanti la patologia (ad esempio le complicazioni durante il parto) e di quelli di vulnerabilità (come la presenza di una relazione problematica con uno o entrambi i genitori) con un particolare focus sui modelli parentali sperimentati ed appresi nel corso dell’infanzia.

Primo incontro
Durante questo incontro il terapeuta (o i terapeuti), dopo essersi presentati, illustrano alle madri gli scopi, le procedure e le aspettative del gruppo. Inoltre propongono alcune regole di base che sono fondamento della buona riuscita della terapia (rispetto della privacy, sostenersi l’un l’altra, partecipare attivamente agli incontri). L’incontro continua con un esercizio di conoscenza in cui le donne hanno il compito di presentarsi alla persona seduta accanto a loro. Il focus durante questa attività è legato al loro essere madre e al vissuto ad esso connesso. Infine viene introdotto il tema principale dell’intervento, ovvero la depressione post natale e la possibilità di farvi fronte.

Secondo incontro
L’incontro si apre esplorando il vissuto legato alla prima sessione e rispondendo alle domande che le madri hanno maturato durante la settimana. Il focus è centrato sul far comprendere quanto emozioni e comportamenti siano connessi tra loro e si affronta in particolare il vissuto depressivo. Il terapeuta spiega che la depressione si sperimenta quando le attività spiacevoli superano quelle piacevoli e che un primo passo verso la guarigione è quello di incrementare queste ultime. Proprio per questo le attività piacevoli vengono in un certo senso prescritte, come se fossero farmaci, e viene affrontato il senso di colpa che nasce nelle madri quando si dedicano a loro.

Terzo incontro
L’incontro è incentrato sull’insegnamento delle tecniche di rilassamento ed in particolare sul rilassamento muscolare progressivo di Jacobson della durata di 30 minuti. Le donne vengono invitate a riconoscere i momenti della giornata più stressanti (spesso dalla sei alle otto del pomeriggio quando in casa ci sono il bambino piccolo, gli altri figli e il marito) e ad applicare le tecniche imparate.

Quarto incontro
L’incontro verte sull’insegnamento delle abilità sociali ed in particolare sull’assertività: “dire agli altri quello che penso e come mi sento”. In questa sessione il terapeuta deve insistere con forza sulla differenza tra essere assertivi ed essere aggressivi poiché spesso le madri tendono a scambiare l’assertività per aggressività. Possono essere utilizzati dei giochi di ruolo per incrementare queste abilità. Si conclude con un affondo sull’autostima e su alcune esercitazioni per incrementarla.

Interventi cognitivi
Gli interventi cognitivi, previsti nei successivi quattro incontri, si concentrano sull’esplorazione dei fattori di mantenimento e di quelli aggravanti la patologia come i pensieri negativi e la presenza di uno scarso supporto sociale. Questi verranno affrontati attraverso la messa in discussione dei processi cognitivi e tramite il problem solving.

Quinto incontro
In questo incontro il tema centrale è la modalità di educazione dei figli e le aspettative. Assume un ruolo preponderante la spiegazione che non esiste uno stile giusto e uno sbagliato, ma semplicemente ogni stile è diverso e deve tener conto delle differenze e delle peculiarità di ciascun figlio.

Sesto incontro
Durante questa sessione viene approfondito il legame tra pensieri ed emozioni. Viene così esplicitato il potere delle autoaffermazioni, sotto forma di pensieri, come strumento per modificare le emozioni negative. Inoltre buona parte dell’incontro è incentrato sulla presentazione del percorso di guarigione dalla depressione post partum che è un percorso in salita e che può prevedere delle “ricadute”.

Settimo incontro
Questo incontro verte sulla capacità di identificare e monitorare le convinzioni erronee legate alla maternità (ad esempio che sia inaccettabile non provare gioia per la maternità o che si debba conoscere tutto sull’accudimento del piccolo per essere una buona madre) e sulle tecniche che permettono di aumentare i pensieri positivi e di diminuire quelli negativi (come l’interruzione del pensiero o lo stabilire un tempo per le preoccupazioni).

Ottavo incontro
Ci si focalizza sulla messa in discussione delle credenze irrazionali e dei pensieri automatici ad esse associati. E’ un incontro particolarmente delicato in cui alcune madri potrebbero trovare delle difficoltà a mettere in pratica quanto suggerito dal terapeuta. Le madri vengono invitate a mettere in discussione i pensieri disfunzionali legati ad una bassa autostima (“se mi sento poco amabile, vuol dire che gli altri non mi amano”), alla doverizzazione e al catastrofismo e all’eccessivo altruismo. A questi pensieri disfunzionali devono essere sostituiti pensieri più costruttivi interrogandosi, ad esempio, sulla veridicità di quanto pensato o sulla corretta attribuzione di importanza.

Prevenzione delle ricadute e valutazione
Questa fase rappresenta il nono ed ultimo incontro ed è funzionale a fare il cosiddetto punto della situazione. E’ importante che il terapeuta incoraggi le madri nel continuare il lavoro iniziato durante il trattamento e che le inviti a considerare la propria famiglia, gli amici e la rete sociale più ampia per essere sostenuta nel suo delicato compito.

Proprio l’importanza che Martin e Milgrom assegnano alla rete sociale e più nello specifico a quella familiare e al partner ha spinto gli autori a creare, all’interno del programma, un modulo aggiuntivo ad hoc sul coinvolgimento del padre nel trattamento della depressione post partum. Il padre viene coinvolto più attivamente alla fine del percorso “di base” anche se è auspicabile renderlo partecipe, informandolo sulla possibilità di questo modulo aggiuntivo, già all’inizio del percorso. Sebbene spesso le madri mostrino perplessità sulla loro disponibilità ad intraprendere questo percorso, la ricerca clinica evidenzia come buona parte dei padri siano interessati e anzi richiedano di essere maggiormente coinvolti.

