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Il Disturbo dell’Identità di Genere e le psicopatologie associate

Valeria Mancini e Serena Pattara – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

La percezione del proprio sesso è una componente fondamentale dell’identità umana, ma non sempre il sesso biologico e il ruolo di genere, il comportamento sessuale e il riconoscimento sociale sono in pieno accordo. Diverse sono le possibili combinazioni delle identità di genere e i relativi vissuti psicologici, affettivi e relazionali.

Disturbo dell’Identità di Genere: introduzione

Nella nostra cultura occidentale prevale la tendenza a considerare accettabili solo due modalità alternative di presentazione sessuale: maschile o femminile a seconda dell’aspetto esteriore del corpo biologico. Un dato aspetto e determinati comportamenti vengono associati a specifiche categorie di genere. Pertanto, gli stereotipi culturali relativi al genere sono, ancora oggi, molto diffusi e particolarmente rigidi. La percezione del proprio sesso è una componente fondamentale dell’identità umana, ma non sempre il sesso biologico e il ruolo di genere, il comportamento sessuale e il riconoscimento sociale sono in pieno accordo. Diverse sono le possibili combinazioni delle identità di genere e i relativi vissuti psicologici, affettivi e relazionali.

Il Disturbo dell’Identità di Genere (DIG) e Transessualismo sono i termini usati per descrivere la condizione di un soggetto che desidera vivere ed essere accettato come un membro del sesso opposto; in particolare, il disturbo consiste in un’intensa e persistente identificazione col sesso opposto, in persone che non presentano alcuna anomalia fisica. Tale condizione si presenta con malessere e disagio profondo (la cosiddetta disforia di genere) nei confronti delle caratteristiche sessuate del proprio corpo, sentito come estraneo; lo stesso senso di estraneità viene provato per i comportamenti e gli atteggiamenti che sono tipici del proprio sesso, all’interno del quale il soggetto non si riconosce.

Il disturbo, che nella maggior parte dei casi è auto-diagnosticato, può riguardare sia i soggetti di sesso femminile (disturbo female to male, FtM) che quelli di sesso maschile (disturbo male to female, MtF); il disturbo è più frequente nella forma MtF con una sex ratio di circa 3:1.

Disturbo dell’Identità di Genere: Definizioni e criteri diagnostici

Il concetto d’identità si riferisce alla totalità di una persona, inglobando in sé sia gli aspetti biologici (identità sessuale), sia gli aspetti psicologici (identità di genere), sia gli aspetti sociali (ruolo di genere).
Con il termine identità sessuale, nello specifico, ci si riferisce alla femminilità o alla mascolinità di una persona (Simonelli, 2002). L’identità sessuale è determinata da cinque fattori biologici:

  • i cromosomi sessuali;
  • la presenza di gonadi maschili o femminili;
  • la componente ormonale;
  • le strutture riproduttive accessorie interne;
  • gli organi sessuali esterni.

L’identità di genere costituisce, insieme al ruolo di genere e all’orientamento sessuale, un aspetto della psicosessualità.

Si considera identità di genere di un individuo il sesso a cui, indipendentemente dalla sessualità biologica, si sente di appartenere (Rogers, 2000). Si tratta della percezione unitaria e persistente di se stessi, o auto-identificazione, come appartenente al genere maschile o femminile o ambivalente (Simonelli, 2002). Ma non è la sola natura, tramite la programmazione genetica, che definisce nella totalità cosa sia una personalità maschile o femminile; lo facciamo in buona parte anche noi stessi e la cultura (Dèttore, 2005).

Il termine ruolo di genere fu introdotto da Money (1975), e rappresenta tutto quello che una persona fa o dice per indicare agli altri e a se stesso il grado della propria mascolinità, femminilità o ambivalenza; pertanto, include anche l’eccitazione e la risposta sessuale. Il ruolo di genere è quindi l’espressione esteriore dell’identità di genere e riflette quei comportamenti imposti direttamente o indirettamente dalla società. Tipicamente il ruolo di genere maschile è associato con la forza e con attività associate al rischio, mentre il ruolo di genere femminile con il prendersi cura dei figli (Diamond, 2002). Ovviamente queste sono concezioni arbitrarie e riflettono gli stereotipi dominanti in una data cultura in un dato momento storico. Quando il bambino cresce, apprende che certi comportamenti, atteggiamenti ed espressioni di personalità sono appropriati alla sua ‘etichetta sessuale’ e altri no, pertanto cerca di adeguarsi al modello maschile o femminile ritenuto accettabile nel suo contesto storico e socioculturale. Società diverse, classi sociali e famiglie differenti possono offrire diversi ruoli di genere ed esercitare differenti livelli di pressione affinché vi sia più o meno conformità agli stereotipi dominanti.

Il concetto di orientamento sessuale riguarda la modalità di risposta di una persona ai vari stimoli sessuali e trova la sua dimensione principale nella preferenza erotica per un partner dello stesso sesso o del sesso opposto. L’orientamento sessuale non è dicotomico, ma si estende lungo a un continuum che va dall’eterosessualità esclusiva all’omosessualità esclusiva.

La maggior parte degli individui sviluppa una chiara attrazione erotica verso l’altro sesso, chiamata eterosessualità, mentre una minoranza si sente attratta sia da maschi che da femmine e questo viene definito bisessualità. Altre persone ancora scelgono partner dello stesso sesso, presentando in tal modo un orientamento omosessuale (Simonelli, 2002).

Il processo di acquisizione dell’identità di genere è la risultante di una collaborazione tra natura e cultura, vale a dire tra la maturazione biologica, che a partire dal sesso cromosomico produce, tramite la secrezione ormonale, la diversificazione sessuale del cervello e dell’organismo e il comportamento delle persone circostanti, che dopo l’assegnazione del sesso alla nascita, si comportano nei confronti del soggetto secondo le regole sociali e le aspettative congruenti al genere attribuito. Solitamente identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale sono tra loro coerenti.

L’identità sessuata è presente in tutti i mammiferi, mentre l’identità e il ruolo di genere prevedono e, in parte, riflettono lo specifico psico-sociale umano (Simonelli, 2002).

Il Disturbo dell’Identità di Genere

La presenza di interessi tipici del sesso opposto è un fenomeno che si manifesta sia nel corso del normale sviluppo (Sandberg et al., 1993; Linday, 1994), sia quando i normali processi evolutivi vengono perturbati. Talvolta, comportamenti tipici del sesso opposto rappresentano solo una breve fase di transizione, soprattutto nel bambino intorno ai due anni; in altri casi indicano una ‘flessibilità di genere’ non accompagnata da alcuna avversione o rifiuto per il proprio sesso di appartenenza, anche se il bambino prova disagio quando i suoi interessi non vengono condivisi o supportati dai coetanei dello stesso sesso, questo comportamento non rappresenta un fenomeno patologico ma, al contrario, potrebbe indicare una buona sicurezza e flessibilità dell’Io; in altri casi ancora, rappresentano un segnale di sofferenza intensa e possono dare l’avvio a serie difficoltà emotive che porteranno a disturbi duraturi (Coates, Cook, 2001). Quando, nel bambino, le preoccupazioni relative al genere assumono un carattere intenso, persistente ed invasivo, la condizione viene definita Disturbo dell’Identità di Genere nell’infanzia. La diagnosi si basa sul grado in cui si manifestano i comportamenti e i desideri cross-gender, nonché sul ruolo che essi hanno nel funzionamento adattivo del bambino. Tale condizione può persistere o meno anche in età adolescenziale e adulta. Le differenze fra il DIG nei bambini e il DIG negli adulti riguardano principalmente due aspetti: nei bambini sono coinvolti anche processi di sviluppo fisico, psicologico e sessuale e c’è una maggiore variabilità nelle conseguenze (Dèttore, 2005). La diagnosi di DIG nei bambini è stata introdotta nella nomenclatura psichiatrica nella terza edizione del DSM (CohenKettenis et al., 2003).

Il DIG è catalogato fra i disturbi mentali del DSM-IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), e viene definito transessuale (per l’ottenimento del consenso per il cambio di sesso) solo chi non ha una psicopatologia associata, in altre parole, chi non ha un disturbo mentale. Questo è dovuto perché, è classificato come disturbo mentale nel DSM-IV. Esso viene discusso nella stesura dell’attuale edizione del manuale, il DSM-5. Secondo il DSM-IV, i criteri diagnostici per identificare il Disturbo dell’Identità di Genere sono i seguenti:

  • A. Deve essere evidente una intensa e persistente identificazione col sesso opposto, che è il desiderio di essere, o l’insistenza sul fatto di essere, del sesso opposto.

Nei bambini il disturbo si manifesta con quattro (o più) dei seguenti sintomi:

  1. Desiderio ripetutamente affermato di essere, o insistenza sul fatto di essere, dell’altro sesso.
  2. Nei maschi, preferenza per il travestimento o per l’imitazione dell’abbigliamento femminile; nelle femmine, insistenza nell’indossare solo tipici indumenti maschili.
  3. Forti e persistenti preferenze per i ruoli del sesso opposto nei giochi di simulazione, oppure persistenti fantasie di appartenere al sesso opposto.
  4. Forte preferenza per i compagni di gioco del sesso opposto.

Negli adolescenti e negli adulti, l’anomalia si manifesta con sintomi come desiderio dichiarato di essere dell’altro sesso, o di farsi passare spesso per un membro dell’altro sesso, desiderio di vivere o essere trattato come un membro dell’altro sesso, oppure la convinzione di avere sentimenti e reazioni tipici dell’altro sesso.

  • B. L’identificazione con l’altro sesso non deve essere solo un desiderio per qualche presunto vantaggio culturale derivante dall’appartenenza al sesso opposto. Inoltre deve esserci prova di un persistente malessere riguardo alla propria assegnazione sessuale, oppure un senso di estraneità riguardo al ruolo di genere del proprio sesso.

Nei bambini, l’anomalia si manifesta con uno dei seguenti sintomi:  nei maschi, affermazione di disgusto verso i propri genitali, o speranza che essi scompaiano, o avversione verso i giochi di baruffa e rifiuto dei tipici giocattoli e attività femminili; nelle femmine, rifiuto di urinare in posizione seduta, rifiuto nei confronti della crescita del seno e nei confronti del ciclo mestruale, speranza che i genitali diventino di tipo maschile, avversione verso l’abbigliamento femminile tradizionale.

Negli adolescenti e negli adulti, l’anomalia si manifesta con sintomi come preoccupazione di sbarazzarsi delle proprie caratteristiche sessuali e/o convinzione di essere nati del sesso sbagliato.

  • C. La diagnosi non va fatta se il soggetto ha una concomitante condizione fisica intersessuale (per es., sindrome di insensibilità agli androgeni o iperplasia surrenale congenita).
  • D. Per fare diagnosi deve esservi prova di un disagio significativo sul piano clinico, oppure di compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altre aree importanti del funzionamento.

Specificazioni: per soggetti sessualmente maturi si possono annotare le seguenti specificazioni basate sull’orientamento sessuale del soggetto: Sessualmente Attratto da Maschi, Sessualmente Attratto da Femmine, Sessualmente Attratto sia da Maschi che da Femmine, e Non Attratto Sessualmente Né da Maschi Né da Femmine. I maschi con Disturbo dell’Identità di Genere sono ben rappresentati in tutti e quattro i gruppi. Quasi tutte le femmine con Disturbo dell’ Identità di Genere riceveranno la stessa precisazione – Sessualmente Attratte da Femmine – sebbene vi siano casi eccezionali che riguardano femmine Sessualmente Attratte da Maschi.

A differenza della precedente edizione (DSM-IV), nel DSM-5 i Disturbi Sessuali non sono più conglobati in una stessa categoria ma in tre categorie distinte: le Disforie di Genere, le Parafilie, le Disfunzioni Sessuali.

