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Psychiatry’s identity crisis: commento all’articolo di Richard Frieman pubblicato sul New York Times

Non è la prima volta che il New York Times propone ai suoi lettori una riflessione critica sullo stato della psichiatria. Il 17-7-2015 è stato pubblicato un articolo dal titolo Psychiatry’s identity crisis. L’autore è Richard Friedman, psichiatra e psicofarmacologo, docente di Psichiatria Clinica al Weill Cornell Medical College.

La tesi che sostiene è duplice, una riguarda la terapia e l’altra la natura stessa dei disturbi psichiatrici. In primo luogo, Friedman avanza il dubbio che tanti anni di ricerca e enormi investimenti non abbiano prodotto la scoperta di farmaci veramente innovativi rispetto a quelli disponibili già da anni, e nemmeno abbiano identificato le cause neurologiche delle malattie mentali.

Forse, suggerisce Frieman, è arrivato il momento di dare più spazio alla psicoterapia. Le ragioni sono riassumibili in tre. Innanzitutto, per molti disturbi, l’efficacia della psicoterapia, o meglio di alcuni interventi psicoterapici, è maggiore dei farmaci. In secondo luogo, non sembra proprio che disturbi molto diffusi, come i disturbi di personalità, siano curabili con i farmaci, mentre lo sono con la psicoterapia. Infine, scrive Friedman, [blockquote style=”1″]in molti casi non c’è un sostituto per la conoscenza di sé che si ottiene con la psicoterapia. Certamente come psichiatri, possiamo controllare l’ansia del paziente, migliorarne l’umore e schiarire la psicosi con appropriati interventi farmacologici. Ma non c’è una pillola – e forse non ci sarà mai – per molti problemi dolorosi e emotivamente distruttivi, come la rabbia narcisistica o l’ambivalenza paralizzante, solo per citarne due.[/blockquote]

Aggiungerei un’altra considerazione. La ricerca ha certamente approfondito le nostre conoscenze sui meccanismi d’azione farmacologica e ormai disponiamo di nozioni molto raffinate sulle modalità con cui gli psicofarmaci incidono sul sistema nervoso centrale interagendo con i diversi recettori. Tuttavia, appare carente la spiegazione del meccanismo d’azione psicologico degli psicofarmaci. Perché e come un farmaco che, ad esempio, aumenta la serotonina disponibile nel cervello, può migliorare il tono dell’umore, far riprendere gli interessi e aumentare i livelli di motivazione? La depressione maggiore è un fenomeno complesso che si manifesta con sintomi numerosi e diversi fra loro. Altrettanto complessi sono i processi psicologici di mantenimento e aggravamento del disturbo. Su quale di questi fattori e processi incidono le variazioni biochimiche indotte dal farmaco?

Il paziente assume il farmaco antidepressivo e questo aumenta la serotonina disponibile ma quali cambiamenti psicologici, fra i tanti possibili, sono prodotti dall’ aumento della serotonina, e quali di questi, a loro volta, migliorano il quadro clinico complessivo? Qual è il cambiamento psicologico causato dal farmaco? Una risposta possibile, stando ad alcune ricerche (vedi i lavori della Hammer), è che una dose anche minima di serotoninergico orienti l’attenzione verso le informazioni positive e la distolga da quelle negative. Questo fenomeno è osservabile anche nelle persone non depresse. Una risposta, quindi, che sembrerebbe dare ragione al modello cognitivo della depressione di Beck. Tuttavia la ricerca farmacologica segue prevalentemente due direzioni: lo studio degli effetti cerebrali degli psicofarmaci e la misurazione del cambiamento dei sintomi. Le conoscenze degli effetti dei farmaci sui meccanismi psicologici alla base dei singoli disturbi, invece, sono a tutt’oggi poco sviluppate e pertanto non si è in grado di rispondere ad alcune domande piuttosto ovvie: perché, ad esempio, i serotoninergici sono efficaci sia nella depressione sia nel disturbo ossessivo, sia in diversi disturbi d’ansia? Quale effetto psicologico indotto dai farmaci si rivela utile per ridurre sintomatologie così diverse fra loro? Perché l’effetto dei serotoninergici è selettivo sul piano psicologico, ma non lo è su quello neurale? Intendo dire, ad esempio, che i serotoninergici, quando sono efficaci, possono ridurre anche del 70% la paura che un paziente ossessivo ha di aver lasciato il gas aperto e il conseguente investimento in controlli prudenziali. Ma perché non riducono del 70% la paura e la prudenza nei domini non sintomatici, ad esempio la prudenza con cui lo stesso paziente guida l’automobile? Cioè, non si osserva che il paziente ossessivo riduce del 70% il rispetto del codice stradale.

Forse la ricerca farmacologica sarebbe avvantaggiata se tenesse conto dei solidi modelli psicologici prodotti dalla cosiddetta Experimental Psychopathology.

In secondo luogo, Friedman avanza l’idea che, negli ultimi decenni la psichiatria, supportata dalle neuroscienze, sia stata orientata dalla tesi che “The diseases that we treat are diseases of the brain,” come esplicitamente sostenuto nell’editoriale apparso nel numero di maggio dell’influente e prestigioso JAMA Psychiatry. Ciò, secondo Friedman, avrebbe implicato la sottovalutazione del ruolo eziologico dei traumi psicologici precoci, dei maltrattamenti, degli abusi, dell’incuria affettiva, della deriva sociale e della solitudine. Davvero si può pensare ai disturbi psicopatologici più diffusi come a malattie del cervello? Molti dubbi analoghi erano stati sollevati dal Prof Bentall, noto esperto di psicosi, che pochi mesi fa, in occasione del II° Roman Workshop on Experimental Psychopathology, ha esaminato in modo critico la letteratura su cause genetiche ed ambientali della schizofrenia, dimostrando l’importanza cruciale delle esperienze negative sociali ed interpersonali e le carenze delle tesi genetiche della schizofrenia. (La video registrazione della main relation è disponibile nel sito www.apc.it nella sezione Cognitivvù. Nello stesso sito, nel blog, sono disponibili i commenti di Elena Bilotta e di Maurizio Brasini).

Prendendo spunto dall’articolo di Friedman, vorrei ora sollevare alcune questioni teoriche riguardanti la tesi “The diseases that we treat are diseases of the brain”. Le obiezioni a questa tesi, come quelle di Friedman e di Bentall, di solito sono risolte facendo appello al modello biopsicosociale: cause biologiche, psicologiche e sociali interagirebbero nel determinare i disturbi psicopatologici. Non trovo del tutto convincente questa soluzione, pur non potendole negare alcuni meriti diplomatici. Non la trovo del tutto convincente per diverse ragioni. Innanzitutto è banale perché può valere per qualunque fenomeno: anche la tubercolosi è multifattoriale. Per sviluppare la malattia, infatti, serve il bacillo di Koch, un calo delle difese immunitarie, magari facilitato da cause psicologiche, un ambiente sociale degradato, cioè promiscuo e insalubre, ed entra in gioco un fattore genetico: ad esempio, i longilinei sono più a rischio di tubercolosi perché ventilano di meno gli apici polmonari facilitando la permanenza del bacillo di Koch, ed essere longilinei è geneticamente determinato. In secondo luogo, a differenza di quanto accade per la tubercolosi, il modello biopsicosociale, applicato alla psicopatologia, non mette in chiaro i modi dell’interazione fra variabili biologiche, psicologiche e sociali, perché è prevalentemente fondato su correlazioni fra variabili che non consentono di definire la direzione e la qualità dei nessi fra le variabili. Il modello biopsicosociale, poiché privilegia la ricerca basata su correlazioni, non è in grado di differenziare tra cause necessarie e/o sufficienti e semplici fattori di vulnerabilità, e, quindi, può consentire tutt’al più previsioni probabilistiche ma non spiegazioni.

Tuttavia il vero limite della tesi “The diseases that we treat are diseases of the brain” è che si presta ad alcuni equivoci. Due, in particolare, connessi fra loro ma ben distinti. Il primo equivoco riguarda non solo la psichiatria ma anche le neuroscienze nel loro complesso e nasce dall’idea, del tutto condivisibile, che mente e cervello siano la stessa cosa e che parlare di mente e cervello significhi utilizzare due piani di descrizione diversi. Il primo equivoco sorge se si ritiene che assumere la riducibilità della mente al cervello implichi l’inutilità delle descrizioni e delle spiegazioni mentali. Cioè l’idea che la ricerca sul cervello renderà superflua la psicologia. Assumere una posizione materialista, cioè che mente e cervello siano la stessa cosa, non implica assumere che la ricerca sul cervello renderà ragione dei fenomeni mentali soppiantando le spiegazioni psicologiche, che si riveleranno superflue.

Sulla presunzione che le descrizioni mentali siano inutili ci sono, infatti, delle perplessità. La crosta terrestre è indiscutibilmente composta di atomi e, dunque, ogni cambiamento della crosta terrestre è riducibile a un cambiamento dei suoi atomi, la cui dinamica è conoscibile e prevedibile grazie alle leggi della fisica atomica. Ma se il problema è prevedere i terremoti, forse il piano di descrizione della fisica atomica non è il più adatto. Tentare di descrivere, spiegare e prevedere i movimenti della crosta terrestre ricorrendo alle sole leggi della fisica atomica, appare un’impresa a dir poco assai complicata ma soprattutto con il rischio di lasciarsi sfuggire fenomeni che si svolgono ad un livello assai più macroscopico, ad esempio il tempo necessario perché due parti della crosta terrestre arrivino a toccarsi.

Siamo sicuri che la conoscenza del cervello sia il piano ottimale per spiegare, ad esempio, come gli esseri umani traggono inferenze, come calcolano le probabilità di un evento, le condizioni alle quali cambiano opinione, provano vergogna, costruiscono o rompono relazioni? Un’accurata indagine psicologica, ad esempio, può consentire di prevedere e spiegare le specifiche circostanze in cui una persona proverà vergogna e quelle, apparentemente simili, in cui non proverà vergogna. Una indagine neurale può arrivare a tanto? Difficile da credere. Ma ammesso che lo sia, sarebbe vantaggioso o non sarebbe più utile il linguaggio mentalistico?

La questione a mio avviso va ribaltata. La conoscenza del cervello, finalizzata alla spiegazione della mente, dovrebbe essere guidata dalle conoscenze psicologiche. Se non si tiene conto di quanto la ricerca psicologica ci ha fatto capire delle relazioni fra emozioni e processi cognitivi, che senso potremmo dare alle scoperte sulla interazione fra amigdala, corteccia prefrontale e ippocampo?
Certamente la conoscenza del cervello è utile per mettere alla prova ipotesi psicologiche. Ad esempio, si tende a dare per scontato che il senso di colpa sia una emozione unitaria, in realtà la ricerca sul cervello suggerisce la opportunità di distinguere almeno due sensi di colpa, e ci mostra anche che uno dei due è strettamente connesso al disgusto. Ma senza una adeguata analisi psicologica del senso di colpa, che significato potremmo dare ai risultati delle neuroscienze?

Connesso col precedente, ma distinto da esso, è il problema della natura neurologica o psicologica dei disturbi mentali. Ovviamente il problema è empirico, tuttavia alcuni equivoci inquinano l’interpretazione dei risultati della ricerca. Esistono malattie psichiatriche che sono malattie del cervello, l’esempio più chiaro è la paralisi progressiva. Si tratta di una grave forma di lesione del cervello causata dal treponema della sifilide che si manifesta, tra l’altro, con alterazioni dell’umore e con deliri, a volte di grandezza. La sintomatologia è prevalentemente psichiatrica e la causa è esclusivamente neurologica, in particolare infettiva.