Gli obiettivi degli incontri di coppia sono molteplici:
dare informazioni sulla natura e sul trattamento della depressione post partum;
fornire strumenti per migliorare la comunicazione tra i genitori;
spiegare in che modo i padri possono gestire al meglio il loro compito al fine di prendersi cura della nuova famiglia;
incoraggiare i padri nel supportare le compagne, anche attraverso l’esercizio del problem solving.

Le nuove tecnologie e il trattamento della depressione post-natale

Il nesso tra nuove tecnologie e interventi psicoterapeutici è un binomio che negli ultimi anni si sta affermando con forza. I bassi costi di sviluppo e implementazione, la sempre maggior fruibilità degli strumenti anche da parte di un pubblico generico e non specializzato e la capillare diffusione degli strumenti 2.0 costituiscono i presupposti per la sperimentazione di tecniche innovative e non convenzionali di terapia. E’ sulla base di queste riflessioni che un team di ricerca della Saint Louis University ha realizzato uno studio pilota sulla fattibilità e sull’efficacia di un protocollo SMS per madri a rischio di depressione post partum. La ricerca, chiamata “Happy Mothers, Healthy Families”, è stata pubblicata sul Journal of Medical Internet Research lo scorso marzo e ha visto coinvolte 54 donne residenti a Saint Louis, in maggioranza afro-americane (82,8%) con un livello di scolarizzazione piuttosto basso (il 25% non aveva completato o frequentato la scuola superiore) e aventi la maggior parte (63,8%) un reddito inferiore ai 15.000 dollari annui.

Per selezionare il campione da includere nel progetto, le donne (reclutate in occasione delle visite pediatriche presso la clinica Cardinal Glennon di Saint Luis) sono state sottoposte a uno screening della Depressione Post Partum. Lo screening è stato attuato tramite la somministrazione di due test: l’EPDS – Edinburgh Postnatal Depression Scale – (Cox, Holden & Sagovsky, 1987) che valutava la possibile presenza di una diagnosi di depressione post partum e il BDI-II – Beck Depression Inventory – (Beck, 1967) che misurava la gravità della depressione. Durante il periodo della ricerca, (6 mesi), le donne ricevevano sul loro telefonino 4 sms a settimana. I messaggi, realizzati ad hoc dal team di ricerca della Saint Luis, erano volti a supportare le madri nel delicato periodo che stavano attraversando fornendo loro sia informazioni di tipo pratico-gestionale sull’accudimento del piccolo, sia incoraggiamenti e supporto sulla bontà di quanto stavano facendo.

Oltre a queste due tipologie di messaggi – informativo e motivazionale/di supporto – alle madri venivano inviati anche messaggi di tipo cognitivo-comportamentale, ovvero volti a stimolare una riflessione sulle distorsioni cognitive cui potevano andare incontro: “Concentrarsi su quello che dovrebbe o potrebbe essere esaurisce le energie; concentrati su quello che puoi ottenere”. In alcuni di questi messaggi inoltre venivano forniti recapiti telefonici a cui poter rivolgersi in caso di bisogno. Al termine della ricerca alle madri è stato chiesto di rispondere a un sondaggio volto a verificare l’efficacia del programma. Oltre l’80% delle donne intervistate hanno dichiarato che il protocollo SMS aveva avuto un’influenza positiva sulla motivazione al cambiamento e sul miglioramento dei sintomi depressivi. Inoltre, risultava molto apprezzata la possibilità di avere un contatto telefonico diretto con dei professionisti che potevano supportarle nel loro meraviglioso e, al tempo stesso, estremamente complesso ruolo di madri.

Quest’ultimo dato fornisce uno spunto di riflessione importante: se è vero che un protocollo SMS può fornire un buon supporto alla terapia, è anche vero che la relazione diretta con un terapeuta rimane fondamentale per il trattamento. Dalla ricerca qui presentata è possibile individuare tre principali punti di forza di questo protocollo:
il basso costo del sistema di SMS permette di coinvolgere nel trattamento della Depressione Post Partum anche quelle donne che appartengono a fasce disagiate della popolazione;
la ricezione quotidiana di SMS porta già di per sé ad una lieve riduzione dei sintomi depressivi delle madri;
gli SMS terapeutici amplificano gli effetti della consulenza psicologica tradizionale.

Come studio pilota questa ricerca presenta dei limiti legati alla scarsità del campione e alla verifica dell’efficacia dell’intervento realizzata unicamente attraverso interviste ai partecipanti. Sarebbe quindi interessante realizzare un nuovo studio ampliando la numerosità dei partecipanti e realizzando dei follow up a 6 mesi e a 1 anno dalla raccolta dei risultati.

 

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Depressione Post-Partum: la tecnologia al servizio della diagnosi

 

BIBLIOGRAFIA:

Uso sia di tabacco che di marijuana: cosa avviene a livello cerebrale?

Recentemente uno studio pubblicato su Behavioural Brain Research ha dimostrato che vi sono significative differenze a livello cerebrale tra i fumatori sia di tabacco che di marijuana e invece coloro che utilizzano solo marijuana.

Finora le ricerche sugli effetti della marijuana hanno generalmente escluso come soggetti i fumatori di tabacco. Tuttavia circa il 70% dei fumatori di marijuana usano anche tabacco, quindi diventa difficile generalizzare i risultati di studi che hanno coinvolto esclusivamente i consumatori di marijuana.

Recentemente uno studio pubblicato su Behavioural Brain Research ha invece dimostrato che vi sono significative differenze a livello cerebrale tra i fumatori sia di tabacco che di marijuana e invece coloro che utilizzano sono marijuana. In particolare lo studio ha confrontato quattro gruppi: non fumatori (soggetti che nei precedenti tre mesi non avevano usato né marijuana né nicotina), utilizzatori cronici di sola marijuana, fumatori cronici di nicotina e utlizzatori cronici sia di marijuana che di nicotina.

Iniziamo da una prima correlazione: vi sarebbe una correlazione negativa tra l’uso di marijuana (sia in fumatori anche di tabacco o di sola marijuana) e la dimensione dell’ippocampo, area fondamentale per la memoria e l’apprendimento. Entrambi i gruppi (solo marijuana e marijuana e tabacco) presentano significative riduzioni dell’ippocampo rispetto ai gruppi di controllo (fumatori di solo tabacco e non fumatori), tuttavia la questione cambia se misuriamo le performance della memoria.