La Disforia di Genere è una nuova classe diagnostica del DSM-5 e riflette un cambiamento nella concettualizzazione delle caratteristiche di definizione del disturbo per sottolineare il fenomeno di ‘incongruenza di genere’ piuttosto che identificazione di per sé cross-genere, come è avvenuto nel Disturbo dell’Identità di Genere DSM-IV.

Nel DSM-IV, il capitolo Disturbi sessuali e Disturbi dell’Identità di Genere comprendeva tre categorie diagnostiche relativamente disparate: Disturbi dell’Identità di Genere, Disfunzioni sessuali e Parafilie. Il Disturbo dell’Identità di Genere, tuttavia, non è né una disfunzione sessuale, né una parafilia. La Disforia di Genere è una condizione unica in quanto si tratta di una diagnosi fatta da operatori della salute mentale, anche se una gran parte del trattamento è endocrinologico e chirurgico (almeno per alcuni adolescenti e la maggior parte degli adulti).

In contrasto con la dicotomizzata diagnosi di Disturbo dell’Identità di Genere DSM-IV, il tipo e la gravità della Disforia di Genere può essere dedotta dal numero e tipo di indicatori e dalle misure di gravità. L’incongruenza di genere e conseguente Disforia di Genere può assumere molte forme. Il concetto sesso e disforia quindi è considerato essere multicategoriale piuttosto che una dicotomia, e il DSM-5 riflette l’ampia variazione delle condizioni di genere.

Sono distinti set di criteri e vengono forniti indicatori per la Disforia di Genere nei bambini e negli adolescenti così come negli adulti. I criteri per gli adolescenti e gli adulti includono una serie più dettagliata e specifica di sintomi politetica. Il precedente Criterio A (identificazione cross-genere) e il Criterio B (avversione verso il proprio sesso) sono stati fusi, perché non è stata trovata nessuna evidenza da studi analitici fattoriali a supporto del mantenimento dei due criteri separati. Necessario per la diagnosi è il desiderio di appartenere o la tendenza ad identificarsi precocemente nell’altro genere (criterio B1).

Nella formulazione dei criteri, ‘l’altro sesso’ è sostituito da ‘qualche genere alternativo’. Il termine ‘genere’ al posto di ‘sesso’ è utilizzato sistematicamente in quanto il concetto di sesso è inadeguato quando si parla di individui con un disturbo dello sviluppo sessuale in atto. Nei criteri per i bambini, ‘forte desiderio di essere dell’altro sesso’ sostituisce il precedente ‘più volte dichiarato desiderio’ per catturare la situazione di alcuni bambini che, in un ambiente coercitivo, non possono verbalizzare il desiderio di essere di un altro genere. Per i bambini, un criterio A1 (un forte desiderio di essere dell’altro sesso o un’insistenza che lui o lei è di un’altro genere) è ora necessaria, (ma non sufficiente), il che rende la diagnosi più restrittiva e conservatrice.

Sottotipi e specificazioni: i sottotipi delineati sulla base dell’orientamento sessuale sono stati rimossi perché la distinzione non è considerata clinicamente utile. Una specificazione post-transition è stata aggiunta perché molte persone, dopo aver fatto la transizione, non soddisfano più i criteri per la Disforia di Genere, tuttavia, continuano a subire vari trattamenti per facilitare la vita nel genere desiderato. Sebbene il concetto di post-transition è modellato sul concetto di remissione completa o parziale, il termine remissione ha implicazioni nel senso di riduzione dei sintomi che non si applicano direttamente alla Disforia di Genere.

Eziopatogenesi del Disturbo dell’Identità di Genere

Per le cause del DIG vi è un dibattito aperto, tra chi sottolinea l’importanza dei fattori biologici, in particolare, nell’insorgenza del DIG, sembrerebbero giocare un ruolo importante gli ormoni sessuali prenatali, ad esempio ‘La teoria dell’effetto di feedback positivo all’estrogeno’ (PEFE; Dörner, 1976), secondo la quale il DIG e l’omosessualità potrebbero essere il risultato di eccessi o carenze di androgeni in utero durante il periodo sensibile per lo sviluppo delle strutture ipotalamiche che regolano la produzione di FSH e LH e un temperamento tipico del sesso opposto e chi, invece, adotta un punto di vista più specificatamente psicologico e attribuisce grande importanza a vari fattori ambientali di rinforzo tra cui l’educazione ricevuta in famiglia e gli eventi di vita. Esiste, infatti, un rapporto molto particolare e diretto tra identità di genere e fattori ambientali e intrapsichici, che è necessario indagare e approfondire.

In generale sembra comunque prevalere una teoria multifattoriale che prende in considerazione l’interazione di aspetti biologici, psicologici e ambientali all’origine del DIG.

Incidenza e prevalenza del Disturbo dell’Identità di Genere

Fonti diverse indicano stime diverse sul numero di individui con Disturbi dell’Identità di Genere:

  • 1 su 10-12.000 nati maschi con identità di genere femminile e 1 su 30.000 nati femmine con identità di genere maschile richiedono interventi chirurgici per cambiamento di sesso.
  • 1 su 30.000 nati maschi con identità di genere femminile e 1 su 100.000 nati femmine con identità di genere maschile richiedono interventi chirurgici per cambiamento di sesso.

L’ultima versione del manuale (APA, 2000) riporta che nei campioni di pazienti pediatrici vi sono almeno cinque maschi per ciascuna femmina giunta all’osservazione con questo disturbo. Ricerche recenti (vedi Zucker et al.,1997; Zucker et al., 2003), effettuate su campioni di diversa nazionalità, rilevano che il rapporto è di 6,6 maschi per 1 femmina. Di Ceglie (2002) riscontra un rapporto di 2:1 tra bambini e bambine al di sotto dei 12 anni che presentano un DIG.

Tuttavia, non sono ad oggi disponibili studi epidemiologici che diano una stima attendibile della prevalenza-incidenza del disturbo nella popolazione infantile. L’esperienza clinica indica che si tratta di una sindrome piuttosto rara (Meyer-Bahlburg, 1985; CohenKettenis, Pfäfflin, 2003). La ragione della diversa prevalenza del disturbo tra maschi e femmine non è chiara. Le ipotesi esplicative si orientano verso una maggiore vulnerabilità biologica nei maschi, oppure verso una minore tolleranza dell’ambiente sociale nei confronti dei comportamenti non coerenti al genere esibiti dai maschi piuttosto che dalle femmine, che influenzerebbe l’invio alla consultazione. In genere l’esordio delle manifestazioni più congrue al sesso opposto sono collocabili tra i 2 e i 4 anni e comunque in età prescolare, prima dello stabilirsi di un senso relativamente saldo del genere, che normalmente si sviluppa tra i 4 e i 7 anni. Tuttavia, alcuni comportamenti, come l’indossare abiti del sesso opposto, possono essere talora osservati anche prima dei due anni. Alcuni genitori sottopongono il proprio figlio all’osservazione clinica in concomitanza con l’inizio della scuola perché si rendono conto che quello che loro consideravano solo una fase non accenna a passare; essi riferiscono al clinico che il proprio figlio ha sempre mostrato interessi tipici del sesso opposto (Zucker et al., 2003). Altri genitori non risultano così solleciti nel chiedere una consultazione.

Esordio: precoce nel 66% dei casi, tardivo nel 33% (di regola MtF).
In età prepuberale: maschi > femmine.
In età adolescenziale: maschi = femmine.
In età adulta: maschi > femmine per esordio tardivo MtF.
Transessualismo post-puberale generalmente non modificabile.

Le psicopatologie associate al Disturbo dell’Identità di Genere

Per quanto riguarda il legame tra Disturbo dell’Identità di Genere e la psicopatologia associata, tendenzialmente si riteneva, soprattutto in passato, che il Disturbo dell’Identità di Genere fosse associato molto spesso a gravi Disturbi di Personalità.

Dalla lettura delle varie ricerche svolte in tale ambito, soprattutto delle meno recenti, si intuisce che le problematiche psichiatriche o psicologiche erano considerate più un fattore eziologico che una conseguenza del disturbo.

Gli psicoanalisti hanno postulato che le persone con DIG fossero gravemente psicopatologiche; per esempio Sperber (1973) dichiarava che quanti mostravano una Disforia di Genere presentavano personalità di tipo Borderline; di recente Colette Chiland (2000) ha considerato il transessualismo come un Disturbo Narcisistico con un profondo disturbo della costituzione di sé. Hoening e coll. (1971) affermavano che il 70% dei transessuali mostrava una diagnosi psichiatrica, sebbene solo il 13% fosse francamente psicotico. Meyer (1974) e Steiner (1985) riscontrarono Personalità Narcisistica, Borderline e Antisociale, a cui il Meyer sommava tratti schizoidi, Depressione, Ansia, tendenze suicidiarie e omicide. Anche Gosselin e Wilson (1980) rilevarono prove di introversione ed elevato Nevroticismo rispetto ai maschi senza DIG.

Questa letteratura riguardava soprattutto transessuali e travestiti maschi, e ne evidenziava l’associazione con la patologia psichiatrica; nel contempo evidenziava come nei transessuali di sesso femminile la comorbilità psichiatrica fosse in genere minore (Dèttore, 2005).

Lothstein, invece, (1983,1984) rilevò pesanti associazioni psichiatriche anche nelle donne transessuali. Bockting e Coleman (1992), rilevarono la presenza di Ansia e Depressione e Disturbi dell’Asse II, nel DIG. Hartmannn e coll. (1997) rilevarono importanti aspetti psicopatologici e una notevole disregolazione in senso narcisistico.

Sulla base di queste ricerche e dati, è importante comprendere se la patologia mostrata dalle persone con un Disturbo dell’Identità di Genere (DIG) sia dovuta al DIG stesso, oppure sia dovuta alla pesante esposizione a fattori stressanti e alle difficoltà derivanti dal trovarsi a vivere in una società omofobica e impreparata ad accogliere le diversità.

La Lev (2004) sostiene che considerando che le ricerche sulla varianza di genere e sui transessuali sono condotte su persone che si rivolgono ai centri clinici specializzati, si tratta di soggetti più disforici di genere e più sofferenti e più disperati e quindi con più probabili e rilevabili patologie, connesse o secondarie alla loro condizione.

Alla luce di queste considerazioni, è bene mettere in luce tutta un’altra letteratura che rileva, invece, come le persone con varianza di genere non debbano mostrare necessariamente gravi aspetti di comorbilità psicopatologica. Holtzman e coll. (1961) sostenevano che i soggetti con DIG erano in genere bene organizzati e con processi di pensiero intellettivamente adeguati. Bentler e Prince (1970) non osservarono importanti diversità sulle scale nevrotiche o psicotiche fra transessuali e soggetti di controllo. Cole e coll. (1997) più recentemente, avevano evidenziato che meno del 10% di 435 transessuali primari mostrava precedenti disturbi mentali. Carroll (1999) affermò che le persone transgender non evidenziavano necessariamente livelli di disturbi mentali più elevati della popolazione non clinica. Analoghi dati furono riportati da Brown e coll.(1995) rispetto alle caratteristiche di personalità di un gruppo non clinico di persone con varianza di genere confrontato con un gruppo altrettanto non clinico di controllo.

Anche Schaefer e coll. (1995) dichiararono che nei transessuali non vi è prova di frequente comorbilità; risultati simili sono stati ottenuti da uno studio italiano (Menichini e coll. 1998) condotto su 8 MtF e 5 FtM. Haraldsen e Dahl (2000), dopo aver condotto un confronto fra pazienti transessuali con soggetti con Disturbi di Personalità e con adulti non clinici, conclusero che i primi mostravano bassi livelli di psicopatologia. Miach e coll. (2000) rilevarono in soggetti definiti come transessuali bassi livelli di psicopatologia; mentre riscontrarono disturbi mentali da moderati a gravi in quei soggetti che erano stati diagnosticati come ‘Disturbo dell’Identità di Genere dell’adolescenza e dell’età adulta, tipo non transessuale’. Non trovarono comunque Disturbi di Personalità. Cohen-Kettins e van Goozen (1997,2002) non evidenziarono particolari problemi mentali in adolescenti che chiedevano la RCS (riattribuzione chirurgica di sesso).

