expand_lessAPRI WIDGET

Danza e benessere psicologico: quale relazione?

Marika Ferri

 

Ballare non è solo attività fisica. Non è solo espressione artistica o un sistema di comunicazione fondato sull’uso del linguaggio non verbale. La danza rappresenta un raffinato strumento di benessere psicologico che include elementi diversi e interviene su vari livelli contemporaneamente – una componente individuale, relazionale, sociale-.

[blockquote style=”1″]Se fossi in grado di dire a parole ciò che rappresento con la danza non avrei mai danzato. [/blockquote](Isadora Duncan)

Generalmente, quando ci dedichiamo ad attività piacevoli durante il nostro tempo libero (lettura, cinema, arte, uscite con amici, sport, ecc.) diventiamo consapevoli di quanto esse possano influire positivamente sul nostro vissuto psicologico: siamo meno stressati, riusciamo a distogliere l’attenzione da pensieri negativi e nel complesso siamo più felici. Tra le tante attività da poter praticare, la danza rappresenta sicuramente un’attività psicofisica che ha maggiori potenzialità rigeneratrici al fine di promuovere salute, benessere e consapevolezza di sé (Bellia V., 2007). Perché? La danza può essere definita come un modo di espressione transitoria, eseguita in una certa forma e stile dal corpo umano che si muove nello spazio. Si presenta attraverso movimenti ritmici appositamente selezionati e controllati. Il fenomeno che ne risulta è riconosciuto come danza sia da coloro che la eseguono sia dagli osservatori stessi di un gruppo (Kealiinohomoku J., 1965).

La danza è prima di tutto un’esperienza multisensoriale e la musica fornisce input diversi dal materiale verbale/scritto. Il ritmo della danza è solitamente controllato da stimoli uditivi, visivi e tattili che il più delle volte vengono combinati. Lindauer (Cipolletta, 2004) descrive il linguaggio della danza attraverso uno studio effettuato sulle api. Egli osserva, infatti, che queste, si trasmettono a vicenda le informazioni per mezzo di figure accuratamente descritte o “danze”, dimostrando che le api prendano la decisione di sciamare verso un determinato posto e stabilirsi proprio attraverso un processo-dibattito svolto sotto forma di notizie danzate, finché non viene raggiunta l’unanimità. La danza è un’attività psicofisica che rappresenta un raffinato strumento di benessere psicologico in quanto agisce contemporaneamente su diverse componenti: individuale, relazionale, sociale (Bonaviri, 1984).

La componente individuale è a sua volta costituita da più livelli (fisico, neurologico e processi cognitivi, psicologico) che prenderò in considerazione di seguito:

– Livello fisico. Ballare si traduce nel fare movimento e quindi tutto ciò di salutare che questo comporta. Praticandolo ci si sente meglio nel proprio corpo, perché lo si sente meglio: aumenta la consapevolezza delle varie parti di sé, che altrimenti restano dimenticate e “addormentate” (Krampe J., 2013); viene stimolata una sensorialità maggiore ovvero la possibilità di trarre piacere dal movimento (Brown S.,Martinez J.M.,Parsons L.M.,2006); migliora la coordinazione, la tonicità muscolare e la postura; viene potenziato il funzionamento dell’apparato cardiovascolare e polmonare; migliora l’integrazione tra mente e corpo (Aprato C., 1991).

– Livello neurologico e processi cognitivi. Diversi studi ( Verghese J., Lipton R.B., Mindy J. K., Hall C.B., Derby C.A., Kuslansky G., Ambrose A.F., Sliwinski M. Buschke H., 2003; Krampe, J., Rantz, M. J., Dowell, L., Schamp, R., Skubic, M., & Abbott, C., 2010) evidenziano che ballare determina un incremento delle capacità cognitive nel complesso: l’apprendimento delle sequenze dei passi favorirebbe lo sviluppo delle capacità di memoria, attenzione e concentrazione. Inoltre la pratica della danza favorirebbe la protezione del cervello da demenza e da malattie degenerative del sistema nervoso. In particolar modo il tango argentino, per le sue caratteristiche (differenti velocità di esecuzione, i continui arresti ed accelerazioni, i bruschi cambiamenti di direzione, deambulazioni in arretramento, giravolte e stop improvvisi) rappresenta un efficace supporto terapeutico per il recupero di automatismi motori perduti in casi di malattie motorie (controllo dell’equilibrio statico, dinamico , la risposta cinetica e la consapevolezza nello stare “nel qui ed ora”). In uno studio (Gammon M.E., M. E. Hackney, 2009) di un gruppo di ricercatori della Washington University di Saint Louis è stato reclutato un campione di venti soggetti con morbo di Parkinson: metà del campione ha frequentato venti ore di lezioni di tangoterapia e l’altra metà ha usufruito di venti ore di lezioni di ginnastica. Al termine delle lezioni il gruppo di soggetti che si è dedicato al tango ha manifestato una maggiore reattività nei movimenti e un migliore equilibrio rispetto al gruppo che ha praticato ginnastica, con evidente diminuzione di sintomi legati a tremore e rigidità.

– Livello psicologico. Tramite il ballo è possibile coniugare i processi mentali con l’azione motoria. Il ballo diviene il mezzo attraverso cui comunicare, esprimere, rappresentare emozioni e sensazioni attraverso il corpo (Macaluso, Zerbeloni, 1999; Bellia 2001). Da questo punto di vista la danza si delinea come una forma di azione, in termini costruttivisti come processo conoscitivo, dettato da una continua costruzione e ri-costruzione di significato che parte dall’interno per essere poi esternalizzato. Come afferma Alexander Lowen (Lowen A., 2003), padre della bioenergetica, nelle posture e nell’atteggiamento che assume in ogni suo gesto, il corpo parla un linguaggio che anticipa e trascende l’espressione verbale. All’interno di questa concezione, l’uomo viene visto come espressione dell’individuo nella sua unità (al contrario di una separazione mente-corpo).  Dunque la danza è in grado di coinvolgere pensieri, emozioni e comportamenti. In maniera ancor più globale va a influire sugli schemi di pensiero e sulla strutturazione di personalità (Cipolletta, 2004). Infatti la danza può rappresentare un vero e proprio percorso di crescita personale e di realizzazione di sé, i cui principali strumenti sono il corpo, il movimento, l’espressione creativa, la relazione. Basti pensare al ruolo determinante giocato dalla valorizzazione degli aspetti di femminilità/mascolinità che si esprime nei balli di coppia, con conseguente definizione del ruolo sessuale nella rappresentazione di sé. Ballare incrementa la nostra autostima (Polettini, 2012): attraverso il movimento possiamo esprimere ed incontrare altri aspetti di noi, accoglierli e integrarli, esercitando in questo modo un atteggiamento di accettazione e amore per noi stessi.

La danza aiuta a combattere lo stress e a diminuire l’ansia: siamo tutti molto abituati ad usare le parole e quindi anche ad esercitare un controllo mentale su quello che diciamo. Attraverso il movimento diamo la possibilità ad altre parti di noi di esprimersi. I gesti ripetitivi della danza e la concentrazione necessaria per eseguirli possono aiutare una mente riempita dallo stress giornaliero a “lasciarsi andare” per un momento e rilassarsi: è difficile preoccuparsi di scadenze sul lavoro mentre stiamo pensando a fare il movimento giusto, o mentre cerchiamo di concentrarci per essere sul tempo della musica. Inoltre, quando balliamo, il nostro cervello produce endorfine, le sostanze che danno benessere ed euforia (Duman, C.H.; Schlesinger L.; Russell D.S. , 2008). Sperimentiamo puro divertimento. La danza, infine, attraverso un allenamento mentale costante, aiuta ad esercitare un maggiore controllo delle emozioni e ad accrescere il grado di controllo percepito sugli eventi (Bellia V., 2007).

– Componente relazionale e sociale . Danzare da soli chiusi in una stanza non è come farlo insieme agli altri. Nel ballo si dà molta importanza alla relazione in quanto occasione di scambio e confronto reciproco. In tal modo vengono potenziate le abilità sociali (Boass F., 1981).

In conclusione, ballare fa bene, perché la danza si rivolge primariamente alla parte ancora sana della natura umana, presente in ogni essere, come manifestazione dell’essere vivi, come trasformazione. Ci permette di sentire il nostro corpo, di “essere” .

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Una buona salute fisica: il ruolo della connessione con l’altro attraverso la biologia del nostro corpo

 

BIBLIOGRAFIA:

L’empatia in pazienti con tratti borderline: i correlati neurali

Vanessa Schmiedt

 

Il disturbo borderline di personalità è una condizione caratterizzata da pattern a lungo termine di instabilità emotiva, interpersonale e comportamentale. Gli individui che presentano questo disturbo spesso manifestano serie difficoltà nelle relazioni interpersonali, il che potrebbe essere dovuto, in parte, a difficoltà della sfera empatica o dei processi della teoria della mente.

L’empatia coinvolge le abilità di riconoscimento degli stati emotivi degli altri, di sentirsi come si sente l’altro e di mettersi nella prospettiva altrui. Pazienti con disturbo borderline manifestano anomalie nei comportamenti empatici. Una nuova ricerca dell’Università della Georgia indica che questo potrebbe collegarsi ad una scarsa attività cerebrale in regioni importanti per l’empatia nei pazienti con questo disturbo.

In linea con un crescente interesse per la concettualizzazione e la valutazione dei differenti tratti di personalità che caratterizzano i pazienti con disturbo borderline, Mullins-Sweatt e colleghi (2012) hanno sviluppato il Five-Factor Inventory Borderline (FFBI) basato sul modello dei cinque fattori della personalità (FFM) e progettato per misurare la presenza di diversi tratti nei pazienti borderline.
Per lo studio, i ricercatori hanno reclutato più di 80 partecipanti, hanno chiesto loro di svolgere il questionario e successivamente hanno utilizzato la risonanza magnetica per misurare l’attività cerebrale in ciascuno dei partecipanti. Durante la fMRI, i partecipanti sono stati invitati a svolgere un compito che richiede di cogliere la prospettiva emotiva altrui, specificatamente progettato per dissociare le forme cognitive e quelle affettive dell’empatia.

Infatti da un punto di vista cognitivo l’empatia si basa sulla possibilità di comprendere “il punto di vista” altrui e quindi spiegarsi razionalmente l’altrui esperienza emotiva; da un punto di vista affettivo l’empatia permette di sperimentare in prima persona il vissuto emotivo dell’altro. Il coinvolgimento di entrambi i sistemi (cognitivo ed affettivo) permette in definitiva di condividere l’esperienza interiore dell’altro, pur rimanendo consapevoli della distinzione tra le esperienze proprie e quelle degli altri.

Recenti ricerche (Guttman and Laporte, 2000; Lynch et al., 2006) hanno dimostrato una minore empatia cognitiva e maggiore empatia affettiva nei pazienti BDP rispetto ai controlli, e ciò si rileva in continuità con i risultati di Haas e Miller. Infatti durante il compito empatia cognitiva, i partecipanti con tratti borderline esibivano una ridotta attivazione del solco temporale superiore (STS) e del giro temporale superiore (TPJ) rispetto ai controlli sani, mentre durante il compito di empatia affettiva, i pazienti risultavano avere una maggiore attività dell’insula rispetto ai controlli.

Haas ha dunque trovato un legame tra i partecipanti con tratti di personalità borderline e un minore uso di attività neurale in due regioni cerebrali, la giunzione temporo-parietale e il solco temporale superiore, che risultano essere di fondamentale importanza durante i processi di tipo empatico.
La ricerca fornisce nuovi indizi per studiare il disturbo borderline e soprattutto il modo in cui elaborano le emozioni.

[blockquote style=”1″]Il disturbo di personalità borderline è considerato uno dei disturbi di personalità più gravi e preoccupanti; questo disturbo può rendere difficile avere amicizie di successo e relazioni romantiche. Questi risultati potrebbero contribuire a spiegare perché[/blockquote] riferisce Miller.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Allenare l’empatia con il neuroimaging funzionale – Neuroscienze

BIBLIOGRAFIA:

Franco Servadei alla presidenza della Federazione Mondiale delle Società di Neurochirurgia

 

 

ROMA – È Franco Servadei (nella foto) il nuovo presidente della Federazione Mondiale delle Società di Neurochirurgia (WFNS). È la prima volta che un italiano assume questa carica prestigiosa. WFNS rappresenta oltre 30.000 neurochirurghi in tutto il mondo e 127 società scientifiche articolate in cinque associazioni continentali.

Franco Servadei è direttore della struttura complessa Neurochirurgia-Neurotraumatologia (Dipartimento Emergenza-Urgenza e Area medica generale e Specialistica) dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma. Nato a Forlì nel 1951, si laurea in Medicina e chirurgia con lode nel 1976 presso l’Università di Bologna, dove consegue nel 1980 la specializzazione in Neurologia. Nel 1985 si specializza, con lode, in Neurochirurgia a Modena.

Un italiano alla presidenza della Federazione Mondiale delle Società di Neurochirurgia | BRAINFACTORConsigliato dalla Redazione

Franco Servadei - Neuroscienze - 1
ROMA – È Franco Servadei (nella foto) il nuovo presidente della Federazione Mondiale delle Società di Neurochirurgia (WFNS). (…)

Tratto da: Brain Factor

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


ARTICOLI SULLE NEUROSCIENZE
La forza di uno sguardo: le neuroscienze del legame tra esseri umani e cani
I cani e gli esseri umani possono rafforzare il loro legame attraverso la sincronizzazione neurale, attivata dal contatto visivo e dal tocco
L’afantasia: quando la mente non vede immagini
Come funziona la mente di chi non visualizza le immagini mentali? Esploriamo insieme il fenomeno dell’afantasia
Emozioni miste: il risultato di rapide fluttuazioni emotive o una coesistenza?
Un gruppo di neuroscienziati ha condotto uno studio con l’obiettivo di scoprire come le emozioni miste vengono rappresentate nel cervello
Digitalizzazione e cervelli iper-responsivi: il fenomeno del popcorn brain
ll fenomeno del Popcorn Brain descrive l'effetto che l’esposizione ripetuta e multipla alla tecnologia può giocare sul nostro cervello
Neuroplasticità e benessere emotivo: riprogrammare la mente e migliorare l’umore attraverso affermazioni e movimento
Numerosi studi evidenziano come lo yoga e le autoaffermazioni possano apportare benefici stimolando la neuroplasticità e favorendo il benessere
Dove si trova il Sé nel cervello? Per le neuroscienze potrebbe essere un’illusione
Nel corso dell’ultimo secolo, numerosi studi hanno cercato di comprendere i processi psicologici e neuropsicologici alla base del sé
Le aree cerebrali che sostengono la fallacia dei costi irrecuperabili
Spesso le persone non sono disposte a rinunciare a un obiettivo anche quando esso si rivela fallimentare, cadendo nella sunk cost fallacy
Lo sviluppo delle potenzialità del cervello tra mielinizzazione e potatura sinaptica
La mielinizzazione e la potatura sinaptica sono due dei processi più importanti nello sviluppo cerebrale durante l’infanzia e l'adolescenza
Conferme dalle neuroscienze: i ricordi traumatici vengono processati come esperienza presente
Uno studio rivela che i ricordi traumatici sono elaborati come esperienza presente e non come ricordi, offrendo nuove informazioni per il trattamento del PTSD
La depressione e il deficit serotoninergico
Spesso si associa la depressione a una carenza di serotonina nel cervello; tuttavia, l’ipotesi viene messa in discussione dai ricercatori.
PNEI: un giovane paradigma scientifico per risolvere una secolare questione filosofica
La PNEI è un modello scientifico emergente che concepisce l’essere umano nella sua totalità, rifiutando qualsiasi tipo di compartimentazione riduzionistica
Cosa fa il nostro cervello quando non stiamo facendo niente?
Quali sono le aree cerebrali che si attivano quando ci rilassiamo o quando sogniamo ad occhi aperti? Scopriamo il Default Mode Network
Viaggio al centro del cervello (2023) di Fabrizio Benedetti e Luca Morici – Recensione
Nel libro-fumetto “Viaggio al centro del cervello”, il Dr Ben, il narratore principale, descrive interessanti casi clinici di pazienti neurologici
Come il cervello elabora l’ascolto di una canzone
Elaborare una canzone può sembrare un processo elementare, ma per il nostro cervello si rivela essere un'operazione altamente complessa
Cambiamenti cerebrali durante il ciclo mestruale
Approfondiamo i cambiamenti ormonali durante il ciclo mestruale e i cambiamenti cerebrali dovuti agli ormoni durante le varie fasi del ciclo
Neuroplasticità e interventi psicologici nell’ottica di trattamenti sinergici
Integrare terapie che promuovono l’aumento della neuroplasticità e interventi cognitivo comportamentali può mantenere più a lungo gli effetti positivi
Comandare lo smartphone con il pensiero – Neuralink di Elon Musk, tra (fanta)scienza e marketing
Elon Musk annuncia l’installazione del primo chip nel cervello di un essere umano ed è subito Black Mirror.
Sindrome di Korsakoff
La Sindrome di Korsakoff deriva da una grave carenza di vitamina B1 e da un consumo eccessivo e prolungato di alcool
La corea Huntington: un quadro generale
La corea di Huntington è una malattia neurodegenerativa ereditaria che porta al progressivo deterioramento delle capacità fisiche e mentali
Scienze Cognitive e Cognitivismo
Un approfondimento sulle Scienze Cognitive e sul Cognitivismo alla scoperta dei legami tra queste due campi
Carica altro

Gioco d’azzardo tra cognizioni, emozioni e pseudo strategie: una sfida alla razionalità

Per molti giocatori patologici, il gioco potrebbe essere una strategia di coping disfunzionale per fronteggiare stati emotivi negativi, o all’opposto, una modalità per ricercare stati emotivi desiderati.