Nei non tabagisti la dimensione dell’ippocampo è correlata con la funzionalità della memoria: ippocampo più piccolo, peggiori prestazioni mnestiche. Invece, nei soggetti che utilizzano sia tabacco che marijuana la relazione è niente meno che inversa rispetto alla precedente: minore è la dimensione dell’ippocampo, migliore è il funzionamento della memoria.

Ad esempio, è stato dimostrato che il numero di sigarette fumate per giorno correla con la riduzione delle dimensioni dell’ippocampo e parimenti con un migliore funzionamento della memoria. Negli individui che fumano solo tabacco o solo marijuana questa strana correlazione negativa tra ippocampo ridotto e superiori prestazioni mnestiche e’ invece assente.

Dunque, gli effetti di interazioni di diverse sostanze a livello neurocognitivo possono assumere percorsi inattesi e non lineari, per nulla scontati: l’interazione tra nicotina e marijuana è sicuramente più complessa e da approfondire ulteriormente.

 

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Meglio essere buoni o essere cattivi? I bambini sanno già da che parte stare! – Neuroscienze

Secondo una nuova ricerca, svolta presso l’Università di Chicago da Jason M. Cowell e Jean Decety, già a partire dai 12 mesi di vita è possibile individuare le inclinazioni morali dei bambini.

No! Questo non si fa!… quante volte abbiamo detto ai più piccoli cosa è giusto e cosa è sbagliato? Parecchie, se il nostro intento è stato quello di educare i bambini a comportamenti rispettosi verso gli altri. Ma a quale età i bambini sono in grado di riconoscere il modo migliore di comportarsi con i propri simili e preferirlo a una condotta scorretta?

Secondo una nuova ricerca, svolta presso l’Università di Chicago da Jason M. Cowell e Jean Decety, già a partire dai 12 mesi di vita è possibile individuare le inclinazioni morali dei bambini.

In realtà numerose altre ricerche erano giunte alla conclusione che bambini molto piccoli sapessero già cosa sia giusto e cosa no, il merito che spetta alla ricerca di Cowell e Decety è però aver studiato il senso di moralità nei bambini prendendo in considerazione sia i fattori biologici che quelli ambientali.

I due ricercatori hanno infatti studiato, su un campione di bambini tra i 12 e i 24 mesi, il peso che diversi parametri hanno sulla valutazione socio-morale dei più piccoli. E’ stato così analizzato l’elettroencefalogramma (EEG) registrato in continuo e i suoi potenziali evento correlati (ERP- picchi di potenziale dell’attività elettrica neuronale che si ottengono in risposta ad uno stimolo) durante la visione di alcuni cartoon rappresentati scene di comportamenti prosociali e antisociali. Ma non è tutto: è stato misurato il tempo di fissazione dei più piccoli (indice di attenzione e interesse) su alcuni personaggi di scenette coinvolti in attività moralmente giuste o moralmente scorrette. Contemporaneamente, ai genitori è stata somministrata una batteria di test per indagare il loro atteggiamento morale.

Dall’analisi dei tracciati è emerso che vi sono differenti modelli di attività neurale coinvolti rispettivamente nella visione di cartoni animati con scene prosociali e nella visione di cartoni animati con scene antisociali. I ricercatori hanno poi presentato ai bambini delle situazioni analoghe con personaggi reali: cosa è emerso? i bambini con maggiore attività cerebrale in risposta al cartone con comportamenti prosociali, fissavano più a lungo l’attore ‘buono’; mentre i bambini con una maggiore attività cerebrale durante la visione del cartone animato antisociale, fissavano per più tempo l’attore ‘cattivo’. L’atteggiamento dei bambini nel preferire e mostrare più interesse verso l’uno o l’altro modo di comportarsi è stato poi messo in relazione ai risultati dei test dei genitori e…indovinate un po’…la preferenza dei bambini verso i comportamenti prosociali è risultata positivamente correlata all’atteggiamento morale dei genitori!

Per saperne di più sullo studio, come ad esempio quale sia il ruolo del temperamento, vi rimando alla lettura dell’articolo scientifico: nel frattempo, se dovete rimproverare vostro figlio o il vostro nipotino per un comportamento poco corretto, assicuratevi che oltre alla ramanzina segua anche un vostro buon esempio…il messaggio sarà sicuramente più efficace!

 

ABSTRACT:
The nature and underpinnings of infants’ seemingly complex, third-party, social evaluations remain highly contentious. Theoretical perspectives oscillate between rich and lean interpretations of the same expressed preferences. Although some argue that infants and toddlers possess a “moral sense” based on core knowledge of the social world, others suggest that social evaluations are hierarchical in nature and the product of an integration of rudimentary general processes such as attention allocation and approach and avoidance. Moreover, these biologically prepared minds interact in social environments that include significant variation, which are likely to impact early social evaluations and behavior. The present study examined the neural underpinnings of and precursors to moral sensitivity in infants and toddlers (n = 73, ages 12–24 mo) through a series of interwoven measures, combining multiple levels of analysis including electrophysiological, eye-tracking, behavioral, and socioenvironmental. Continuous EEG and time-locked event-related potentials (ERPs) and gaze fixation were recorded while children watched characters engaging in prosocial and antisocial actions in two different tasks. All children demonstrated a neural differentiation in both spectral EEG power density modulations and time-locked ERPs when perceiving prosocial or antisocial agents. Time-locked neural differences predicted children’s preference for prosocial characters and were influenced by parental values regarding justice and fairness. Overall, this investigation casts light on the fundamental nature of moral cognition, including its underpinnings in general processes such as attention and approach–withdrawal, providing plausible mechanisms of early change and a foundation for forward movement in the field of developmental social neuroscience.