È necessaria un’ulteriore precisazione, in quanto è possibile che, in alcuni casi la sintomatologia psichiatrica dei soggetti con DIG sia la conseguenza di esiti PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder, Disturbo Post – traumatico da Stress) conseguenti a violenze subite di tipo sessuale o comunque legate a pregiudizi e atteggiamenti negativi verso le persone con varianze di genere. Questo tipo di esperienze traumatiche sono molto frequenti in tale popolazione (Courvant e Cooke-Daniels, 1998; Lev e Lev, 1999; Xavier, 2000).

Nonostante i risultati rassicuranti di queste ricerche, non va dimenticato che il DIG possa mascherare rilevanti problemi psichiatrici. Brown (1990) indicò varie diagnosi che possono includere una Disforia di Genere, fra cui il Disturbo da Dismorfismo Corporeo, la Simulazione e la Schizofrenia con Disturbi d’Identità di Genere.
Altra area di interesse è quella dell’uso e abuso di sostanze e alcol. Anche in questo settore vi sono state interessanti ricerche. Xavier (2000) riferisce casi frequenti di Abuso da sostanze. Valentine (1998) sostiene che il 27% degli utenti delle cliniche per la RSC manifesta abuso di alcolici e il 23% consumo di droghe.

Si osserva una ulteriore comorbilità tra DIG e i Disturbi Alimentari, i quali richiedono un attento inquadramento, in quanto talora l’ossessione di modificare il proprio corpo può essere legata a temi dismorfofobici tipici di tali disturbi (Dèttore, 2005).

In letteratura recente sono stati riportati alcuni casi interessanti di comorbilità fra il DIG, quasi esclusivamente in soggetti maschi, e i Disturbi Alimentari (soprattutto Anoressia Nervosa), che suggeriscono l’ipotesi che il DIG possa essere un fattore di rischio per l’Anoressia Nervosa e che comunque, nel caso di pazienti maschi che si presentano con tale Disturbo Alimentare, si dovrebbero tenere presenti nell’assessment anche aspetti legati all’identità di genere (Hepp e Milos, 2002; Hepp e coll., 2004; Wintson e coll., 2004).

Importante inoltre, è sottolineare il rischio elevato di suicidio nei transessuali. Mathy (2002) confrontò a questo proposito 73 transgender con donne (1083) e maschi (1077) eterosessuali, donne (73) e uomini (73) appaiati sotto l’aspetto psicosociale, e donne (256) e uomini (356) omosessuali. I transgender riferirono significativamente maggiori ideazioni e comportamenti suicidiari rispetto a tutti gli altri gruppi, con l’eccezione delle donne omosessuali. Quanti avevano presentato tali aspetti evidenziavano con maggiore probabilità problemi psichiatrici pregressi e attuali, uso di farmaci e difficoltà con alcol e droghe. Successivamente Mathy e coll. (2003) rilevarono come le donne bisessuali e i soggetti transgender avevano, rispetto ai maschi bisessuali, significativamente maggiori rischi di tentato suicidio, difficoltà di salute mentale e ricorsi ai servizi; gli autori sottolineano come in questo caso il sessismo e l’eterosessismo sembrano sommarsi fra loro nella causazione di tali maggiori sofferenze in soggetti che, oltre a essere donne, sono anche bisessuali o varianti rispetto al genere.

Vi è un attuale dibattito tra quanti si sono dichiarati contrari all’etichetta diagnostica e al processo di patologizzazione del DIG e tra chi invece sostiene la necessità di una diagnosi. A tal proposito la Lev (2004) sostiene che il transgenderismo faccia parte di una normale variante sana dell’espressione dell’identità umana, senza alcuna componente patologica.

Disturbo dell’Identità di Genere: Conclusioni

Il disagio riguardo alla propria identità di genere può assumere varie forme e diverse intensità. L’eziologia del Disturbo dell’Identità di Genere è ancora incerta e le molte teorie in merito mettono in luce la sua multifattorialità. Nell’ambito della ricerca è auspicabile che indagini dettagliate vengano messe a punto per colmare le lacune esistenti al fine di chiarire il peso relativo di ciascun fattore di rischio, i nessi causali che collegano più fattori di rischio tra loro, nonché per far luce sugli eventuali fattori di mediazione e precipitanti che concorrono a creare la sofferenza e il disagio delle persone con DIG. Il clinico dovrebbe cercare soprattutto di comprendere l’unicità del paziente, la sua storia e il suo bisogno. Fortunatamente esistono delle chiare linee guida per lavorare con i soggetti che presentano problemi relativi all’identità di genere, capaci di dirigere la fase diagnostica e terapeutica. Tale metodologia ha mostrato dei buoni risultati empirici e la prognosi del trattamento è positiva. Si ritiene, inoltre, fondamentale approfondire la ricerca scientifica sugli effetti a lungo termine delle terapie ormonali e sulle nuove tecniche chirurgiche che, meglio, soddisfino reali e concrete esigenze dell’utenza. A questo scopo, si ritiene essenziale il contributo dei risultati a distanza ottenuti attraverso la raccolta di dati nei follow-up.

Per il fatto che i soggetti con Disturbo dell’Identità di Genere si sottopongono a terapie mediche e chirurgiche irreversibili è fondamentale un’accurata diagnosi differenziale al fine di distinguere questa patologia da condizioni che possono mimarne in qualche modo le caratteristiche ma che con tale disturbo non hanno nulla a che fare.

La patologizzazione d’identità di genere atipiche e la diagnosi relativa alla condizione transessuale sono state cause di controversie e accesi dibattiti. In alcuni casi in cui il senso di incompatibilità tra corpo biologico sessuato e identità di sé e di genere è estremamente precoce e pervasivo si possono verificare gravi disagi psichici che potrebbero giustificare l’etichetta diagnostica; in altre persone le sofferenze psicologiche sono prevalentemente causate dalle reazioni spesso ostili dell’ambiente alla propria atipicità, nonché dalle reazioni sociali discriminatorie.

La comunità europea ha recentemente ribadito l’importanza del rispetto, dell’apertura, dando vita ad un rapporto dell’United Nations Development Programme intitolato La libertà culturale in un mondo di diversità dove scrive:

Lo sviluppo umano significa anzitutto permettere alle persone di vivere il tipo di vita che essi scelgono – fornendo loro gli strumenti e le opportunità per fare questo genere di scelte

Le questioni sono tante, ma l’unico modo per combattere realmente stereotipi e pregiudizi che, non di rado, sfociano in violenze simboliche e reali, e promuovere avanzamento culturale e scientifico, è la conoscenza profonda delle persone, delle loro storie di vita, dei loro modi di pensare e stare nel mondo. Si ritiene rilevante dedicare particolare attenzione alle problematiche relative all’identità di genere e promuovere adeguati interventi di formazione-informazione non solo per i familiari degli utenti, ma anche per il personale delle istituzioni scolastiche, per le figure professionali dell’area sanitaria, sociale e legale che svolgono funzioni attinenti a questo campo e dei dipendenti della Pubblica Amministrazione.

Rispetto alla diagnosi di transessualismo, la pubblicazione dell’attuale DSM-5, con la sua diagnosi di Disforia di Genere, ha tuttavia soddisfatto e in parte tranquillizzato la comunità transgender, infondendo maggior ottimismo in quella parte dei suoi membri che auspica e prospetta un futuro decorso della diagnosi simile al destino incontrato dalla diagnosi di Omosessualità, ormai defunta da parecchi anni. Con l’attuale diagnosi l’APA sembra aver compiuto un deciso passo verso la depatologizzazione del transessualismo, ricordando appunto ciò che è avvenuto in passato con la diagnosi di omosessualità.

Da quanto trapela dalla letteratura visionata, il Disturbo dell’Identità di Genere può associarsi ad altre psicopatologie psichiatriche. Frequente è la comorbilità con Disturbi dell’Umore o Disturbi d’Ansia, e si può riscontrare in alcuni pazienti un Disturbo di Personalità, spesso di tipo Borderline. Si auspica ad una riduzione, grazie alla prevenzione ed ai trattamenti sia farmacologici che psicologici, delle correlazioni psichiatriche, che come abbiamo visto, possono essere sia una causa del Disturbo dell’Identità di Genere, sia una conseguenza.

Infine, non esistono studi epidemiologici recenti e veramente completi che forniscano dati sulla prevalenza del Disturbo dell’Identità di Genere. Le stime più attendibili si basano su ricerche effettuate soprattutto in Europa sui pazienti che richiedono l’intervento medico e chirurgico. E’ molto probabile che il fenomeno sia sottostimato. Risulta evidente il bisogno di effettuare ulteriori ricerche, sia nel territorio Europeo ma soprattutto in quello extraeuropeo ed anche con pazienti che non richiedono l’intervento medico e chirurgico, per una corretta stima della prevalenza di questo disturbo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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Le mappe corporee e il senso del sé nei neonati

Il guardare qualcun altro utilizzare una parte specifica del corpo attiva nel bambino un modello corrispondente di attività cerebrale nella mappa corporea.

Le mappe corporee mostrano come alcune parti del cervello corrispondano punto per punto alla topografia del corpo; sono state studiate approfonditamente negli esseri umani adulti e in altri primati, ma come si sviluppano nei bambini e il loro rapporto con altri aspetti dello sviluppo infantile, è ancora poco compreso.

I ricercatori dell’Università di Washington, Institute for Learning Sciences & Brain (I-LABS) sono tra i primi scienziati al mondo a studiare le mappe del corpo nel cervello infantile. Questa nuova branca delle neuroscienze può fornire informazioni importanti su come i bambini sviluppano il senso fisico di sé – costruiamo un implicito senso di noi stessi attraverso il senso di avere un corpo e di vedere e sentire i nostri corpi che si muovono – e può rendere ancora più completa la comprensione di come si formano le prime relazioni sociali con gli altri, queste mappe infatti facilitano le connessioni che costruiamo con altre persone, anche nei primi mesi di vita.

Marshall e Meltzoff hanno esplorato questo campo di ricerca in diversi studi sperimentali: in un esperimento i ricercatori hanno usato l’EEG su bambini di 7 mesi e hanno visto che il tocco di mani e piedi corrispondeva a differenti modelli di attività nella parte del cervello che elabora il tatto.

Altri studi hanno mostrato che le mappe del corpo nel cervello infantile sono attivate dalla vista di altre persone che svolgono azioni con diverse parti del corpo: il modello di attività cerebrale dei neonati corrispondeva alle parti del corpo utilizzate dal soggetto osservato.

Questi risultati forniscono la prima evidenza che il guardare qualcun altro utilizzare una parte specifica del corpo attiva nel bambino un modello corrispondente di attività cerebrale nella mappa corporea; secondo i ricercatori questa scoperta potrebbe migliorare la comprensione dei processi neurali che sottendono l’imitazione, che è un importante mezzo di apprendimento per i bambini.

Nel loro insieme i risultati raccolti dai due ricercatori dimostrano che le mappe del corpo si sviluppano precocemente nella vita e possono essere integrate per favorire nei neonati il senso del proprio corpo, così come la possibilità di connettersi con e imparare da altre persone.

 

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6 esercizi facili per allenare la mente di Paolo Legrenzi (2015) – Recensione

Questo libro di piacevole lettura ed accessibile a tutti, ci insegna che molti errori nella nostra vita quotidiana dipendono dal fatto che non prendiamo in considerazione tutte le possibili soluzioni di un problema o che ci soffermiamo unicamente sugli aspetti più intuitivi ed evidenti.

[blockquote style=”1″]Una mazza da baseball e una palla costano un dollaro e dieci. La mazza costa un dollaro più della palla. Quanto costa la palla?[/blockquote] (p. 12).