[blockquote style=”1″]…io ripresi a puntare, a casaccio e senza fare i calcoli. Non capisco che cosa mi abbia salvato! A volte, però, cominciava ad affiorare nel mio cervello un calcolo. Mi sentivo legato a certe cifre e a certe combinazioni, ma ben presto le abbandonavo e riprendevo a puntare quasi inconsapevolmente. Dovevo essere molto distratto tanto che i croupiers parecchie volte dovettero correggere il mio gioco. Facevo degli sbagli grossolani. Avevo le tempie madide di sudore e le mani che tremavano.[/blockquote]
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Il giocatore

L’idea che la razionalità possa aiutare l’uomo a risolvere i propri problemi è antica almeno quanto la civiltà greca: è con la geometria euclidea che si formalizza la “ragione” come modalità attraverso cui risolvere problemi, partendo da premesse e inferendo delle conclusioni. Con il trascorrere dei secoli, grandi scienzati e pensatori si sono occupati a lungo di definire le modalità più adatte per affrontare i grandi temi dell’umanità, impiegando strategie “razionali” basate per lo più sull’aderenza al metodo scientifico, arrivando a riconoscerlo come la modalità elettiva per qualunque processo decisionale. Anche la psicologia non si è sottratta a queste ambizioni: chi l’ha studiata sui manuali, sicuramente ricorda eminenti psicologi teorizzare l’uomo come un “piccolo scienziato”, o un “elaboratore di informazioni”, tanto per fare un esempio… Di converso, la sofferenza psicologica doveva necessariamente avere a che fare con l’irrazionalità o con errori, talvolta clamorosi, di ragionamento, la cui cura doveva per forza passare con la correzione di questi errori.

Il guaio è che l’essere umano, apparentemente, tanto razionale non è! Sapendo che scateniamo code in autostrada generate dalla curiosità, che preferiamo curare malattie, anche gravi, consultando l’omeopata piuttosto che il medico, la sistematicità con cui ci affidiamo a politici imbecilli che si definiscono machiavellici, la tentazione è di definire l’homo sapiens (o almeno l’homo italicus) come irrimediabilmente cretino (per una rassegna completa, leggi Fruttero & Lucentini, 1985).

Fortunatamente, teorizzazioni psicologiche più recenti ci vengono in aiuto, portando a concettualizzazioni più elastiche delle modalità con cui gli uomini risolvono problemi e interpretano la realtà. Tra queste, (Kahneman et al, 1982; Kahneman & Tversky, 1979), affermano che il ragionamento umano non segue tanto le regole della matematica e della probabilità, bensì fa ampio impiego di euristiche, scorciatoie di pensiero e modalità rapide e intuitive che esulano dal ragionamento logico. Ciò che può rendere questi stili di pensiero disfunzionali non è quindi la loro presenza, ma la loro rigidità e inflessibilità, specialmente se ci conduce ad interpretare gli eventi e noi stessi in chiave poco lusinghiera.

Mi scuso con il lettore per quest’ampia, seppur parziale introduzione, sperando di non averlo annoiato, tuttavia era necessaria per poter parlare di un tema che mi sta a cuore, e che viene spesso collocato nella macro-categoria dei comportamenti “cretini”: il gioco d’azzardo.
Ad oggi, numerose ricerche hanno evidenziato che nel giocare d’azzardo, le decisioni razionali vengono spesso accantonate, anche quando a giocare non sono soggetti con problematiche di dipendenza da gioco.

Generalmente, l’impiego di strategie disfunzionali da parte dei giocatori viene interpretato come esito di distorsioni cognitive, e costituiscono un punto focale nel trattamento del gioco d’azzardo patologico. Queste modalità di ragionamento, come ad esempio la nota euristica della rappresentatività (Tversky & Kahneman, 1973, 1974) conducono a generare credenze e azioni che finiscono con il rinforzare un comportamento di gioco problematico, ostacolandone il controllo. Rispetto al gioco d’azzardo sono state descritte diverse forme di distorsioni cognitive; nel tentativo di fare chiarezza, uno studio recente (Ejova et al., 2015) ne propone una classificazione più semplice e più puntuale.

Gli autori hanno realizzato un questionario di 100 item basato su strumenti esistenti, riguardanti credenze e modalità di ragionamento distorte, e lo hanno somministrato a 329 partecipanti. L’analisi fattoriale ha rilevato che le credenze sul gioco fanno capo a due tipologie, definibili come:
– Illusione di controllo primaria: si tenta di influenzare l’esito del gioco mediante modalità di ragionamento attivo e comportamenti pseudo-strategici;
– Illusione di controllo secondaria: si cerca di influenzare l’esito del gioco adottando mediante condotte superstiziose, appellandosi a forze al di fuori dal proprio controllo quali la fortuna o la religione.

Del primo gruppo fanno parte diverse credenze da tempo descritte (Fortune and Goodie 2012; Griffiths 1994; Toneatto 1999; Toneatto et al. 1997), che troverebbero nella Fallacia del giocatore il minimo comune denominatore, ovvero, nella credenza per cui eventi avvenuti in passato possano influenzare gli esiti di attività dettate dal caso, come per l’appunto il gioco d’azzardo. Questa credenza si traduce in azioni di gioco: un esempio tipico è quello di una partita a “Testa o croce”, in cui per 5 volte la moneta si è appoggiata sul lato della testa. Una persona che utilizza questo stile di ragionamento tenderà a scommettere su croce, convinto che a questo punto, l’esito del gioco debba per forza variare. Un altro esempio è la scommessa sui cosiddetti “numeri ritardatari” del Lotto, la cui probabilità di uscita non dipende assolutamente dal fatto che non amino la puntualità.

Ci sono altri modi in cui questo stile di pensiero conduce a comportamenti disfunzionali, ad esempio favorendo la persistenza nel gioco a dispetto dei risultati, che è stato descritto come chasing (Lesieur, 1977), ovvero la cosiddetta “rincorsa delle perdite”. Il giocatore continua tenacemente a scommettere nonostante abbia già subito intense perdite, nella speranza di arrivare alla vincita riparatoria. Tra il chasing e la fallacia del giocatore non sembrerebbero esserci differenze logiche di fondo, ma il primo rappresenta una modalità di pensiero più rigida e prettamente disfunzionale, tipica di chi ha sviluppato problemi nel controllare il proprio gioco.

Tra le illusioni di controllo secondarie gli autori inseriscono tutte le credenze riguardanti il ruolo della fortuna e di agenti soprannaturali, aventi caratteristiche di onniscienza e di onnipotenza. Ad esempio è tipico invocare il ruolo della fortuna, o di forze divine, quando si è scampati da un evento negativo (es. un incidente), fino a sviluppare la credenza nella fortuna come qualità personale (Wohl and Enzle 2009).
I giocatori adottano spesso comportamenti superstiziosi: giocano il numero fortunato, consultano il libro dei sogni, soffiano sui dadi e non esitano a consultare maghi e cartomanti nella speranza di avere una chance in più.

Può esserci infine in una disposizione più generale a credere che la fortuna abbia per sua natura caratteristiche di ciclicità. Quest’ultima credenza svolge un ruolo di “ponte” tra le due categorie di illusione di controllo: da una parte c’è la credenza nella fortuna come agente sovrannaturale in grado di cambiare ciclicamente le sue intenzioni, dall’ altra vi è la credenza che una serie di eventi negativi possa terminare nel breve termine, portando a pianificare la scommessa.

E’ evidente che l’individuazione di queste credenze rappresenta uno dei target principali nelle prime fasi del trattamento del gioco d’azzardo patologico, in cui il gioco potrebbe non essere stato ancora interrotto, o lo è solo da poco tempo, e queste credenze risultano particolarmente attive (Fortune & Goodie, 2012). È necessario individuare quali e quante di queste credenze fanno parte del bagaglio psicologico del giocatore, ed invitarlo ad analizzarle da una prospettiva più distaccata, appellandosi inevitabilmente alla logica e all’analisi delle conseguenze.

Abbiamo descritto l’impatto dei processi di pensiero sul giocare d’azzardo, e di come questo sia pervaso da una predisposizione generale all’irrazionalità, che non risparmia anche i giocatori più “prudenti”. Siamo tutti un po’ irrazionali di fronte al gioco, così come nella vita ci lasciamo guidare più dall’intuito che dal ragionamento, perlomeno quando non sviluppiamo credenze ossessive.

A complicare le cose, i processi decisionali nel gioco potrebbero essere fortemente condizionati dallo stato emotivo, e quest’ultimo potrebbe a sua volta essere influenzato dagli esiti del gioco. Inoltre, la capacità di prevedere quanto le emozioni possano influenzare le nostre scelte sembrerebbe essere scarsa, non solo nei giocatori, ma spesso anche nelle condotte più quotidiane.

Un esempio di come fatichiamo a predire quanto le emozioni influenzino le decisioni è rappresentato dal hot-cold empathy gap (Loewenstein, 1996): quando ci troviamo in uno stato emotivo “freddo” (o neutrale), tendiamo a sottostimare l’impatto di uno stato emotivo “caldo” (o intenso) sul nostro comportamento. Inoltre, se il nostro stato emotivo ha una valenza negativa, come quando ci sentiamo deprivati di una risorsa che ha una certa importanza per noi, con il nostro comportamento tenderemo a reagire per compensare questi sentimenti negativi e ripristinare una sorta di omeostasi emotiva.

Questa reazione può tuttavia risultare in una sovracompensazione non sempre adattiva. Ad esempio, molte persone quando sono affamate finiscono con il procurarsi più cibo del necessario, rispetto a quanto avevano pianificato (Gilbert et al., 2002); allo stesso modo, chi fa uso di sostanze tende a sottostimare l’impatto del craving (Badger et al., 2007). Questo potrebbe spiegare perché molte persone giurano a se stesse (magari decine di volte) di avere in bocca l’ultima sigaretta, e si ritrovano dopo alcuni giorni a fumare più di prima.

Alla luce di queste considerazioni, è evidente che un processo analogo potrebbe riguardare il gioco d’azzardo: vincere o perdere al gioco, è un’esperienza emotiva tutt’altro che neutra. Uno studio recente (Andrade et al., 2014) ha cercato di descrivere il modo in cui le esperienze emotive possono influenzare le decisioni sul gioco. Gli esperimenti condotti consistevano in una sessione di gioco simulata, di soli due round, il primo obbligatorio e il secondo facoltativo. Ai partecipanti veniva consegnato un credito per giocare, di tipo monetario o non-monetario (punti per gli esami), sufficiente per scommettere nei due round. Veniva quindi chiesto loro di pianificare la loro intenzione a scommettere dichiarando se intenzionati a proseguire nel secondo round, sulla base di una vincita o di una perdita. I risultati indicano una contraddizione tra la pianificazione dei partecipanti allo studio e il loro comportamento effettivo: i partecipanti dichiarano di scommettere meno in seguito a una perdita rispetto a quanto si è effettivamente verificato, mentre non si rilevano differenze significative per le vincite. Questo dato si potrebbe interpretare secondo l’ipotesi del gap empatico (Loewenstein, 1996): mentre a “mente fredda”, si è più portati a scegliere una strategia di tipo “conservativo” per fronteggiare la perdita, le emozioni che questa provoca spingono i partecipanti a compensare lo stato emozionale negativo, cercando la vincita riparatoria.

Questi dati potrebbero inoltre spiegare come mai i giocatori patologici persistono nelle scommesse nonostante le perdite ingenti e, nonostante le riflessioni dettate dalla razionalità suggeriscano il contrario. Il cosiddetto chasing (Lesieur, 1977), o rincorsa delle perdite, non è solo uno stile di pensiero, è un agire dettato dalla disperazione. Perdere molti soldi crea un’esperienza emotiva intensa e fortemente spiacevole, va da sé che il giocatore tenterà di compensare questo stato negativo con l’unico mezzo che conosce: continuare a scommettere.

Lo stato emotivo esercita quindi un’influenza sulle decisioni individuali. Fortunatamente, gli autori osservano che questi effetti possono essere mitigati in due modi:
– istruendo i partecipanti a tenere conto dell’impatto delle emozioni sulle loro scelte;
– incrementando il tempo di attesa tra una scommessa e l’altra.

Mentre il primo punto potrebbe suggerire l’utilità di interventi psicoeducativi per mitigare l’impatto emotivo sulle decisioni, sul secondo punto si tira in ballo un fattore che riguarda le caratteristiche strutturali del gioco, sul quale l’industria del gioco fa leva per incrementare i profitti. La velocità del gioco è spesso il fattore che ne determina la maggiore pericolosità: per esempio, nelle slot-machine la durata di una scommessa non supera i 5 secondi, e una nuova scommessa può essere avviata in modo pressoché istantaneo. Ne consegue che non c’è spazio per riflettere, o anche solo per pensare, il gioco assorbe completamente la mente del giocatore. Non a caso, tra i giocatori di slot-machine si registrano livelli di dissociazione più alti rispetto a popolazioni non cliniche (Stewart & Wohl, 2013). Infine, altre ricerche evidenziano una relazione tra stati emotivi, sia positivi (orgoglio), sia negativi (spavento) e frequenza di gioco problematico, che risulta inoltre associato a un maggiore utilizzo della soppressione espressiva come strategia di regolazione emotiva (Canale et al., 2012; Canale et al., 2013).

Questi dati potrebbero suggerire che, per molti giocatori patologici, il gioco potrebbe essere una strategia di coping disfunzionale per fronteggiare stati emotivi negativi, o all’opposto, una modalità per ricercare stati emotivi desiderati. Secondo studi condotti in accordo al modello metacognitivo di Wells (2012), il gioco sarebbe accompagnato da credenze metacognitive, e si configura come una modalità di auto-regolazione dei propri stati interni, emotivi e cognitivi (Spada et al., 2014; Fernie et al., 2014).

Concludendo, il gioco d’azzardo permea la nostra cultura da millenni, sfidando chi vorrebbe nella ragione e nella razionalità gli strumenti necessari per garantire lo sviluppo culturale dell’umanità. Il gioco d’azzardo è calcolo e superstizione, è sudore, mancanza di sonno e appetito, è paura e delirio, è eccitazione, rabbia, gioia o dissociazione. Ma soprattutto è un’attività profondamente e peculiarmente umana, che praticamente tutti abbiamo provato, e in cui abbiamo messo temporaneamente da parte il nostro lato più razionale, abbandonandoci a modalità più istintive ed autentiche, ma che possono rivelarsi molto pericolose. Analizzando il modo in cui giochiamo d’azzardo, possiamo forse rappresentare il nostro pensare ed agire quotidiano in modo molto più realistico di molte teorizzazioni del passato. Siamo ineluttabilmente irrazionali nel pensiero, ed agiamo sulla spinta delle nostre emozioni molto più spesso di quanto vorremmo credere. Ma nonostante questo, non siamo necessariamente cretini: siamo solo più complessi di quanto immaginiamo (o teorizziamo), e magari proprio in virtù della nostra irrazionalità funzioniamo meglio di quanto l’epidemiologia psichiatrica ci induce a credere.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Gioco d’azzardo patologico: quando la mente è convinta che vincere sia un gioco

 

BIBLIOGRAFIA:

La depressione nell’anziano: definizione e trattamento

Francesca Colli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

La depressione è una patologia molto diffusa nella popolazione anziana (>65 anni) con una prevalenza che si identifica tra l’1% e il 35%(Djerneset al., 2006). Questa condizione si presenta in particolar modo tra le persone che risiedono in case di riposo o in istituti di lungodegenza (Covinsky et al., 1997).