 

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Lo studente autonomo: un nuovo obiettivo dell’istruzione

Molto spesso il dibattito sulla funzione delle istituzioni scolastiche porta a chiedersi quale sia l’obiettivo principale dell’istruzione, soprattutto in un contesto storico-culturale in continuo e rapido mutamento come quello attuale: la tecnologia diventa velocemente obsoleta; l’economia si trasforma rapidamente, e ciò che funziona oggi può non essere più efficace domani; la società muta e si evolve, non senza scontri e contrapposizioni interne.

Che cosa può offrire la scuola a bambini e ragazzi? Di quali strumenti dotarli per affrontare un futuro che non siamo in grado di definire con certezza?A partire da questi quesiti, si possono sviluppare alcune riflessioni, come piccolo spunto per ampliare il dibattito educativo e psicologico.

L’attività educativa che ha luogo in ambito scolastico ha diversi obiettivi, all’interno dei quali l’apprendimento dei contenuti disciplinari ne rappresenta solo una parte. La natura di tali obiettivi può dipendere da vari fattori (storici, culturali, sociali, economici); per le società democratiche Carl Rogers (1989) propone un approccio all’istruzione basato, appunto, su un obiettivo educativo di tipo democratico. Secondo tale approccio, i sistemi educativi dovrebbero contribuire alla formazione di cittadini consapevoli e responsabili, in grado di prendere decisioni in autonomia e di partecipare e contribuire attivamente alla vita collettiva della società di appartenenza. In tale contesto, la principale finalità delle istituzioni scolastiche dovrebbe essere quella di offrire agli studenti il supporto necessario al pieno sviluppo delle proprie potenzialità, nel rispetto delle loro caratteristiche psicologiche e di personalità e delle loro convinzioni e opinioni sociali, culturali e religiose.

Il processo educativo dovrebbe promuovere, per Rogers (1969), la “facilitazione dell’apprendimento” (pag. 131, ed. it.), in modo tale che, grazie alla relazione con l’educatore, il discente possa sviluppare strategie di apprendimento autonomo. Una condizione di facilitazione dell’apprendimento prevede un ruolo attivo dello studente, che viene coinvolto nel percorso educativo e responsabilizzato rispetto agli obiettivi formativi da raggiungere. Se l’individuo svilupperà la capacità di apprendere in modo autonomo, sarà in grado di fronteggiare i cambiamenti e le eventuali difficoltà che incontrerà nel suo percorso esistenziale.

Stimolare l’autonomia nell’apprendimento implica favorire lo sviluppo di individui che saranno in grado di imparare e formarsi lungo tutto il corso di vita, contribuendo ad accrescere non solo il loro livello di conoscenza e di expertise, ma anche quello della comunità in cui vivono. Apprendere una lingua straniera, aggiornarsi professionalmente, utilizzare un nuovo dispositivo elettronico, imparare a eseguire nuovi compiti o modificare l’esecuzione di attività già note: ci sono numerose occasioni in cui a ogni individuo è richiesto di progettare e attuare un processo di apprendimento, più o meno a lungo termine. A questo proposito, la scuola assume una funzione rilevante, in quando dovrebbe offrire adeguato supporto allo sviluppo di alcune abilità particolari, indispensabili per apprendere in modo efficace.

Tra le principali emergono le strategie meta cognitive, le opinioni e le convinzioni sulla natura e sul funzionamento del processo di apprendimento e aspetti relativi alla motivazione ad apprendere (Boscolo, 1999). Tutti questi aspetti si riferiscono al modo in cui vengono selezionati, organizzati e gestiti i processi di tipo cognitivo e psicologico messi in atto quando si è impegnati a imparare. La meta-cognizione riguarda la conoscenza relativa al modo in cui funzionano i processi cognitivi (Flavell, 1979): capire e conoscere come opera la propria mente (e più in generale, la mente umana) mentre si è impegnati a imparare permette di rendere più efficace il processo cognitivo attraverso l’utilizzo di tecniche di controllo e regolazione dell’apprendimento (Flavell, 1979). Più precisamente, possedere un certo livello di consapevolezza riguardo al modo in cui si comprende del materiale nuovo, si ricordano dei contenuti memorizzati, si affronta un compito mai eseguito prima e, più in generale, si apprende, consente di pianificare un percorso di apprendimento, che prevede una continua e costante verifica (ed eventuale correzione) dell’efficacia dei processi che si stanno mettendo in atto.

La dimensione meta cognitiva sembra avere un ruolo rilevante nel processo e nei risultati di apprendimento. Friso, Palladino e Cornoldi (2006) hanno sottolineato che abilità meta cognitive e prestazione di apprendimento si influenzano reciprocamente, per cui maggiori competenze in ambito meta cognitivo portano a risultati di apprendimento migliori e progressi nell’apprendimento contribuiscono all’acquisizione di abilità meta cognitive sempre più articolate ed efficaci.

Le opinioni che le persone sviluppano in relazione all’apprendimento e al modo in cui si forma la conoscenza sono stati definite “credenze epistemologiche”. Secondo Hofer e Pintrich (1997) le persone si formano delle teorie, molto articolate ma non sempre del tutto corrette, sul modo in cui avviene l’apprendimento. In particolare, in tali strutture di opinioni emergono quattro dimensioni fondamentali, che consentono di sviluppare delle spiegazioni informali riguardanti il livello di certezza della conoscenza (se la conoscenza è certa in assoluto oppure se assume valore relativo in determinati contesti), la semplicità della conoscenza (se la conoscenza consta di concetti isolati oppure presenta una struttura più complessa e articolata), la fonte della conoscenza (se la conoscenza deve essere divulgata da un’autorità, da individui ritenuti esperti oppure se può essere co-costruita) e giustificazione della conoscenza.

Tali gruppi di credenze hanno impatto sul processo di apprendimento, favorendolo o ostacolandolo: un esempio molto noto è quello per cui le credenze relative all’apprendimento della matematica sembrano influenzare le prestazioni accademiche relative a questa disciplina e lo sviluppo di abilità di problem solving (Leder, Pehkonen, Töner, 2006). Se si ritiene che per riuscire in matematica sia indispensabile possedere una certa dose di “talento innato” e che, senza di questo, qualsiasi sforzo cognitivo sia inutile, esperienze che fanno ritenere di “non essere portati” per la materia influenzeranno l’attività formativa e ridimensioneranno gli obiettivi di apprendimento.