Il calcolo non è troppo difficile e, intuitivamente, nella nostra mente si figura subito il numero 10: dieci centesimi. Peccato che la risposta corretta sia cinque centesimi. Aggrottiamo le sopracciglia. Qualcuno potrebbe commentare che la matematica non sia mai stata il suo punto di forza. Tuttavia, sarà davvero colpa della matematica? Secondo Paolo Legrenzi, noto accademico italiano, che ha insegnato a migliaia di studenti le basi della psicologia e del pensiero cognitivo, non si tratta di carenze conoscitive ma di “pigrizia mentale”.
L’intuizione è un tipo di conoscenza immediata che porta l’individuo a trovare soluzioni per agire in tempi rapidi, senza avvalersi del ragionamento.

Tuttavia, secondo l’Autore, è bene non fidarsi troppo delle proprie intuizioni e sforzarsi di pensare in modo critico, facendo ogni volta i dovuti controlli. Per esempio, iniziando a scomporre i problemi in sequenze logiche le difficoltà tendono a diminuire. Nel caso iniziale, l’addizione diventa: [(palla + mazza) + palla] perché la mazza costa “un dollaro più della palla” e non “più la palla”.

Questo libro di piacevole lettura ed accessibile a tutti, ci insegna che molti errori nella nostra vita quotidiana dipendono dal fatto che non prendiamo in considerazione tutte le possibili soluzioni di un problema o che ci soffermiamo unicamente sugli aspetti più intuitivi ed evidenti. L’Autore, facendo riferimento alla sua lunga esperienza di ricercatore e consulente, propone sei tipologie di esercizi, intuitivamente semplici ma insidiosi nelle risposte, per allenare la mente al pensiero critico. Anche se non vengono presentati un metodo e degli obiettivi da raggiungere, come di norma avviene nei classici testi di matrice anglosassone, questo piccolo volume offre comunque l’opportunità di stimolare quei “muscoli” del cervello che spesso, per pigrizia o per disattenzione, dimentichiamo di usare. È una palestra per delle funzioni di pensiero che possono essere applicate in molti campi, come i problemi aziendali o la gestione dei risparmi.

 

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Utilizzo di cannabis in adolescenza & pensiero desiderante

Sara Bellodi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Molte teorie sostengono che il craving abbia un ruolo predominante nell’assunzione di droghe e nella relativa dipendenza da esse.

Quando si sente parlare di adolescenza è probabile che venga subito in mente l’aggettivo “difficile” o “complicata”. Effettivamente, è un periodo particolare, di transizione. Una sorta di trampolino verso la fase adulta con tutto ciò che ne consegue (es. autonomia, nuove responsabilità, creazione di una famiglia propria, etc). L’adolescenza va dai 12 ai 19 anni e può essere considerata come uno stato evolutivo in cui vi è l’interazione tra fattori di natura biologica, psicologica e sociale. Il soggetto, a seconda della sua appartenenza sociale e di genere, dovrà affrontare dei compiti di sviluppo (Havinghurst e Gottlieb, 1975) e superarli per poter accedere alla fase successiva. Tra questi vi sono: la costruzione di un’immagine del nuovo corpo in trasformazione; la creazione di nuovi legami sociali e affettivi; il processo di soggettivazione nei confronti della rete di relazioni infantili e dei suoi valori di riferimento.

Una domanda che può sorgere spontanea è come mai, durante l’adolescenza, la messa in atto di comportamenti rischiosi abbia un’incidenza molto più alta che in altre fasi della vita. Come accennato all’ inizio, il soggetto adolescente si trova “improvvisamente catapultato” in una condizione nuova, come se fosse “sospeso” tra gli agi e le sicurezze di quando era un bambino, accudito dai genitori e dalle figure di riferimento, e la libertà con le conseguenti nuove responsabilità derivanti dalla condizione adulta. Ai due estremi quindi si trovano una condizione di certezza (infanzia) e una di incertezza (adultità), sia in termini di abilità richieste che di valori in campo lavorativo e affettivo (Bonino, 2005).

I comportamenti, rischiosi e normali, messi in atto dai soggetti durante l’adolescenza hanno uno scopo comune, cioè fornire una soluzione ai diversi compiti di sviluppo, che appaiono spesso indefiniti. Tra i comportamenti a rischio messi più frequentemente in atto vi è l’utilizzo di cannabis che, al giorno d’oggi, è la sostanza psicoattiva illegale maggiormente diffusa nel mondo.

Uno dei luoghi comuni tra gli adolescenti è che essa sia un prodotto pressoché innocuo e viene infatti annoverata tra le droghe leggere. Tuttavia, questa accezione fa sì che vengano minimizzati i rischi e le conseguenze legati ad essa, anche se ormai la sua pericolosità sia a breve che a lungo termine sia stata accertata. Uno dei principali motivi che spinge l’adolescente a consumare marijuana è quello di sperimentare. In questo caso il suo utilizzo tende a diminuire nel tempo (Ravenna, 1993).

Il gruppo dei pari ha una notevole influenza, poiché è attraverso di esso che viene facilitato l’avvicinamento alla sostanza in quanto, i componenti del gruppo, fungono da modelli credibili e rassicuranti, che non hanno nulla a che fare con l’immaginario comune del drogato (Ravenna, 1997a). Inoltre l’adolescente avrà maggiori possibilità di procurarsi la sostanza, poiché già utilizzata all’ interno del gruppo.

Normalmente quando si avvicinano alla cannabis avvengono tre fasi: preparazione, iniziazione e stabilizzazione. Durante la prima fase il soggetto si fa un’opinione – in genere positiva – della sostanza, in quanto spesso è consigliata dagli amici. Ciò lo porterà a decidere se provarla o meno e in caso positivo, se continuare l’esperienza (iniziazione). Infine può avvenire la stabilizzazione, che comunque varierà a seconda dell’individuo (consumo regolare, saltuario o dipendente).

Quando si parla di sostanze stupefacenti non si può ignorare il fatto che si possa sviluppare una dipendenza ed è quindi necessario parlare anche del concetto di craving, inizialmente studiato prevalentemente nel contesto delle ricerche sull’utilizzo di alcol (Ludwing, 1986; Flaherty, McGuire & Gatski, 1955). Attualmente, purtroppo, non esiste una definizione univoca del termine. In italiano potrebbe essere tradotto come “desiderio compulsivo”, ed infatti, solitamente si riferisce ad un’intensa sensazione di desiderio che, per essere soddisfatto, può portare la persona a compiere qualunque tipo di azione. Nel caso della cannabis può essere definito come “urgenza nel consumare marijuana”.

Come fanno notare Tiffany e Conklin (2000) nel loro articolo, molte teorie sostengono che il craving abbia un ruolo predominante nell’assunzione di droghe e nella relativa dipendenza da esse. Sembra che gli episodi di craving vengano scatenati attraverso degli stimoli esterocettivi – situazioni o condizioni legate all’ utilizzo della sostanza – che fungono da “grilletto” (trigger), e che portano poi il soggetto ad utilizzare nuovamente la sostanza.
Come ricordano Malizia e Borgo (2006), l’OMS ha affermato che [blockquote style=”1″]il craving può essere scatenato in via riflessa da eventi quali la visione di comportamenti o luoghi legati alla droga, da oggetti o polveri che la richiamano (zucchero, talco) [in questo caso si riferiscono ad eroina, cocaina]. Con lo stesso meccanismo possono presentarsi disturbi di tipo astinenziale anche in soggetti da tempo disintossicati.[/blockquote]

Gli episodi di craving, quindi, tendono a manifestarsi in situazioni specifiche (Ludwig, 1986) e possono verificarsi anche a distanza di mesi o anni dal momento in cui il soggetto ha cessato di utilizzare la sostanza (Flaherty, McGuire, & Gatski, 1955; Mathew, Claghorn, & Largen, 1979).
Di particolare interesse, tra i modelli teorici sul funzionamento del craving, vi è l’Elaboration Intrusion Theory of Desire (EI Theory) (Kavanagh, Andrade e May, 2005) in cui gli autori hanno ipotizzato che il craving si situi lungo un continuum assieme al costrutto psicologico di pensiero desiderante.

Il pensiero desiderante si distingue dal concetto di desiderio perché costituisce un aspetto cognitivo di quest’ultimo. Può essere definito come un tipo di pensiero volontario, che consente al soggetto di creare un’immagine mentale di ciò che sta desiderando. Nel caso della marijuana, ad esempio, la persona penserà se stessa mentre sta utilizzando la sostanza, anticiperà, come se fosse reale, il sapore che proverà in bocca mentre la fuma, etc. Per questo motivo il soggetto sperimenterà delle sensazioni simili a quelle che proverebbe se stesse facendo realmente quell’ attività. Il pensiero desiderante normalmente si attiva attraverso degli stimoli, che possono essere odori, sapori, particolari immagini, etc. (Kavanagh, Andrade, May, & Panabokke, 2004).

Un concetto fondamentale da considerare quando si parla di pensiero desiderante è quello di immaginazione. È infatti grazie ad essa che il desiderio viene solitamente elicitato (Tiffany & Drobes, 1990). Inoltre la vividezza delle immagini è correlata positivamente con l’intensità del desiderio (Harvey, Kemps e Tiggemann, 2005).
Il pensiero desiderante, analogamente al craving, può essere innescato da stimoli esterni associati alla sostanza o da stimoli sensoriali interni (Tiffany & Conklin, 2000).

Secondo la EI theory gli episodi di pensiero desiderante si attuano attraverso due processi: processo di base involontario e processo di elaborazione cognitiva. Tramite il processo di base involontario si assiste alla creazione di pensieri spontanei (pensieri intrusivi) attraverso delle associazioni mnestiche, prodotte in modo inconsapevole e automatico. Nel processo di elaborazione cognitiva, al contrario, il soggetto cerca intenzionalmente nella memoria quei ricordi che sono associati ad immagini particolarmente vivide di ciò che sta desiderando in quel preciso momento (es. cannabis).
Secondo gli autori, gli episodi di craving si ripetono nel tempo poiché i soggetti creano delle immagini mentali piacevoli della sostanza desiderata, ma l’episodio è esacerbato poiché si rendono conto di non poter usufruire immediatamente della droga a cui stanno pensando (emozioni negative). Tutto ciò fa sì che questi individui si trovino all’interno di un circolo vizioso, caratterizzato da desideri, immagini mentali e piani per poter soddisfare tale bisogno. Lo status emozionale negativo spinge, di conseguenza, l’individuo a cercare un modo per stare meglio, per raggiungere quello che desidera.
Si può quindi dedurre che il pensiero desiderante svolga un ruolo fondamentale in questo processo, in quanto, se il desiderio viene ottenuto si proverà inizialmente una sensazione di sollievo e in alcuni casi addirittura di piacere, rinforzando in questo modo “l’attività desiderante”. Questo tipo di attività è influenzata anche dalla creazione delle immagini mentali e dai pensieri intrusivi che, se connotati emotivamente, faciliteranno gli episodi di craving.

Partendo da questi presupposti teorici, tra il 2010 e il 2011, ho svolto una ricerca sperimentale sotto la supervisione del Dr. Gabriele Caselli, con lo scopo di esplorare il costrutto di pensiero desiderante nella popolazione adolescente.
Le ipotesi principali erano che (1) l’attività desiderante fosse correlata agli episodi di craving verso la marijuana e che (2) questa attività potesse essere influenzata da specifici tratti di personalità (ansia, depressione ed impulsività).

La ricerca era stata indirizzata a studenti (454 totali) frequentanti scuole medie superiori (dalla I alla V) situate nel territorio pavese. Il campione finale, dopo uno scoring preliminare (eliminati i questionari incompleti e i non consumatori di cannabis) era costituito da 73 soggetti (30 femmine e 43 maschi) con un’età media di 16,95 (DS:1,49).