Un indice così elevato di prevalenza è riconducibile a un’aumentata vulnerabilità dell’anziano sul piano biologico e psicosociale (lutti e perdite) che si accompagna a un conseguente decremento dell’autostima e del supporto familiare e sociale.

Nel Manuale Statistico e Diagnostico-5 edizione (DSM-5) i disturbi depressivi citati sono: depressione maggiore, disturbo depressivo persistente (distimia), disturbo disforico premestruale, depressione associata a patologie mediche generali o associata all’uso di farmaci e depressione con altra specificazione. In questo manuale non sono presenti criteri diagnostici di patologia depressiva specifici per l’età senile ed è pertanto possibile che la prevalenza di questa patologia nella popolazione anziana sia sottostimata (Lebowitzet al., 1997; Apfelcort et al., 2003). Una stima effettuata sulla base di numerosi studi condotti sulla popolazione anziana individua che circa l’1-4% dei soggetti presenti depressione maggiore, il 4-13% depressione minore e il 2% distimia (Mecocci et al.,2004).

Una parte degli episodi rilevati è riportata da soggetti che hanno sofferto di un disturbo dell’umore a insorgenza precoce che si riacutizzano in età avanzata: in questi casi la sintomatologia si evidenzia essere maggiormente “tipica” della depressione e raramente presenta un andamento cronico. 

L’esordio depressivo può verificarsi, però, anche in età senile. La depressione a insorgenza tardiva mostra un fenotipo differente rispetto alla patologia depressiva a insorgenza precoce. La depressione a insorgenza tardiva ha una maggior tendenza alla cronicizzazione, presenta un lungo periodo di latenza della risposta al trattamento e spesso i suoi sintomi residui sono persistenti (Steffenset al., 2000); inoltre, nonostante gli studi mostrino risultati discordanti, questa condizione clinica sembra essere maggiormente frequente nei maschi (Hegeman et al.,2012).

In questi soggetti la sintomatologia è caratterizzata dalla presenza di episodi di agitazione, da sintomi somatici quali disturbi gastrointestinali e facile affaticamento (Panzaet al., 2010) e da alterazioni cognitive che, in alcuni casi, evolvono in forme dementigene; raramente vengono riferiti, nelle fasi iniziali, sentimenti di tristezza e disforia (O’Brienet al., 2004; Gallo et al., 1997). L’irrequietezza motoria si associa frequentemente a sentimenti d’ansia molto accentuata e spesso somatizzata, a timori ipocondriaci con l’ossessione della paura della morte, a contenuti depressivi relativi alla disabilità e alla perdita di autonomia e a idee deliranti centrate sulla convinzione di essere vittima di furti, tradimenti o maltrattamenti.

L’associazione con stati d’ansia connota la patologia depressiva di un maggior grado di severità e induce una sua più lenta risposta ai trattamenti farmacologici (Beekman et al., 2000; Lenze et al. 2000; Lenze et al., 2001). Sono frequenti i disturbi della percezione quali illusioni e allucinazioni. In molti casi il soggetto con depressione senile lamenta alterazioni cognitive e circa il 20-50% degli individui affetti presenta una compromissione cognitiva superiore rispetto ad altri soggetti di pari età e scolarità (Butters et al., 2004; Sheline et al., 2006).

I deficit neuropsicologici che si riscontrano con maggiore frequenza nella depressione a insorgenza tardiva riguardano differenti domini cognitivi (Lockwoodet al., 2002). In particolare risultano compromesse la memoria episodica (Beats et al.,1996; Story et al., 2008), le abilità visuo-spaziali (Boone et al., 1994; Elderkin-Thompsonet al., 2004), la fluenza verbale (Morimoto et al., 2011) e la velocità psico-motoria (Hart et al., 1987; Butters et al., 2004).

Dai risultati ottenuti in altri studi emerge che le prestazioni dei pazienti anziani depressi nei test neuropsicologici che valutano differenti domini cognitivi sono peggiori rispetto a quelle di soggetti sani di pari età e scolarità e che le capacità maggiormente compromesse sono la velocità di processazione delle informazioni e le abilità visuo-spaziali e esecutive (Butters et al., 2004).

Il termine funzioni esecutive indica differenti abilità cognitive quali le capacità di organizzazione, di pianificazione, di automonitoraggio, d’inibizione della risposta e di individuazione di strategie adeguate che sono necessarie per l’esecuzione di un compito (Lezak, 1976; Benton; 1994).

Numerosi studi riportano che queste capacità risultano alterate in soggetti con depressione senile; in particolar modo si osserva un rallentamento nella velocità di processazione delle informazioni e numerose alterazioni a carico della working memory (Nebes e coll.,2000). La depressione senile si associa anche a un incremento del rischio suicidario (Conwell et al.,2000): i più elevati tassi di suicidio si rilevano in soggetti con età superiore ai 70 anni affetti da forme gravi di depressione e con elevati livelli di disabilità (Conwell et al., 2000). In questo ambito i fattori socio-ambientali risultano essere rilevanti in quanto la maggior parte dei pazienti che commettono atti di suicidio vivono in condizioni di isolamento e di solitudine (Conner et al., 2001). In questi soggetti l’ideazione suicidaria non viene riferita allo specialista e, raramente, viene richiesto un aiuto o un supporto psicologico (Pearson et al., 2000).

La depressione senile ha un forte impatto sulla funzionalità quotidiana, sulla qualità di vita e sull’aumento della richiesta di assistenza qualificata. Questa patologia è associata a un incremento dei costi sanitari e a un recupero lento e difficoltoso del paziente dopo eventi medici acuti quali fratture del bacino o del femore (Tarakci et al., 2015). D’altra parte, data l’ eterogeneità dei sintomi, in molti casi lo stato depressivo non viene correttamente individuato e di conseguenza trattato.

In primo luogo la persona anziana è riluttante a rivolgersi al medico per sintomi di natura psicologica. In molte persone anziane si può rilevare una condizione denominata “depressione mascherata” caratterizzata da differenti sintomi somatici quali perdita dell’appetito, perdita di peso, riduzione della libido, stipsi e disturbi del sonno che non hanno una spiegazione su base organica. Questi soggetti non riportano esplicitamente tono dell’umore depresso, in quanto hanno difficoltà a verbalizzarlo o si vergognano di soffrire di un disturbo psicologico e/o di avere problemi relazionali e comportamentali e utilizzano il sintomo fisico come strumento di “avvicinamento relazionale” al medico (Zuccaro; 2004). Questa patologia presenta oscillazioni diurne del tono dell’umore e non ha andamento cronico. Solitamente il soggetto affetto da questa tipologia di disturbo ha una storia personale di precedenti episodi depressivi tipici o tentativi di suicidio e una storia familiare connotata da disordini affettivi (Nieddu et al., 2007).

Un altro ostacolo alla corretta identificazione del disturbo depressivo è dovuto al fatto che nella persona anziana la sintomatologia depressiva si sovrappone a differenti patologie coesistenti (Cherubini, 2006). Nel soggetto anziano si possono individuare diverse condizioni d’interesse internistico o neurologico che includono nel loro quadro fenomenologico disturbi depressivi (Nieddu et al., 2007). In particolare la depressione senile si associa a malattie del sistema nervoso centrale (M. di Parkinson, ictus, epilessia, M. di Huntington, traumi cranici e emorragia subaracnoidea), a disturbi endocrini (ipotiroidismo, diabete mellito, M. di Addison, M. di Cushing e iperparatiroidismo), a neoplasie cerebrali, polmonari, renali e altre condizioni cliniche (IMA, LES, fibromialgia, artrite reumatoide e infezioni virali) (Alexopouloset al., 2002).

In questi casi sono ritenuti fattori di rischio per la comparsa della patologia depressiva: alcune condizioni indirette (la gravità del disturbo, il dolore e le complicazioni ad esso associate), variabili di vulnerabilità personale (livello di compromissione cognitiva, lutti e la presenza di una storia psichiatrica positiva) e grado di limitazione delle attività della vita quotidiana (Nieddu et al.,2007).

Da sottolineare anche la rilevante questione relativa alla corretta diagnosi differenziale tra pseudodemenza e demenza (Nieddu et al., 2007): il deficit cognitivo nell’anziano può essere secondario a un disturbo di natura depressiva e,in questo caso, si utilizza il termine “pseudodemenza”oppure può rappresentare la modalità di esordio di una forma dementigena (Devanand et al., 1996).Nel primo caso si rileva esordio brusco e improvviso della sintomatologia caratterizzata da umore disforico e alterazioni mnesiche: il soggetto è consapevole dei propri deficit cognitivi e li descrive in modo dettagliato enfatizzando la sua disabilità. Il comportamento è adeguato al contesto e il disturbo non presenta oscillazioni diurne. La pseudodemenza presenta numerosi sintomi vegetativi e, solitamente, la storia personale del paziente è contraddistinta dalla presenza di precedenti disturbi psichiatrici (Trabucchi et al. 2000).

L’esordio di una patologia depressiva può, infine,essere associato all’assunzione di particolari terapie farmacologiche quali gli ipotensivi, la clonidina, i calcio-antagonisti, i beta bloccanti, gli antiblastici, gli antistaminici, gli antipsicotici, L-Dopa, l’indometacina,i cortisonici e l’interferone (Nieddu et al., 2007). 

Per la valutazione dei sintomi depressivi nella popolazione anziana sono state create scale apposite che considerano anche l’eventuale compromissione cognitiva che si può riscontrare. La Geriatric depression scale (GDS)(Yasavage et al., 1983) è una batteria che si compone di 30 domande che esaminano differenti dimensioni cliniche quali la presenza di sintomi cognitivi, l’orientamento al passato e al futuro, la valutazione dell’immagine di sé, la presenza di tratti ossessivi e il tono dell’umore, ma che minimizza i sintomi somatici e psicotici. Può essere utilizzata anche in soggetti affetti da demenza lieve-moderata. Un’altra scala molto utilizzata è la Scala Cornell della depressione nella demenza (CSDD) appositamente pensata per rilevare sintomi depressivi nei pazienti affetti da demenza (Alexopouloset al., 1988).

La batteria è costituita da 19 domande che vengono poste a una persona che conosce il paziente, un familiare o un operatore e, successivamente, da un’intervista semi-strutturata con il paziente. Questo test è utilizzato anche per soggetti affetti da demenza medio-grave (Ballard et a., 2001). Per quanto riguarda il trattamento di persone anziane depresse i principali strumenti terapeutici sono la terapia farmacologica e la psicoterapia (Nieddu et al.2007). Prima di impostare una terapia farmacologica antidepressiva è fondamentale stabilire la terapia già in atto e gli eventuali effetti d’interazione tra i farmaci prescritti e quelli già assunti. Per quanto riguarda la tipologia di antidepressivi, numerosi studi confermano che i triciclici, farmaci molto efficaci nella terapia della depressione, sono poco usati nel trattamento del soggetto anziano (Nelson, 2001) in quanto, data la riduzione della trasmissione colinergica connessa all’età, il paziente è maggiormente vulnerabile agli effetti anticolinergici centrali e periferici (disturbi cognitivi, ritenzione urinaria, stipsi, disturbi della visione e tachicardia).

A questi si sommano la comparsa di ipotensione ortostatica con conseguente incremento delle cadute e delle fratture, di tremori e di una riduzione della soglia convulsiva (Scapicchio, 2007). Un altro problema connesso all’utilizzo dei questa tipologia di farmaci è la loro estrema letalità in caso di assunzione di grosse quantità con finalità suicidarie; evento che nella depressione senile si verifica con moderata frequenza e che deve essere, di conseguenza, valutato (Scapicchio, 2007).Una classe di farmaci che si è rivelata essere maggiormente adeguata per la popolazione anziana è costituita dai serotoninergici selettivi (SSRI) (Menting et al.,1996), i cui effetti collaterali (nausea, gastralgia, insonnia e irritabilità) sono maggiormente tollerati.

Per quanto riguarda le modalità di somministrazione è molto importante iniziare da un dosaggio molto basso per poi incrementarlo lentamente. Inoltre è fondamentale accertare la corretta comprensione delle indicazioni terapeutiche da parte del paziente, soprattutto nei casi in cui non sia presente un familiare che ne gestisca l’assunzione (Scapicchio 2007).

Il periodo di somministrazione è di circa 9-12 mesi (Nelson, 2001). Dal punto di vista psicoterapico una delle tecniche maggiormente indicate risulta essere la Terapia del problem solving (PST) (Alexopoulos et al., 2011). Questo approccio sembra essere efficace, nel trattamento di soggetti anziani affetti da depressione con lieve compromissione cognitiva, nel ridurre i sintomi depressivi e la disabilità (Arean et al.,2010; Alexopoulos et al., 2011; Kiossen et al.,2011).

In particolare la terapia del Problem Solving per i deficit esecutivi (PST-ED) trasmette ai soggetti depressi nuove abilità che consentono un miglioramento delle loro abilità di affrontare i problemi quotidiani e gli eventi della vita. Un altro approcio che si è riscontrato essere efficace nel trattamento della depressione senile è la terapia cognitivo-comportamentale (Laidlaw et al., 2008). La terapia cognitivo-comportamentale per la demenza lieve (CBT-Demenza lieve) è orientata, in primo luogo, verso il deficit neuropsicologico e si pone l’obiettivo di trasmettere al soggetto affetto da depressione e da lieve compromissione cognitiva alcune indicazioni pratiche per ridurre l’impatto di essa sulla sua vita quotidiana. In secondo luogo durante i colloqui si cerca di insegnare al paziente nuove strategie cognitive quali l’analisi delle prove e la lista dei pro e dei contro di differenti situazioni. Tutti questi interventi si pongono come obiettivi principali la remissione dei sintomi, la prevenzione degli atti suicidari e il ripristino di buoni livelli di funzionamento sociale e cognitivo (Nieddu et al.2007).

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Gli effetti del benessere psicologico sulla salute degli anziani

 

BIBLIOGRAFIA:

La facilitazione ritmica in compiti motori e cognitivi: uno studio sperimentale

Questo articolo ha partecipato al Premio state of Mind 2014 Sezione Junior

La facilitazione ritmica in compiti motori e cognitivi: uno studio sperimentale

Autore: Simone Donati

Università di Bologna

 

ABSTRACT

Ho studiato l’effetto del ritmo su un campione di 27 soggetti, 10 maschi e 17 femmine per indagare una possibile correlazione positiva di questa stimolazione in compiti motori-comportamentali e cognitivi. Tutti i partecipanti dovevano effettuare entrambe le prove. Nella prova motorio-comportamentale avevano l’istruzione di battere un dito su un microfono da me fornito (tapping) con l’istruzione di aumentare progressivamente la velocità dell’esecuzione del compito. Nella prova cognitiva, invece, i partecipanti dovevano contare all’indietro ad alta voce per sette da un
numero casuale a tre cifre. Anche in questo caso l’istruzione era di aumentare progressivamente la velocità del calcolo. Entrambe le prove erano divise in prova di controllo e prova sperimentale, dove nella prova di controllo veniva fornito l’ascolto di un metronomo per i primi dieci secondi, dopodiché l’audio veniva interrotto e il partecipante iniziava con la prova. Per quanto riguarda la prova sperimentale, la traccia del metronomo rimaneva presente per tutta la durata del compito del partecipante. Il risultato principale che questo studio ha ottenuto è stata una correlazione significativa tra la prova cognitiva e la presenza del metronomo, mentre nessuna correlazione è stata trovata nella prova motorio-comportamentale.

Parole chiave: Facilitazione ritmica, Metronomo, Calcolo Mentale, Tapping, Effetto Mozart

 

I have studied the effect of the rhythm on a population of 27 subjects, 10 males and 17 females, in order to investigate a possible positive correlation of that stimulation in motor-behavioral tasks and cognitive tasks. All participants had to perform both tasks.
On motor-behavioral task they had the instruction to perform a finger tap on a microphone. The instruction of that task was to progressively increase the speed of execution. In the cognitive task participants had to count backwards out loud for seven from a three digits random number. In this task participants had the instruction to progressively increase the speed of execution, as in the tapping task. Both tasks included experimental test and control test. In the control test the metronome was heard by participants for the first 10 second, and then the test begun. In the experimental test, the metronome was present for the whole duration of the test. The main result of this study was a significant correlation between cognitive task e metronome presence. No significant correlation was founded on the motor-behavioral task

Keywords: Rhythmic enhancement, Metronome, Mental Calculation, Tapping, Mozart Effect

 

 

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Attività ludico-motorie e sviluppo delle competenze cognitive nell’età evolutiva

La tristezza può compromettere la percezione dei colori?