Infine, la motivazione all’ apprendimento include un insieme di aspetti relativi all’ esperienza individuale nell’ apprendimento (De Beni e Moé, 2000): tale complessa struttura cognitiva, psicologica ed emozionale definisce la direzione e l’intensità dei comportamenti di apprendimento che vengono messi in atto. Non si può quindi ridurre la motivazione a “avere più o meno voglia di imparare”, ma va considerata la complessità degli aspetti che vi entrano in gioco, legati alle passate esperienze, agli obiettivi educativi che si perseguono, alle credenze epistemologiche sviluppate, alla percezione della propria efficacia come individuo in grado di apprendere in specifiche aree di conoscenza.

La dimensione motivazionale rivolta all’ apprendimento si struttura a partire da tutte queste dimensioni e risente, inoltre, di elementi legati al contesto di apprendimento o istruzione e alle relazione o scambio sociale all’ interno della classe, tra compagni e tra studente e docente. Proprio per questi aspetti, lo studente “svogliato” non dovrebbe essere considerato colpevole di mancanza di buona volontà, ma andrebbero ricercate le cause sottostanti che hanno contribuito allo stabilizzarsi di un atteggiamento di disimpegno.

Per concludere questa breve riflessione, l’attività formativa offerta dalla scuola non dovrebbe esaurirsi nella mera trasmissione di conoscenze. In un contesto in rapida evoluzione e di fronte ad un futuro, per certi aspetti, alquanto imprevedibile, è possibile ipotizzare l’importanza di favorire, in ogni studente e nel rispetto delle sue caratteristiche personali, lo sviluppo di abilità che gli o le consentano di raggiungere una condizione di autonomia nell’ apprendimento.

Strategie meta cognitive, conoscenza del modo in cui si sviluppa l’apprendimento nelle diverse discipline e sviluppo di un atteggiamento motivato rispetto all’ apprendimento andrebbero tenuti in considerazione nella riflessione relativa agli obiettivi dell’istruzione, che dovrebbe essere ampliata per includere i vari aspetti cognitivi, psicologici, esperienziali ed emozionali che contraddistinguono il processo di apprendimento.

 

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Il Non-Suicidal Self-Injury (NSSI) visto da differenti prospettive – Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia, Milano

Sara Palmieri – OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Durante il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP), tenutosi a Milano dal 7 al 10 luglio scorso, è stato organizzato un simposio sul tema dell’autolesionismo non suicidario (Non-suicidal self-injury – NSSI).

Tale comportamento è definibile come un’autodistruzione intenzionale o un’alterazione dei tessuti del corpo in assenza di un intento suicida consapevole.  L’autolesionismo non suicidario è un comportamento transdiagnostico, comune tra i maschi e le femmine, utilizzato per far fronte alle emozioni intense e al disagio psicologico. Nell’NSSI rientrano comportamenti quali tagli, bruciature, colpire sé stessi o farsi del male con oggetti (Favazza & Conterio, 1989).

L’NSSI differisce dal comportamento suicida (compresi l’ideazione e i tentativi) in quanto, di solito, coinvolge metodi non letali ed è guidato dall’intento di regolare le emozioni piuttosto che dal desiderio di terminare la propria vita. Alla luce di ciò risulta chiaro come l’eziologia dell’autolesionismo non suicidario e del comportamento suicida sia diversa e che quindi sia necessario un approccio su misura per la comprensione e il trattamento dell’NSSI.

Durante il simposio sono stati presentati i risultati di alcuni progetti di ricerca che hanno tentato di capire meglio l’eziologia e il trattamento dell’NSSI secondo una prospettiva intrapersonale e interpersonale.

La prima presentazione (Baetens et al., 2014) ha riguardato infatti i fattori interpersonali e intrapersonali che potrebbero influenzare e mantenere l’NSSI. Lo studio longitudinale condotto su coppie di genitore-figlio adolescente, ha mostrato come il comportamento autolesionistico sia scatenato e mantenuto da fattori appartenenti tanto ai genitori quanto ai figli. A partire da questo risultato sono state ipotizzate implicazioni terapeutiche per la terapia familiare.

La seconda presentazione ha riguardato uno studio volto ad indagare i predittori dell’autolesionismo non-suicidario e del comportamento suicida in 144 adolescenti trattati per depressione. I dati hanno mostrato come nel campione di adolescenti depressi siano frequenti comportamenti autolesionistici (42% di comportamenti lifetime), manifestati soprattutto attraverso tagli, che si verificano più spesso quando gli adolescenti sono arrabbiati o credono di non aver fatto abbastanza.

Lo studio ha anche indagato se vi fossero differenze sull’outcome del trattamento (farmaci vs CBT) in base al fatto di avere o meno comportamenti autolesionistici. È stato mostrato come non vi fossero differenze significative su depressione, ansia e funzionamento relazionale tra chi ha autolesionismo e chi no.

Sembrerebbe che l’NSSI sia comune tra i giovani con depressione ma che sia in gran parte resistente al trattamento. La ricerca futura dovrà quindi focalizzarsi sull’NNSI come possibile outcome del trattamento per i disturbi depressivi e determinare quando specifiche strategie di trattamento sono necessarie per ridurre l’NNSI.

Un altro contributo (Tanner, Hasking, Martin, 2015) ha riguardato la relazione tra NNSI e impulsività ed i recenti dati in letteratura in merito al ruolo che lo stress esercita sull’impulsività nei giovani adulti con autolesionismo. I dati mostrano come l’impulsività possa essere legata all’NSSI, ma usare l’autolesionismo in modo impulsivo sembrerebbe più legato ad alla regolazione delle emozioni.

Il simposio si è concluso con una la presentazione di risultati provenienti da studi di fMRI, che hanno tenuto conto anche di fattori quali stress – attivazione cerebrale – dolore, nel tentativo di sviluppare un il modello neurobiologico dell’autolesionismo non suicidario (Groschwitz & Plener, 2012).