I test che ho utilizzato ai fini della mia ricerca erano tutti questionari self-report e nello specifico erano: Marijuana Use Questionnaire (MUQ) per indagare le abitudini di consumo; Marijuana Craving Questionnaire Short Form (MCQ-SF) (Heishman et al., 2009) per esplorare il costrutto del craving; Desire Thinking Questionnaire (DTQ) (Caselli e Spada, 2010) per analizzare il pensiero desiderante; Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) (Zigmond e Snaith, 1983) per valutare la presenza di ansia e depressione; Barratt Impulsiveness Scale-11 (BIS-11) (Patton, Standford e Barratt, 1995) volta ad indagare il tratto dell’impulsività.

I dati ottenuti erano poi stati sottoposti ad analisi descrittiva, analisi correlazionale e analisi di regressione gerarchica.
Nel campione preso in esame, fortunatamente, si era riscontrata una percentuale abbastanza bassa di consumatori di marijuana (16%) e di soggetti che si erano limitati a provarla (2%). La durata media di consumo (dall’ esordio alla data di somministrazione dei test) era di circa due anni (24,30 mesi). Inoltre, più della metà di essi (54,4%) aveva affermato di farne ancora uso. Si potrebbe quindi affermare che i dati ottenuti erano piuttosto allarmanti.

Era anche emerso che ci fosse una correlazione altamente significativa (p< .01) tra il craving e il consumo di cannabis (sia nel corso dell’ultimo mese che dell’ultimo anno) e che il pensiero desiderante era in grado di mediare il potere predittivo dell’utilizzo di marijuana.
Inoltre, confermando l’ipotesi iniziale, si era riscontrata una correlazione altamente significativa (p< .01) tra il craving e l’attività desiderante.
La seconda ipotesi, invece era stata parzialmente confermata poiché solo il tratto dell’impulsività risultava essere strettamente connesso all’attività desiderante.

In conclusione, la ricerca nonostante i limiti (esigua dimensione del campione; MUQ non sottoposto a validazione; MCQ-SF tradotto e adattato in lingua italiana, senza validazione su campione italiano; desiderabilità sociale; eventuali errori di misurazione) ha permesso di acquisire nuove informazioni sui legami esistenti tra craving, pensiero desiderante e utilizzo di cannabis, fornendo degli spunti per poter condurre nuovi studi e creare modelli cognitivi dedicati a questa particolare fascia d’età, costituita dall’adolescenza.

 

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La relazione tra pensiero desiderante, ricerca di novità e predisposizione alle dipendenze patologiche

 

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Categorie con emozione: una ricerca svela come vengono rappresentati i gruppi sociali nel cervello

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

La rappresentazione semantica dei gruppi sociali coinvolge le aree del cervello associate al processamento delle emozioni.

Lo dice uno studio della SISSA, in collaborazione con l’Università di Trieste e l’Azienda Ospedaliero-­Universitaria di Udine, pubblicato sulla rivista Cortex.

I politici, i bambini, gli insegnanti, gli europei… cos’ hanno in comune? Sono tutti gruppi sociali, una categoria semantica speciale per il cervello umano, che, come ha scoperto lo studio condotto da Luca Piretti, della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, e colleghi ha uno stretto legame con le emozioni. Fino a qualche tempo fa la maggior parte dei neuroscienziati riteneva che la rappresentazione delle conoscenze nel cervello si basasse su due sistemi distinti: uno implicato nella rappresentazione degli oggetti animati (più in generale tutto ciò che è biologico) e l’altro nella rappresentazione di quelli inanimati (gli artefatti).

Negli ultimi anni però è stato proposto di affiancare anche una terza categoria: i gruppi sociali.

[blockquote style=”1″]La conoscenza dei conspecifici, per l’essere umano, è vitale. Non è strano pensare che nel nostro cervello esistano sistemi funzionali specificamente dedicati a questo tipo di stimoli[/blockquote] spiega Piretti.

Piretti e colleghi hanno lavorato con pazienti con lesioni cerebrali (provocate da tumori), che hanno risposto a una serie di test per identificare deficit cognitivi specifici. La localizzazione precisa della lesione di ogni paziente è stata determinata con l’imaging cerebrale e grazie alla tecnica del Voxel-­‐Based Lesion-­‐Symptom Mapping è stato possibile associare i deficit cognitivi a specifiche aree cerebrali.

[blockquote style=”1″]L’ipotesi dell’esistenza della terza categoria è stata proposta da qualche tempo ed esistono già alcuni lavori che la supportano. La vera novità che abbiamo osservato noi è che il deficit nella denominazione di gruppi sociali è associato alla lesione di aree che, diversamente che per le altre due categorie, sono notoriamente coinvolte nel processamento delle emozioni[/blockquote] continua Piretti.

Emozioni e socialità nell’ essere umano sono infatti strettamente legate; per esempio l’amigdala (una delle aree che sono state identificate nello studio di Piretti e colleghi) è anche collegata alla valutazione e percezione sociale, ed è stata anche collegata al pregiudizio razziale, mentre l’insula (anche questa implicata nella rappresentazione dei gruppi sociali) è stata associata all’ empatia.

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Cibo per la mente: mangiare più pesce per ridurre il rischio di depressione?

La prevenzione nei confronti della depressione può venire anche dalla dieta: sembra infatti che mangiare molto pesce possa contribuire a ridurre il rischio del disturbo.

La depressione colpisce circa 350 milioni di persone in tutto il mondo, ed è destinata a diventare la seconda causa di malattia entro il 2020. La prevenzione nei confronti di questa patologia può venire anche dalla dieta: sembra infatti che mangiare molto pesce possa contribuire a ridurre il rischio di depressione, almeno in Europa; inoltre la correlazione tra una dieta di pesce e la salute mentale sembra essere ugualmente significativa nei due sessi.

Diversi studi hanno precedentemente esaminato il possibile ruolo di fattori dietetici nel modificare il rischio di depressione, ma i risultati sono stati contraddittori e inconcludenti.

I ricercatori dello studio in questione hanno quindi condotto una meta analisi sui dati di studi pubblicati tra il 2001 e il 2014 per valutare la forza del legame tra il consumo di pesce e rischio di depressione.

Dopo aver setacciato banche di dati di ricerca, hanno trovato 101 articoli adatti, di questi 16 erano idonei per essere inclusi nell’analisi. Questi 16 articoli includono 26 studi, che coinvolgono 150, 278 partecipanti.

Dall’analisi complessiva di tutti i dati è emersa una riduzione del 17% del rischio di depressione negli individui che consumano abbondantemente pesce rispetto a quelli che ne mangiano in minima quantità. Questa correlazione però è significativa solo per gli studi europei. Inoltre negli uomini ad alto rischio per la depressione questo diminuiva del 20%, mentre nelle donne la riduzione del rischio associato è del 16%.

Si tratta di uno studio osservazionale e nessuna conclusione sulla causalità è definitiva, ma una spiegazione biologica plausibile i ricercatori la suggeriscono: gli acidi grassi omega 3 presenti nel pesce potrebbero alterare la microstruttura delle membrane cerebrali e modificare l’attività dei neurotrasmettitori, serotonina e dopamina, entrambi coinvolti nella depressione. Inoltre mangiare molto pesce può essere l’indicatore di una dieta sana e nutriente grazie alla quale le proteine di alta qualità, vitamine e minerali presenti nel pesce possono aiutare ad evitare la depressione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Piemonte: la delibera sulla residenzialità mette a rischio 700 posti di lavoro per gli psicologi

ORDINE DEGLI PSICOLOGI PIEMONTE – COMUNICATO STAMPA DEL 24-09-2015

In seguito  alla Deliberazione della Giunta Regionale 3 giugno 2015, n. 30-1517, Riordino della rete dei servizi residenziali della Psichiatria, Alessandro Lombardo, Presidente dell’Ordine degli Psicologi Piemonte, vuole portare all’attenzione del Presidente della Regione Chiamparino, dell’Assessore alla Sanità Antonio Saitta, della Giunta Regionale, e di tutti i Consiglieri Regionali, le preoccupazioni anche per i riflessi occupazionali che tale delibera pone in essere.

“Il riordino del settore della residenzialità è questione delicata. Ed ho sempre sostenuto che fosse necessario mettervi ordine” dichiara Alessandro Lombardo. “Quel che è certo” specifica il Presidente “è che il rischio che si corre è quello di stravolgere un sistema che, pur con  tutte le pecche dovute ad una normativa ormai vetusta e da rivedere (la DGR 357), si poneva comunque nel pieno del solco segnato dalla riforma Basaglia”.

“Non posso inoltre pensare che – nelle giuste e necessarie azioni di riordino, di governo, di pianificazione di una questione centrale per le politiche socio-sanitarie regionali come la residenzialità psichiatrica – non vi sia, da parte della Giunta e del Consiglio Regionale, una parallela presa in carico anche dei riflessi occupazionali che tale riordino pone in essere.”

Dalle stime in possesso dell’Ordine Psicologi Piemonte, circa 700 psicologi, una volta entrata in vigore la delibera, rischiano di perdere il posto di lavoro.

“In questi giorni ho avuto modo di interloquire con l’Assessore Saitta e con il direttore De Micheli. Con loro abbiamo avviato un percorso di analisi che ci dovrebbe portare a trovare una soluzione per tutti gli psicologi che lavorano in questo settore”.

L’Ordine degli Psicologi, ha deciso di non presentare ricorso per la Delibera 30, pur rimanendo in stretto contatto con i soggetti che al momento hanno presentato ricorso al TAR.

“Quello che auspico, è che prevalga su tutto il senso di responsabilità, e che si sia in grado di trovare una soluzione che tuteli tutti, pazienti in primis” conclude il Presidente Alessandro Lombardo.

 

IL TESTO DELLA DELIBERA:

Regione Piemonte – D.G.R. 3 Giugno 2015, n. 30-1517

Riordino della rete dei servizi residenziali della Psichiatria

 

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I professionisti della salute sono immuni allo stigma sul peso?

Le persone possono dimenticare quanto hai detto e fatto, ma non come le hai fatte sentire.

Spesso, all’ interno di questa rubrica, sono stati ospitati contributi che hanno trattato il tema dello stigma nei confronti dell’obesità e delle persone con obesità (in inglese weight stigma o weight bias). L’obesità non è vista come una malattia ma come una colpa della persona, la quale è ritenuta responsabile della propria condizione di salute, e quindi bersaglio di stereotipi negativi che la dipingono come pigra, senza forza di volontà, golosa, incurante della sua salute ecc…

La letteratura scientifica (si consiglia la lettura delle review di Puhl & Brownell 2001 e Puhl & Huer 2009 e il libro Weight Bias di Puhl, Brownell, Schwartz e Rudd 2005) ha evidenziato come questi atteggiamenti negativi nei confronti dell’obesità possano penalizzare le persone obese nei domini più importanti della vita come, per esempio, lavoro, istruzione, relazioni interpersonali, tempo libero e cure sanitarie. Il fatto che anche l’ambiente sanitario e i professionisti della salute non siano immuni da questa forma di stigma costituisce un’emergenza nella lotta all’obesità poiché i pazienti potrebbero ritardare o cancellare importanti visite mediche e di prevenzione o rifiutare di chiedere un aiuto medico con il rischio di mantenere e/o peggiorare nel tempo la propria condizione di obesità.

La ricerca ha rilevato atteggiamenti negativi in medici, infermiere, psicologi, ginecologi, studenti di medicina, fisioterapisti, dentisti, e infine anche nei professionisti che lavorano nel campo dell’obesità e Disturbi del Comportamento Alimentare. Riassumendo quanto emerso dalla ricerca scientifica, il professionista della salute descrive il paziente con obesità come poco collaborativo, poco intelligente, demotivato, pigro fino ad arrivare a considerarlo una perdita di tempo.