Consideriamo un caso diverso. È ben noto che l’incidenza di psicopatologia nelle persone con ritardo mentale sia più elevata che di norma. Difficile mettere in discussione che alla base del ritardo mentale vi sia un danno del cervello causato da noxae infettive, metaboliche, traumatiche o genetiche. È altrettanto evidente che gli esiti cognitivi di questi danni interagiscono con variabili psicologiche, ad esempio con una maggiore difficoltà a regolare le emozioni, e con variabili sociali, ad es. l’emarginazione, che a sua volta interagisce con variabili psicologiche come l’autostima, producendo sintomi psichiatrici. Anche in questo caso esiste un danno neurologico, ma la lesione cerebrale e le sue conseguenze cognitive sono un fattore di vulnerabilità psicopatologica e non la causa necessaria e sufficiente, come invece accade nella paralisi progressiva.

Il cervello delle persone con paralisi progressiva e con ritardo mentale è diverso da quello di altre persone senza sintomi psichiatrici.
Anche il cervello dei pianisti professionisti è diverso da quello di altre persone ma non nello stesso senso dei due casi precedenti, nei quali i neuroni sono patologici cioè anomali rispetto alle leggi della anatomia e della fisiologia. Nel caso della paralisi progressiva e nel ritardo mentale i neuroni sono lesionati, anche se lo sono in modi diversi e per ragioni diverse. Nel caso dei pianisti, i neuroni sono diversi da quelli dei non pianisti ma non sono lesionati piuttosto sono ben funzionanti rispetto alle leggi della neuroanatomia e della neurofisiologia.

Analogamente, possiamo supporre che un appassionato ed esperto di calcio abbia una struttura e un funzionamento cerebrale diverso da una persona del tutto disinteressata al calcio. Anche in questo caso possiamo parlare di diversità ma non possiamo dire che il cervello del tifoso sia anomalo rispetto alle leggi biologiche che definiscono un cervello sano e lo differenziano da uno patologico.
È evidente che non basta osservare una diversità per parlare di neuropatologia.

Consideriamo, ora, il caso di una persona che è mossa da una passione che non è per la musica o per una squadra di calcio ma è per la pulizia ed è esperta non di pianoforti e nemmeno di schemi di gioco ma di prevenzione e neutralizzazione di contaminazioni.
Osserviamo che il suo cervello è diverso da quello di altre persone. Supponiamo ora che uno psichiatra ci dica che è affetto da Disturbo Ossessivo Compulsivo, cioè da una psicopatologia.
Questa diagnosi sarebbe sufficiente per affermare che la diversità osservata sia analoga a quella del paziente affetto da paralisi progressiva o da ritardo mentale? No, a meno di non osservare condizioni anatomo funzionali che siano anomale rispetto alle leggi biologiche, quelle che discriminano un sistema nervoso sano da uno patologico, ad esempio lesioni degenerative, esiti di traumi, segni di infezione o di reazioni autoimmunitarie.
Intendo dire che non è legittimo inferire una neuropatologia solo perché si osserva una diversità, anche se la diversità osservata nel cervello corrisponde a una psicopatologia.

Se non si ammette questo vincolo, si rischia un paradosso. Vediamolo. Possiamo presumere, per i nostri fini attuali, che il cervello di una persona omosessuale sia diverso da quello di un eterosessuale. Nessuno, oggigiorno, direbbe che l’omosessualità sia una forma di psicopatologia, dunque la diversità osservata appare analoga a quella riscontrata nei pianisti: diversi interessi, diversi modi di essere che corrispondono a diversi cervelli.
Ora supponiamo di tornare indietro nel tempo, a sessant’ anni fa. L’omosessualità era considerata una forma di psicopatologia. Questo avrebbe implicato che la diversità del cervello degli omosessuali fosse analoga a quella del paziente affetto da paralisi progressiva?
Cioè, può una diversità cerebrale essere neuropatologica o cessare di esserlo, soltanto come conseguenza di decisioni convenzionali su cosa è o non è psicopatologico?
In conclusione, sembra che l‘affermazione dell’editoriale di JAMA “The diseases that we treat are diseases of the brain” sia molto spesso frutto di un equivoco che non è sciolto dall’approccio biopsicosociale il quale, al contrario, lo nasconde.

Francesco Mancini,
Medico, specialista in Neuropsichiatria Infantile
Scuola di Psicoterapia Cognitiva, SPC srl, Roma
Università Guglielmo Marconi, Roma

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Come il worry e la rumination influenzano la nostra funzionalità cardiovascolare

Camilla Bongiovanni, OPEN SCHOOL MODENA

Worry e rumination sono processi generalmente definiti come pensieri perseverativi (Brosschot & Thayer, 2004), intendendo con questa espressione l’attivazione ripetuta o cronica della rappresentazione cognitiva di uno o più fattori di stress.

Solitamente sono coinvolti in molti stati emozionali negativi, come ansia e depressione, e hanno delle conseguenze sulla salute, essendo associati all’attività di molti sistemi fisiologici, tra cui quello cardiovascolare, e in particolare prolungando l’attivazione di questi ultimi (Brosschot & Thayer, 2004; Thayer & Siegel, 2002).

Brosschot, Gerin e Thayer (2006) hanno presentato la loro ipotesi sul pensiero perseverativo:

grafico pensiero perseverativo e funzionalità cardiovascolare

Figura 1. Modello di base dell’ipotesi del pensiero perseverativo come mediatore dello stress sul disturbo somatico. La differenza tra le due risposte allo stress riflette l’idea che la risposta prolungata ipotizzata duri molto più a lungo rispetto la risposta durante e immediatamente dopo un evento stressante

Il pensiero perseverativo, così come si manifesta nel worry e nella rumination, rappresenta una comune risposta allo stress, in particolare media le conseguenze dei fattori di stress sulla salute, prolungando l’attivazione fisiologica ed affettiva legata allo stress, sia prima che dopo l’esposizione a tali fattori (Figura 1). Sulla base dell’associazione evidenziata fra il worry, la rumination, lo stress anticipatorio e un’aumentata attività cardiovascolare, endocrina, immunologica e viscerale, è stato suggerito che il pensiero perseverativo possa agire direttamente sullo sviluppo dei disturbi somatici attraverso un’attivazione aumentata del sistema cardiovascolare, endocrino, immunitario e neuroviscerale. Quindi, questa modalità di pensiero prolunga le conseguenze degli stressors sotto forma rappresentativa, questo continua a sollecitare l’organismo, sottoponendo l’individuo ad un livello costante di vigilanza e quindi di attivazione moderata ma cronica. Da questa prospettiva è facile individuare nello stile di pensiero perseverativo un possibile fattore di coocorrenza del rischio cardiovascolare.

Inoltre, gli autori hanno sottolineato che la letteratura fino ad oggi ha dedicato l’attenzione esclusivamente alla fase di reattività allo stress, non considerando invece quella di recovery, ovvero il momento successivo la scomparsa dello stress. Questo viene fortemente criticato, alla luce dell’idea che soltanto un’attivazione prolungata o cronica possa portare alla malattia, che a sua volta può poi condurre alla nascita di disturbi organici. Recentemente si è iniziato a esaminare la fase di recovery e si è tentato di comprendere i fattori responsabili della persistenza dell’attivazione fisiologica durante questa fase. La rumination, ovvero il fatto di ripensare ad un’esperienza stressante, sembra che contribuisca, insieme ad altri fattori, al mancato ritorno ai livelli di baseline. Quindi, questa modalità di pensiero può portare ad una successiva riattivazione del sistema cardiovascolare ed influenzare, insieme ad altri fattori, la fase di recovery cardiovascolare.
Sulla base di questa ipotesi, Pieper, Brosschot, van der Leeden e Thayer (2010) hanno condotto uno studio sull’insorgenza del rischio cardiovascolare in soggetti incapaci di arrestare il pensiero perseverativo legato a situazioni ambientali. In particolare è stato dimostrato che il worry, in risposta ed eventi momentanei percepiti come stressanti, esercita degli effetti prolungati sull’attività del sistema cardiovascolare, che si possono riscontrare anche dopo qualche ora dall’evento.

Come agisce questo stile di pensiero sulla nostra attività cardiovascolare?
A partire dai pioneristici lavori di Friedman e Thayer (1998) e da quelli di Porges (1995), sono stati chiariti i rapporti fra attivazione del sistema nervoso autonomo e rischio cardiovascolare. Il modello teorico elaborato da Porges, chiamato “Teoria polivagale”, descrive lo schema che contribuisce alla regolazione, a partire dal nervo vago, di numerose attività viscerali incluse quelle cardiache. Questa teoria è stata introdotta per spiegare le differenti funzioni dei due nuclei del vago, chiamati “nucleo ambiguo” e ”nucleo dorsale motorio”. In particolare viene enfatizzata la prospettiva filogenetica e ipotizzato che l’organizzazione del tronco encefalico sia caratterizzata da un complesso vagale-ventrale che comprende il nucleo ambiguo collegato a processi quali l’attenzione, il movimento, l’emozione e la comunicazione. Il modello predice che la competizione fra nucleo ambiguo e nucleo motorio dorsale sia legata allo sviluppo di diversi stati patologici e comunque di numerosi livelli di rischio.

A partire da questa ipotesi generale, sono state sviluppate negli ultimi anni numerose ricerche centrate sul ruolo dell’alterazione di processi mentali superiori sul disturbo cardiovascolare.

Ad esempio, Sowden e Huffman (2009) hanno analizzato il ruolo di processi psicologici disadattavi nell’insorgenza e nell’aggravamento di patologie cardiovascolari. Gli autori sostengono che accanto ai tradizionali fattori di rischio cardiaco quali il fumo, l’ipertensione e l’obesità accettati in maniera consolidata, devono essere considerati anche espressioni sia psicopatologiche che di alterazione del processamento cognitivo ed emotivo di eventi ambientali e soprattutto di una esagerata preoccupazione per le attese di ciò che possa accadere nel prossimo futuro. Gli autori sottolineano inoltre che accanto ad un opportuno trattamento farmacologico basato sulla somministrazione di antidepressivi e benzodiazepine, appaia di particolare rilievo un trattamento psicologico di tipo cognitivo comportamentale privo tra l’altro di potenziali effetti collaterali.

La tematica è ripresa con particolare enfasi da Thayer e Lane (2009), i quali hanno costruito un modello di integrazione neuro viscerale nel quale un set di strutture neurali coinvolte nella regolazione cognitiva affettiva ed autonomica sono collegate con la Variabilità Cardiaca Interbattito e la performance cognitiva. Gli autori, utilizzando tecniche di neuro immagine, hanno dimostrato l’esistenza di strutture neurali che collegano il sistema nervoso centrale con la variabilità cardiaca interbattito negli umani. Le conclusioni degli autori dimostrano l’esistenza di un’importante relazione fra performance cognitive, variabilità cardiaca interbattito e funzioni neurali prefrontali, capaci di determinare importanti implicazioni sia per la salute fisica che per quella mentale.

A partire dai modelli di integrazione fra i sistemi sopra ricordati, si sono sviluppate numerose ricerche sia di tipo neuropsicologico che neuroendocrino, tutte finalizzate a descrivere attività di sincronizzazione/desincronizzazione dei sistemi neurali e viscerali come fattori eziologici di patologie o anche semplicemente di rischi di patologie.
Per quanto riguarda gli aspetti neuropsicologici, Fang, Huang e Tseng (2013) hanno dimostrato che rimuginare, attivando in particolare il ramo simpatico del sistema nervoso autonomo, determinerebbe una serie di sintomi capaci di interferire sulla funzionalità cardiovascolare.
Studi simili sono stati condotti sull’alterazione della pressione arteriosa e del disturbo gastroenterico (Mayer, Nabiloff, & Craig, 2006).