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Il gioco simbolico come precursore della teoria della mente

Giorgia Di Fabio

Perchè esiste il gioco? Il gioco è un istinto? Il gioco è un’esigenza? E’ sempre esistito? Appartiene solo ai bambini? Il gioco è il prodotto di aspetti primitivi o evoluti di una società? Il gioco esiste in senso transetnoculturale e transgenerazionale? E’ possibile assimilare il gioco negli uomini al gioco nel mondo animale?

L’esperienza del gioco, e il concetto stesso del gioco, rappresentano un tema che apre molte riflessioni sul significato della sua funzione e sul perché individui adulti sentano il bisogno, oggi forse più che in passato, di prolungare il tempo dei giochi infantili.

Il gioco può essere considerato un residuo evolutivo che garantisce all’essere umano, come negli animali, l’affinamento delle abilità necessarie a sopravvivere nel proprio ambiente, un modo per esprimere il surplus di energia. Secondo la psicanalisi (Freud, 1972; Winnicott, 1970; 1974), il gioco è una trasposizione simbolica dell’esperienza e dei contenuti emotivi del bambino, un modo per dominare mentalmente le cose, specie quelle problematiche, uno strumento fondamentale per superare l’angoscia.

Possiamo definire il gioco simbolico come la capacità di rappresentare mediante simboli, immagini, nomi, pensieri, qualcosa che non è presente e che non si può percepire. Tale tipo di gioco, secondo Freud (1972), ha lo scopo di assicurare l’equilibrio emotivo della persona, come il sogno, e svolge una serie di funzioni “psicoterapeutiche”:
a. funzione identificatoria: fingendo di essere qualcuno (ad es. la bambina che indossa le scarpe di sua madre) il bambino si prepara ad assumere l’identità ed i ruoli dell’adulto.
b. funzione riparatoria e anticipatoria: il bambino si prepara a qualcosa di problematico o cerca di abbassare il livello ansioso dopo che l’evento problematico è avvenuto (ad esempio il bambino che deve andare dal dentista o che è stato dal dentista).
c. funzione compensatoria: si ha quando il bambino compensa un sentimento angoscioso o la percezione di una sottrazione affettiva attraverso la gestualità ludica. Famosa la descrizione freudiana del bambino che gettava un rocchetto, appeso ad un filo, dietro la spalliera del letto, facendolo poi ricomparire, per simulare l’uscita di casa ed il ritorno dei genitori ed alleviare, attraverso una drammatizzazione simbolica, la sua angoscia d’abbandono.

Winnicott (1972), parla di fenomeni transizionali o oggetti transizionali (copertina, capelli, filo di lana) che servono ad evocare simbolicamente il corpo materno ed a tranquillizzare il bambino che, da due anni in poi, comincia a distaccarsi dalla madre:
d. funzione rappresentativo-espressiva: il bambino, soprattutto fra i due ed i cinque anni, riesce a rappresentare la realtà soprattutto imitandola, non avendo ancora capacità di rappresentarla raffigurandola o raccontandola;
e. funzione di dominio e di controllo: il bambino, nel gioco, crea un mondo tutto suo che può costruire o distruggere a suo piacimento, per difendersi dalla realtà “vera” fatta di divieti e regole;
f. funzione manipolatrice: tutti i bambini sono attratti dalla manipolazione di materie primarie e plastiche, ricchi di significati simbolici (acqua, farina, sabbia). La manipolazione di tali elementi esprime bisogno di scaricare tensioni, di difesa dal mondo delle regole e dei divieti.

Il bambino è in grado di fingere e quindi apprende ad usare i simboli. Un simbolo è un oggetto che ne rappresenta un altro. Un esempio è il gioco creativo nel quale il bimbo usa, per esempio, una scatola per rappresentare un tavolo, dei pezzetti di carta per rappresentare i piatti ecc. Il suo ragionamento in questa fase non è né deduttivo, né induttivo, ma transduttivo o analogico, dal particolare al particolare. Ciò si traduce in una modalità di comunicazione piena di “libere associazioni” senza alcuna connessione logica in cui il ragionamento si sposta da un’idea all’altra rendendo pressoché impossibile una ricostruzione attendibile di eventi.

La Teoria della mente (Fonagy & Target, 1996) riguarda la capacità di comprendere che la mente umana è un sistema che costruisce e organizza rappresentazioni della realtà, di rappresentarsi l’evento mentale e di attribuire agli altri stati mentali anche diversi dai propri. Il bambino comprende che le persone agiscono in base alla rappresentazione che hanno della realtà esterna, più che in funzione della realtà oggettiva intorno ai 4 anni, quando compare il pensiero metarappresentativo.

Il termine ‘teoria della mente’ è stato variamente utilizzato con diversi (seppur spesso simili) significati: in psicologia dell’apprendimento e psicologia del pensiero, è stato spesso usato come analogo di metacognizione (ovvero di capacità osservativa ed automodulante dei propri stessi processi cognitivi); in  psicologia clinica, come equivalente funzionale del Sè riflessivo; in psicologia dello sviluppo, epistemologia genetica e psicologia dinamica, come la capacità del bambino di costituirsi una rappresentazione adeguata dei processi di pensiero propri e altrui.

Manifestazioni tipiche sono:
la distinzione fra pensieri su oggetti e pensieri su eventi mentali;
pensiero e ragionamento sugli stati mentali;
la comprensione del fatto che gli stati mentali degli altri possono essere diversi dai nostri;
la valutazione dei rapporti di conversazione, collaborazione e competizione;
la distinzione fra apparenza e realtà;
la capacità di attribuire agli altri false credenze;
l’uso della bugia per generare negli altri delle false credenze;
la comprensione dei verbi mentali (pensare, credere etc.)

Il bambino in questa fase dimostra la capacità di:
differenziare la propria rappresentazione da quella degli altri;
comprendere che la rappresentazione della realtà può essere difforme dalla realtà stessa;
capire che le azioni umane sono regolate dalla rappresentazione e non dalla realtà in quanto tale.