Dopo i famigliari, in uno studio condotto su 2449 donne con obesità, i medici risultano la seconda fonte di stigma dopo i famigliari. Nonostante il tema dello stigma basato sul peso sia conosciuto e, in particolare negli Stati Uniti, è sempre più riconosciuta l’importanza di contrastarlo a 360 gradi, vi sono episodi in cui un atteggiamento stigmatizzante è mosso proprio da persone che lavorano nella sanità. Un esempio recente (che ha ispirato questo contributo) è l’editoriale pubblicato sulla rivista American Journal of Medicine ad opera di un medico cardiologo, Robert Doroghazi, intitolato “A candid discussion of obesity”.

L’autore scrive che negli ultimi anni, nonostante i tanti sforzi, poco è stato fatto per ridurre l’obesità e che il problema, secondo il medico, è che le persone obese mangiano troppo ed è una loro responsabilità mangiare di meno. Inoltre il cardiologo ritiene che sensibilizzare al tema dello stigma basato sul peso sia un incentivo per le persone a non modificare i propri comportamenti. Su questa linea Doroghazi termina l’editoriale suggerendo ai colleghi di rivolgersi ai pazienti con obesità semplicemente dicendo la verità utilizzando queste parole: [blockquote style=”1″]Signore o signora non è bene essere obesi. L’obesità è un male. Lei è sovrappeso perché mangia troppo. Lei ha anche bisogno di muoversi di più. La sua obesità non può essere imputata ai fast food o alle bevande zuccherate o altro. Lei pesa troppo perché mangia troppo. La sua salute e il suo peso sono una sua responsabilità. [/blockquote]

Considerare il peso come qualcosa di controllabile, e sotto la responsabilità individuale, è alla base dello stigma che esiste verso questa condizione e chi ne è affetto. Vedere l’obesità come una scelta, e non una malattia complessa e multifattoriale, è un insulto ed è irrispettoso verso chi sperimenta quotidianamente le conseguenze fisiche, psicologiche e sociali. Le parole di Doroghazi sottolineano l’importanza di sensibilizzare i professionisti della salute al tema dello stigma, e sulla complessità dell’obesità, perché una visione giudicante e colpevolizzante può divenire un potente ostacolo per una cura efficace e duratura.

L’episodio ne richiama un altro accaduto pochi anni fa ad opera del Ministro della Salute inglese Anne Milton che invitò i medici di base a utilizzare il termine “grasso (fat)” per motivare i loro pazienti a perdere peso. È diffusa l’idea che lo stigma possa motivare al cambiamento e che proteggere la dignità della persona obesa possa invece non motivarlo. Gli studi mostrano il contrario, e cioè che l’aumento dello stigma nei confronti dell’obesità e persone obese va a braccetto con l’aumento dei casi. Chi ha ragione? Una risposta la possiamo affidare alle parole di Albert Stunkard, uno dei massimi studiosi dell’obesità, scomparso lo scorso anno.

[blockquote style=”1″]Noi medici abbiamo un’opportunità d’oro. Abbiamo raramente l’opportunità di curare le malattie croniche. Abbiamo però l’opportunità di trattare il paziente con rispetto. Una tale esperienza potrebbe essere il più grande dono che un professionista della salute può dare al paziente con obesità[/blockquote] (pp. 355-356).

Mi auguro che editoriali come “A candid discussion of obesity” siano uno stimolo per parlare e conoscere un aspetto poco conosciuto, ma diffuso e invalidante, dell’obesità.

 

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La gravidanza vista dall’interno (2014) di Joan Raphael-Leff – Recensione

Valentina Messori, Cecilia Tardini, Grazia Martina – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

L’orientamento che ogni singolo genitore porta nella cura dell’altro riflette l’ultimo capitolo della sua cumulativa storia interiore, continuamente scritta e riscritta in collaborazione con le persone che gli sono vicine.

C’era una volta….un guizzo nell’occhio interno

Al centro dell’interesse dell’autrice c’è l’esperienza del genitore, la madre o il padre come persona intera anziché come oggetto di fantasie o desideri infantili. Perciò il consueto rapporto tra figura e sfondo, presentato dalla letteratura psicoanalitica, viene spesso ribaltato: il punto di vista è quello delle madri e dei padri, che a loro volta sono figlie e figli.

Questo libro è stato scritto viaggiando per cinque continenti, fra lezioni e seminari con madri e padri in attesa e con personale sanitario; osservando dei bambini in casa, discutendo casi clinici con allievi, andando in supervisioni di psicoterapie analitiche, leggendo scritti dei maestri, scambiando ipotesi con colleghi, vivendo personali esperienze di gravidanza.

L’autrice si pone diverse domande: Che significato ha la gravidanza nel mondo interno di una donna o di un uomo?; Qual è l’esperienza emotiva del partner durante la gravidanza?; Come diventiamo quelli che siamo in relazione ai nostri figli e al nostro stesso sé infantile?; In che modo le fantasie prenatali influenzano il clima emotivo postnatale?

Nel primo capitolo, il concepimento viene presentato come l’inizio di una storia bizzarra: già prima di questo momento il bambino sconosciuto è accolto nella realtà psichica della donna in attesa, investito di illusioni e collocato in un posto preciso fra le numerose immagini di figure primarie significative che ne popolano il mondo interno. Quando due adulti iniziano una relazione emotiva, ognuno scarica sull’altro aspetti non risolti del suo patrimonio transgenerazionale di fantasie inconsce. I partner spesso si scelgono per realizzare a vicenda certe potenzialità, e il nascituro diventa parte attiva della loro rappresentazione drammatica. Il neonato incorporerà nell’immagine di sé attributi non abbandonati dai genitori.

L’arrivo del bambino suscita evocativi frammenti di memoria, fa rivivere processi latenti relativi alla prima infanzia dei genitori, che influiscono sulla qualità dell’interazione postnatale. Anche il bimbo investe gli adulti con le sue intense emozioni. I progressi tecnologici ci hanno permesso di osservare il feto vivo nell’utero, che ingerisce ed espelle, mastica, lecca , succhia, sbadiglia. La gravidanza comporta una nuova visione del proprio corpo, non ha più il possesso esclusivo del proprio corpo; la donna è letteralmente posseduta da un altro.

Secondo l’autore la gravidanza può essere divisa in tre fasi. Nella fase iniziale la donna è in gran parte impegnata a fare i conti con le nuove sensazioni corporee, i sintomi, lo squilibrio emotivo, e ad adattarsi alle conseguenze pratiche del suo stato alterato. La seconda comincia con i movimenti del feto, si presenta l’idea che un essere separato sta crescendo dentro. La fase finale inizia quando la mamma comincia a considerare il bambino un organismo vitale,capace di sopravvivere fuori di lei. Come per quello di Pandora, l’apertura del vaso materno è associata al risveglio di passioni dormienti e allo scatenarsi dell’ambivalenza interna.

Nel secondo capitolo vengono affrontati temi come il sogno in gravidanza, sogno che presenta temi fondamentali, che ricorrono in culture diverse. Lei che fù contenuta, ora è il contenitore, lei che era piccola, ora è grande e crea un piccolo essere. I dubbi sulla propria capacità di contenere, alimentare e preservare il piccolo essere, che misteriosamente dovrà trasformarsi in un bambino, si mescolano con la rabbia per il senso di assoluta solitudine; la gestante è sospesa fra un mondo interno ed esterno, a un incrocio di passato, presente e futuro, fra sé e l’altro.

E infine, la gestante intesse fantasie circa la creatura che ha in grembo, che può apparire in molte forme, umane e animali. Risonanze dal passato e figure che abitano il mondo interno sono spesso influenti, nella rappresentazione del bambino immaginario: il bambino può rappresentare un aspetto in ombra della realtà della madre, una potenzialità apprezzata o temuta. Immagini interne e fattori storici inconsci costituiscono sostanze nutritive o tossine della placenta emotiva che condiziona la gestazione psichica della gravidanza.

La gravidanza può generare dei cambiamenti anche nella relazione con il partner, in alcuni casi l’attività sessuale viene incentivata, in altri viene interrotta, in quanto si riattivano desideri infantili o si percepisce la propria privacy violata da un terzo. La diade può oscillare fra la sensazione che la gravidanza arricchisca l’intimità e un’idea d’invasione. Per quasi tutti, è stata una donna, fonte di gioia e tormento, a esercitare il potere sulla nostra infanzia. Il cordone ombelicale ha una doppia funzione: convoglia il nutrimento al bambino e rimuove i suoi prodotti di scarto; il cordone che collega la madre e il bambino può essere immaginato come un condotto, una fonte di gioia, o come minaccia persecutoria di ritorsione.

Dal canto suo il padre si trova a dover faticare per affermare il proprio contributo personale. Deve rinunciare al piacere di avvertire una vita interna e può essere geloso dell’intimità che la compagna ha col bambino. Nelle società industrializzate la formazione di sintomi offre al padre il mezzo per ripudiare la propria ostilità subendone al tempi stesso la punizione. I sintomi possono essere un mezzo per ottenere riconoscimento e cure , un modo per deviare sul proprio corpo l’attenzione, oppure una sorta di solidarietà con la compagna, o anche espressioni di invidia, manifestando un eccessivo controllo dell’alimentazione della compagna.

L’ autrice parla del padre in attesa: un uomo che oltre a provare un’insieme di emozioni verso la compagna e il feto, mette in moto in lui un riesame del proprio passato come bambino con i genitori. Il padre vive inoltre un risentimento impotente per il fatto di poter agire cosi poco su un processo di tale importanza. Anche il travaglio scatena nei padri una miriade di sentimenti differenti: può innescare risposte emotive di protezione, paura di essere una parte di ricambio nel mondo femminile, senso di colpa per aver messo la compagna in quella situazione dolorosa, senso di vergogna e di impotenza.

In che modo le fantasie prenatali influenzano il clima emotivo postnatale? E’ una delle tante domande che l’autrice propone in questo libro. La gravidanza e la nascita di un figlio, turning point nello sviluppo dell’identità femminile e nella vita di coppia, comportano una profonda crisi maturativa di rimaneggiamento e riordinamento psichico alla ricerca di nuovi equilibri. La transazione alla genitorialità delinea un processo di profonda trasformazione che riattiva rappresentazioni mentali strettamente legate alla precedente storia relazionale, dalla quale si riaffacciano le passate esperienze di attaccamento con le proprie figure genitoriali ed i vissuti di accudimento esperiti durante l’infanzia. Il tempo della gravidanza è fondamentale per i futuri genitori al fine di creare uno spazio fisico e mentale, che dovrà ospitare le rappresentazioni di sé come madre, del proprio partner come padre e del futuro bambino.

Per la donna è evidente che la realtà biologica e psichica della gravidanza comportino una trasformazione della sua immagine corporea e del sentimento d’identità che si attiva in un processo di duplice individuazione di sé, come figlia di fronte alla propria madre, come madre di fronte al proprio figlio, e nello stesso tempo di accettazione del figlio separato da sé. Tale processo di doppia individuazione avviene anche nell’uomo, che è figlio del proprio padre e nello stesso tempo diviene padre, anche se egli non vive i cambiamenti corporei e psichici e le ansie legate alla trasformazione del corpo e del parto. A lui spetta il compito non facile di sostenere il percorso della gravidanza, poi quello di favorire la relazione madre-bambino e il comportamento esplorativo successivo del bambino, attraverso il sostegno della donna, la collaborazione e l’accudimento, ma ciò è possibile solo se anche il futuro padre avvia il lavoro psichico di profondo rimaneggiamento e ritrascrizione del proprio scenario rappresentazionale.

L’adattamento a questi mutamenti può rappresentare un processo complesso, nel quale possono aprirsi scenari di fragilità psicologica, sia individuali che di coppia. Nella trasformazione psicologica che caratterizza la gravidanza, centrale è la modificazione dell’identità della donna. Muta, infatti, la rappresentazione di sé come persona, moglie, figlia, donna che lavora, amica e ora madre; il suo posto nella società, il suo status, il suo posto nella famiglia d’origine. La donna deve ricostruire il suo ruolo sociale e per fare ciò inconsciamente esplora il suo passato e il suo presente, i suoi vissuti di figlia, il rapporto con il partner. Durante i 9 mesi prima e nel periodo postnatale dopo l’identità femminile presente fino al momento del concepimento non viene abbandonata ma integrata con la nuova identità di madre; cambiano però i valori, le priorità, tutto ruota intorno al suo sentirsi madre.