Inoltre, Tully, Cosh, e Baune, (2013) hanno riscontrato che esiste una letteratura sempre più vasta sull’associazione tra il worry e lo sviluppo della malattia coronarica, e che il legame tra il worry, il disturbo d’ansia generalizzato e i fattori di rischio della malattia coronarica (come la pressione sanguigna), insieme all’HRV (heart rate variability; variabilità cardiaca interbattito) sono i meccanismi principali di cardiopatogenesi in grado di influire sulla funzione cardiovascolare. In particolare, da molti studi emerge un’associazione tra worry e HRV diminuita, così come tra il disturbo d’ansia generalizzato e HRV più bassa, e ciò suggerisce una minore influenza del parasimpatico e una maggiore attività del simpatico.

Infine, rispetto agli aspetti neuroendocrini, Goldman-Mellor, Hamer e Steptoe (2012) hanno esaminato l’associazione fra le risposte del cortisolo a stressor psicologici indotti in laboratorio e la progressione della calcificazione nell’arteria coronaria, in soggetti sani. Lo stress psicosociale è uno dei possibili fattori di rischio per i disturbi coronarici. E’ stato suggerito che una disfunzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, di cui la reattività del cortisolo è un indice, possa rappresentare un possibile meccanismo attraverso cui lo stress influenza il rischio di disturbo coronarico. I risultati hanno infatti dimostrato tale associazione, in particolare tra un’ aumentata reattività del cortisolo allo stress e la progressione della calcificazione, supportando così l’idea alla base di questo studio.

Anche in un altro studio è stata esaminata l’associazione fra disagio psicologico, la risposta del cortisolo allo stress indotto in laboratorio e la calcificazione subclinica nell’arteria coronaria, in soggetti sani. Il disagio psicologico è infatti collegato al disturbo coronarico ed è stata nuovamente ipotizzata una disfunzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene come meccanismo alla base. Dai risultati emersi è stata confermata l’associazione fra disagio psicologico a lungo termine e una calcificazione severa nei soggetti più anziani, in particolare quei soggetti, sia con disagio psicologico che con un’aumentata risposta del cortisolo, sono a rischio di calcificazione severa (Seldenrijk, Hamer, Lahiri, Penninx, & Steptoe, 2012).

Concludendo, sulla base di tutte le ricerche esposte e dei risultati emersi è possibile confermare l’ipotesi che individua nello stile di pensiero di tipo perseverativo un fattore di co-occorenza del rischio cardiovascolare.
Infatti, tali modalità di pensiero rappresentano potenti fattori di attivazione dell’autonomo e di alterazione dei livelli di cortisolo, con importanti effetti a livello del funzionamento cardiovascolare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La comunicazione con il medico in un contesto di cura non tradizionale: un’analisi qualitativa di interviste a pazienti oncologici

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

La comunicazione con il medico in un contesto di cura non tradizionale: un’analisi qualitativa di interviste a pazienti oncologici

Autore: Claudia Rosetti (Università La Sapienza)

Abstract

Parallelamente alla continua evoluzione della disciplina medica come teoria e tecnica della conoscenza riguardante il funzionamento del corpo umano, il rapporto tra l’ammalato e il suo curante si è configurato nel tempo come rapporto in cui l’aspetto relazionale ed interpersonale, prima ancora che tecnico, costituisce una componente fondante la disciplina medica stessa.

 Considerando tali premesse, l’obiettivo della presente ricerca è  indagare il ruolo della comunicazione tra medico e paziente nello specifico ambito oncologico e, in particolare, indagare i bisogni comunicativi e relazionali rilevanti nell’interazione con il medico da parte di pazienti che si rivolgono ad una terapia alternativa alle cure tradizionali. Al fine di rilevare il punto di vista dei pazienti in relazione ai vissuti e alle esperienze di malattia, si è fatto ricorso ad una metodologia di tipo qualitativo, la quale ha compreso l’osservazione partecipante del contesto,  interviste ai pazienti e  intervista al medico, al fine di cogliere anche il punto di vista dello specialista cui i pazienti si rivolgono. Per l’analisi delle interviste ci si è riferiti alla prospettiva dell’Analisi della Corversazione (AC) e, in particolare, per quanto riguarda le analisi dei contenuti delle risposte degli intervistati, ci si è rifatti ai principi metodologici e alle risorse analitiche disponibili nell’Analisi del Discorso (AD). Lo studio ha permesso di identificare dei repertori relativi al ruolo e alle funzioni del medico, utili ad incoraggiare l’indagine , dal punto di vista dei pazienti, su cosa un medico può fare e comunicare al paziente.

English Abstract

With the development of medical discipline such as theory and technique about functioning of human body, the relationship between patient and physician is configured as a connection where the relational and interpersonal feature is a key component. Considering these assumptions, the purpose of this research was to investigate the role of the communication between patient and physician in oncology and, in particular, in a non-traditional care setting. In this research was chosen a qualitative methodology: participant observation of the context, interviews with patients and with physician. More specifically was chosen Conversation Analysis and Discourse Analysis. The survey identified repertories related to the role and tasks of physician.

Keyword: rapporto medico-paziente, bisogni comunicativi e relazionali, curare e prendersi cura, oncologia, cura alternativa.

 

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Identity Development and Knowledge Construction in the Dual Learning Model

 

In a system of school autonomy, educational institutions have to interpret cognitive needs, social breaks and cultural aspirations of the community in which school works; reason why, the construction of educational processes cannot happen without a trait d’union with the working environment.

The education and pedagogical system should completely reflect the contemporary society in which it is integrated, to ensure appropriateformative and socialization processes for younger generations.

Clause 4 of the Law n° 53, of the 28 March 2003, introduces, in Italy, a didactics option that provides the opportunity for students to gain experience in a real working environment. Therefore, school world starts to confer importance to the world of work, to planning and realise integrated pathways of concreate experiences (Fig1).

 

Figure 1_ Dual Learning Model
Figure 1

 

In Italy, Legislative Decree n° 77/2005, also establishes that the student, who has turned fifteen, can earn a vocational qualification; student can reach this title following a full-time school, or opting for an educational program that alternates school lessons and work experiences, in private or state companies.

Seeing as, education based on experience is necessary for the human being, to coherently adapt to his context, the dual training model becomes an opportunity for social, cultural and educational renewal, both in the high school and in the system of vocational training. Students, followed by business and school mentors, have the opportunity to perform work activities in the company, carrying out tasks related to their course of study. Dual training model, or, as it is defined in Italy, Alternanza scuola-lavoro, is regulated by the Legislative Decree n° 77/2005 (definition of general rules concerning work related learning) and by the D.P.R. (Presidential Decree) n° 87, 88, 89/2010 (Reorganization regulations about vocational schools, technical institutes and high schools) represents, therefore, the connection between school and the world of work; nevertheless, this work experience does not establish a business relationship between student and company.

Tacconi (2012) says that:

The encounter with the company represents an additional incentive for studying and scholastic commitment; it is a way of learning to find a job, through a strong and targeted professional preparation.

The dual training model is a support for pedagogical and didactics action, useful to promote motivation, research ability and for studied argument deepening.

In this sense, working reality,including the relationship between individuals, groups, tools and practice communities, gives to the adolescent that learn, the possibility to achieve different levels of expertise, which in turn influence his professional and social identity. Staying in a classroom and staying in a company represent for the student a formative moment for the construction of his identity, through the development of self-assessment competences, in relation to the experience done (Pozzi&Pocaterra, 2007).

The process of identity construction is characterized by the close connection between self-consciousness and social recognition made by the other, that, in the specific case of the dual training model, for the student is realized through the duty- participation dyad. Duty is the set of tasks and procedures that the student implements to perform his educational experience; participation, however, is the student’s ability to organize his work, including through the group interaction. It is clear that the synergy between duty and participation is the central idea, useful for collaboration and democratic participation (Prilleltensky& Nelson, 2000).

Dual learning model allows that activities planned by the school together with the company, will be assessed and certified as skills acquired by the student. In this sense, the labor market’s supply and demand proceed to an intersystemic construction, where work becomes means for the personal development, that remains the end (Bertagna, 2003). School and work together promote experiential learning (Kolb, 1984) in practices communities, that allow students to learn tools and strategies, useful to do a work of which they have not yet knowledge. (Fig. 2)

 

Figure 2_Dual Learning Model
Figure 2

 

Experiential learning is an approach, internationally known, that assumes experience as a crucial criterion for training. Dual training model, or job education, does not fosters only learning, but it offers a contribution to the community, in terms of well-trained human resources. Moreover, dual training model stimulates educational talents and excellences, promoting healthy competition. Cooley (1902) says that, the self-discovery and development is closely related to the interaction with the other; then it could say, as Vygotsky asserts, that we become ourselves through others, and this refers not only to the personality as a whole, but also in each function’s history. With the dual training model and the experiential learning, student builds meanings transforming the reflective observation in active experimentation. (Fig. 3)

 

Figure 3_Dual Learning Model
Figure 3

 

Thanks to the synergy between theory (at school) and practice (in a company), continuous processes of cognitive, learning and biopsychosocial transformation are born, in a shared dimension, where all are actors, protagonists and partial directors of the community learning process, as well as their own. In the dual training model, student reflecting on his own experience, develops forms of self-awareness training and lateral thinking, useful cognitive and social processes to become true knowledge worker.

 

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REFERENCES:

L’effetto negativo della deprivazione di sonno sull’equilibrio metabolico e sul ritmo circadiano

Un recente studio si è posto l’obiettivo di verificare gli effetti che la deprivazione di sonno di un’intera notte ha sull’equilibrio metabolico dei soggetti.

Diverse ricerche condotte su soggetti umani, così come studi su modelli animali, hanno cercato, nelle sessioni sperimentali, di simulare le turnazioni di lavoro che molte aziende predispongono per i lavoratori per verificare se esse hanno degli effetti sul fisico e se questi effetti siano positivi o negativi; ciò che emerge dai risultati è che gli orari di lavoro imposti dai turni possono causare una riduzione nell’impiego di energie, la compromissione della disponibilità generale di glucosio e una maggiore assunzione di cibo, condizioni che nel tempo possono risultare in uno scompenso metabolico ed in un acquisto di peso non indifferente.

Tuttavia se le conseguenze di una breve mancanza di sonno sull’omeostasi dell’organismo e sull’espressione dei geni clock implicati nella regolazione dei ritmi circadiani e nei processi metabolici dei tessuti periferici sono note, poco si sa circa quelle di un’intera notte di veglia; tale è la tematica su cui la presente ricerca ha tentato di far luce e ciò rende lo studio particolarmente interessante dato che oggi almeno il 15% della forza lavoro è impiegata in occupazioni che implicano turnazioni di lavoro con la maggior parte dell’attività che si svolge durante la notte.

Per questi motivi lo studio si è posto l’obiettivo di verificare gli effetti che la deprivazione di sonno di un’intera notte ha sull’equilibrio metabolico dei soggetti; a questo scopo sono stati considerati 15 uomini sani che hanno partecipato a due diverse condizioni sperimentali intervallate da quattro settimane, la prima prevedeva che i soggetti dormissero per tutta la notte, la seconda al contrario li costringeva ad una veglia forzata. La mattina seguente le due sessioni sperimentali veniva misurato il livello di cortisolo e venivano eseguite delle biopsie del muscolo scheletrico e del tessuto adiposo sottocutaneo per l’analisi della metilazione del DNA e dell’espressione dei geni clock.