Daniela Sorzogni

 

Il mondo potrebbe sembrare un po’ più grigio del solito quando siamo giù di morale, in inglese si dice “feeling blue”. Una nuova ricerca suggerisce che le associazioni che facciamo tra emozione e colore vanno oltre la semplice metafora.

I risultati indicano che la sensazione di tristezza può realmente cambiare il modo in cui percepiamo il colore. In particolare, i ricercatori hanno trovato che i partecipanti che sono stati indotti a sentirsi tristi erano meno accurati nell’individuare i colori sull’asse blu-giallo rispetto ai soggetti portati a sentirsi divertiti o emotivamente neutri.

Precedenti studi hanno dimostrato che l’emozione può influenzare i vari processi visivi, e alcuni lavori hanno indicato un legame tra umore depresso e ridotta sensibilità al contrasto visivo. Poiché la sensibilità al contrasto è un processo visivo di base coinvolto nella percezione del colore i ricercatori hanno indagato sulla possibilità di un collegamento specifico tra la tristezza e la capacità di percepire il colore.

In uno studio 127 studenti universitari hanno guardato un film emotivo e in seguito completato un compito di giudizio visivo. I partecipanti sono stati assegnati casualmente al gruppo destinato a guardare un filmato che induceva tristezza o al gruppo destinato a guardare una clip che induceva divertimento.
Gli effetti emotivi dei due clip sono stati convalidati e i ricercatori hanno confermato che i due filmati hanno indotto le emozioni che si erano prefissati di provocare.
Dopo aver visto il video, venivano mostrati ai soggetti 48 campioni di colore consecutivi ed è stato chiesto loro se ogni colore era rosso, giallo, verde o blu.

I risultati mostrano che i partecipanti che hanno guardato il filmato che provocava tristezza erano meno accurati nell’indentificare i colori rispetto ai partecipanti che hanno guardato il video divertente, ma solo per i colori sull’asse giallo-blu. Nessuna differenza invece sulla precisione dei colori di asse rosso-verde.

In un secondo studio con un campione di 300 studenti ha mostrato lo stesso effetto rispetto ad un filmato neutro: i soggetti che vedevano il filmato triste erano meno accurati nell’identificare i colori dello spettro giallo-blu rispetto a coloro che avevano assistito a un filmato neutro. I risultati suggeriscono che la tristezza è specificamente responsabile per le differenze di percezione dei colori.
I risultati non possono essere spiegati da differenze nei livelli di impegno, attenzione in quanto non sono in grado di spiegare come la percezione del colore è stata compromessa solo sull’asse giallo-blu.

Il risultato potrebbe dare un indizio per l’effetto del funzionamento della dopamina, neurotrasmettitore che è stato collegato alla percezione dello spettro dei colori giallo-blu in uno studio precedente. Questo richiede però ulteriori studi di follow-up, essenziali per la piena comprensione del rapporto tra emozione e percezione del colore.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Allucinare i colori ? Basta volerlo!

BIBLIOGRAFIA:

La relazione tra pensiero desiderante, ricerca di novità e predisposizione alle dipendenze patologiche

Il presente studio ha indagato se e in che misura la tendenza a ricercare la novità e la propensione a pensare in modo desiderante potessero influenzare il craving, un fattore cruciale per il mantenimento delle dipendenze patologiche.

I dati sono stati raccolti somministrando una serie di questionari a 270 persone appartenenti alla popolazione generale e senza alcuna diagnosi psichiatrica.

Le analisi dei dati hanno mostrato come il pensiero desiderante potesse mediare la relazione tra ricerca della novità e craving. In altre parole, uno stile cognitivo incentrato sul desiderio in tutte le sue componenti (immaginativa e verbale) sembrerebbe più “a rischio” per lo sviluppo di craving, rispetto a un temperamento caratterizzato da una forte ricerca della novità.

In questo senso, i risultati hanno sottolineato il ruolo centrale del modo in cui si gestisce il desiderio, per la sua capacità di influenzare la percezione di craving.

 

Desire thinking as a mediator of the relationship between novelty seeking and craving

We examined the relationship between desire thinking, temperament and craving. Findings support a multiple mediational sequence from novelty seeking to craving. Desire thinking mediates the relationship between novelty seeking and craving.

 

  • Gabriele Casellia, b, c, , ,
  • Chiara Manfredib, d,
  • Annalisa Ferrarise,
  • Francesca Vinciulloe,
  • Marcantonio M. Spadac

[accordion title1=”About the authors” text1=”a Studi Cognitivi, Milano, Italy b Sigmund Freud University, Milano, Italy c School of Applied Sciences, London South Bank University, London, UK d Studi Cognitivi, Modena, Italy e University of Pavia, Pavia, Italy” ]

 

 

 

 

Abstract

Background

The construct of craving has been shown to play a crucial role in the development and maintenance of addictive behaviors. Both novelty seeking and desire thinking have been identified, respectively, as important temperamental and cognitive predictors of craving.

Aims

In the present study we aimed to explore the relative contribution of novelty seeking and desire thinking towards craving, hypothesizing a sequence of multiple mediating relationships starting from novelty seeking and moving onto imaginal prefiguration, verbal perseveration and craving in serial fashion.

Method

A convenience sample of 270 individuals completed measures assessing novelty seeking, desire thinking, and craving relating to a chosen activity.

Results

Findings showed that, controlling for age and gender, desire thinking components predicted craving over and above novelty seeking. The indirect effect from novelty seeking to craving, via desire thinking components, was significant thus supporting a multiple-mediational sequence. Finally, the relationship between imaginal prefiguration and craving was found to be partially mediated by verbal perseveration.

Conclusions

The findings provide support for the conceptualization of desire thinking as an independent construct in predicting craving over and above novelty seeking.

Keywords

  • Addiction;
  • Addictive behaviors;
  • Craving;
  • Desire thinking;
  • Temperament

DOWNLOAD FULL ARTICLE:

Emergenza Migranti: il peso del guardare, il timore nell’accogliere

Notizie sconfortanti in questi giorni sulla tragedia dei migranti, questa onda inarrestabile che mette alla prova l’ideologia stessa con la quale l’Europa e Schengen sono nate. (Spinelli 1941)

Una parte del medioriente è in fiamme e vi sono milioni di persone che sono partite, che stanno viaggiando, che stanno per mettersi in viaggio. Le foto di morti sulle spiagge, del bimbo Aylan, delle file di persone che camminano sulle strade d’Europa raccontano la disperazione di chi fugge e sono al centro della nostra attenzione e delle nostre emozioni.

Ne parliamo, ci disperiamo, vorremmo aprire le nostre case ai profughi, poi abbiamo paura, li temiamo, poi ci lasciamo trascinare dalle nostre vite.

Vi sono reazioni forti che davanti alle barriere di filo spinato e a cortei di disperati non possono non ricordarci altri eventi, in cui moltitudini di uomini andavano incontro a destini tremendi. È vero, non si tratta più di migrazioni forzate e deportazioni come quella degli armeni, ma non possono non richiamare ai nostri occhi quelle immagini. (Maciori, 2013, Werfel 1933)

La reazione dell’Europa è stata inzialmente confusa, ma poi grazie al discorso di Angela Merkel sull’accoglienza, che ci orienta tutto sull’accoglienza e grazie alle posizioni di acquisizione di responsabilità da parte di Papa Francesco, ha trovato una chiarezza di linea. O almeno nell’area occidentale.

Non penso affatto che Angela Merkel abbia scelto la sua posizione di fronte all’emozione di qualcosa che ha visto e con una urgenza esclusivamente morale, penso che ciò che ha visto sia stato mediato da una conoscenza profonda delle posizioni morali del suo paese ma anche dalla necessità razionale di trovare una soluzione a un problema sociale e umano di così vaste proporzioni.

 

Accoglienza dunque ma anche timori. E qui dividerei il discorso in due parti: il guardare o non guardare ciò che a volte ci appare come insopportabilmente doloroso e il sapere e decidere come accogliere.

Cominciamo con il guardare. Vi è oggi una enorme facilità di accesso visivo alla violenza e alla sofferenza che ci colpisce con forza dirompente. In psicologia è nozione provata che la visione aumenti l’impatto emotivo degli eventi su chi li osserva. In questo senso la nostra società ci espone come mai prima a questo aumento di visione e di impatto emotivo ogni volta che apriamo un giornale, che scorriamo le pagine di internet, che accendiamo la televisione. Questo è il segno della modernità: guardare la violenza, il dolore e la morte con crudo terrificante realismo e insieme da una siderale e tecnologica distanza.

Non penso che durante i progrom contro gli ebrei o nel medioevo, o semplicemente durante le nostre guerre risorgimentali, si vedesse in assoluto meno violenza. Quando c’era, era spesso l’incontro traumatico con violenza e sangue veri con il rischio di esserne coinvolti e morirne. Ma a questi scoppi di violenza immediati e improvvisi corrispondevano periodi in cui si poteva guardare altrove, concentrarsi sulle cose del quotidiano, l’aratura, la semina, il focolare.

Oggi invece staccare l’attenzione non è concesso. Ora non possiamo guardare altrove e questo accade cento volte ogni giorno.

Una fetta del dibattito delle ultime settimane si è focalizzato su “guardare o non guardare”: mettere o non mettere il piccolino Aylan in prima pagina, farlo vedere o no, parlarne e non farlo vedere.

Come se fosse possibile immaginare che nei giorni passati qualcuno non abbia visto quel piccolo bambino abbandonato. Tutti lo abbiamo visto. Così come tutti vediamo gli affogati in mare e i morti sulle strade o dentro i camion.

La scelta di non guardare, o meglio distogliere gli occhi dopo avere visto, è normale, è evitamento di emozioni, di ansia e colpa. Ma poi non ci piace e ci sembra terribile, come un fuggire, come una viltà.

Mentre guardare e poi guardare troppo a fondo dentro l’orrore rischia di farci scivolare troppo giù nella tristezza della sterile impotenza da un lato ma rischia anche di vaccinarci, di alzare il livello di tolleranza. E ci chiediamo quanto sia utile.

E come la risolvono molti di noi? Sbattono come uccellini in gabbia dentro questi muri di emozioni contrastanti, tra consolazione, rabbia, tristezza, colpa, desideri di aiuto e piccole viltà. Tutto troppo autocentrato. A volte sembrano dei selfie psicologici.

Per quanto riguarda la sostanza delle migrazioni dal medio oriente, è evidente che non si può non accogliere chi fugge da guerre, carestie, campi profughi in cerca di qualcosa che si possa chiamare vita normale, anzi vita dove vita vuol dire sopravvivenza, ma anche speranza di avere un futuro, di non morire.

Ma è anche vero che non vanno sottovalutate le difficoltà dell’arrivo, dell’integrazione, dell’avvicinamento di popolazioni che portano diversità, ricordi, tradizioni, timori. Chi arriva porta ricchezza di esperienze umane diverse, e questa ricchezza è certamente una risorsa attuale e potenziale che cambia le cose e arricchisce tutti, ma egli va accolto con la consapevolezza delle difficoltà e diversità che dovrà e dovremmo affrontare insieme perché l’integrazione si avveri (Sartori, 2000).

Al di là delle reazioni di impulso e nell’emergenza che non possono che farci aprire le nostre porte e accogliere chi fugge, affinché questa emergenza divenga progetto di convivenza occorre un posto che accolga e aiuti l’avvicinamento alla cultura locale alle sue tradizioni e costumi e leggi e persone che abbiano curiosità di conoscere, accettare il nuovo, incontrare lo sconosciuto diverso, condividere.

Questo discorso è del tutto indipendente da giudizi di superiorità culturale, anzi deve guardare al bisogno razionale di benessere sociale e buone relazioni in una società in cui per la prima volta si vive insieme.

Quando si parla di migrazione si passa da posizioni di rifiuto sprezzanti e incivili a un’ingenua mitizzazione dell’accoglienza come buona in sé, facile, naturale, esclusivamente come forma di necessità morale. Questa posizione è pericolosa perché eludendo i problemi si rischiano profonde delusioni. Accogliere ed essere accolti è difficile e doloroso e solo nella consapevolezza profonda, colta e sapiente della difficoltà si possono costruire progetti di lunga distanza che abbiano la speranza di avere successo.

A me sembra che la parte eroica consista, per chi ha la forza, nel trasformare le informazioni e le visioni in comportamenti d’aiuto concreto. Per fare questo occorre sapere come sono le cose.

E chi non può proporre comportamenti innovativi, non può accogliere, non può prendere la macchina e partire per l’Ungheria?

Il punto è di nuovo rinunciare a risposte semplici o impulsive su questioni così complesse e piene di sfaccettature. Occorre razionalità. Occorre non smettere di informarsi, a fondo e in modo doloroso e completo su quali siano le cause, le complicità, le connivenze e le incapacità che hanno portano alla situazione attuale. E occorre risolvere in modo umanitario e razionale e utile per tutti ciò che sta avvenendo così vicino a noi. Senza trascurare le nostre responsabilità nella creazione e nel mantenimento di situazioni di guerra ai nostri confini ma senza stracciarci le vesti autoflagellandoci.

Dobbiamo tutti accettare ciò che è complesso e che bisogna cambiare a partire da questo momento storico e da questa complessità. Rinunciare alla pigrizia, alle frasi fatte, alle spiegazioni semplicistiche.

E continuare a guardare. E a volte distogliere gli occhi e poi guardare di nuovo.

 

LEGGI ANCHE: Il bisogno di appartenenza e il difficile rapporto con gli altri

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Sartori, G. (2000). Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica. Milano, Rizzoli.
  • Altiero Spinelli:Manifesto di Ventotène, avente titolo originale Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, è un documento per la promozione dell’unità europea scritto daAltiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Ursula Hirschmann tra il 1941 ed il 1944 durante il periodo di confino presso l’isola di Ventotene, nel mar Tirreno, per poi essere pubblicato daEugenio Colorni, che ne scrisse personalmente la prefazione[1]. (da wikipedia)
  • Macioti, M,I. Il genocidio armeno nella storia e nella memoria, (2011) Edizioni Nuova Cultura, Roma,
  • Werfel, F. “I quaranta giorni del Mussa Dagh” ) (1933)in italiano 2913, ed. il Corbaccio

LEGGI ANCHE: Psicologia delle Migrazioni: Globalizzazione & Nostalgia di Casa

La valutazione della ricerca accademica in Italia: atto secondo

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Ancora non si sono spente le polemiche sulla prima grande operazione di valutazione della ricerca accademica in Italia che parte (fortunatamente) già la nuova valutazione per gli anni 2011-2014.
Si tratta di valutare soprattutto, ma non solo, i “prodotti” della ricerca, cioè gli articoli scientifici, i saggi, i libri, insomma le pubblicazioni, di ricercatori e professori impiegati presso le istituzioni della ricerca. Alla prima valutazione nazionale, svolta dall’agenzia “Anvur” del Ministero della Ricerca e conclusasi nel 2012, è conseguito un sistema di ranking dei dipartimenti, degli enti di ricerca, delle università. Questo sistema, associato ad altri elementi, ha portato a un meccanismo di distribuzione di risorse pubbliche che ha premiato (anche se a mio avviso in misura insufficiente) i dipartimenti e le università con i risultati migliori. Gli esiti della prima valutazione nazionale sono consultabili e si riferiscono appunto solo alle istituzioni della ricerca: le valutazioni delle pubblicazioni dei singoli ricercatori e professori sono infatti comunicate solo ai diretti interessati e non sono in alcun modo rese pubbliche.
..

La qualità dei ricercatori precari – Il PostConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Ancora non si sono spente le polemiche sulla prima grande operazione di valutazione della ricerca accademica in Italia che parte (fortunatamente) già la nuova [Continua] (…)

Tratto da: Il Post

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

LEGGI ANCHE: Università: l’abilitazione nazionale e il privilegio della cecità


Disturbi del sonno: la paralisi del sonno tra superstizione e realtà

Molto spesso ci capita di sentire spiegazioni poco scientifiche su episodi o fenomeni che ci accadono e sui comportamenti delle persone. Ultimamente mi è capitato di leggere un articolo molto interessante su un argomento decisamente affascinante. Mi riferisco alla paralisi del sonno, un disturbo del sonno appartenente alla categoria delle parasonnie associate al sonno REM.