Gravidanza e parto costituiscono gli eventi di quella peculiare comunicazione fondante la relazione madre-bambino, la quale contiene le premesse per l’attuarsi di relazioni e transazioni interpersonali future: l’esperienza bio-psicologica vissuta in utero trova espressione dopo la nascita, si conserva e si manifesta nel comportamento neonatale. La separazione biologica del parto costituisce poi il passaggio complesso, e a volte traumatico, dalla gravidanza-maternità sognata alla nascita-maternità reale e comporta il difficile confronto fra il bambino immaginato e reale, fra il ruolo di genitore fantastico e quello reale. La discrepanza tra le aspettative genitoriali e la realtà psicosociale dell’esperienza post-natale, la complessità delle cure neonatali, possono far riemergere questioni infantili irrisolte e rendere difficile la transizione alla genitorialità; inoltre vi è anche a volte la mancanza di sostegno psicologico alla donna in gravidanza e nel post-partum.

In questo contesto di solitudine e di difficoltà, durante la transizione biologica e psicologica alla genitorialità si possono manifestare sintomatologie ansiose depressive. Il periodo perinatale, che si estende dalla gravidanza fino al primo anno di vita del bambino, può rappresentare un momento di grande rischio per lo sviluppo o l’esacerbazione di disagi emotivi, con sofferenze in grado di compromettere l’equilibrio psicologico femminile, influenzare negativamente a livello della relazione di coppia, dell’interazione madre-bambino, ostacolando anche il normale sviluppo infantile.

In gravidanza, il benessere, lo stare e il sentirsi bene, sono elementi centrali in grado di influenzare la qualità della vita e dell’esperienza della gravidanza, il benessere e la salute del feto, e la formazione dei sistemi con cui verrà al mondo. La qualità dell’esperienza e dei vissuti nella gestazione ha ripercussioni anche sulle prime esperienze di attaccamento che indirizzeranno le future capacità relazionali e di fronteggiamento degli eventi nel bambino in una catena generazionale a lungo termine.

Ad esempio, la depressione pre-natale, ha delle importanti conseguenze già durante la gravidanza sul feto, che mostrerebbe una minore attività e disregolazioni neuroendocrine. Inoltre i neonati di madri depresse in gravidanza e alla nascita possono presentare rispetto i figli di madri non depresse, un peso più basso e una crescita minore, reazioni scarse alle espressioni facciali, difficile consolabilità, irritabilità, problemi del sonno e un maggior numero di manifestazioni di stress a partire dai primi mesi dopo la nascita. Si osserva come la madre depressa nell’interazione con il figlio sia meno responsiva e sensibile rispetto ai bisogni del figlio, esprima spesso opinioni negative nei confronti del piccolo e sia focalizzata maggiormente sulle proprie preoccupazioni, piuttosto che sul piccolo; a sua volta il neonato può esprimere difficoltà interattive, nell’addormentamento e irritabilità eccessiva. A lungo termine è stato riportato come i figli di madri depresse abbiano nel 25% dei casi difficoltà emozionali e cognitive, con conseguenze negative anche sul rendimento scolastico; una recente ricerca ha analizzato come la depressione materna post-natale possa influenzare i figli fino a 16 anni di vita, mostrando una maggiore vulnerabilità alla depressione rispetto ai figli di donne non depresse. L’isolamento materno e la variabilità delle risposte contingenti, possono compromettere la regolazione dell’attenzione e dell’affetto del neonato, con conseguenze sul suo sviluppo cognitivo e socioemotivo.

La componente ansiosa, come la depressione, potrebbero compromettere lo sviluppo di attaccamento sicuro madre-bambino e mettere a rischio lo sviluppo cognitivo, emotivo e comportamentale del bambino. Un numero crescente di ricerche documenta gli effetti a breve e a lungo termine che la precoce esposizione nel periodo gestazionale ad elevati stati ansiosi materni può indurre sullo sviluppo neonatale e infantile, nonché adolescenziale. Alla base di queste evidenze, ci sono disregolazioni ormonali che contribuiscono all’alterazione dello sviluppo del feto. In un’ottica biopsicosociale, tali elementi di vulnerabilità biologica possono essere rinforzati da specifici pattern relazionali o caratteristiche ambientali. E’ soprattutto nei primi anni di vita che si esplica l’importanza dei fattori socio-relazionali nell’influenzare le traiettorie di sviluppo infantile. I risultati dimostrano l’importante contributo della presenza di disturbi d’ansia prenatali nell’influenzare negativamente sulla transizione alla genitorialità. Minor percezione di sicurezza che le madri avvertono nel prendersi cura del bambino e la maggior instabilità comportamentale percepita nel bambino: tali elementi possono incidere sulle prime esperienze relazionali bambino-caregiver, fondamentali per la costruzione e l’organizzazione del sé infantile nei primi anni di vita. Tutto questo porta una minore regolazione comportamentale, maggiore instabilità attentiva e sviluppo motorio (Dellabatola, 2013).

L’autrice dedica un capitolo alla descrizione dei diversi approcci alla genitorialità, che iniziano già a delinearsi nelle scelte relative al parto. In particolare evidenzia tre orientamenti: Facilitazione, Regolazione e Reciprocità, determinati dell’interazione tra il bambino rievocato che si pensa di essere stato; il bambino immaginato e pensato; il bambino reale. In base a tali modelli ogni genitore ha quindi in mente che tipo di madre/padre vorrebbe essere e quali credenze sono attribuite ai bambini. Tutto ciò contribuisce a determinare nei genitori lo stato emotivo attuale e ne è a sua volta determinato. In particolare per quanto riguarda le madri, chi tra esse presenta un orientamento del tipo Facilitazione considera la maternità come un’esperienza altamente gratificante, tende a non separarsi mai dal bambino dedicandosi a lui completamente, cercando di mantenere intatta la loro bolla di esclusiva intimità.

All’estremo opposto si collocano quelle donne che si attengono all’orientamento delle Regolazione, le quali si separano volentieri dal neonato, ricercano figure di accudimento alternative al fine di ricercare una propria libertà e uno spazio per sé stesse. Nella posizione intermedia si collocano quelle madri caratterizzate dal tipo di genitorialità definito Reciprocità. Quest’ultimo orientamento tende a vedere il neonato come una persona completa con la quale può interagire, perché anch’esso socievole, disponibile e capace di relazionarsi e fare richieste. In quest’ottica sono riconosciuti come importanti sia i bisogni del bambino, che quelli di tutti gli altri componenti della famiglia, per cui si opera un adattamento continuo delle attività quotidiane tenendo conto delle necessità di ognuno.

L’ autrice passa poi anche a delineare diversi modelli che di orientamento e comportamento del futuro padre, in particolare ne descrive tre, il primo è quello del padre partecipe. Il futuro padre che ha questo orientamento desidera partecipare il più possibile alla gestazione, al parto e alla cura del neonato. Dentro di sé ha libero accesso all’ identificazione infantile con la madre gestante e nutrice, ed è capace di essere tenero e affettuoso senza nessun imbarazzo. Il secondo modello descritto è quello del rinunciatario: chi adotta questo orientamento ha anche acuta consapevolezza dello spartiacque che la gravidanza rappresenta tra maschio e femmina. Ma, in tal caso, sentendosi minacciato dal riaffiorare dell’ identificazione femminile con la madre pre-edipica, può accentuare i propri attributi mascolini e l’ identificazione con il padre e col tradizionale ruolo paterno. Gli è difficile comprendere le esperienze interiori della compagna, vede con un certo allarme i suoi sbalzi di umore e la tendenza all’ introspezione, considera i controlli in gravidanza una faccenda da donne.

Ciò nonostante, si preoccupa del benessere della compagna e del feto e, se accetta, di assistere all’ecografia, può scoprire che l’ esperienza di vedere il bambino sullo schermo dà un senso di eccitante realtà al nuovo arrivato. Infine, anche per il futuro padre viene descritta una posizione di reciprocità: costui è ben consapevole di provare sentimenti contraddittori verso la gravidanza della compagna, il parto e il bambino. La gravidanza, per quanto desiderata, è anche fonte di disagio per la donna,e al compagno dispiace lasciare a lei sola questo peso e il dolore del parto. E’ tuttavia consapevole pure delle esperienze piacevoli che la compagna sta vivendo, alle quali può prendere parte solo in maniera vicaria. Cercando di proiettarsi sul passato, riflette su come si sentiva da piccolo e su quello che può provare ora il suo bambino dentro l’ utero materno, e più avanti durante il travaglio e il parto, e una volta venuto al mondo.

Nella parte centrale del libro, l’ autrice passa poi ad esaminare i vari cambiamenti nei rapporti che avvengono quando una donna è in attesa di un bambino. In particolare la Leff si concentra sui mutamenti all’ interno della coppia in attesa, e sul rapporto della futura mamma con il proprio lavoro.

Nella transizione alla genitorialità, la gravidanza altera gli schemi relazionali esistenti, scatenando il cambiamento e offrendo occasioni di rinegoziare le aspettative emotive. Il passaggio dalla diade a triangolo riattiva angosce edipiche e vengono in primo piano problemi di possessività e rivalità. Fitte di gelosia, competitività, ansia di perdere l’ attenzione esclusiva del partner, sono comuni e inevitabili. La reciprocità della coppia risente del fatto che la gravidanza destabilizza l’ equilibrio tra i sessi e inevitabilmente accentua l’ asimmetria. Con il sopravvento delle forze inconsce il substrato della realtà biologica dell’esperienza corporea costringe uomini e donne a riesaminare la propria mascolinità o femminilità con conseguenze imprevedibili. Una donna abituata ad affermare con decisione la sua indipendenza può avere la sorpresa di desiderare le coccole del partner o le cure della madre o delle amiche. Un’ altra che è sempre stata dipendente e sottomessa, può assaporare una nuova libertà con la conquistata gravidanza. All’ inizio della gravidanza una coppia spesso si rinchiude, diventando più casalinga e tutta presa da se stessa, per fare fronte alle esigenze emotive e fisiche. Può esserci un aggiustamento dei rapporti sociali, in quanto i futuri genitori tendono a gravitare verso amici che hanno già esperienza di bambini.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro l’ autrice riconosce che il ritorno al lavoro comporta dilemmi personali nel contemperare il desiderio di autorealizzazione con le esigenze della gravidanza e della maternità a seconda del proprio orientamento. Le donne che corrispondono al modello della Regolazione riprendono appena possibile l’ impiego a tempo pieno, mentre il tipo Facilitazione tende a rimandarlo nei primi due anni dopo il parto; le madri che adottano il modello della Reciprocità scelgono talvolta il lavoro part-time; anche se in questa dinamica entrano in gioco anche i dettami della situazione socioeconomica personale, le aspettative della società e il sistema di credenze culturali.

Nella fase iniziale della gravidanza, quando le nausee sono frequenti e la stanchezza enorme, le mansioni che richiedono sforzo fisico e i lavori ripetitivi, possono risultare logoranti. Le risposte al carico lavorativo sono varie: alcune donne cercano di ottenere congedi per malattia in modo da potersi riposare, mentre altre preferiscono essere occupate in compagnia di altri invece che stare sole. Nel secondo trimestre, la maggior parte delle donne si sente in forma e piena di energia. Alcune aumentano addirittura il livelli di attività; ad altre invece dispiace di doversi occupare del lavoro anziché concentrarsi sul feto, ora cosi vivace, e avere il tempo di godersi la gravidanza. All’ avvicinarsi del termine, alcune donne desiderano l’ arrivo del congedo di maternità lungamente atteso, altre sono piene di panico di fronte alla prospettiva di giornate senza orari al posto della rassicurante routine di lavoro.