I risultati hanno mostrato che un’acuta deprivazione di sonno riduce la trascrizione dei geni clock, provocando un rimodellamento epigenetico degli stessi e quindi delle conseguenze metaboliche deleterie come l’alterazione della tolleranza al glucosio; in particolare la perdita di sonno per una notte intera causa un’ipermetilazione del DNA dei geni clock, effetto che è stato riscontrato nel caso del tessuto adiposo ma non in quello del muscolo scheletrico.

I risultati della ricerca, nonostante i limiti che hanno caratterizzato la procedura dell’esperimento come ad esempio il fatto che le luci sono state tenute accese solo durante la condizione di veglia, mettono in evidenza le conseguenze negative che le alterazioni del sonno hanno sull’equilibrio omeostatico e sul ritmo circadiano e quindi il rischio maggiore di disfunzioni metaboliche che è riscontrabile tra le persone a cui sono richieste turnazioni di lavoro.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Fattori di mantenimento interpersonali nei disturbi del comportamento alimentare: il ruolo della famiglia

 

Nel corso della mia esperienza clinica con le persone affette dai disturbi del comportamento alimentare, ho sviluppato la convinzione sempre più marcata della necessità di coinvolgere il sistema familiare. Tale coinvolgimento sembra potenziare il buon esito dell’intervento terapeutico, migliorando la qualità della vita sia per chi soffre che per tutti gli altri membri della famiglia e il mantenimento nel tempo dei risultati raggiunti (Treasure e coll., 2007).

Il disturbo del comportamento alimentare, per la complessità che lo caratterizza, la difficoltà del trattamento e la delicatezza degli aspetti personali, relazionali e sociali che coinvolge, necessita di un intervento in équipe multidisciplinare che possa coinvolgere in modo significativo le figure di riferimento oltre che il portatore del sintomo. Così facendo sarà possibile creare una rete di sostegno attorno alla persona in difficoltà e tra le figure che la prendono in carico.

Spesso sono gli stessi familiari che mi contattano per avere informazioni, conoscere, capire cosa sia un disturbo del comportamento alimentare tanto familiare per chi se ne occupa, oscuro e sconcertante per chi, non addetto ai lavori, si trova d’improvviso a farlo entrare nel proprio mondo.
Spiego che il loro ruolo è fondamentale, poiché la persona (spesso adolescente o giovane adulta) e il disagio che riporta, richiedono necessariamente una messa in gioco e un adattamento del sistema familiare in cui vivono.

Inoltre, la famiglia presenta una duplice potenzialità: se coinvolta e valorizzata può diventare o ritornare ad essere una risorsa estremamente preziosa, se lasciata ai margini può contribuire al mantenimento del disturbo in quanto molto spesso ciò che si fa per tentare di ridurre i sintomi produce l’effetto contrario (Treasure e coll., 2008). I sintomi dei disturbi del comportamento alimentare possono avere delle profonde implicazioni sociali ed emotive per le figure di accudimento. I sintomi variano per forma ed impatto, spaventano e sono frustranti ed intrusivi. Ogni parvenza di “normalità” scompare.

Janet Treasure e coll. (2008), in un interessante articolo, propongono una lista di caratteristiche e/o di reazioni presenti nei caregiver e in chi circonda la persona con disturbo del comportamento alimentare che possono contribuire al mantenimento del problema e che, quindi, vanno tenute in debita considerazione nell’intervento terapeutico.

– Rigidità e preoccupazione per i dettagli. Interferiscono nella possibilità di creare nuove forme di comportamento. Non consentono l’apertura ad una visione d’insieme, ma rinforzano l’attenzione su aspetti specifici, tipici della patologia.

– Emozionalità espressa: criticismo, ostilità ed eccessivo protezionismo. Non consentono alla persona di sviluppare in autonomia le proprie capacità e propensioni e di affrontare le sfide della vita. Un buon esito della terapia è connesso all’attivazione di un percorso terapeutico familiare parallelo a quello della persona con disturbo del comportamento alimentare.

Colpa, vergogna e stigma. Possono contribuire alla chiusura e all’isolamento sociale sia della famiglia che della persona ammalata, impedendo il confronto con modalità comportamentali e relazionali più funzionali. Tali atteggiamenti rendono difficile il potersi confrontare e parlare apertamente del problema.

– Mancata comprensione del disturbo del comportamento alimentare. Contribuisce ad appesantire il clima e a complicare le relazioni interpersonali conducendo all’utilizzo di strategie di gestione spesso improprie.

– Comportamento accomodante nei confronti della malattia. Spesso per paura di peggiorare la relazione, di accrescere l’ostilità ed evitare conseguenze peggiori, i familiari consentono alle regole del disturbo del comportamento alimentare di prendere il sopravvento regolamentando la quotidianità. Questo è forse uno dei fattori di mantenimento più potenti in quanto consente alla patologia di predominare e prosperare.

Accudire una persona cara con un disturbo alimentare è un compito difficile.
Secondo il modello di intervento proposto da Treasure e coll. (2008) lo scopo del coinvolgimento delle figure di riferimento è quello di renderli “allenatori” in grado di incoraggiare e supportare la persona, aiutandola a liberarsi dalle trappole in cui è imprigionata. I familiari della persona malata entrano, quindi, a pieno titolo nel percorso terapeutico. In questo modo sarà possibile costruire la continuità e la coerenza dell’intervento, necessari per un sostegno efficace.

L’intervento è volto a fornire strategie per poter migliorare le loro personali reazioni alla malattia e fronteggiare le difficoltà in modo funzionale, evitando di raggiungere livelli di stress troppo elevati.

Viene fornito un modello di comprensione e analisi del disturbo del comportamento alimentare, con particolare attenzione alla presenza e al ruolo dei fattori di mantenimento sopracitati. La presenza di “controllo” ed “emotività espressa” e le possibili combinazioni di queste due variabili, forniscono importanti informazioni circa gli stili di accudimento, che secondo gli autori rivestono un ruolo fondamentale.

Vengono presentati due stili di accudimento funzionali cui aspirare, adottando analogie dal regno animale per renderli più comprensibili ed applicabili (Treasure e coll., 2007):
– Il “delfino” presenta la giusta quantità di accadimento e controllo. È in grado di sospingere dolcemente verso la “salvezza”, a volte nuotando davanti e mostrando la strada, altre volte nuotando a fianco ed incoraggiando, oppure nuotando tranquillamente dietro.
– Il San Bernardo presenta la giusta quantità di compassione e coerenza. È calmo e padrone di sé, anche nelle situazioni più pericolose. Si dedica al benessere e alla sicurezza delle persone che si perdono. Una risposta di accudimento ottimale corrisponde ad un atteggiamento di calma, calore e compassione. Diventare modelli di calma e compassione aiuterà chi soffre a prendersi maggiormente cura di se stesso come importante passo verso il cambiamento.

Si lavora, inoltre, sulle rigidità e sui comportamenti estremi, sulla comprensione del “trasferimento” agli altri membri della famiglia di una elevata emotività espressa, in modo tale che ognuno possa migliorare le proprie capacità di regolazione emotiva.
Si forniscono strumenti per una comunicazione aperta, chiara ed efficace che possa consentire ad ognuno di poter esprimere adeguatamente il proprio vissuto senza colpevolizzare, ma attraverso l’accoglienza dell’altro.
Infine, si cerca di attivare o creare attorno alla persona e alla famiglia una rete sociale supportiva in questo delicato e lungo percorso (Treasure e coll. 2008).

 

 

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Che ruolo ha l’empatia nell’attuazione di condotte etero-lesive?

Roberta Cattani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

L’empatia consiste nella capacità di assumere la prospettiva altrui e quindi di comprendere quelli che possono essere i sentimenti di una persona in una certa situazione, e nella capacità di risuonare emotivamente, immedesimandosi nello stato emotivo dell’altro e rispecchiandone interiormente le emozioni.

In letteratura esistono numerose evidenze del fatto che l’empatia non è un tratto stabile ma che può invece essere considerata come una risposta di stato volontaria.

La maggior parte della discussione clinica relativa al costrutto di empatia e soprattutto la maggioranza delle sue misurazioni sperimentali si sono infatti per lungo tempo occupate di indagarne le manifestazioni in base all’assunzione che la capacità empatica fosse una disposizione trasversale a tutte le situazioni emotivamente salienti, stabile nei confronti di tutte le persone e costante nel tempo. Cottrell (1942) fu il primo ad avanzare invece delle critiche a questo approccio, ritenendolo inadeguato e sostenendo la necessità di identificare un contesto situazionale di riferimento, le cui caratteristiche fossero l’elemento cruciale in base al quale definire il peso dei processi empatici e quindi l’eventuale possibilità di sospensione degli stessi in determinate situazioni.

L’importanza di una contestualizzazione dell’empatia è stata sostenuta anche da Hoffman (1982), sulla base dell’idea che se gli esseri umani non fossero in grado di inibire volontariamente le loro naturali risposte empatiche in determinati momenti, essi esperirebbero un eccessivo coinvolgimento nella maggior parte delle situazioni quotidiane. Da ciò si evincerebbe perciò, secondo l’autore, l’importanza per la specie umana di essere in grado di reprimere talune spinte empatiche nelle situazioni che lo richiedano, allo scopo di funzionare in modo più adattivo ed efficace nelle interazioni sociali.

Nell’esperienza quotidiana sarebbe infatti possibile trovare numerose tracce di momenti in cui un funzionamento adattivo ed efficiente richieda una minimizzazione del rispecchiamento empatico, come negli esempi offerti da attività di evasione quali romanzi o film, i quali basano un sano coinvolgimento nella loro trama tanto sulla capacità di identificazione del lettore e dello spettatore nelle vicende e nei sentimenti dei protagonisti, quanto sulla possibilità di relativizzare tale partecipazione empatica all’artificiosità degli avvenimenti proposti.

La ricerca recente, superando la precedente concezione dell’empatia come tratto stabile e non condizionato da elementi esterni, sta in effetti fornendo sempre maggiore supporto all’idea che si tratti piuttosto di una risposta di stato, conseguente alla volontaria scelta del soggetto di agire secondo scopi più o meno prosociali, sulla base di una varietà di fattori contestuali.

Studi effettuati su campioni di sexual offenders hanno infatti dimostrato con particolare evidenza il fatto che la mancanza di empatia non risulti necessariamente un deficit generale ed esteso nei confronti di tutte le persone, ma che possa piuttosto verificarsi in maniera selettiva nei riguardi di una precisa vittima o di un gruppo.

Marshall e colleghi (1995) hanno infatti riscontrato in aggressori sessuali e in molestatori infantili deficit di empatia specificatamente circoscritti nei confronti rispettivamente di donne e di giovani ragazzi. A conferma di questa ipotesi, Fernandez e colleghi (1999) hanno testato un gruppo di soggetti pedofili resisi rei di molestie a danno di giovani vittime, attraverso l’uso di vignette raffiguranti tre diversi tipi di situazioni stressanti, in cui venivano coinvolti dei bambini: nel primo caso, il bambino protagonista dell’immagine risultava sfigurato a seguito di un grave incidente stradale; nel secondo caso, un bambino subiva molestie sessuali da parte di un estraneo ed infine, in una terza vignetta, veniva rappresentata la vittima stessa del soggetto testato. Una volta mostrate ai partecipanti tali vignette, veniva loro chiesto di scegliere lungo un elenco le emozioni attribuite ai bambini protagonisti di ciascuna immagine. In un secondo momento veniva poi chiesto di indicare nello stesso modo anche le emozioni da loro provate a fronte di ciascuna immagine.

Dai risultati sono emersi livelli empatici nella norma ed analoghi a quelli del gruppo di controllo nei confronti dei bambini sfigurati in incidenti stradali e punteggi solo leggermente più bassi durante l’osservazione delle vignette raffiguranti una generica violenza sessuale su minori. Significativamente, invece, tali livelli di empatia risultavano azzerarsi quasi completamente nel caso in cui l’immagine avesse per protagonista la loro stessa vittima.