La comprensione della mente implica la possibilità di “disconnettere” la rappresentazione della realtà, cioè assumere la rappresentazione come uno stato cognitivo separato dal dato di realtà.

Si possono considerare precursori della teoria infantile della mente, cioè acquisizioni cognitive che sembrano costituire passi evolutivi verso la comprensione della mente:
la capacità dichiarativa (intorno ai 6 mesi): mostrare un oggetto con l’intenzione di condividere l’attenzione dell’altro su quell’oggetto;
la capacità di condivisione dell’attenzione tramite lo sguardo (9 mesi): segue lo sguardo della madre per individuare e osservare l’oggetto dell’attenzione della madre;
la comparsa del gioco simbolico e di finzione(18 mesi);
la manifestazione di pensiero narrativo (24 mesi);
“imparare” a dire le bugie.

Un aspetto particolarmente importante riguarda la comprensione del rapporto tra comportamenti ed emozioni: il bambino capisce che può manifestare con il comportamento il suo stato emotivo interiore.

Con la comparsa della funzione simbolica, dai 18 ai 24 mesi, ha inizio la rappresentazione mentale-imitazione differita del bambino che è in grado di agire sulla realtà col pensiero: può cioè immaginare gli effetti di azioni che si appresta a compiere, senza doverle mettere in pratica concretamente per osservarne gli effetti. Il bambino inoltre usa le parole non solo per accompagnare le azioni che sta compiendo (nominare o chiedere un oggetto presente), ma anche per descrivere cose non presenti e raccontare quello che ha visto-fatto qualche tempo prima.

Il bambino riconosce oggetti anche se ne vede solo una parte. È in grado di imitare i comportamenti e le azioni di un modello, anche dopo che questo è uscito dal suo campo percettivo. Attraverso tre attività principali si determina il passaggio dall’intelligenza senso-motoria a quella rappresentativa: imitazione; gioco simbolico; linguaggio verbale.

Nella fase pre-simbolica l’atteggiamento fondamentale del bambino è ancora di tipo egocentrico, in quanto non conosce alternative alla realtà che personalmente sperimenta: questa visione unilaterale delle cose lo induce a credere che tutti la pensino come lui e che capiscano i suoi desideri-pensieri, senza che sia necessario fare sforzi per farsi capire.
La scoperta della possibilità di usare i simboli rende il linguaggio molto importante, perché il bambino impara ad associare alcune parole ad oggetti o azioni. Nel gioco simbolico il bambino rielabora la realtà, modificandola o riproducendola sulla base del ricordo e degli stati emotivi ad esso legati, imita, anche se in maniera generica, tutte le persone che gli sono vicine: impara a comportarsi come gli adulti vogliono, prima ancora di aver compreso il concetto di “obbedienza”.

Il gioco simbolico è un antecedente molto importante delle teoria della mente: si basa sulla presenza di oggetti o situazioni che stanno per altri non presenti.

Il bambino usa un oggetto come se questo fosse un altro oggetto; attribuisce all’oggetto proprietà che non possiede; si riferisce ad oggetti assenti come se fossero presenti (esempio del bastoncino come cavallo, della banana come telefono).
Per Piaget (1972) il gioco simbolico nascerebbe nello 2° stadio senso-motorio (18-24 mesi), quando il bambino applica schemi d’azione ad oggetti a distanza crescente, producendo una progressiva separazione fra azione e oggetto; aumenterebbe nel 3° e 4° anno, per poi decrescere dando spazio al gioco con regole e di costruzione.

Gli aspetti comuni del gioco simbolico e della teoria della mente sono:
funzione di reversibilità debole: rappresentazione di un oggetto come due cose al tempo stesso;
funzione simbolica: visione di un oggetto come rappresentate di un altro;
funzione metarappresentativa: rappresentazione di rappresentazioni mentali.
Il gioco e l’acquisizione del linguaggio sono due elementi fondamentali per lo sviluppo mentale del bambino; ha, inoltre, una funzione sociale, di interazione e condivisione.

In conclusione, l’esplorazione e il gioco sono attività presenti nel repertorio comportamentale sia dei primati superiori sia della maggior parte delle specie mammifere. In tutte le culture umane i bambini trascorrono parte del loro tempo giocando; addirittura nelle società più semplici in cui i bambini sono spinti ad una rapida assunzione di responsabilità di tipo adulto, le routines quotidiane ed i compiti lavorativi sono da loro trasformate in attività di gioco. E’ proprio l’importanza che esso assume, quindi, nella vita di un bambino, di ogni bambino, che ne ha fatto uno degli argomenti privilegiati nella ricerca psicologica sia di tipo cognitivo che di tipo clinico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Workaholism, work engagement e soddisfazione familiare: un’indagine empirica in coppie di lavoratori

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

WORKAHOLISM, WORK ENGAGEMENT E SODDISFAZIONE FAMILIARE: UN’INDAGINE EMPIRICA IN COPPIE DI LAVORATORI

AUTORE: Elisa Bortolozzo

Abstract

La ricerca condotta ha analizzato due forme di impegno lavorativo che, in letteratura, sembrano rappresentare due facce della stessa medaglia per i loro effetti opposti a livello organizzativo e personale: Workaholism, definito come dipendenza da lavoro e quindi lato negativo, e Work engagement, forma di impegno sano e quindi lato positivo. L’ indagine empirica condotta su 60 coppie di lavoratori, ha analizzato gli effetti di Workaholism e Work engagement sulla soddisfazione familiare propria e del/la proprio/a partner. La ricerca ha evidenziato che un eccessivo impegno nel proprio lavoro, soprattutto quando è legato a “comportamenti malsani” come nel caso del workaholism, può portare a conseguenze negative a livello familiare, attraverso forme di conflitto tra la sfera lavorativa e quella familiare. Un dato molto importante che emerge da questo studio è la differenza di genere sugli effetti che workaholism e work engagement hanno sulla soddisfazione familiare.