Se provate a chiedere a conoscenti, parenti o amici, sicuramente molti non conoscono nemmeno l’esistenza di questa particolare condizione del sonno, altri la hanno forse sperimentata e altri ancora probabilmente ricondurranno questo disturbo ad un qualcosa di soprannaturale. Ed è proprio su quest’ultima possibilità che uno studio svoltosi in Italia, più precisamente in Abruzzo, con la collaborazione internazionale dell’Università di Padova, quella della California e quella di Harvard, ha ricercato le credenze popolari sottostanti la paralisi del sonno.

Lo studio ha riunito 68 partecipanti che, durante la loro vita, hanno sperimentato almeno una volta la paralisi; i dati sono stati raccolti somministrando oralmente un questionario. I risultati sono interessanti: sono state trovate svariate interpretazioni culturali del fenomeno, definito nella maggior parte dei casi come attacco da Pandafeche, le quali sono risultate associate a varie credenze soprannaturali.

La Pandafeche è stata definita in svariati modi, spesso come una strega malvagia, e qualche volta come uno spirito o un terrificante gatto umanoide. La cosa interessante è che, queste creature con ben poco di reale, venivano considerate la causa diretta della paralisi del sonno nel 38% dei casi. Il 24% dei partecipanti riferiva invece di aver sentito la presenza della Pandafeche durante la paralisi. Una parte dei partecipanti, 27 su 68, inoltre ha riferito di conoscere o mettere in atto rimedi tradizionali al fine di prevenire la paralisi; i metodi includevano posizionare una scopa lungo il lato del letto, mettere un sacchetto di sabbia dalla porta della camera, indossare una croce etc… Contrariamente, un discreto numero di partecipanti non credeva nell’esistenza della creatura ma era comunque a conoscenza dei rimedi di prevenzione, questo a testimoniare quanto nella cultura del luogo fosse radicata questa credenza.

Ma cos’è realmente la paralisi del sonno? È un fenomeno psicobiologico transitorio che ha origine dalla dissincronia nell’architettura della fase REM del sonno. Nella fase REM, durante la quale si fa la maggior pare dei sogni vividi, l’atonia dei muscoli scheletrici ha anche l’obiettivo di prevenire il mettere in atto i propri sogni (Jalal & Hinton, 2013). Può però capitare che questo meccanismo sperimenti una disfunzionalità, e l’individuo, al momento del risveglio, si senta sveglio non potendosi però muoversi o parlare: il cervello è attivo e cosciente pur essendo il corpo in uno stato di riposo.

Durante la paralisi del sonno l’attività percettiva che si ha durante il sonno può essere attivata causando così illusioni ipnagogiche (durante l’addormentamento) o ipnopompiche (durante il risveglio) e facendo quindi sperimentare al soggetto esperienze sensoriali vivide che spesso, se associate anche alla paralisi, possono tradursi in esperienze di paura o angoscianti.

Sperimentare una paralisi, nella maggior parte dei casi, non è affatto piacevole, come afferma E. :

ho letto su Internet solo cose diciamo ‘paranormali’ […] provavo sensazioni di paura, terrore, ansia, tremavo, non riuscivo a muovermi e parlare, ansimavo per farmi svegliare dai miei fratelli… (CICAP, n.d.).

È quindi intuibile del perché di certe spiegazioni a carattere soprannaturale del fenomeno, c’è inoltre da dire che la paralisi del sonno non è nemmeno un fenomeno tanto raro, si stima che sia sperimentato almeno una volta nella vita dal 18 al 40% della popolazione. Questo potrebbe quindi spiegare del perché le interpretazioni, le spiegazioni e i rimedi popolari siano così ampi e variegati. Di certo è innegabile che sia un fenomeno psicobiologico affascinante e di notevole interesse così come lo sono le credenze popolari alla sua base.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Manipolare la realtà onirica: il fenomeno dei sogni lucidi

BIBLIOGRAFIA:

Disturbi specifici dell’apprendimento: aspetti emotivi e comorbilità

Veronica Gatta e Claudia Tropeano – OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Nel corso degli anni, diverse ricerche sono andate oltre lo studio dei processi cognitivi negli alunni con DSA, per prendere in esame anche tutti quei fattori emotivi che possono incidere profondamente sulla direzione dell’itinerario di sviluppo di un individuo e in tal modo possono concorrere a determinare situazioni di disagio, disadattamento o disturbo mentale

Durante il percorso scolastico, tanti bambini e ragazzi possono incontrare momenti di difficoltà nell’apprendimento. Queste difficoltà possono incidere sulla prestazione e sul rendimento scolastico provocando, a volte, problemi di adattamento e di autostima. Talvolta, il disagio psicologico associato, la scarsa autostima e le strategie di adattamento messe in atto vengono scambiate e attribuite a scarso impegno, pigrizia e svogliatezza.

Per difficoltà di apprendimento si fa riferimento ad una generica difficoltà in ambito scolastico e questa va distinta dal disturbo dell’apprendimento, che implica, invece, la presenza di un deficit specifico, che va indagato con un processo clinico-diagnostico (Cornoldi, 1997; 2007). I disturbi dell’apprendimento (DSA) hanno le caratteristiche di essere innati, resistenti al trattamento e resistenti all’automatizzazione. Il DSM V li colloca nell’Asse I, come disturbi della lettura, dell’espressione scritta e del calcolo. Nell’ICD-10 (OMS, 2007) vengono inseriti nei disturbi dello sviluppo psicologico, come disturbi specifici delle abilità scolastiche (disturbi specifici di lettura, di compitazione, delle abilità aritmetiche e disturbo specifico misto).

Tali disturbi, pur essendo evolutivi, cioè esistenti sin dalle primissime fasi di sviluppo, trovano la loro espressione negli anni della scolarizzazione, presentandosi come un evento inaspettato, visto che lo sviluppo del bambino negli anni precedenti è avvenuto secondo modi e tempi sostanzialmente nella norma, in condizioni individuali e ambientali sufficienti per raggiungere buoni risultati d’apprendimento (Ruggerini et al., 2004).

Per effettuare la diagnosi, l’abilità scolastica deve presentare un grado significativo di compromissione e deve essere specifica, cioè non attribuibile a ritardo mentale o a compromissioni minori del livello cognitivo generale. Non devono essere, inoltre, presenti altri fattori esterni in grado di spiegare le difficoltà riscontrate, come difficoltà visive o uditive. La diagnosi può essere effettuata alla scuola primaria: in considerazione dell’evolutività delle componenti implicate, la diagnosi di disturbo specifico della lettura e della scrittura può essere effettuata al termine della classe seconda; la diagnosi di disturbo del calcolo, invece, può essere effettuata al termine della classe terza. Ricerche recenti indicano che la prevalenza della dislessia in Italia è compresa tra il 3,1% e il 3,2% (Barbiero et al). La prognosi dipenderebbe da numerosi fattori, quali la gravità, la tempestività e l’adeguatezza dell’intervento, il livello cognitivo, l’associazione di difficoltà nelle diverse aree, la comorbilità con altre patologie e l’ambiente (AID, 2009).

Secondo le Raccomandazioni della Consensus Conference per comorbilità si deve intendere:

  • Un’espressione di co-occorrenza, ovvero il DSA sarebbe il responsabile del manifestarsi di un disturbo psicopatologico che potenzialmente è già esistente in forma silente, in bambini predisposti geneticamente (Milani et al.,2008)
  • Lo sviluppo di problemi psicologici dovuti ai continui e ripetuti fallimenti scolastici, che lo portano a percepirsi come inappropriato e inadeguato.

Questi vissuti emotivi possono causare una forte sofferenza emotiva che può manifestarsi dapprima con rabbia, aggressività, ritiro interiore e isolamento fino all’instaurarsi di veri e propri stati di ansia e depressione (AID,2010).

Nel corso degli anni, diverse ricerche sono andate oltre lo studio dei processi cognitivi negli alunni con DSA, per prendere in esame anche tutti quei fattori emotivi (Moè, De Beni & Cornoldi, 2007) che, entrando in gioco, possono incidere profondamente sulla direzione dell’itinerario di sviluppo di un individuo e in tal modo possono concorrere a determinare situazioni di disagio, disadattamento o disturbo mentale (Ruggerini et al., 2004). Dalla letteratura, in generale, il rischio di un’evoluzione psicopatologica appare cumulativo e determinato da più fattori: un bambino con DSA può vivere degli eventi di vita concomitanti, sfavorevoli e traumatici, che possono compromettere l’efficienza delle risorse psicologiche potenziando il rischio di un disturbo psichico (Valerio et al., 2013).

L’esperienza clinica e i dati riportati da numerose ricerche suggeriscono, infatti, che i disturbi specifici dell’apprendimento, oltre che tra loro, si presentano frequentemente associati a disturbi emotivi e comportamentali e possono essere associati a grandi sofferenze emotive nell’infanzia ed a una deviazione patologica dello sviluppo; vengono infatti considerati un fattore di rischio per un futuro disagio psicologico (Mugnaini et al. 2008).

In particolar modo, la letteratura scientifica mostra che i bambini affetti da Disturbo Specifico dell’Apprendimento, e da dislessia in particolare, sembrano essere maggiormente a rischio di sviluppare altri disturbi psicopatologici in comorbilità, come ansia e depressione (Hinshaw, 1992; Kavale & Forness, 1996). Sono spesso presenti una psicopatologia dell’umore, d’ansia, o tratti ansioso-fobici, demoralizzazione, disistima di sé, learned helplessness, disagio psicoaffettivo, inibizione, somatizzazioni, difficoltà relazionali, tratti aggressivi, isolamento sociale e oppositività (Gagliano 2008).

I bambini con disturbo specifico dell’apprendimento, rispetto ai loro compagni senza particolari difficoltà, hanno un concetto di sé più negativo (Tabassam e Grainger 2002), si sentono meno supportati emotivamente, provano più ansia e hanno poca autostima (Hall, Spruill e Webster 2002), tendono a sentirsi meno responsabili del proprio apprendimento (Anderson-Inman 1999) e a persistere poco, ovvero ad abbandonare il compito alle prime difficoltà (Bouffard e Couture 2003). In alcuni casi ciò dipende dalla difficoltà nello sviluppare i processi di autoregolazione, in particolare un sistema interno di auto-ricompensa, per cui spesso vi è la presenza di una scarsa resistenza alla frustrazione (Olivier e Steenkamp 2004).

Secondo Palladino et al. (2000) e Morgan e Fuschs (2007) i bambini con dislessia sperimentano un sovrappiù di sofferenza e rischiano di rimanere invischiati in circoli viziosi, in cui fallimenti, la scarsa consapevolezza metacognitiva, la demotivazione e il disinvestimento per i doveri scolastici si potenziano reciprocamente. La disfunzionalità sociale della dislessia dipenderà, dalla sua gravità, dal tipo e numero di caratteristiche associate e di circoli viziosi attivati (Mugnaini et al 2008).

Le ricadute psicologiche della dislessia e degli altri DSA sono ampiamente note in età evolutiva ma, costituiscono un problema rilevante anche nell’adulto, sia perchè il disagio psicologico precoce può aver determinato il cristallizzarsi di una personalità segnata dalla sofferenza in varie forme, sia perchè la persistenza di problemi funzionali continua a determinare nella vita personale, emotiva e relazionale, conseguenze che sono fonte di ansia, depressione, insicurezza.

L’ansia è il più frequente sintomo emotivo riportato nei dislessici: recenti studi (Nelson & Harwood, 2013) evidenziano la presenza di sintomi riconducibili all’ansia scolastica in circa il 70% dei bambini con difficoltà di apprendimento.

Diversi studi evidenziano un aumento dei livelli di ansia, attraverso il manifestarsi di somatizzazioni (Huntington e Bender, 1993; Masi et al.,1998), come vomito, algie addominali, cefalea tensiva. Si verifica un circolo vizioso: elevati livelli di ansia durante lo svolgimento di un compito di matematica, così come durante la lettura di un brano, proprio per la natura stessa dei due compiti, interferiscono con lo svolgimento del compito, con dirette implicazioni a livello di memoria di lavoro (Eysenck, Derakshan, Santos e Calvo, 2007) e peggioramento ulteriore della prestazione. Gli alunni in difficoltà tendono ad anticipare il fallimento e questo può provocare una forte agitazione e conseguenze psicologiche. La pratica clinica ha, infatti, evidenziato come l’insuccesso prolungato, generando scarsa autostima e mancanza di fiducia nelle proprie capacità, possa indurre nel bambino, frustrato dai suoi inspiegati insuccessi, la manifestazione di una serie di disagi che vanno dalla demotivazione all’apprendimento ad una forte inibizione, fino, in alcuni casi, alla depressione (Valerio et al., 2013).

Un problema associato con l’ansia, e che nel tempo può influire ulteriormente sui disturbi psicopatologici, è la fobia scolastica. Moè et al.(2007) la definiscono come particolare paura e avversione per la scuola che si accompagna a reazioni emotive negative associate a qualche componente dell’ambiente scolastica (i compagni, la valutazione, un docente) e che coinvolge circa il 2% della popolazione scolastica, in particolare nei momenti di passaggio, ovvero a 6 e a11 anni. Se non trattata, può portare a sviluppare gravi forme di isolamento e depressione e può essere frequente nei bambini con DSA. La spiegazione da un punto di vista comportamentale si concentra sui comportamenti di evitamento che nel tempo sono stati rinforzati attraverso forme di astensione dalla scuola (King et al., 1998).

La depressione appare essere presente nei bambini e negli adolescenti con DSA (Maughan et al., 2003; Arnold et al., 2005), anche se non molto diffusa. I bambini con questo tipo di problematiche, sono ad alto rischio di provare intensi sentimenti di dolore e sofferenza. Inoltre, il basso rendimento scolastico potrebbe predisporre i bambini a diventare più isolati, ripiegati su di sé e con problemi di emarginazione, rispetto ai bambini senza difficoltà di apprendimento (Willcutt e Pennington, 2000). Infine, è stato ampiamente dimostrato che studenti con disturbi di apprendimento manifestano una più bassa percezione di valore di sé, un concetto di sé più negativo (Alesi, Rappo e Pepi, 2012; Hall, Spruill e Webster, 2002).

È possibile sostenere che le problematiche affettivo- emotive susseguenti al manifestarsi del disturbo sono il prodotto del complesso sistema di interazioni che si sviluppa tra i soggetti coinvolti nel processo di apprendimento e tra le loro rappresentazioni mentali, sulla base delle reazioni psicologiche e comportamentali all’insuccesso nell’apprendimento.

La mancanza di speranza, in aggiunta alla bassa autostima e all’impossibilità di controllare i comportamenti avversi a cui i ragazzi DSA sono sottoposti (fallimenti scolastici, difficoltà di apprendimento, problemi relazionali, …) può portare alla formazione di ciò che viene definita Impotenza Appresa da Seligman. Ciò porta l’individuo a incolpare sè stesso della situazione in cui si trova e a dare un giudizio immutabile di incapacità globale di sé. Non si tenta di modificare il proprio stato perché, da una parte, non ci si sente all’altezza e dall’altra si considera l’ambiente come statico (Seligman, 1975). Nelle storie dei dislessici sono sempre presenti le tre caratteristiche evidenziate da Seligman sull’impotenza appresa:

  • La tendenza a pensare che le cose negative siano permanenti
  • La tendenza a generalizzare la negatività e percepirla come pervasiva di tutta la vita
  • La tendenza alla personalizzazione, cioè a considerarsi come la causa della negatività.

La qualità dell’esistenza di ogni bambino è influenzata dal modo in cui egli apprende, fin dai primi anni di vita, ad affrontare le proprie emozioni. È evidente che la tensione emotiva interferisce negativamente con l’efficacia di parecchie prestazioni cognitive, come la capacità di concentrazione, l’attenzione, la capacità mnemonica. Quindi con i bambini con DSA, per i quali lo scontro con le emozioni negative è quotidiano, un programma di educazione emotiva potrebbe essere un valido aiuto per imparare ad affrontare costruttivamente le difficoltà che incontra nella vita di ogni giorno.

Alla luce dei dati riportati, è importante che i clinici rivolgano l’attenzione agli aspetti emotivi associati e ad un’analisi psicologica, indagando i fattori di rischio che aumentano la probabilità di incorrere in un disagio (adhd, predisposizione all’ansia, scarso sostegno sociale) e dall’altra lo spettro psicologico che la letteratura segnala poter essere presente in comorbilità. É fondamentale cercare e promuovere nel bambino e nel suo ambiente azioni di protezione da forme di disadattamento e conoscere ed identificare i fattori di rischio e di protezione per permettere alla scuola, agli insegnanti, ai genitori e ai clinici di delineare le priorità di intervento per la prevenzione e la riduzione del disagio.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

EdiTouch: combattere la dislessia a tocchi di dita!