I dati di questo studio hanno così confermato la presenza, in un campione di molestatori infantili, di una normale capacità di empatia nei confronti di bambini in generale, ma della possibilità di una sua inibizione selettiva nei confronti delle proprie vittime, ovvero in casi in cui determinati stimoli possano far prevalere la motivazione a subordinare il benessere altrui al prioritario soddisfacimento di piacere personale.

Anche Fernandez e Marshall (2003) hanno individuato analoghe soppressioni di empatia vittima-specifiche in molestatori autori di violenza su donne adulte. Analogamente ai risultati della ricerca precedente, anche in questo studio sono emersi livelli di empatia significativamente più bassi nei confronti di donne in cui i soggetti potevano riconoscere le loro stesse vittime, rispetto ai più alti punteggi di empatia emersi invece nei confronti di donne vittime di altri accadimenti violenti.

In considerazione degli analoghi risultati ottenuti da diversi altri studi (Farr et al., 2004; Fisher, 1997; Fisher et al., 1999; Marshall et al., 1997; Webster and Beech, 2000; Whitaker et al., 2006), si può quindi ritenere che tali dati forniscano sostegno alle più recenti ipotesi che fanno ritenere l’empatia come una risposta di stato volontaria, nonché suggeriscano degli elementi di maggiore comprensione clinica di alcune forme di comportamento deviante e di aggressività strumentale, come l’esito di una deliberata scelta di sospensione della risposta empatica in modo vittima-specifico, ossia nei riguardi di una precisa persona o gruppo di individui identificati come bersaglio della propria violenza.

L’aggressività strumentale, tipica ad esempio degli individui psicopatici, si distingue infatti da quella reattiva per il fatto di dipendere meno da aspetti di disregolazione impulsiva e di essere invece maggiormente finalizzata al raggiungimento di scopi e vantaggi personali.

In relazione a questa strategia inibitoria, ricerche di Ward e colleghi (1997) e di Marshall e collaboratori (2001) hanno riscontrato in campioni di molestatori sessuali una significativa correlazione tra il verificarsi di tali sospensioni di empatia in modo vittima-specifico e l’utilizzo di particolari bias cognitivi: questi consistono in modalità distorte e disadattive di ragionamento e di interpretazione della realtà, che permettono di adattare le informazioni ai propri convincimenti in modo coerente ed utilitaristico, giustificando così comportamenti immorali passati e facilitandone il mantenimento in futuro (Marshall et al., 1999).

Tra i bias più comuni nell’ambito delle condotte antisociali figurano soprattutto la dislocazione della responsabilità, attraverso la quale viene operato un processo di attribuzione causale delle responsabilità di un atto ad altre persone o alle circostanze, e la non considerazione o distorsione delle conseguenze, nella quale viene invece operata una minimizzazione o una selezione strumentale nella rappresentazione mentale delle conseguenze positive o negative di un’azione. Tali processi di distorsione cognitiva del contesto e della vittima possono così agire sinergicamente nel determinare un transitorio allentamento delle capacità empatiche ed una loro temporanea sospensione.

Un tipo di meccanismi in base ai quali si ritiene che vengano attuate temporanee soppressioni di giudizio morale sarebbero quindi le distorsioni che agiscono a livello rappresentativo, andando transitoriamente ad inibire le capacità empatiche ed i sentimenti prosociali, momentaneamente messi al servizio di scopi devianti dalla norma, in situazioni in cui vengano meno le motivazioni a dare peso morale ai danni procurati all’altro.

A conferma del fatto che le difficoltà empatiche rilevate in tali casi possono essere la conseguenza di deliberate soppressioni di sentimenti prosociali, alcune ricerche hanno individuato anche nello spostamento del focus attentivo un altro meccanismo rilevante ai fini di agevolare l’attuazione e la perpetuazione di comportamenti immorali: si ritiene infatti che l’evitamento dello sguardo della vittima possa rappresentare un modo per minimizzare volontariamente la percezione della sofferenza procuratale ed allontanare così la possibilità che eventuali accessi empatici di senso di colpa o di rimorso possano avere la meglio e trattenere il soggetto dal portare a termine i propri progetti.

Una serie di ricerche ha dimostrato infatti che la capacità di riconoscere le emozioni altrui è in genere pesantemente influenzata dal focus dell’attenzione e che, nello specifico, l’incapacità di provare empatia per i segnali di disagio espressi dalle vittime si normalizza nel caso in cui tali manifestazioni rientrino nel loro campo attentivo.
In una ricerca di Glass e Newman (2006) condotta su individui psicopatici, non è infatti stata trovata alcuna difficoltà di processamento emotivo nella condizione sperimentale in cui ai partecipanti veniva chiesto di identificare, tra diverse espressioni facciali presentate, quella che rappresentava una certa emozione, ossia nella situazione in cui tale indicazione veniva fornita visivamente in forma di parola circa un secondo prima della presentazione delle espressioni facciali stesse, dando così la possibilità al soggetto sperimentale di prepararsi a rivolgere la propria attenzione su quegli specifici aspetti indicativi di un certo stato emozionale.

In uno studio di Dadds e collaboratori (2006) è stato riscontrato tale fenomeno anche in bambini e in adolescenti con tendenze psicopatiche: è stato osservato che la loro capacità di riconoscimento delle espressioni facciali soprattutto di paura si normalizzava nel momento in cui venivano invitati a guardare specificamente gli occhi delle persone coinvolte nello studio come stimolo sperimentale.

Sostegno a quest’ipotesi proviene anche da un altro studio di Richell e colleghi (2003), nel quale è emerso che la capacità di attribuire stati mentali nel test di lettura degli occhi non appare in genere alterata negli psicopatici e che, quando si rintraccia invece una difficoltà di questo tipo, questa sembrerebbe dipendere proprio dal focus dell’attenzione e dunque, plausibilmente, sarebbe funzione dello stato mentale attivo nella mente del soggetto.

Questi dati dimostrano allora che la minore empatizzazione nei confronti delle vittime, da parte di chi commette azioni devianti o agisce aggressività strumentale, potrebbe dunque essere considerata come la conseguenza di un proattivo dislocamento dell’attenzione dagli elementi che abbiano rilevanza emotiva, tra i quali in particolare lo sguardo della vittima.

Queste ricerche suggeriscono dunque che la capacità di alcuni soggetti di agire in modo gravemente antisociale e lesivo del benessere altrui possa essere spiegabile come parte di una strategia tesa ad inibire l’attivazione di sentimenti prosociali e a poter mantenere un atteggiamento freddo, distaccato ed aggressivo nei confronti dell’altro, senza essere in ciò disturbati da risonanze empatiche che potrebbero sorgere se l’attenzione dovesse soffermarsi sullo sguardo della vittima.

In conclusione, in base ai dati della ricerca emersi, la perpetrazione della violenza e di alcune forme di aggressività sembra essere sostenuta da soppressioni transitorie della sintonizzazione emotiva in modo vittima-specifico, attraverso un insieme di strategie cognitive ed attentive, volte a favorire tale distanziamento empatico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Un nuovo approccio potrebbe rivoluzionare il trattamento della depressione

Vanessa Smiedth

 

Un nuovo studio condotto da ricercatori dell’Università del Maryland ha individuato promettenti composti che potrebbero trattare con successo la depressione in meno di 24 ore, riducendo al minimo gli effetti collaterali.

Attualmente, la maggior parte delle persone affette da depressione assumono farmaci che aumentano i livelli neurochimici di serotonina nel cervello. I più comuni di questi farmaci, come il Prozac e Lexapro, sono inibitori della ricaptazione della serotonina o SSRI. Purtroppo, gli SSRI sono efficaci solo in un terzo dei pazienti con depressione. Inoltre, anche quando questi farmaci funzionano, in genere impiegano da tre a otto settimane per alleviare i sintomi. Di conseguenza, i pazienti spesso soffrono per mesi prima di trovare una medicina che li fa sentire meglio. Questo non è solo emotivamente straziante; nel caso di pazienti che vogliono suicidarsi, può essere mortale. Sono chiaramente necessari migliori trattamenti per la depressione.

Un nuovo studio condotto da ricercatori dell’Università del Maryland ha individuato promettenti composti che potrebbero trattare con successo la depressione in meno di 24 ore, riducendo al minimo gli effetti collaterali.

Anche se non sono ancora stati testati nelle persone, i composti potrebbero offrire vantaggi significativi rispetto agli attuali farmaci antidepressivi. La ricerca, guidata da Scott Thompson, professore e presidente del Dipartimento di Fisiologia presso l’Università di Medicina del Maryland è stato pubblicato questo mese sulla rivista Neuropsychopharmacology.

Thompson e il suo team si sono concentrati su un altro neurotrasmettitore rispetto alla serotonina, un composto inibitorio chiamato GABA. L’attività cerebrale è determinata da un equilibrio di comunicazione eccitatoria e inibitoria tra le cellule cerebrali.

I ricercatori sostengono che nella depressione, i messaggi eccitatori in alcune regioni del cervello non siano abbastanza forti. Poichè non esiste un modo sicuro per rafforzare direttamente la comunicazione di tipo eccitatorio, è stata esaminata una classe di composti che riducono i messaggi inviati tramite inibitori GABA. Si prevede che questi composti, chiamati GABA-NAM, possano ridare forza eccitatoria e minimizzare gli effetti collaterali indesiderati perché sono precise: funzionano solo nelle parti del cervello che sono essenziali per l’umore.

I GABA-NAM sono stati testati in ratti sottoposti ad un lieve stress cronico che ha provocato negli animali agiti simili a quelli della depressione umana. Dare a topi stressati questi composti ha subito funzionato su un sintomo chiave della depressione: l’anedonia o incapacità di provare piacere.

Sorprendentemente, gli effetti benefici dei composti sono apparsi entro 24 ore, molto più rapidamente rispetto alle molteplici settimane necessarie per gli SSRI per produrre gli stessi effetti. Nei test effettuati con i ratti, i ricercatori hanno scoperto che i composti aumentano rapidamente la forza della comunicazione eccitatoria nelle regioni che sono state indebolite dallo stress e si pensa che esse siano indebolite anche nella depressione umana.

[blockquote style=”1″]Questi composti hanno prodotto effetti più drammatici nello studio sugli animali di quello che avremmo potuto sperare. Ora sarà tremendamente eccitante scoprire se essi producono effetti simili nei pazienti depressi. Se questi composti sono in grado di fornire rapidamente sollievo ai sintomi della depressione umana, come il pensiero suicida, potrebbero rivoluzionare il modo in cui i pazienti vengono trattati[/blockquote] ha detto il dottor Thompson.

 

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Essere genitori di bambini con autismo: gli effetti positivi del caregiving paterno sulla salute delle madri

Daniela Sonzogni

 

I padri che assumono un ruolo attivo nelle attività di caregiving con i bambini affetti da autismo promuovono un sano sviluppo dei loro figli. Una nuova ricerca, però, suggerisce che incrementano anche la salute mentale delle madri.

Le madri dei bambini con autismo hanno riportato un minor numero di sintomi depressivi a lungo termine (analizzati quando i loro bambini hanno raggiunto i 4 anni d’età) se il padre si è mostrato coinvolto, fin dai primi mesi di vita del bambino, in attività di alfabetizzazione, in attività assistenziali e in attività che calmano il bambino sconvolto.

Daniel J. Laxman, autore della ricerca, ha condotto lo studio analizzando 3550 bambini, di cui 50 con sindrome di autismo, 650 con altre disabilità. Sono state raccolte informazioni sul benessere delle madri e il coinvolgimento dei padri in diverse attività genitoriali come alfabetizzazione, gioco e caregiving quotidiano come fare il bagno.