The research has focused on two forms of work commitment that, in the literature, seem to represent two sides of the same coin for their opposite effects in terms of working and personal life: Workaholism, defined as work addiction, represents the negative side, and Work Engagement, as a form of positive commitment, represents the healthy side. The empirical survey conducted on 60 dual-earner couples, analyzed the effects of Workaholism and Work engagement on own family satisfaction and on the partner’s once. As revealed by the empirical survey conducted, excessive engagement in their work, especially when it is linked to “unhealthy behaviors” such as in the case of workaholism, can lead to negative consequences in the familiar domain, through forms of conflict between the working sphere and the family.
A very important result that emerges from this study is the gender difference on the effects that workaholism and work engagement have on family satisfaction.

Parole chiave: Workaholism, Work engagement, Dark Side, Family Satisfaction, Work-Family Conflict

Introduzione

Il presente studio è volto ad approfondire la relazione tra le due forme di impegno lavorativo, Workaholism e Work engagement, e la soddisfazione familiare e se questa relazione possa essere mediata dal conflitto lavoro- famiglia. Inoltre si intende rilevare in che misura il Work engagement e il Workaholism, e la loro relazione con il conflitto lavoro-famiglia, possano avere un effetto di crossover e quindi ridurre la soddisfazione familiare del partner. A questo scopo è stata svolta un’indagine empirica su 60 coppie di lavoratori (N=120) provenienti da realtà organizzative e lavorative differenti. Elemento distintivo dello studio è quello di aver affiancato alle autovalutazioni, eterovalutazioni da parte del partner.

Com’è noto, tale metodologia, permette di ridurre la varianza comune di metodo. Sulla base dei contributi più recenti presenti in letteratura (Bakker et al., 2011; George, 2011; Arabzadegan et al., 2012a, 2012b) e della teoria della conservazione delle risorse, è possibile ritenere che ci sia un lato oscuro del work engagement, ovvero che i lavoratori altamente engaged sacrifichino alcuni aspetti della loro vita, come la famiglia, per dedicarsi di più al lavoro in quanto sono così entusiasti del loro lavoro da addossarsi compiti supplementari e quindi lavoro straordinario (Maslach, 2011; Sonnentag, 2011; Halbesleben et al., 2009).

La motivazione a questo eccesso di lavoro rimane comunque differente da quella che spinge i lavoratori workaholics, ma a livello familiare i loro effetti potrebbero avvicinarsi, in quanto entrambi sarebbero portati ad esperire conflitto lavoro-famiglia, in particolare in due delle sue forme (time- based e strain-based), dovuto ad un maggior numero di risorse utilizzate in ambito lavorativo rispetto al familiare, e questo potrebbe non essere visto positivamente dalla famiglia. Il conflitto lavoro-famiglia, a sua volta, potrebbe avere un effetto deleterio sulla soddisfazione familiare, infatti, come dimostrato in alcuni studi (Ford et al., 2007; Matthews et al., 2012; Fiksenbaum, 2013), il conflitto lavoro-famiglia porta ad una riduzione della soddisfazione familiare.

 

 

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

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Atleti a 90 anni: come funziona il cervello?

Come funziona il cervello di un’atleta novantenne?

Olga Kotelko aveva novantatre anni, era canadese e collezionò più di 30 record mondiali –per categoria di età- di atletica leggera. Deceduta nel 2014, nel 2012 si sottopose a scopo di ricerca a una serie di esperimenti per far analizzare il proprio funzionamento cerebrale presso il Beckman Institute for Advanced Science and Technology della University. La storia di Olga non è ordinaria: inizia la carriera atletica decisamente tardi, una volta in pensione, dai 65 anni: vinse 750 medaglie d’oro in svariate specialità di atletica leggera tra cui 100 e 200 metri, salto in lungo, salto in alto.

Decisamente un soggetto da single-case study per i neuroscienziati che hanno anche avuto difficoltà nel mettere insieme un campione di controllo di soggetti novantenni parimenti in salute, seppur non campioni di atletica.

In una lunga giornata di laboratorio, l’atleta novantenne si sottopose a diversi test cognitivi, a uno scan di risonanza magnetica e a test cardiorespiratori: si dichiarò per nulla stanca al termine della giornata di analisi. Il gruppo di controllo, costituito da donne di età tra i 70-85 anni in buona salute ma con stile di vita sedentario, è stato sottoposto alle medesime prove e test.

In letteratura è generalmente condiviso che con l’aumento dell’età vi siano vere e proprie modificazioni strutturali dell’encefalo: il cervello tende a ritirarsi, compaiono spazi pieni di liquido tra il cervello e il cranio, i ventricoli si allargano, la corteccia tende ad assottigliarsi, l’ippocampo (area fondamentale per la memoria) si rimpicciolisce e la materia bianca tende a perdere la propria integrità strutturale e funzionale.

Alcuni studi hanno dimostrato che una regolare attività fisica aerobica può migliorare le prestazioni cognitive e la funzionalità cerebrale, in parte agendo anche sulle modificazioni strutturali e rallentando, per esempio il processo di riduzione dell’ippocampo.

Dunque il cervello di Olga Kotelko può dare utili spunti per comprendere gli effetti dell’attività sportiva agonistica, per di più iniziata in tarda età: anzitutto il cervello di Olga in generale non appare significativamente ridotto nelle sue dimensioni, e i ventricoli non risultano ingranditi, anche se i segni dell’invecchiamento si rilevano nella materia bianca, che seppur perfettamente integra, presenta delle iperintensità, segnali tipici nel gruppo di età superiore ai 65 anni: i ricercatori sono stati colpiti in particolare dalla ottima integrità –paragonabile a quella di soggetti giovani- dei tratti di materia bianca nella regione del corpo calloso che connette l’emisfero destro con il sinistro.

Le dimensioni dell’ippocampo, seppur inferiori rispetto a quelle dei soggetti più giovani, si sono rivelate maggiori rispetto alle dimensioni attese e solitamente riscontrate per i novantenni.
Anche nei test cognitivi l’atleta novantenne ottenne performaces significativamente migliori rispetto al gruppo di controllo, con minori tempi di reazione e in particolare nei test mnestici.

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BIBLIOGRAFIA:

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