 

BIBLIOGRAFIA:

  • AID, Associazione Italiana Dislessia (2009), Consensus Conference, Disturbi evolutivi specifici di apprendimento. Raccomandazioni per la pratica clinica.
  • AID- Associazione italiana dislessia (2010). Guida al piano didattico personalizzato DOWNLOAD
  • Alesi, M., Rappo, G., Pepi, A. (2012). Self-esteem at school and self-handicapping in childhood: comparison of groups with learning disabilities. Psychol Rep;111(3):952-62.
  • Anderson-Inman, L. (1999), Computer-based solution for secondary students with learning disabilities: Emerging issues, in Reading and writing quarterly, 15, pp.239-249
  • Arnold, E.M., Goldston, D.B., Walsh, A.K., Reboussin, B.A., Daniel, S.S., Hickman, E., Wood, F.B. (2005). Severity of emotional and behavioral problems among poor and typical readers. Journal of Abnormal Child Psychology 33(2): 205-17.
  • Barbiero, C., Lonciari, I., Montico, M., Monasta, L., Penge, R., Vio, C., Tressoldi, P. E., Ferluga, V., Bigoni, A., Tullio, A., Carrozzi, M., Ronfani, L. (2012) The submerged Dyslexia iceberg: how many school children are not diagnosed? Results from an Italian study. PLOS ONE, 7 (10). DOI: 10.1371/journal.pone.0048082
  • Bouffard, T. e Couture, N. (2003), Motivational profile and academic achievement among, students enrolled in different schooling tracks in Educational Studies, 29, pp.19-38
  • Cornoldi, C. (2007). Difficoltà e disturbi dell’apprendimento. Il Mulino, Bologna
  • Eysenck, M.W., Derakshan, N., Santos, R.,& Calvo , M.G.(2007). Anxiety and cognitive performance: Attentional control theory. Emotion, 7, 336-353. DOWNLOAD
  • King, N. J., Eleonora, G., Ollendick, T.H. (1998). Etiology of childhood phobias: current status of Rachman’s three pathways theory. Behav Res Ther. 36(3):297-309.
  • Gagliano, A., Germanò, E., Calarese, T., Magazù, A., Grosso, R., Siracusano, R.M., Cedro, C. (2008). La comorbilità nella dislessia: Studio di un campione di soggetti in età evolutiva con disturbo di lettura. Dislessia, 4 (1), pp. 27-45.
  • Hall, C.W., Spruill, K.L e Webster, R.E. (2002), Motivational and attitudinal factors in college students with and without learning disabilities. Learning Disability Quartely, 25, pp.78-86
  • Hinshaw, S. (1992). Externalizing behavior problems and academic underachievement in childhood and adolescence: causal relationships and underlying mechanism. Psychological Bulletin,111, 127-155.
  • Huntington, D.D., Bender, W.N. (1993). Adolescents with learning disability at risk? Emotional well-being; depression, suicide. Journal of Learning Disabilities 26(3): 159-66
  • Kavale, K.A., Forness, S.R. (1996), Learning disabilities grows up: rehabilitation issues for individuals with learning disabilities. J Rehabil 62:34-41.
  • Masi, G. (1999). Disturbi di apprendimento e disturbi depressivi in età evolutiva. Giornale di Neuropsi-chiatria dell’Età Evolutiva 19: 105-15.
  • Maughan, B., Pickles, A., Hagell, A., Rutter, M., Yule, W. (1996). Reading problems and antisocial behavior: Developmental trends in comorbidity. Journal of Child Psychology and Psychiatry 37(4): 405-18.
  • Maughan, B., Rowe, R., Loeber, R., Stouthamer-Loeber, M. (2003). Reading problems and depressed mood. Journal Abnorm Child Psychology, 31(2):219-29.
  • Milani L., Gentile S. e Guzzino D. (2008). Aspetti psicopatologici nei Disturbi Specifici di Apprendimento, presentazione poster al Congresso dell’Associazione Italiana Dislessia Essere Dys, Roma, 31 ottobre-1 novembre 2008.
  • Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità (2011) Consensus Conference Disturbi specifici dell’apprendimento
  • Moè, A., De Beni, R., & Cornoldi, C. (2007). Difficoltà d’apprendimento: Aspetti emotivo-motivazionali. In C. Cornoldi ( a cura di), Difficoltà e disturbi dell’apprendimento (pp.253-271) Bolo-gna: Il Mulino.
  • Morgan, P.L., Fuchs, D. (2007). Is there a bidirectional relationship between children’s reading skills and reading motivation? Exceptional Children 73(2): 165-83.
  • Mugnaini, D., Fabiano, G.A. (2006). The evaluation of impairment in the Attention Deficit / Hyperactivity Disorder: the contribution of the Impairment Rating Scale. Minerva Pediatrica 58: 159-66.
  • Mugnaini, D., Chelazzi, C. e Romagnoli, C. (2008) Correlati psicosociali della dislessia: Una rassegna, Dislessia, vol. 5, n. 2, pp. 195-210.
  • Olivier, M.A.J. e Steenkamp, D.S (2004), Attention–deficit/hyperactivity disorder: underlyng deficits in achievement motivation. International journal for the advancement of counseling, 26, pp.47-63.
  • Oms (2007), International Classification of Diseases, ICD-10.
  • Palladino, P., Poli, P., Masi, G., Marcheschi, M. (2000). The relation between metacognition and depressive symptoms in preadolescents with learning disabilities: Data in support of Brokowski’s model. Learning Disabilties Research and Practice 15(3): 142-8.
  • Ruggerini, C., Luci, A. (2010). Il ruolo della psicoterapia nei disturbi specifici del’apprendimento. Dislessia. Vol.7 n.2 197-209.
  • Seligman, M.P.E. (1975). Helplessness: on depression, development, and death. San Francisco, W.H. Frreman
  • Valerio, P., Pepino, A., Striano, M., & Oliverio, S. (2013). Disturbi specifici dell’apprendimento e formazione, tra Scuola e Università. Uno sguardo interdisciplinare. Napoli: Ateneapoli Srl.
  • Willcutt, E. G., Pennington, B.F. (2000). Psychiatric comorbidity in children and adolescents with reading disability. Journal of Child Psychology and Psychiatry 41(8): 1039-48.

Siblings: essere fratelli di ragazzi con disabilità – Recensione del nuovo libro di Alessia Farinella

Una breve opera ma che riassume alcune delle principali esperienze cliniche ed educative con i siblings. Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per le modalità con le quali i siblings fronteggiano e si adattano alla vulnerabilità del fratello, si tratta di un ambito della ricerca teorica e applicata molto importante.

 

Caterina ha cambiato la mia vita. Mi aiuta a guardare le cose che mi succedono dalla giusta prospettiva. Mi ha reso più sensibile ai bisogni delle altre persone e disponibile ad accettare gli altri. Ma lei fa tutto lentamente: mangiare, giocare, imparare… e anch’io devo rallentare, anche se a volte mi sembra che in realtà la sua presenza mi freni, mi porti indietro.

Alessandro

Questa è una delle brevi e incisive testimonianze di un fratello di un bambino con disabilità, che l’autrice riporta nel suo testo . Una breve opera ma che riassume alcune delle principali esperienze cliniche ed educative con i siblings, termine anglosassone comunemente utilizzato per indicare i fratelli e le sorelle di bambini, ragazzi con una disabilità.

Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per le modalità con le quali i siblings fronteggiano e si adattano alla vulnerabilità del fratello, si tratta di un ambito della ricerca teorica e applicata molto importante. È utile, infatti, sapere se per i fratelli stessi esiste un maggior rischio di comparsa di problemi emotivi, comportamentali o sociali dovuti alla vulnerabilità del congiunto e se esistono dei fattori protettivi che possono impedirne il manifestarsi (Lobato, 1993).

Inoltre come indica Farinella: la comprensione delle dinamiche interne alla fratria con disabilità consente di incrementare le conoscenze relative ai processi di coping e di resilienza delle famiglie.

I progetti Siblings per il supporto per fratelli in età preadolescenziale

Una realtà che si sta progressivamente diffondendo è quella dei gruppi di supporto per fratelli e sorelle di persone con disabilità. Seppur con caratteristiche e impostazioni differenti alcuni si configurano come gruppi di mutuo aiuto, altri come gruppi terapeutici, altri ancora come attività di laboratorio come il modello americano dei sibshop.

Indipendentemente dal modello di riferimento queste esperienze partono dalla considerazione che essere un fratello o una sorella di una persona con una vulnerabilità specifica e bisogni speciali può rappresentare per alcuni un opportunità di crescita e di resilienza e per altri un fattore di rischio.

Quindi fattore protettivo o fattore di rischio? Se la risposta non è determinabile a priori e non è sempre uguale, risulta molto importante mettere in campo iniziative che orientino verso una risposta resiliente facilitando processi di crescita post-traumatica. La disabilità di un componente è un evento doloroso e traumatico per una famiglia , certo lo è maggiormente per i genitori ma non da sottovalutare il vissuto dei fratelli e sorelle.

Tra le esperienze cliniche che l’autrice ci illustra c’è quella del Piemonte avviata nel 2010 dall’Associazione Fiori sulla Luna, che ha avviato gruppi di supporto per siblings preadolescenti di persone con disabilità ai fratelli preadolescenti. Il progetto SIBLINGS si è rivolto ai fratelli e alle sorelle di età compresa tra gli 8 e i 13 anni; ha avuto una durata annuale suddivisa in due moduli semestrali con gruppi di circa 8-10 partecipanti. Il modello di riferimento per le attività di gruppo è quello anglosassone di Meyer, 2005 e Strohm, 2005.

I momenti di incontro tra fratelli si sono connotati come occasioni ludico-ricreative in cui le attività proposte avevano i seguenti obiettivi principali:

  • creare occasioni di condivisione e comunicazione fra i siblings;
  • aiutare i ragazzi a sviluppare una migliore comprensione dei bisogni dei loro fratelli vulnerabili;
  • divertirsi insieme ad altri coetanei che condividono la condizione di siblings di persone con disabilità;
  • aiutare i partecipanti a esplorare le proprie risorse e a valorizzare la propria unicità, alla stregua dei loro fratelli disabili;
  • stimolare l’acquisizione di strategie per un migliore adattamento alla situazione di siblings di ragazzi fragili;
  • aumentare la comunicazione all’interno delle famiglie

L’esperienza è risultata positiva per i fratelli e i loro genitori ai quali gli operatori hanno dato una restituzione finale. I partecipanti hanno avuto l’occasione di condividere vissuti comuni e confrontarsi circa le loro strategie di fronteggiamento di difficoltà quotidiane di relazione con i fratelli.

I fratelli come caregiver

Il mio futuro me lo immagino da moglie e madre, magari in campagna, con due bambini che vanno in bicicletta in cortile. Se penso a mia sorella questo futuro cambia. Finché ci sono i miei genitori sono loro che se ne prendono più cura e so che stanno pensando a inserirla in un gruppo appartamento. Io non so ancora bene cosa vorrei, ma quest’idea non mi piace molto… di sicuro voglio continuare a essere parte della sua vita e che lei lo sia della mia… magari in una casa grande, con qualche aiuto potremmo anche vivere insieme.

Giorgia

Il futuro è, per i siblings di ragazzi fragili, un argomento molto delicato e complesso all’interno della famiglia. Si sperimentano preoccupazioni in merito a chi si occuperà dei fratelli quando i genitori invecchieranno, come dovranno organizzare la loro famiglia futura e se la propria vita potrà essere limitata dai bisogni speciali del fratello. Sono certamente domande lecite non egoistiche. Un’altra domanda che sottende ad una paura grande è la seguente? ma potrò trasmettere ai miei figli la disabilità del mio fratello? Il tema della natura ereditaria della disabilità è certamente un tema molto delicato, talvolta le paure sono infondate talvolta non si hanno risposte certe.

In ogni caso e su qualunque argomento specifico, i siblings hanno diritto a essere rassicurati e a ricevere informazioni veritiere e chiare.

In alcune famiglie si evitano questi discorsi per proteggersi da emozioni dolorose, in altre si pianifica il futuro del figlio sano sul quale vengono posti alti standard come riscatto. Ci sono famiglie con disabilità dove tutti hanno informazioni chiare ed anche gli altri figli sono coinvolti nelle decisioni di un fratello.

Diversi studi (Kersh e Hauser-Cram, 2006; Howell, Hauser-Cram e Kersh, 2007) sul clima familiare nell’ambito della disabilità citati dall’autrice, evidenziano come una relazione positiva tra i membri della famiglia e, in particolare tra i genitori, determina con più facilità un ambiente familiare che promuove il benessere di tutti e lo sviluppo di competenze sociali nei bambini , siano essi a sviluppo normo tipico o no.

Un libro utile, che ben sintetizza le esperienze di lavoro con i siblings. Consigliato agli operatori e volontari del settore e ai genitori.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Da castigo degli dei a diversamente abili: l’identità sociale del disabile nel corso del tempo

 

BIBLIOGRAFIA:

Vite senza immaginazione: cosa sono?

Vite senza immaginazione: questo è il titolo di un contributo che dedica attenzione a quelle persone che hanno difficoltà proprio nel visualizzare con l’occhio della mente diversi aspetti dell’esperienza: dall’immaginarsi qualcosa a partire da una lettura, da un racconto o dai propri ricordi. 

Il professor Zeman ha rivisitato il fenomeno approfondito Francis Galton alla fine dell’800 secondo cui si stimava che circa il 2,5% della popolazione potesse essere affetto da questo deficit; ad oggi anche a livello epidemiologico questo fenomeno risulta ancora scarsamente esplorato e non possiamo sbilanciarci sulle percentuali.

L’immaginazione mentale visiva è il risultato dell’attività di un network di regioni cerebrali ampiamente distribuite nel cervello che lavorano in interazione per generare le immagini mentali a partire anche dalle nostre memorie e ricordi: i lobi parietale e frontale “preparano” il processo della visualizzazione che viene effettivamente riprodotto dai lobi temporale e occipitale – attraverso quello che in gergo viene chiamato “l’occhio della mente”.

Dunque la difficoltà nell’immaginazione può risultare a seguito dell’alterazione funzionale di una di queste aree o della loro interazione, può trattarsi di un difetto presente dalla nascita o di un deficit a seguito di danni cerebrali.

La storia di questo articolo è bizzarra, poiché a partire dalla divulgazione su un giornale americano non specialistico di un report scientifico di un single-case study che raccontava il caso di un uomo con questo deficit di immaginazione visiva, ben 21 persone hanno contattato l’autore dell’articolo riconoscendosi nei sintomi descritti.

L’esperienza e la fenomenologia descritta da questi 21 soggetti è stata ora pubblicata sulla rivista scientifica Cortex: dal terribile impatto emotivo di Tom nel realizzare che a differenza degli altri non riesce a dare un volto alle persone nei suoi ricordi; o di Neil che fin dall’infanzia non è mai riuscito a contare le pecorelle per addormentarsi e che pur amando la lettura evita quei libri che si dilungano in descrizioni paesaggistiche che per lui rimangono pure astrazioni non traducendosi in immagini mentali.

E’ interessante notare che in quella che viene definita aphantasia congenita vi è una dissociazione tra l’incapacità di immaginare intenzionalmente qualcosa e invece quella che viene definita immaginazione involontaria, per esempio nei sogni che è generalmente preservata.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La creatività secondo la teoria sistemica di Csikszentmihalyi: il ruolo della persona

BIBLIOGRAFIA:

Il catalogo dei seminatori: Il codardo parte II – Tracce del Tradimento Nr. 22

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTOXXII: il catalogo dei seminatori: il codardo parte II

 

Perché il codardo non riesce a dire cosa vuole? Egli pensa che se esprimesse i suoi bisogni, e in particolare i desideri di una maggiore distanza dal partner, di una maggiore area di libertà, l’altro potrebbe soffrire e giudicarlo cattivo ed insensibile.

Questo pensiero lo costringe a stare nel rapporto e gli fa percepire il rapporto stesso come soffocante, aumentando la colpevole -ai suoi occhi- voglia di fuga. Al contrario il non esprimere i suoi bisogni e uniformarsi a quelli dell’altro mettendosi a sua totale disposizione, se da un lato lo sacrifica, dall’altro gli da un senso di superiorità morale: è sempre lui che si immola per gli altri. Paradossalmente il risultato di questo tentativo di non far soffrire gli altri esita in una sofferenza diffusa e crescente di tutti: soffre il coniuge, soffre l’amante e soffre lo stesso codardo. La sofferenza di tutti è direttamente proporzionale al tempo che trascorrerà prima dell’esito che sarà comunque qualcun altro a decidere, certamente non lui.