Un maggiore coinvolgimento dei padri nella cura dei loro bambini affetti da autismo può essere particolarmente importante come dimostra una ricerca precedente che evidenzia come le madri di questi bambini spesso sperimentano livelli più elevati di stress, depressione e ansia rispetto alle altre madri.

I padri che leggono ai loro figli o rispondono quando il bambino piange, può dare tregua alle mamme, permettendo loro di svolgere altri compiti o impegnarsi in attività di autocura che aumentano il loro umore e riducono lo stress.

Uno dei criteri principali dell’autismo è la difficoltà di comunicazione e questo può spiegare perché le madri di questi bambini siano più soggette a stress e depressione.

Può essere molto frustrante per i genitori quando i bambini lottano con la comunicazione, fatto che risulta sconvolgente anche per i bambini stessi.

I padri che leggono, raccontano storie o cantano canzoni ai loro bambini, favoriscono lo sviluppo della loro capacità di comunicazione e per l’apprendimento di parole. Migliorano le capacità comunicative dei bambini e nello stesso tempo, il coinvolgimento dei padri in queste attività, allevia le preoccupazioni e lo stress della madre legate a questi problemi.

Nei sistemi familiari che includono i bambini con autismo, i fattori di stress sono enormi e le madri hanno bisogno di molto sostegno, sia che derivi dal padre del bambino, sia dai social network o dalle risorse online. Le madri hanno continuamente bisogno di sostegno aggiuntivo per essere in grado di continuare a funzionare in modo efficace.

Il campione di studio è stato limitato alle famiglie in cui entrambi i genitori biologici risiedevano con il bambino nei primi quattro anni per garantire la presenza del padre che potrebbe influenzare i sintomi depressivi della madre.

Alcune ricerche precedenti hanno suggerito che il conflitto tra madri e padri aumenta quando gli uomini sono più coinvolti nella cura del bambino. È importante quindi che i genitori discutano di come stanno funzionando nella gestione della disciplina o nelle attività quotidiane quali vestire o nutrire il bambino.

 

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Mindfulness per viaggiare in aereo, il programma di British Airways

 

BRITISH AIRWAYS LANCIA IL PROGRAMMA MINDFULNESS FOR TRAVEL

Che lo si faccia per piacere o per necessità, l’idea di prendere un aereo per tratte più o meno lunghe non è un pensiero che lascia tutti tranquilli. La compagnia British Airways, per rispondere alle esigenze dei suoi passeggeri, ha proposto il programma “mindfulness for travel”.

Negli ultimi anni è diventato di uso frequente in ambito psicologico l’utilizzo di questa parola. Ma che cos’è la mindfulness? Jon Kabat-Zinn, lo studioso che negli anni ’70 ha dato vita all’utilizzo clinico di tale pratica, la definisce come “la consapevolezza che emerge prestando attenzione intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante al presentarsi dell’esperienza momento per momento” (Kabat-Zinn, 2004).

È possibile sviluppare o migliorare questa capacità attraverso la meditazione di consapevolezza che deriva dal buddhismo theravada. Kabaz-Zinn sostiene che la capacità di essere consapevoli sia presente in ciascuno di noi. Quello che occorre fare è allenarsi a coltivare l’attenzione nel qui ed ora.

Capita a tutti noi abitualmente di sprecare tanta energia reagendo in modo automatico agli eventi esterni e a ciò che accade dentro di noi (pensieri, emozioni, sensazioni). Per la maggior parte del tempo la nostra attenzione è rivolta al passato o al futuro piuttosto che al presente, il vero momento in cui la vita si realizza.

Osservandoci, attraverso la pratica, possiamo scoprire che funzioniamo spesso con il “pilota automatico”, meccanicamente, senza renderci conto di ciò che stiamo effettivamente facendo o vivendo.

Possiamo rappresentare la consapevolezza come una lente in grado di concentrare e canalizzare le energie disperse e reattive della nostra mente in un’unica sorgente di energia che può aiutarci a gestire in modo adeguato le situazioni e ad apportare cambiamenti nella nostra vita in una direzione di maggior benessere.

Questa energia ha origine dentro di noi e quindi è potenzialmente sempre disponibile. La sfida è quella di provare a vivere ogni momento della nostra vita, anche quelli di maggior difficoltà, come unico, importante e con cui poter lavorare. Si può imparare ad affrontare la vita in un modo che conduca ad uno stato di armonia interiore, utilizzando la forza di una difficoltà per attraversarla, proprio come un navigatore utilizza la forza del vento per orientare la sua vela.

Meditazione è osservare deliberatamente il nostro corpo e la nostra mente, lasciando che le nostre esperienze scorrano liberamente momento dopo momento e accogliendole nel modo in cui esse si presentano, che ci piaccia oppure no. Meditazione non significa rifiutare, bloccare o reprimere ciò che si presenta, ma lasciar essere, non controllare nulla eccetto la direzione della nostra attenzione.

Quando si comincia a prestare attenzione in modo consapevole il rapporto con le cose cambia. Consente di vedere di più e più in profondità. È come un risveglio dalle abitudini nelle quali eravamo assorbiti poiché il presente è il solo momento di cui disponiamo.

Secondo tale prospettiva, la gestione e la riduzione di stati di tensione, ansia, preoccupazione che possono manifestarsi in chi deve prendere un aereo, sono strettamente connessi alla capacità di affrontarli nel momento in cui essi si presentano, accogliendoli nella propria esperienza senza bisogno di dover reagire o lasciarsi vincere da essi.

Ma in cosa consiste esattamente il programma sviluppato dalla compagnia di bandiera britannica? Grazie alla collaborazione con Mark Coleman, fondatore dell’Institute mindfulness della California, sono stati sviluppati tre brevi video che permettono al viaggiatore di affrontare il volo con maggiore serenità avvalendosi di tecniche meditative. Per aiutare tutti i viaggiatori che hanno paura di volare British Airways organizza anche dei corsi, chiamati Flying with Confidence, grazie ai quali si impara a gestire la paura di volare attraverso una sessione teorica e pratica con l’aiuto di esperti piloti e psicologi.

Il programma si divide in tre fasi, per ogni momento cruciale del viaggio: prima dell’imbarco, in volo e prima dell’atterraggio.

 

VIDEO 1 – Mindfulness prima della partenza

Anche solo raggiungere l’aeroporto può rappresentare una sfida. Dopo aver effettuato il check-in e aver raggiunto il gate, guardare il frenetico movimento attorno a noi e ascoltare il frastuono possono incrementare lo stato di tensione. Coleman suggerisce di prendersi 5 minuti per praticare un esercizio di centramento e radicamento:

Assumete una posizione confortevole, che vi faccia sentire a vostro agio. Chiudete gli occhi oppure fissate lo sguardo e portate la vostra attenzione al respiro. Portate l’attenzione dentro di voi, portate l’attenzione al respiro. Il respiro è un ottimo supporto nella mindfulness poiché vi aggancia al momento presente. Iniziate facendo delle lunghe inspirazioni ed espirazioni, notate le qualità energizzanti dell’inspirazione e quelle rilassanti dell’espirazione.

Rivolgete l’attenzione dentro di voi e prendete lunghi respiri. Immaginate che tutto ciò che vi accade intorno sia come il cielo. Tutto ciò che si presenta attorno a voi in questo momento e nella vostra mente è come nuvole di passaggio nel cielo e potete stare fermi e ben saldi mentre ciò accade, sentendovi a proprio agio, senza reagire. Se vi accorgete che la vostra mente viene catturata da qualcosa nel passato o nel futuro, riportatela gentilmente al momento presente, al vostro corpo seduto sulla sedia, al vostro respiro che va e viene, ai rumori, a ciò che si muove intorno a voi. Se vi sentite agitati o preoccupati per ciò che potrà accadere, riportate l’attenzione al momento presente, al vostro radicamento e a ciò che sta accadendo attorno a voi, conversazioni, bambini che giocano, ecc. e immaginate che tutto questo sia come l’andare e venire delle nuvole nel cielo e voi siete presenti e fermi come il cielo o come un albero in un giorno ventoso. Lasciate che lambisca le vostre estremità mentre rimanete saldi con i vostri piedi, con le vostre gambe. Quando questo passaggio di nuvole si è diradato potete riportare l’attenzione al presente, notando il senso di radicamento. Potete praticare questo esercizio ogni volta che avete bisogno di sentirvi più stabili e centrati.

 

VIDEO 2 – Mindfulness in volo

https://www.youtube.com/watch?v=zJs2EF5M5W8

Una volta raggiunta la quota o dopo un pasto, prendetevi un po’ di tempo per sviluppare un senso di tranquillità e confort per vivere al meglio la vostra esperienza di viaggio.

Prendetevi un momento per sentirvi a vostro agio nella posizione, magari reclinate leggermente lo schienale e allentate le cinture di sicurezza, tutto ciò che può farvi sentire a vostro agio. Trovate stabilità nel corpo e riflettete questa stabilità nella mente. Chiudete gli occhi o fissate lo sguardo e portate lo sguardo e l’attenzione dentro di voi. Prendetevi un momento per notare cosa significa essere seduti, in volo, in questo momento, come si sente il vostro corpo, come si sente la vostra mente. Ci sono alcune cose che possono apportare un senso di rilassatezza. Una di queste è portare l’attenzione nel momento presente, lasciando andare i pensieri e le preoccupazioni per il futuro. Notate se ci sono tensioni in qualche parte del vostro corpo, rilassate ogni muscolo. Quando sentite il corpo rilassato portate l’attenzione al vostro respiro e notate le caratteristiche del vostro respiro. Potete notare le sensazioni dell’inspirazione e dell’espirazioni. Fate alcuni profondi respiri e notatene le caratteristiche. Inspirare apporta un senso di energia e vigore, espirare un senso di rilassatezza e lasciate andare, fate alcuni respiri per fare questo. Mentre prestate attenzione al respiro, spostate l’attenzione dalla vostra idea di respiro all’esperienza che state vivendo, alle sensazioni dell’aria che entra, alla cassa toracica che si espande, alle spalle, ecc. state presenti nel corpo e nel momento presente. Senza cercare di controllare o manipolare il respiro, lasciatelo respirare da sé e siate presenti all’andare e venire del ritmo del respiro. Mentre siete seduti a bordo potete notare tante altre cose, le persone parlare, i passaggi dell’equipaggio, una lieve turbolenza, ecc.

  La pratica di mindfulness consiste nell’essere presenti alla propria esperienza nel momento senza reagire, senza giudicare, senza bisogno di volerla diversa, semplicemente notando queste cose come si presentano e ritornando alla presenza del respiro. Lasciate che sia il vostro rifugio, luogo dove sperimentare un senso di calma e centratura. Potete notare la vostra mente impegnata, pianificante, persa nei pensieri, tornate alla presenza del respiro e alla comodità del vostro corpo sul sedile.

È normale che la vostra mente divaghi più volte nel corso dello stesso esercizio, riportatela al respiro e notate la vostra stabilità tra un’espirazione e l’inspirazione successiva. Possono presentarsi anche emozioni e sensazioni, se succedesse, semplicemente osservatelo, non c’è bisogno di fare nulla e ritornate con l’attenzione al vostro respiro, l’ancora per la vostra attenzione. Una cosa che può interrompere uno stato di benessere e pace è la reattività alle cose. Notate se avete delle reazioni, a cosa succede attorno a voi e cercate una qualità di accettazione di accoglienza rispetto a ciò che sta accadendo, tornando ancora e ancora alla semplicità del momento presente. Prendetevi un momento per notare cosa sentite nel corpo e nella mente e cosa ha prodotto il prestare attenzione al momento presente.

VIDEO 3 – Preparazione all’arrivo

Qualunque sia la vostra destinazione, utilizzate questa pratica per vivere qualsiasi cosa vi aspetti con chiarezza e consapevolezza.

In preparazione all’arrivo, prendetevi un momento per notare cosa sta accadendo dentro di voi. La mindfulness è una forma di autoconsapevolezza che ci informa sul nostro stato e possiamo usare queste informazioni per essere più preparati a ciò che accadrà. Notate come vi sentite alla fine di questo viaggio. La mindfulness informa la nostra esperienza, chiarisce cosa sta succedendo. Notate come sta il vostro corpo. Notate come sta la vostra mente.

Forse avrete una conferenza, prendetevi un momento per notare l’eccitazione o la preoccupazione. Queste informazioni possono essere utilizzate per prepararsi a ciò che accadrà. Prendetevi un momento per riflettere sulle vostre motivazioni, aspettative, obiettivi, preparandovi mentalmente ad essere più presenti e pronti mentre vi avvicinate a quell’esperienza. Alcuni andranno a trovare parenti o torneranno a casa. Prendetevi un momento per riflettere su ciò che troverete o pensando a chi si è preso cura della vostra casa mentre eravate e via e lasciate spazio ad un senso di apprezzamento.

Forse andrete in vacanza e potreste sentirvi eccitati alle varie esperienze che vorrete fare. Prendetevi un momento per vivere questo senso di possibilità, di desiderio. Prendetevi un momento per immaginare i vari passaggi che vi condurranno alla vostra destinazione, la discesa dall’aereo, i controlli di sicurezza, ecc. notate se potete essere presenti con il corpo e con la mente ovunque voi siate con un’attenzione aperta e accogliente. Prendetevi un momento per tornare consapevoli dei vostri pensieri, lasciando le anticipazioni e tornando presenti al vostro respiro, alle vostre emozioni e abbracciando l’esperienza.

Il respiro può aiutarvi a sentirvi radicati in ogni passaggio che dovete affrontare.

 

VEDI ANCHE:  AEROFOBIAMINDFULNESS

BIBLIOGRAFIA

  • Kabat-Zinn, J. (2004). Vivere momento per momento. Sconfiggere lo stress, il dolore, l’ansia e la malattia con la saggezza di corpo e mente. Milano: TEA

Come nasce la terapia metacognitiva: intervista ad Adrian Wells

 

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici.

L’approccio MCT è basato su una teoria introdotta da Adrian Wells e Gerald Matthews (1994) ed è stato applicato inizialmente al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000). In seguito la Terapia Metacognitiva è stata estesa a tutti i disturbi d’ansia e alla depressione con numerose evidenze sull’efficacia del trattamento che propone (per una sintesi vedi Norman, van Emmerik e Molina, 2014).

Nel video il creatore della Terapia Metacognitiva, Prof. Adrian Wells, descrive come gli studi originali sul modello teorico alla base della MCT siano nati con l’intento di colmare l’incoerenza tra scienze cognitive e psicoterapia cognitiva nel descrivere come i meccanismi che compongono l’archittettura cognitiva interagissero nei disturbi psicologici.

https://www.youtube.com/watch?v=qyAqJGBqAVM

CONSIGLIATI: Terapia Metacognitiva MCT

Né lavoratore né pensionato: i problemi psicologici degli esodati

Gli esodati si sono sentiti improvvisamente mancare la terra sotto i piedi, quella terra fatta di una certa stabilità economica e sociale che avrebbe garantito loro una vecchiaia più serena.

Il termine Esodato è stato uno dei termini più utilizzati durante questo periodo di crisi economica. Esodato è colui che ha interrotto il proprio rapporto di lavoro, spesso accettando pacchetti o incentivi economici volti a tutelarlo fino al raggiungimento della pensione. E’ colui che avrebbe dovuto maturare i requisiti per andare in pensione nel 2012, con possibilità di pensionamento a partire dal 2013 dunque, ma che, a seguito della Riforma Fornero e dell’innalzamento dell’età pensionabile, ha visto drasticamente allungarsi l’attesa per raggiungerla. Spesso l’esodato, persona ormai adulta, ha a carico famiglie, figli non ancora autonomi, genitori malati o mutui.

Evidente è dunque il duro colpo economico che gli esodati hanno subito, ma cosa dire dei risvolti psicologici?

 In un periodo di transizione quale il passaggio dal sentirsi lavoratore al sentirsi pensionato, l’individuo rimette nuovamente in gioco se stesso e i suoi progetti, pian piano comincia a prepararsi alla sua nuova identità sociale; organizza mentalmente le attività da fare, con i risparmi di una vita di lavoro, quando sarà finalmente libero dagli impegni professionali, e forse fantastica già su quello sfizio che si sarebbe tolto una volta in pensione.

Gli esodati, invece, si sono sentiti improvvisamente mancare la terra sotto i piedi, quella terra fatta di una certa stabilità economica e sociale che avrebbe garantito loro una vecchiaia più serena. I soldi dunque mancano, le responsabilità familiari si accavallano e non si è più in grado di ridefinirsi socialmente, non si ha più un ruolo. Anche il duro colpo psicologico si fa ora più chiaro.

Nell’ambito del suo lavoro di tesi, il giovane psicologo Lorenzo Aragione, ha studiato gli effetti della riforma Fornero sulla salute psico-fisica degli esodati.

Nell’articolo consigliato, nel quale è riportata un’intervista al Dott. Aragione, si può leggere a fondo come è stata organizzata e come si è svolta la ricerca e gli importanti risultati emersi. Alcuni tra tanti? Gli esodati hanno mostrato una significativa presenza, maggiore rispetto ai coetanei lavoratori, di ansia, insonnia, depressione e malattie cardiovascolari. Sorgono sfiducia, scoraggiamento e la sensazione di essere inutili e impotenti. Per la vergogna, soprattutto gli esodati di sesso maschile, non si confidano fino in fondo né con la famiglia né con i conoscenti, è così dunque che si isolano dagli altri.

Quali azioni si fanno per contrastare gli effetti psicologici di tale crisi? Quale effetto avrà quest’ultima sul Sistema Sanitario Nazionale dato che gli scompensi sul piano sia fisico che psicologico degli esodati richiederanno un elevato livello di assistenza sanitaria?

Per un interessante approfondimento sul tema vi consiglio di proseguire con la lettura dell’intervista.

Le testimonianze raccolte nel corso della ricerca sono emblematiche di migliaia di storie di donne ed uomini, fuoriusciti dal mercato del lavoro, per motivi diversi e nel rispetto delle regole vigenti fino al dicembre 2011, ma che, a seguito dei provvedimenti della riforma Fornero, sono approdati gioco-forza in una «terra di nessuno». Pur nella diversità dei singoli vissuti, le testimonianze raccolte in questo lavoro presentano aspetti comuni e ricorrenti.

Drammatici riscontri di una ricerca scientifica: per gli esodati una vita di ansia, depressione, malattieConsigliato dalla Redazione

Né lavoratore né pensionato: i problemi psicologici degli esodati
di Raffaele Marmo – Nell’ambito del suo lavoro di tesi, il giovane psicologo Lorenzo Aragione, ha studiato gli effetti della riforma Fornero sulla salute psico-fisica degli esodati. (…)

Tratto da: QuotidianoNet

 

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Una “spugna” per coltivare neuroni: l’evoluzione dei neuroni in vitro dal 2D al 3D

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Con una tecnica tanto innovativa quanto semplice un team di ricercatori italiani (SISSA di Trieste, Università degli Studi di Trieste e IIT di Genova) sono riusciti a ottenere una cultura in vitro di neuroni primari (e astrociti) genuinamente tridimensionale.

Il network di neuroni ha mostrato una funzionalità più complessa di quelle bidimensionali. La struttura creata è anche la prima a incorporare nanotubi di carbonio, che favoriscono la formazione di sinapsi fra i neuroni in cultura.

La ricerca è stata pubblicata su Scientific Reports. La conoscenza del cervello (come anche le tecnologie nel campo della neuro-­‐ingegneria) trae grandi benefici dalla possibilità di far crescere network di neuroni vivi e funzionanti. Attualmente le culture neuronali sono essenzialmente bidimensionali (si sviluppano su un piano, immaginate il classico “disco di Petri”) , ma come appare intuitivo la condizione più “naturale” per un neurone e per una rete di neuroni è quella di crescere e vivere in uno spazio tridimensionale.

Finora sono stati fatti dei tentativi di culture 3D che però sono sostanzialmente sovrapposizioni di tanti strati di culture 2D. La struttura creata da un team coordinato da Laura Ballerini della SISSA è la prima genuinamente tridimensionale, con neuroni e astrociti funzionanti (per “diverse settimane”). [blockquote style=”1″]Abbiamo usato uno ‘scheletro’ (in gergo tecnico scaffold) di materiale elastomerico, una sorta di spugna, sul quale abbiamo poi fatto crescere i neuroni.[/blockquote]

Ballerini e il suo team alla SISSA (Rossana Rauti e Denis Scaini) hanno lavorato in stretta collaborazione con il gruppo di Maurizio Prato dell’Università degli Studi di Trieste (in particolare Susanna Bosi, che condivide il primo nome come autrice della ricerca). Ballerini e Prato lavorano insieme da diversi anni proprio nello studio delle interfacce fra neuroni e nano-­‐materiali. Le registrazioni dell’attività dei neuroni – misurata in maniera indiretta attraverso imaging delle variazioni di calcio nel citoplasma di queste cellule, e non registrando direttamente l’attività elettrica con degli elettrodi, cosa complessa per questo tipo di struttura -­‐ hanno mostrato che i neuroni sviluppati sulla spugna 3D sono vivi e funzionanti. Ma non solo, la tecnica utilizzata ha permesso un confronto diretto fra la funzionalità della cultura tridimensionale e di un’analoga bidimensionale, mostrando che la prima è molto più complessa.

[blockquote style=”1″]La nostra tecnica è diversa da altri tentativi fatti finora, che si limitavano essenzialmente a impilare una sopra l’altra tante culture planari[/blockquote] spiega Rauti. [blockquote style=”1″]Questo approccio ‘a strati’ ha lo svantaggio di moltiplicare il numero di neuroni nella cultura, rendendo ambiguo un confronto diretto fra culture 3D e quelle tradizionali, che normalmente hanno un numero più esiguo di cellule. Con la nuova tecnica invece questo confronto si può fare, così abbiamo potuto osservare che la tridimensionalità migliora l’organizzazione funzionale (sinaptica) di piccoli raggruppamenti di neuroni[/blockquote] spiega Scaini.

Più in dettaglio… [blockquote style=”1″]La prova che la maggiore complessità funzionale è proprio conseguenza della struttura tridimensionale è arrivata da una serie di simulazioni al computer e studi teorici effettuati all’IIT di Genova, che hanno riprodotto fedelmente i nostri dati sperimentali[/blockquote] spiega Ballerini. Un altro elemento che rende unica la metodologia usata in questa ricerca è l’uso dei nanotubi di carbonio, materiale sul quale Ballerini e Prato lavorano da anni. [blockquote style=”1″]Abbiamo ricoperto le cavità dello scheletro di elastomero di nanotubi di carbonio che favoriscono la formazione di sinapsi fra neuroni in cultura, aumentando così ulteriormente la funzionalità delle cellule. Il vantaggio della nostra metodologia è l’estrema semplicità. Pensiamo che in futuro la nostra tecnica potrà venire adottata nei laboratori che effettuano questo tipo di culture, diventando magari uno standard[/blockquote] commenta infine Ballerini.