Il suo motto sembra essere: Fate di me ciò che volete ma non chiedetemi cosa voglio! Io voglio ciò che voi volete che io voglia, la sua linea del Piave è la decisione: non la oltrepasserà mai. Decidere è un atto che comporta dei rischi, potrebbe sbagliarsi, potrebbe pentirsi, l’altro potrebbe prenderla male, non sa bene quale sia poi la scelta sensata, ha voglia di una cosa ma poi pensa a cosa perde e il suo desiderio si confonde. Poiché lo scopo del lasciar tracce è segnalare all’altro che vuole interromper il rapporto, se l’altro non capisce il volume del segnale viene costantemente aumentato creando situazioni sempre più esplicite e dolorose.

Se il partner appartiene alla categoria dei creduloni che fanno di tutto pur di non prendere atto della situazione e di non interrompere il rapporto e dunque non vede quello che è evidente a tutti gli altri, il codardo arriva a fare cose sempre più sfacciate e ad aumentare il livello delle provocazioni. Il pubblico di amici e parenti finisce per condannarlo apertamente per il modo quasi crudele e offensivo con cui tratta il partner: la colpa che voleva evitare gli viene esplicitamente attribuita. Non solo semina tracce imbarazzanti, ma quando gli vengono chieste spiegazioni del suo comportamento risponde al partner in modo evasivo: non ammette e non smentisce decisamente o se lo fa, lo fa in modo poco convinto: non vuole dire la verità, ma vuole che l’altro la capisca da solo.

La tappa intermedia a cui punta prima della fine del rapporto è una definizione del tipo: non c’è un altro (o se c’è è poco importante), il problema è che il nostro rapporto è in crisi. In questo modo egli pensa di non arrecare sofferenza all’altro dicendogli che gli preferisce un altro: tu vai bene, siamo noi che non funzioniamo. Questa posizione gli permette anche di tornare indietro sulle sue decisioni e gli lascia una porta aperta. La conclusione ideale per il codardo è una chiusura del rapporto che immagina avvenire quasi in perfetta concordia o addirittura con i ringraziamenti dell’altro. Il messaggio che goffamente tenta di far passare, spesso suscitando le ire dell’altro è Ti lascio per il tuo bene, perché non so amare e non ti merito; tu devi avere molto di più. Quanto sarebbe più facile, invece, per l’altro farsi una ragione di ciò che succede se il buon samaritano dicesse chiaramente: sto pensando al mio bene e non al tuo e tu non mi piaci più.

Non è facile distaccarsi da qualcuno che ancora si ama e che ti racconta di fare per te un gesto di altruismo estremo allontanandosi per il tuo bene e dichiarandoti mentre se ne va quanto ti ama: il codardo se ne va tentando di lasciare una buona immagine di se, tenendosi aperta la via del ritorno, impedendo all’altro di prendere le distanze, di criticarlo, di essere arrabbiato. L’altro quasi dovrebbe essere grato al suo carnefice e mentre gli taglia la testa ringraziarlo perché sta per liberarlo di ogni futuro mal di testa. Il codardo se ne va ma vuole rimanere indelebilmente nel cuore dell’altro; vuole la libertà ma non vuole lasciare libero l’altro. Il suo esibito altruismo cela un egoismo assoluto.

Alberto e Simona stavano insieme da sette anni ed erano sposati da tre. Lei aveva iniziato a tradirlo con un collega di lavoro non appena avevano deciso di sposarsi e non sapeva darsene una spiegazione se non che l’altro, un certo Oreste, aveva mostrato interesse per lei e le sembrava scortese mostrarsi scostante. Anche la decisione del matrimonio era stata presa su sollecitazione di Alberto. Simona si trovava nelle situazioni che gli altri creavano, ne era spettatrice o al massimo attrice ma mai regista. Quando parlava di Alberto ne diceva tutto il bene possibile, lo descriveva come un marito ideale, premuroso e attento. Tutto tra loro andava bene ed il fatto di avere una relazione con Oreste sembrava del tutto estraneo al loro menage familiare, come fare un corso di ikebana. I suoi genitori e i suoceri spingevano per una gravidanza che lei riteneva una cosa da fare prima o poi e proprio in contemporanea all’aumentare di queste pressioni, si moltiplicarono i segni evidenti del tradimento.

Le tracce erano così evidenti e inequivocabili che gli amici più cari della coppia avevano cercato di parlarle ma lei negava continuando ad affermare che il matrimonio era perfetto. Oreste era quasi entrato stabilmente in casa con la scusa di lavorare con Simona e spesso rimaneva a cena e talvolta trascorreva con loro anche i fine settimana, essendo scapolo. Alberto iniziò a confidarsi con Oreste circa quello che avvertiva come un progressivo allontanamento di Simona e trovò dall’altra parte un amico attento e comprensivo. Alberto diceva quanto si rendesse conto di non essere in grado di dargli la felicità a motivo della sua radicale incapacità di amare e che gli era grata per quanto lui aveva saputo darle in tutti questi anni. A sua volta Simona diceva a Oreste che si sentiva lacerata dai sensi di colpa per quanto aveva fatto e che non sarebbe mai potuta essere felice se avesse fatto soffrire così tanto quel sant’uomo di Alberto e così, dopo avergli strappato la promessa solenne di non dire mai nulla della loro storia, se ne andò lasciandoli entrambi con un palmo di naso. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Un cattivo matrimonio spezza davvero il cuore? Relazioni sentimentali & malattie cardiache

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Mindfulness Based Stress Reduction con pazienti oncologici: studi recenti sulle applicazioni

Laura Prosdocimo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

La ricerca oramai ha ampiamente dimostrato l’efficacia del programma Mindfulness Based Stress Reduction –MBSR. Mindfulness, ricordiamo, riguarda la pratica di consapevolezza al presente, momento per momento, in modo non giudicante, con atteggiamento aperto all’accettazione.

Il percorso di riduzione dello stress Mindfulness-Based (MBSR) comprende 8 settimane in cui i partecipanti praticano la consapevolezza per migliorare la qualità della vita e il benessere psicologico quando ci sono dei problemi di salute, come l’ipertensione, il diabete, il dolore cronico e per ridurre i livelli di stress.

Attualmente gli studi più recenti si stanno in particolare concentrando sull’analisi del potenziale del programma MBSR nell’ambito delle patologie croniche, come il tumore, il dolore cronico.

Nonostante la crescente evidenza degli effetti positivi del MBSR tra i pazienti oncologici, gli interventi di Mindfulness sono stati poco applicati a pazienti con cancro al polmone. Le statistiche globali in oncologia mostrano che il cancro del polmone è il secondo tumore più comune in tutto il mondo con nuovi casi stimati per i maschi che sono il 17,6% e per le femmine del 9% ogni anno (Jemal A et al., 2011). La diagnosi di cancro al polmone è una delle principali cause di disagio psicologico, con sintomi come l’ansia e la depressione e i livelli di maggiore stress vengono registrati nel 58% dei pazienti affetti da tumore del polmone (Carlson et al.,2004), che a sua volta riduce la qualità della vita (Temel JS, 2010).

Lo studio di Van den Hurk e colleghi (2015) è stato realizzato su un gruppo di 19 pazienti affetti da cancro del polmone (79% in stadio avanzato) e 16 partner che hanno partecipato alla formazione MBSR.

Le valutazioni si sono svolte dopo il percorso MBSR e tre mesi più tardi con i seguenti questionari:
– Disagio psicologico. L’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS)
– Qualità della vita. Questionario per il cancro al polmone (QLQ-LC13) dell’Organizzazione europea per la Ricerca e Cura del Cancro (EORTC) ,Nucleo Qualità della vita, con 13 items specifici per i sintomi associati al cancro del polmone (tosse, emottisi, dispnea, dolore) ed effetti collaterali da chemioterapia convenzionale e la radioterapia.
– Reazione psicologica allo stress. L’Impact of Event Scale (IES) è un questionario a 15 items che misura le esperienze intrusive e l’evitamento di pensieri e immagini associati all’evento.
– Rimuginio misurato con il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ) e il Livello di Attenzione/consapevolezza misurati con il Mindful Attention and Awareness Scale (MAAS). Infine la Valutazione del caregiver attraverso il Self-Perceived Pressure from Informal Care (SPPIC), un questionario che valuta in che misura il caregiving viene percepito come un peso e Valutazione della reazione del Caregiver (CRA-SE) per valutare anche gli aspetti positivi di caregiving.

Entro un 1 anno dalla formazione MBSR sono state fatte, da un ricercatore non coinvolto nella formazione MBSR, delle interviste semi-strutturate sui seguenti argomenti :
Fattibilità di MBSR:
– Facilitatori alla partecipazione;
– Barriere alla partecipazione;
– Partecipazione con il gruppo dei pari;
– Partecipazione con il partner.
L’esperienza della formazione MBSR:
– A livello fisico;
– Emozionale;
– Spirituale;
– Relazionale.

Di quelli che hanno iniziato la formazione, 13 pazienti (68%) e 11 partner (69%) hanno completato la valutazione post-trattamento. La valutazione di follow-up è stata completata da 9 (47%) pazienti e 8 (50%) partner.

I pazienti hanno dichiarato che la durata e la frequenza della formazione era fattibile, nonostante i loro sintomi fisici e le terapie in corso. La funzionalità fisica è stata menzionata da alcuni pazienti e partner come un facilitatore. E’ stato valutato positivamente il fatto di partecipare a un gruppo, sentito come un ambiente aperto e sicuro e partecipare con il partner ha migliorato la comunicazione tra loro e con i bambini.

I pazienti hanno evidenziato aspetti di cui non avevano consapevolezza prima, hanno descritto con una maggiore consapevolezza i loro pensieri, le loro emozioni e sensazioni; con l’intuizione acquisita di recente dei loro schemi abituali, alcuni partecipanti sono stati in grado di cambiare il loro comportamento e diversi hanno cominciato a fare delle scelte e stabilire delle priorità che erano più in linea con i loro valori. Altri partecipanti, tuttavia, non sono stati in grado o non hanno voluto accettare la loro situazione.
Questo studio ha dimostrato che la partecipazione alla formazione MBSR è fattibile per i malati di cancro del polmone e i loro partner, nonostante il trattamento farmacologico e la malattia avanzata. La maggioranza ha completato l’MBSR, (23% di drop-out è in linea alla media di studi precedenti (Ledesma D. and Kumano, 2009).

Sebbene non siano state rilevate variazioni sullo stress psicologico nei pazienti e i loro partner, questi ultimi hanno sperimentato una minore pressione relativa al caregiving dopo la formazione MBSR. L’analisi qualitativa ha rivelato che il percorso ha avviato processi di cambiamento e acquisizione di migliore capacità di insight che risulta particolarmente d’aiuto per far fronte ad una malattia fatale.

Molti pazienti oncologici presentano alti livelli di ansia, depressione, affaticamento, dolore, disturbi del sonno dopo il completamento dei trattamenti primari (Carlson et al., 2004). I potenziali benefici per la salute dalla meditazione di Mindfulness in oncologia come in altri settings medici stanno diventando chiari, in gran parte grazie allo sviluppo e la diffusione delle applicazioni del programma MBSR di Jon Kabat-Zinn e colleghi (Kabat-Zinn J.,1990) e altri interventi mindfulness-based (MBI), compreso l’adattamento chiamato Mindfulness-Based Cancer Recovery (MBCR; Carlson & Speca, 2010).

In ambito oncologico i risultati di nove studi randomizzati controllati (RCT) indicano un effetto positivo degli interventi Mindfulness-Based sui sintomi di stress, disturbi dell’umore, depressione, ansia, stress percepito, sulla qualità della vita, il funzionamento fisico, sonno, stanchezza, e stati d’animo (Branstrom, Kvillemo, e Moskowitz, 2011; Carlson et al, 2013;. Garland et al, 2014;.. Henderson et al, 2012;. Hoffman et al, 2012; Lengacher et al, 2009;. Shapiro, Bootzin, Figueredo, Lopez, e Schwartz, 2003; Speca, Carlson, Goodey, e Angen, 2000;. Wurtzen et al, 2013).

Tuttavia non è ancora noto quali elementi del programma MBSR promuovano il cambiamento e quali costrutti specifici siano fondamentali per dei risultati di cambiamento. Ricercatori clinici da ambiti diversi enfatizzano l’importanza di capire come gli interventi funzionino al fine di rendere più efficace il trattamento a seconda dell’ambito d’intervento.

La premessa fondamentale di MBI è che le tecniche praticate (vale a dire, la meditazione mindfulness) coltivano la consapevolezza come una qualità della coscienza (Kabat-Zinn, 1990), ma questo costrutto è difficile da misurare. Le misure di self-report analizzate contengono da 1 a 5 sfaccettature in disaccordo con la definizione del costrutto (es. Grossman & Van Dam, 2011). Due delle misure più accuratamente convalidate della consapevolezza sono il Mindful Attention Awareness Scale (MAAS) e il Five Facet Mindfulness. (FFMQ).

Il MAAS produce un unico punteggio che rappresenta la presenza o l’assenza di attenzione e consapevolezza di ciò che sta accadendo nel presente nelle attività quotidiane (cioè, la propria tendenza ad “agire consapevolmente”).

Il FFMQ valuta le “abilità di mindfulness” come partecipare all’attuale momento di esperienza, accettando / permettendo l’esperienza senza giudizio, etichettare esperienze interiori con le parole, agendo con la consapevolezza nella vita quotidiana e sperimentando la non reattività di esperienza interiore. Sia MAAS che FFMQ correlano con le rilevazioni sul funzionamento psicologico e di benessere.

Tuttavia, non è chiaro se questi questionari valutano aspetti del funzionamento connessi con la consapevolezza di per sé, o dei suoi antecedenti o effetti (Brown et al., 2007). Teorie riguardanti i meccanismi di MBIs sostengono che il coltivare la consapevolezza innesca processi di regolazione delle emozioni che ottimizzano il funzionamento psicologico e riducono lo stress psicologico (Fig.1) e ci sono sempre più evidenze che MBIs migliorano le capacità di consapevolezza in soggetti normali, gruppi sottoposti a stress e gruppi di soggetti malati di cancro.

Tuttavia Carmody, Baer, Lykins, e Olendzki (2009) hanno scoperto che durante il programma MBSR, l’auto regolazione delle emozioni e dei pensieri non risulta essere un mediatore dell’associazione tra il tratto mindfulness e la riduzione dei sintomi psicologici.
Per definire il cambiamento in una variabile particolare, il cambiamento deve in quella variabile precedere e predire i risultati di cambiamento attraverso l’intervento. La maggior parte degli studi MBI presentano i dati di variabili misurate in due momenti (prima e dopo il programma) e perciò non era possibile valutare la precedenza temporale di cambiamento.
Senza evidenza della sequenza temporale di cambiamento non possono essere esclusi modelli alternativi (ad esempio, il miglioramento del funzionamento psicologico dovuto all’associazione tra partecipazione a MBI e una maggiore consapevolezza) (Baer, 2011). La mancanza di evidenze della sequenza del cambiamento contribuisce anche ad aumentare l’ambiguità nel distinguere il costrutto di mindfulness dai suoi antecedenti ed effetti.

Nello studio di Labelle e colleghi (2015) vennero selezionati 324 pazienti dalla lista d’attesa, i quali completarono i questionari prima, a metà programma e alla fine. Le variabili rilevate sono le seguenti:
Sintomi fisici e psicologici legati allo stress con il Calgary Symptoms of Stress Inventory (CSOSI; Carlson & Thomas, 2007), disturbo dell’umore con il Profile of Mood States (POMS; McNair, Lorr, & Droppelman, 1971), la consapevolezza al momento presente con il Mindful Attention Awareness Scale (MAAS; Brown & Ryan, 2003), Osservazione, descrizione a parole, azione, non giudizio e non reazione attraverso il Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ; Baer et al., 2006), ruminazione : Rumination-Reflection Questionnaire (RRQ; Trapnell & Campbell, 1999), tratti di rimuginio : Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer, Miller, Metzger, & Borkovec, 1990), evitamento esperienziale e la tendenza a valutare l’esperienza interiore negativamente: Acceptance and Action Questionnaire (AAQ; Hayes et al., 2004).