 

MATERIALE UTILE: • Una copia dell’articolo originale (Doi: 10.1038/srep09562) può essere richiesta dai giornalisti scrivendo a: [email protected]

IMAGES: • Copertina: Ricostruzione confocale di culture ippocampali su scheletro 3D (crediti: SISSA)

Altre immagini su Flickr

VIDEO: • Guarda l’animazione su Youtube

Contatti: Ufficio stampa: [email protected]

Tel: (+39) 040 3787644 | (+39) 366-­‐3677586

via Bonomea, 265 34136 Trieste

Maggiori informazioni sulla SISSA: www.sissa.it

 

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Cassazione: approvato il cambio di sesso all’anagrafe anche senza intervento chirurgico

Un passo in più per il rispetto dei diritti delle persone Trans: in data 20/07/2015 è stata deposta la Sentenza della Cassazione n° 15138/15 che consente il cambio di sesso all’anagrafe, anche senza intervento chirurgico.

 

Perché Fernanda è come una figlia e come una figlia vuol far l’amore, ma Fernandino resiste e vomita e si contorce dal dolore

F. De André

 

Non basta svegliarsi ogni mattina in un corpo che senti non ti appartenga; non basta lottare contro chi, per diversi motivi, si ferma alla superficie delle cose e se anche riesce a percepire un minimo di ciò che hai dentro, lo sfrutta non per vedere oltre, dentro di te, ma per etichettarti e intrappolarti in quella superficie di cui, forse, egli stesso è schiavo. Non basta camminare per la strada e, oltre a palazzi e alberi, avere la compagnia di sguardi indiscreti e battutine ormai sentite tante altre volte.

Questo non basta a chi vive nella condizione di non sentirsi a proprio agio con la sessualità che il corpo gli impone. Spesso bisogna fare i conti con la burocrazia e con la legge, anche quando, nonostante tutte le difficoltà, si è riusciti a raggiungere finalmente, seppur nel corpo ‘estraneo’, un equilibrio psico-fisico.

Di pochi giorni fa, tuttavia, la notizia: la Corte di Cassazione si è pronunciata favorevole al cambio di sesso all’anagrafe, anche senza intervento.

 Protagonista della vicenda è una persona trans di 45 anni che, più di 15 anni fa ha ottenuto l’autorizzazione all’intervento chirurgico di cambio sesso. Il protagonista vi ha però rinunciato poiché, vivendo come donna e sentendosi socialmente riconosciuta in quanto tale, ha raggiunto negli anni un equilibrio psichico e fisico. Tuttavia la legge aveva fino a questo momento respinto la richiesta di modificazione degli atti anagrafici senza previa esecuzione del trattamento chirurgico di cambio sesso.

In data 20/07/2015 è stata però deposta la Sentenza della Cassazione n° 15138/15 che, come sopra anticipato, consente il cambio sesso anagrafico senza l’ intervento chirurgico, prima invece necessario, definendo le precedenti decisioni giuridiche «restrittive dei diritti fondamentali della persona, quali l’identità personale, l’autodeterminazione, l’integrità psicofisica e il benessere psicosociale; è smentita da quanto normalmente avviene … per le persone per le quali è impossibile ricorrere all’intervento chirurgico». La Corte dunque afferma che il giudice di merito ha sbagliato nel ritenere che la mancanza del trattamento chirurgico fosse una sufficiente ragione per ritenere irreversibile il cambiamento dei dati anagrafici.

Si spera, adesso, che tale sentenza sia un primo passo per accogliere e rispettare i diritti delle persone trans, partendo dalla semplificazione burocratica, così come accade in molti altri Paesi.

E’ stata deposita ieri la sentenza n° 15138/15 della prima sezione della Corte di Cassazione in cui si accoglie il ricorso dell’associazione Rete Lenford sul caso di un uomo che voleva diventare donna e aveva richiesto, in un primo momento, l’autorizzazione al trattamento medico chirurgico per la modifica dei caratteri sessuali, allo scopo di ottenere la rettifica dei dati anagrafici. La Cassazione ha deciso che per ottenere la rettificazione degli atti anagrafici non è obbligatorio l’intervento di adeguamento degli organi riproduttivi.

Cassazione: si al cambio di sesso all’anagrafe anche senza interventoConsigliato dalla Redazione

Cassazione: approvato il cambio di sesso all’anagrafe anche senza intervento chirurgico - Immagine: 83204962

L’€™interpretazione restrittiva del giudice che impone l’€™intervento rischia di comprimere diritti fondamentali quali l‒autodeterminazione, l’€™integrità psicofisica e il benessere psicosociale. (…)

 

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Correndo con le forbici in mano – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 03

RUBRICA I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM – Correndo con le forbici in mano (Nr. 03)

REGIA: Ryan Murphy
ANNO DI USCITA: 2006
TEMI PSICOLOGICI TRATTATI: relazioni familiari complesse, psicanalisi, disturbi affettivi

TRAMA:
Il film “Correndo con le forbici in mano” di Ryan Murphy è uscito nelle sale cinematografiche nel 2006 ed è tratto dall’omonimo libro di Augusten Burroughs, nel quale l’autore racconta le esilaranti quanto tragiche esperienze della sua infanzia. Il protagonista, Augusten, vive i primi anni della sua giovinezza ai margini della vita familiare, con un padre alcolista e una madre bipolare con tratti istrionici di personalità. Augusten si barcamena assecondando le vane ispirazioni artistiche della madre e cercando di attenuare le frustrazioni del padre, fino alla decisione del divorzio. La madre, consapevole di non essere in grado di badare alle cure del figlio, sceglie di darlo in affidamento al suo storico ed eccentrico psicanalista.

Da questo momento in poi il film è un susseguirsi di situazioni tragiche e insieme esilaranti al limite della realtà. Il dottor Finch, psicanalista eclettico con poteri da alchimista, vive con la sua famiglia allargata in una vecchia casa d’epoca, colma di caos e disturbi psicopatologici. Ha tre figli, due femmine e un maschio, quest’ultimo francamente psicotico ma che il dottore si ostina a curare come un complesso edipico irrisolto.
Sebbene la parte comica sia divertente e surreale, è un film che lascia un retrogusto di tristezza, laddove l’animo esuberante del padre trascura i bisogni affettivi dei figli e della moglie, gravemente depressa quanto ignorata da tutta la famiglia, che passa le giornate davanti alla tv mangiando croccantini per cani. Ma sarà proprio grazie a lei che Augusten troverà il coraggio di costruirsi un’esistenza alternativa, lontana dalle complesse dinamiche familiari.

Un film tragicomico raccontato con humour nero, che estremizza in modo provocatorio gli stereotipi del mondo psicanalitico. Il regista riesce con raffinata abilità a prendersi gioco dei trattamenti psicologici “naif”, che dimenticano i principi deontologici e ottengono come effetto l’esasperazione del sintomo.

TRAILER:

 

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Mi chiamo Chuck, ho diciassette anni e, stando a Wikipedia, soffro di disturbo ossessivo compulsivo di Aaron Karo – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 02

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L’alfabeto elettrico del cervello: temporarizzazione e frequenza sono alla base dell’informazione nervosa

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati  

L’alfabeto del cervello è un mix di frequenza ed esatta scansione temporale degli impulsi elettrici: l’osservazione è stata fatta dai ricercatori della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) a Rovereto ed è stata pubblicata sulla rivista internazionale Current Biology.

Il lavoro mostra che nel sistema nervoso esiste un linguaggio “multicanale” che costituisce il “codice nervoso”, e cioè l’alfabeto che codifica l’informazione nel cervello. Il segnale nervoso è costituito da sequenze di impulsi elettrici che viaggiano sui canali di comunicazione, i circuiti neuronali.

Con quale alfabeto queste sequenze trasmettono informazione? In altre parole, in cosa consiste il linguaggio del cervello? Secondo un nuovo studio pubblicato su Current Biology, l’informazione è contenuta sia nella frequenza degli impulsi sia nella loro esatta distribuzione temporale, chiamata temporizzazione dagli scienziati. Per distinguere un messaggio da un altro, la frequenza degli impulsi (potenziali elettrici) varia in un arco temporale piuttosto lungo, di decine di millisecondi.

Questa “codifica a frequenza” è nota da molti anni. La novità di questo studio sta nella dimostrazione di un’altra codifica “a temporizzazione” sulla scala di pochi millisecondi. Al contrario di quanto si credeva finora, la ricerca dimostra, inoltre, che la temporizzazione può avere un’importanza anche superiore alla frequenza, ed entrambe si integrano a formare un messaggio più ricco di informazione. Lo studio è stato coordinato da Mathew Diamond, professore della SISSA a Trieste, e da Stefano Panzeri, ricercatore team leader del Centro di Neuroscienze e Sistemi Cognitivi dell’IIT a Rovereto.

[blockquote style=”1″] L’esistenza di due sistemi di codifica, basati su frequenza e temporizzazione, crea canali multipli sulla stessa linea di trasmissione[/blockquote] spiega Diamond. [blockquote style=”1″]Se prendiamo per esempio la sensazione tattile, il cervello utilizza questi canali multipli per comunicare aspetti dello stimolo -­‐ intensità del tocco, grana della superficie, forma dell’oggetto e via dicendo -­‐ che non potrebbero essere comunicati con un singolo mezzo di informazione[/blockquote] specifica Panzeri. [blockquote style=”1″]Abbiamo dimostrato che, al contrario di quanto si sosteneva finora, l’esatta sequenza temporale con cui vengono prodotti gli impulsi elettrici codifica informazione che è molto importante e integra e supera, nel caso dei nostri esperimenti, quella veicolata dalla frequenza[/blockquote] spiega Diamond. [blockquote style=”1″]La temporizzazione degli impulsi offre per esempio un’informazione molto più ricca poiché il numero possibile di messaggi è più vasto di quello offerto dalla sola frequenza. Grazie a questa scoperta sappiamo meglio come imitare il linguaggio del cervello, e quindi riprodurlo. Possiamo, infatti, pensare di sviluppare protesi robotiche, come arti per amputati, in grado di comunicare con il cervello in modo bidirezionale e complesso, così da permettere non solo un ripristino delle capacità motorie, ma anche dei sensi, come per esempio il tatto[/blockquote] conclude Panzeri.

Più nel dettaglio… Negli esperimenti condotti durante questa ricerca dei ratti ispezionavano con le vibrisse una superficie di rugosità variabile. La discriminazione della texture della superficie generava un’attività nervosa della corteccia cerebrale, che i ricercatori hanno registrato e analizzato. Lo studio ha mostrato non solo che l’informazione veicolata dalla temporizzazione era maggiore di quella veicolata dalla frequenza da sola, ma anche che la combinazione dei due canali era più accurata dei due codici presi separatamente.

[blockquote style=”1″]Abbiamo scoperto che il cervello codifica parte dell’informazione a scale di tempo molto veloci, in particolare in sequenze di impulsi emessi con precisione al di sotto di 5 millisecondi [/blockquote]conclude Panzeri. [blockquote style=”1″]Un’altra parte di informazione invece è codificata su scale di tempo più lente, gli impulsi trasmettono un messaggio in tempi di diverse decine di millisecondi. Il messaggio è uno solo, naturalmente, solo che viene letto con due ‘grane’ diverse, un po’ come se il cervello guardasse prima a occhi nudi e poi attraverso una lente d’ingrandimento. I nostri dati dicono che l’informazione sulla struttura temporale dettagliata degli impulsi non deve essere sottovalutata, e che il sistema nervoso riesce a comunicare aprendo diversi canali in un unico segnale. È probabilmente questo uno dei segreti alla base della ricchezza delle nostre percezioni[/blockquote] commenta Diamond.

 

IMMAGINI: • Crediti: Allan Ajifo

LINK UTILI: • Paper Originale su Current Biology

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