Il gruppo MBSR è costituito da 135 pazienti e 76 del gruppo di controllo, sono stati considerati drop-out pazienti che hanno frequentato meno del 50% del programma. Alla tabella 2 troviamo le statistiche descrittive dei questionari ad ogni punto temporale.
I partecipanti MBCR hanno rivelato maggiore decremento dei sintomi di stress e disturbi di umore durante il periodo. La partecipazione è inoltre associata ad un maggiore aumento di consapevolezza rilevato tramite MAAS e tutte e cinque gli aspetti del FFMQ e il gruppo rilevò maggiore riduzione della uminazione, rimuginio, evitamento esperienziale rispetto al gruppo di controllo. La tabella n. 4 riporta i risultati (secondo il modello lineare gerarchico –HLM-). E’ stata rilevata una prima variazione significativa dell’Osservazione, poi del non giudizio, ruminazione, rimuginio, riduzione del disturbo dell’umore correlato al numero di partecipazione alle sessioni (figura n. 3).

Il secondo obiettivo di questo studio è stato quello di verificare se i primi cambiamenti di consapevolezza e regolazione delle emozioni (ER) mediano l’effetto di MBSR sui cambiamenti successivi. I risultati non sono coerenti con la teoria che i cambiamenti nella consapevolezza precedono e mediano i miglioramenti in ER e funzionamento psicologico (Figura 1), quando la sequenza di cambiamento viene esaminata relativamente a una singola valutazione a metà programma. È interessante notare che lo sviluppo precoce dell’ osservazione del presente con consapevolezza non giudicante (PNA) media successive variazioni delle altre abilità di mindfulness (MAAS, descrivere e non-reagire).

Un dibattito fondamentale in letteratura è se questionari mindfulness valutino la consapevolezza di per sé, le condizioni che supportano lo svolgersi e l’espressione della consapevolezza (ad esempio, gli atteggiamenti, come non giudicante / di accettazione), o gli antecedenti di mindfulness (ad esempio, migliore regolazione emotiva; Brown et al. , 2007).

In uno studio osservazionale che indagava le sfaccettature del FFMQ in relazione alla regolazione emotiva e le variabili di salute / benessere mentale, Coffey Hartman, e Fredrickson (2010) hanno concluso che l’osservazione e il non-giudizio sembrano essere le vere misure della mindfulness, in linea con la definizione del costrutto come, consapevolezza del momento presente in modo non giudicante preso in esame anche da Bishop e colleghi (2004).

In modo simile lo studio di Labelle (2015) suggerisce che il descrivere e non-reagire possono essere meglio concettualizzati come sequele di mindfulness, o della regolazione emotiva, misurando cosa mindfulness fà piuttosto che cosa sia (Brown et al. 2007; Coffey et al. 2010). I risultati inoltre suggeriscono che la riduzione della ruminazione e del rimuginio sono la via attraverso la quale MBSR migliora l’attenzione al momento presente e la non-reattività in pazienti oncologici.

Anche riduzioni relativamente piccole della ruminazione e del rimuginio nella fase iniziale possono aver reso più semplice per i partecipanti l’applicazione delle tecniche di mindfulness, contribuendo a migliorare i punteggi di mindfulness nel corso del tempo.
Solo una associazione risulta essere nella direzione del modello teorico. Precoci riduzioni del rimuginio mediano l’effetto di MBCR sui successivi miglioramenti dei sintomi da stress. Questo risultato è pertinente e comune tra i pazienti oncologici ed è connesso ai sintomi psicologici e al benessere (esempio Schroeevers et al., 2006).

E’ interessante inoltre osservare che la riduzione della ruminazione durante la prima metà del programma media l’effetto MBSR relativo ad un successivo minore evitamento esperienziale. Durante l’MBSR, riducendo l’eccessivo coinvolgimento con i propri pensieri relativi alle perdite, paure e ingiustizie si possono ridurre modelli che includono pensieri spiacevoli e sentimenti attivati nel tentativo di controllare quelle esperienze.

I dati raccolti in tre momenti temporali (pre- mid- and post- MBSR) possono non aver rivelato la complessità del cambiamento e/o relazioni tra i cambiamenti nella mindfulness, regolazione delle emozioni e i risultati psicologici. Il poter determinare il momento preciso di cambiamento durante il programma MBSR attraverso più frequenti valutazioni (es. settimanalmente) permetterebbe delle conclusioni più forti riguardo i meccanismi del programma. Tuttavia questo studio offre un contributo nel comprendere “come” gli interventi mindfulness-based funzionino in oncologia e in altri ambiti.

E’ stata inoltre condotta una meta-analisi che ha valutato i benefici della riduzione dello stress basato mindfulness-(MBSR) sul disagio psicologico tra le sopravvissute al cancro al seno (Hua-ping Huang et al.,2005).

Metodo

Due revisori indipendentemente hanno recensito  ed estratto i dati da PUBMED, EMBASE e Cochrane Central Register of Controlled Trials. E’ stato utilizzato il programma Review Manager 5.3 a per riunire i dati raccolti.
Tutti gli studi inclusi nella meta analisi dovevano rispettare i seguenti criteri:
1) i partecipanti: donne con diagnosi di tumore al seno;

2) intervento : MBSR;

3) confronto: trattamento standard o usuale.;

4) risultati: qualità della vita (QOL) e area psicologica come depressione, ansia e stress;

5) disegno di studio: trial clinico randomizzato (RCT), prima e dopo lo studio intervento.
Sono stati identificati nove studi che coinvolgono 964 partecipanti.

Risultati

Rispetto al gruppo di controllo, i pazienti nel gruppo MBSR hanno un miglioramento significativo per quanto riguarda l’aspetto psicologico: depressione (differenza media MD), 5,09; 95%, fiducia in se stessi (IC), 3,63-6,55; P <0,00001], ansia (MD, 2,79; 95% CI, 1,62-3,96; p <0,00001), stress (MD, 4,10; 95% CI, 2,46-5,74; p <0,00001). MBSR può anche migliorare la qualità complessiva della vita (QOL) (MD, -1,16; 95% CI, -2,21 a -0,12; p = 0.03).

Sulla base dei risultati di questa meta-analisi, MBSR mostra un effetto positivo sulla funzione psicologica e qualità della vita delle sopravvissute al cancro al seno. Quindi gli autori di questa meta-analisi concludono che l’MBSR può essere raccomandato per i pazienti con cancro al seno, come una parte della loro riabilitazione.

Altro studio (Lengacher et al. 2015) randomizzato controllato sugli effetti di MBSR per i disturbi del sonno in donne sopravvissute al cancro al seno (BCS), suggerisce che MBSR può essere un trattamento efficace per migliorare i parametri oggettivi e soggettivi.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Pratiche di mindfulness nei programmi scolastici: abilità sociali ed emotive

 

BIBLIOGRAFIA:

L’inconscio – Introduzione alla Psicologia nr. 27

Inconscio: L’inconscio è formato, dunque, da desideri repressi e esiliati lontano dalla coscienza. Questi desideri possono riemergere, dall’inconscio alla coscienza, o come fenomeni onirici o come disagio psichico.
INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 27)

Il concetto di inconscio comparve per la prima volta tra gli scritti di Cartesio, e successivamente fu perfezionato da Locke e da Leibniz. Sigmund Freud, si riappropriò di questo costrutto dotandolo di sostanza e facendolo diventare uno dei capisaldi della sua teoria. Infatti, Freud lo considerava uno dei concetti chiave nell’approccio psicoanalitico, uniti a quello di preconscio e conscio. Tutti e tre queste nozioni costituiscono quella che Freud definisce la prima topica, una delle principali teorie che sostanzia l’approccio psicoanalitico attraverso l’individuazione di queste forze, il preconscio, l’inconscio e il conscio, che agiscono fuori e dentro di noi. In soldoni, si hanno tre regioni distinte, separate dai vincoli della censura e della rimozione.

Ma, l’inconscio è il territorio con meno vincoli, in quanto in questo spazio la vita psichica è poco limitata da una serie di barriere, presenti invece nelle altre due istanze.

Nell’inconscio per esempio non è presente la negazione, il dubbio, e l’incertezza. Tutto quello che lo caratterizza è frutto della censura che lavora tra il conscio e il preconscio.
Inoltre, non appartengono all’inconscio i principi della logica su cui verte la vita quotidiana e per questo non c’è neanche la dimensione del tempo e dello spazio.

L’inconscio è formato, dunque, da desideri repressi e esiliati lontano dalla coscienza. Questi desideri possono riemergere, dall’inconscio alla coscienza, o come fenomeni onirici o come disagio psichico.
Le operazioni che caratterizzano il regno dell’inconscio sono: lo spostamento, procedimento per cui nei sogni si sostituisce una rappresentazione con un’altra semanticamente affine; la condensazione, in cui in una sola immagine sintetizza elementi diversi, di cui alcuni manifesti ed altri latenti. Questi ultimi rappresentano il procedimento simbolico.

L’inconscio, dunque, comunica messaggi, segnali ed emozioni attraverso il corpo, i comportamenti, la voce, la scrittura, e il modo di gesticolare. L’inconscio è sempre attivo e vigile, infatti, quando dormiamo, entriamo in uno stato in cui può parlare liberamente e quello che si percepisce a livello conscio sono i sogni, anch’essi ricchi di messaggi, significati nascosti, desideri ed emozioni represse. Infatti, Freud definiva i sogni come la soddisfazione inconscia di un desiderio rimosso.

Col tempo e col divenire delle teorie psicologiche il concetto d’inconscio non è sparito, ma si è modificato ed evoluto. Anche Beck e Ellis, fondatori della moderna Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, ne parlavano. Originariamente, erano due psicoanalisti che cercavano di spostare l’intervento terapeutico dalla parte inconscia a quella cosciente dell’individuo. Di conseguenza, nell’ambito del cognitivismo col termine inconscio si intende quella parte del funzionamento mentale che è non accessibile alla coscienza non perché è stata rimossa, ma perché non è mai stata conosciuta, e quindi non sarà, né potrà, mai essere ricordata (Migone P, 2006). E, in ogni caso non è neanche utile il materiale presente nell’inconscio da usare a scopo terapeutico.

Insomma, l’inconscio cognitivo è formato da informazioni che non sono conosciute coscientemente e per questo non possono essere dimenticate.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

La necessità del rancore, con misura – un articolo di Giancarlo Dimaggio

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di Sabato 8 Agosto 2015 

Il perdono è sopravvalutato. Il rancore intossica. Sono stato ferito ieri, dieci anni fa e venti. Un’affermazione universale. Piccoli torti, grandi offese, vere violenze. L’amante che ci tradisce dopo averci giurato fedeltà eterna, il professore che regala il dottorato al collega incapace. L’amico che ci trascura nel bisogno, il figlio che ignora il solco paterno. E, crescendo in gravità, il cocainomane al volante che ci strappa la persona amata, il terrorista che ci uccide un parente, la ragazza violentata in centro città.

Passata la reazione immediata, la ferita porta un’emozione a crescere: il rancore. Per sua natura si espande nella mente, richiama ricordi, invoca la messa in scena nel teatro privato e pubblico della scena accaduta e la colorisce di fantasie di punizione e vendetta. Chi si sente vittima usa il rancore per ricordare giorno dopo giorno, in un’incessante amplificazione dell’offesa subita.

Laura Tappatà, nel suo Il dono del rancore, ne tesse una specie di elogio. Dipinge un quadro in cui sembra che viviamo in una società permeata da buonismo, che esalta la cultura del perdono morale, e pare ci siamo dimenticati che provare rancore sia umano, inevitabile, e sia di più: vivificante, consolida l’identità, permette di trasformare, se ben incanalata, l’energia del dolore in trascendenza creativa. Sintetizza: C’è molta più nobiltà in un rancore consapevole e lucido che in un perdono regalato per convenzione morale.

Rancore e perdono, due tra le vie che la vittima percorre per affrontare il danno ricevuto: coltivare il ricordo dell’offesa o comprendere l’aggressore, vedere l’umanità che ne ha guidato il gesto e, infine, lasciare andare dopo averlo moralmente assolto. Compio la seconda operazione nell’immaginazione: chi ha perpetrato violenza era guidato da profonda sofferenza, ne visualizzo vessazioni subite nell’infanzia. Calcolo la combinazione tra la sua natura geneticamente data e i danni che la storia gli ha inferto: risulta che il gesto del genitore incestuoso, dell’attentatore suicida, del guidatore drogato era inevitabile. Non posso più provare rancore se penso la sua azione come obbligata da una catena infinita di cause ed effetti che lo ha portato senza possibilità di scelta a diventare ciò che è.

Compio l’operazione non fino in fondo: si tratta di decidere che il libero arbitrio non esiste (non mi pronuncio sulla questione). Posso perdonare nel mio cuore l’attentatore, il violentatore, l’assassino senza invocare il nome di dio?

Eppure la posizione di Tappatà non mi convince appieno, anche se la sua critica della cultura del facile perdono ha le sue ragioni. Su quella si radicano decisioni insensate che portano a liberare criminali capaci solo di simulare un pentimento che il loro cervello non è attrezzato per provare, psicopatici che una volta usciti aggrediranno ancora per natura. La tendenza al facile perdono su base morale finisce per favorire chi aggredisce e priva la vittima di scudi.

Ma non vedo la cultura del perdono dominare. Vedo più facilmente ritorsione, guerre eterne, faide familiari. Madri che piangono figli uccisi che incitano fratelli e mariti al ricordo e a un pareggiamento dei conti che genera vittime che a loro volte saranno piante pubblicamente e urleranno sangue. Vedo orgogli facilmente offesi, gente che ricorda.

Mi chiedo: abbiamo bisogno di un elogio del rancore o è una prassi che già viene coltivata spontaneamente e con successo?

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

La necessità del rancore, con misura - un articolo di Giancarlo Dimaggio

La cultura del perdono esiste, vero. Il perdono cristiano, in nome dell’essere supremo. Strada psicologicamente semplicistica. Più recentemente è entrata nel mondo occidentale la pratica della compassione buddhista. È una strada diversa. Non è perdono morale, quanto comprensione che l’altro, alla radice, è uguale a noi, accompagnata dalla consapevolezza continuamente ricercata che ogni passione che abita la nostra mente non definisce l’identità. Il rancore – come colpa, gioia, tristezza, vergogna – può abitare la nostra mente ma noi possiamo lasciarlo scivolare nelle periferie della coscienza. Per uno scopo: non lasciarci dominare da quello che è, in ultima analisi, solo uno stato della mente e del corpo.

Poi c’è la psicologia del perdono, coltivata dalle ultime generazioni di psicoterapeuti. Barcaccia e Mancini ne hanno riassunto l’utilità in Teoria e clinica del perdono. Chi perdona ne trae benessere spirituale, fisico, mentale. Si tratta di invitare i pazienti che vengono nei nostri studi a perdonare chi ha tradito il loro sogno d’amore o professionale o li ha abusati, umiliati. Difficile, ma si può.

Ripenso alle storie che ascolto nel mio studio di psicoterapia. Se esiste una dialettica tra perdono e rancore, io mi volto altrove. Ascolto donne violentate, adulti risentiti verso i genitori che li hanno trascurati e sottomessi, coniugi che nel corso degli anni hanno accumulato disattenzioni o tradimenti e non dimenticano niente.

Si chiedono ‘devo perdonare?’ e si rispondono ‘non ce la faccio’. Io non li invito a farlo. Promuovere prematuramente il perdono è nocivo: svaluta la ferita. Qui Tappatà ha colto nel segno. Il dolore ricorda che si è subita un’ingiustizia – escluderei però le liti condominiali –. La rabbia, il nucleo emotivo primario del rancore, aiuta a sentirsi in diritto di difendersi, di scacciare l’aggressore. Immaginate una donna abusata alla quale dite: ‘perdona’, quando per tutta la vita ha aspettato di sentirsi dire: ‘quello che è successo è un crimine, tu non sei colpevole, sei la vittima’. Inconsapevoli, la gettate nell’abisso di chi ha chiesto invano di essere presa sul serio.

E allora coltiviamo il rancore? No. Perché colonizza la mente, la incatena al gesto dell’aggressore, limita la libertà.

Che fare quindi? Ricordare l’offesa subita? All’inizio sì. Dare voce a risentimento, rabbia, fantasie di punizione? Sì. È giusto, umano, con misura serve. Ma più importante: si coltivi la memoria del dolore e si blocchi l’interlocutore prima che scivoli di nuovo verso il rancore. Poi la domanda: è necessario che la sua mente, dopo tutto questo tempo, si fermi ancora su questo dolore? Chi lei è oggi, dipende così tanto dal male che ha subito allora? Molti in risposta, comprendono che il dolore di ieri non deve per obbligo persistere oggi. La vita di molti si scioglie, il dolore è lenito, il rancore non più necessario.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Occhio per occhio o porgi l’altra guancia? Perdono e vendetta a confronto

BIBLIOGRAFIA:

  • Barcaccia B., Mancini F. (a cura di), Teoria e clinica del perdono. Raffaello Cortina Editore, Milano 2013.
cancel