Decidere quando smettere di lavorare per molte è un passaggio che viene complicato dal senso di fallimento nel chiedere un trattamento speciale o anche solo dall’ ammissione di stanchezza. Secondo l’autrice quello che conta per ogni singola donna è capire il proprio orientamento dopo la gravidanza: lei sola può conoscere le sue capacità e priorità emotive, o valutare i suoi limiti. Molte donne imparano in gravidanza a trovare il modo di badare a se stesse, invece di farsi guidare da modelli, interni o esterni, irrealisticamente elevati. In modo analogo, anche dopo la nascita del bambino, alcune non possono fare a meno di uno stipendio, oppure non possono permettersi di trascurare gli aggiornamenti professionali o di interrompere il progresso di carriera. Altre potrebbero prendere un congedo, ma decidono di non farlo a causa dell’ impegno professionale o dell’ interesse per il lavoro. Un compromesso possibile è la condivisione delle mansioni o l’ adozione di un orario flessibile, che permetta di godere le gioie della maternità, senza rinunciare alla parte adulta di sè e alla presenza attiva nella vita pubblica.

Negli ultimi capitoli del testo l’autrice delinea i vissuti emotivi e i cambiamenti psicologici, relazionali e sociali a cui non solo le madri, ma le intere famiglie vanno inevitabilmente incontro nel momento in cui nasce il bambino. Si viene, infatti, a determinare una situazione del tutto nuova, che richiede l’investimento di energie in un continuo adattamento.

Più in particolare viene esaminato il momento del parto, sottolineando come questo importante ed emozionante evento sia vissuto in modo del tutto diverso e personale. La priorità è la sicurezza e il benessere della donna: a questo fine è consigliabile che lei stessa effettui le scelte relative al parto in precedenza, ragionando sulle priorità e formulando il suo personale progetto con lucidità e calma, così che l’evento si concretizzi nelle modalità che rispecchiano il più possibile i suoi desideri. Questo stato affermativo aumenta la fiducia in sé stessa e, al contempo, riduce lo shock e il senso di fallimento. Il percorso risulta agevolato se la partoriente ha la possibilità di esprimere le proprie paure e sentimenti di incertezza e confusione alle persone che la assistono nel parto, ricercando in esse un sostegno emotivo, durante la gravidanza e il parto. Anche nelle delicate settimane che seguono la nascita del bambino, caratterizzate da intense e inattese reazioni psicologiche, sarebbe importante che gli operatori che hanno assistito al parto siano disponibili, al fine di rassicurare e aiutare la donna nella gestione e nel superamento di tali emozioni.

Emerge come l’esperienza delle prime settimane dopo la nascita, oltre a differire per ogni madre, sia soggetta a cambiamenti anche nell’organizzazione pratica di gestione familiare, nonché psicologica in primis delle madri, le quali possono andare incontro allo sviluppo di problemi psichici, che se non riconosciuti e trattati adeguatamente, possono sfociare in disturbi specifici. I più diffusi sono la disforia puerperale o maternity blues (o baby blues) e la depressione post-parto. Soprattutto in questi casi è necessario che una madre si senta accudita e supportata dal coniuge, ma anche da professionisti che possano fornire una psicoterapia adeguata per assistere la donna nel rintracciare risorse per aiutare sé stessa.

Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati alla spiegazione del trattamento di tali problematiche psicologiche mediante una psicoterapia sia pre-natale che perinatale che può essere d’aiuto in questo momento delicato della vita. L’autrice sottolinea l’importanza della psicoterapia prenatale, sia individuale che di gruppo, come strumento di accompagnamento dei genitori e soprattutto delle madri lungo questo impegnativo percorso che spesso vede lo sconvolgimento e la ridefinizione di rapporti di coppia, l’elaborazione di nuovi vissuti e l’integrazione di nuove emozioni con quelle passate. Il supporto psicologico svolge un ruolo protettivo nella riduzione del rischio di complicazioni ostetriche, delle interazioni patologiche future tra madre e bambino, quali carenze emotive e maltrattamenti, e nel prevenire disturbi psichiatrici precedentemente accennati. Ulteriori risultati positivi potrebbero essere raggiunti anche dalla partecipazione ai corsi di preparazione al parto, se comprendessero anche un primo sostegno emotivo e psicologico delle gestanti, una modalità che al momento è ancora poco utilizzata, a favore di una preparazione solo pratica dei genitori rispetto alla cura del neonato in arrivo.

Nei casi in cui le problematiche si protendano anche nelle settimane successive alla nascita del bambino potrebbe essere utile una psicoterapia postnatale che aiuti ad uscire dalla confusione emozionale che la nuova situazione provoca e ad elaborare i potenti sentimenti suscitati dal contatto con il neonato. L’intervento psicologico si rende necessario soprattutto nei casi in cui la donna manifesti sintomi riconducibili ad una disforia puerperale (maternity blues) o alla depressione post-parto.

Sebbene questi ultimi capitoli relativi alla psicoterapia sembrino essere rivolti soprattutto agli operatori del settore, come studenti di psicologia, psicologi, psichiatri e psicoterapeuti, in generale la lettura del libro può essere adatta anche per le coppie in attesa e per i neo-genitori. In particolare potrebbe essere una buona lettura per le mamme che desiderano conoscere meglio gli aspetti psicologici della gravidanza e i cambiamenti affettivi, relazionali e sociali che la caratterizzano.

La gravidanza, la nascita e i primi periodi con il neonato sono generalmente ricordati dalle mamme come un’esperienza positiva, ma a volte può capitare che non tutto sia andato come ci si aspettava e in quest’ultimo caso potrebbe essere difficile per la donna adattarsi alle inaspettate difficoltà che la nuova convivenza comporta.

Il processo di adattamento ai cambiamenti fisici, emotivi e sociali, e al nuovo arrivato può richiedere giorni o anche molte settimane, un periodo in cui la neo-mamma si trova in balia di reazioni iniziali intense anche molto differenti tra loro e disforiche di diversa entità che, per difesa, possono anche essere intorpidite. I nuovi vissuti si mescolano con le esperienze passate e le aspettative future, condizionandosi a vicenda. La maternità è quindi un’esperienza allo stesso tempo esaltante e terribile, gratificante e frustrante.

È molto frequente dopo il parto la presenza di una sindrome definita disforia puerperale o baby blues, un leggero stato depressivo che si presenta nei giorni immediatamente successivi al parto, con un picco dei sintomi tra il 3-5° giorno, che si risolve nel giro di circa due settimane, senza lasciare conseguenze significative. La baby blues è caratterizzata da tristezza immotivata, irritabilità, oscillazione dell’umore, crisi di pianto e senso di inadeguatezza nei confronti dei nuovi compiti che si presenteranno. Tali sintomi sembrano essere causati principalmente dai grandi cambiamenti ormonali che seguono il parto e dalla stanchezza che ne deriva.

È anche molto diffusa nei Paesi occidentali (circa il 10/15% delle mamme) la depressione post-parto, che si sviluppa durante i 3 mesi successivi al parto, dura più a lungo ed è più disabilitante rispetto agli episodi depressivi maggiori che possono insorgere in altri periodi della vita. Dal punto di vista clinico la depressione post-parto non differisce molto dalla depressione maggiore ed è quindi caratterizzata dalla presenza di alcuni dei seguenti sintomi: tristezza, abbattimento, umore basso, perdita di interesse e di piacere verso quelle attività che prima rappresentavano fonte di piacere, senso di fallimento e di inutilità, eccessivi sensi di colpa, difficoltà di concentrazione e nel prendere decisioni, difficoltà a pensare lucidamente, a ricordare e a programmare, disturbi del sonno con insonnia o ipersonnia, cambiamenti nell’appetito, agitazione e irrequietezza o rallentamento psicomotorio, riduzione dell’energia con faticabilità e spossatezza, pensieri ricorrenti che non vale la pena di vivere o, nei casi peggiori, pensieri di morte o di suicidio. I casi più gravi di depressione post-parto devono essere differenziati dalla psicosi post-parto, un disturbo più raro e più grave nelle sue manifestazioni che colpisce circa una donna su mille. La psicosi puerperale insorge in genere entro le prime 6 settimane dal parto e le donne colpite presentano grave confusione e agitazione, gravi alterazioni dell’umore e del comportamento, deliri e allucinazioni.

A questi sintomi possono aggiungersi anche preoccupazioni eccessive per la propria salute e quella del bambino che possono sfociare in stati ansiosi o in disturbi di panico. L’ampia costellazione sintomatologica di questo disturbo ha come conseguenza immediata la difficoltà per la madre di riprendersi fisicamente in tempi rapidi e soprattutto di occuparsi della cura del neonato, con conseguente sensazione di essere una madre fallimentare. In generale le cause della depressione sono multiple e possono essere riconosciute in un intreccio di:

  • fattori biologici (cambiamenti nella regolazione dei livelli dei neurotrasmettitori, nella concentrazione di alcuni ormoni e nel sistema immunitario);
  • trasmissione genetica della vulnerabilità a sviluppare più facilmente questo disturbo;
  • fattori psicosociali precipitanti, come eventi di vita particolarmente stressanti e significativi per la persona che possono portare all’effettiva manifestazione del disturbo. Tali eventi non sono necessariamente negativi, ma rappresentano realtà nei confronti delle quali la persona fatica ad adattarsi, come può essere appunto il divenire madre. Questi avvenimenti danno origine o aggravano lo stato depressivo determinando un peggioramento dell’adattamento nella misura in cui la persona non possiede le abilità necessarie per farvi fronte, rinuncia a reagire, si chiude in sé stessa e si lascia andare.

Più in particolare per quanto riguarda la depressione post-parto ulteriori fattori di rischio che ne aumentano la vulnerabilità possono essere rappresentati da:

  • eventi specifici che riguardano la gravidanza e il rapporto con il figlio: gravidanza inattesa o indesiderata, complicanze durante la gravidanza o dopo il parto per la madre o per il bambino, nascita prematura, problemi di salute del bambino, bambino di sesso diverso da quello desiderato, separazione forzata dal figlio o l’avere a che fare con un bambino difficile per quanto riguarda il sonno, il carattere…;
  • fattori legati al ruolo materno: fatica ad adattarsi al nuovo ruolo di madre e a rinunciare, seppur solo per un periodo, al proprio lavoro, personalità rigida caratterizzata da bisogno di controllo, ordine e perfezionismo, idee sulla maternità e idee di sé come madri poco rispondenti alla realtà e per questo maggiormente soggette a delusione, ambivalenza verso la gravidanza;
  • eventi relativi all’ambiente familiare, sociale e culturale: precedenti episodi di depressione, infanzia infelice o difficile, carenze emotive, abuso fisico o sessuale, basso livello socio-economico, mancanza del partner o relazione di coppia insoddisfacente o problematica, mancanza di sostegno sociale e aumento della quantità di lavoro da svolgere;
  • scarso sostegno sociale, problemi coniugali, disoccupazione.

Se la condizione di depressione post-parto non viene riconosciuta tempestivamente e non viene trattata in modo adeguato può determinare ripercussioni a lungo termine sulla salute mentale della donna, in termini di auto-mantenimento ed aggravamento che determinano un quadro via via sempre più invalidante. Ad aggravare ulteriormente la situazione spesso vi è un sentimento di vergogna per il fatto di provare emozioni e sentimenti negativi in risposta ad un evento che nel senso comune dovrebbe essere come il più bel momento che una donna possa vivere. Spesso la donna tenta allora di minimizzare o negare anche a sé stessa questo malessere evitando di parlarne con qualcuno per paura di non riuscire ad uscirne fuori, ritardando così il supporto psicologico necessario in questo momento delicato.

Essendo un disturbo così pervasivo la depressione post-parto inevitabilmente si ripercuote negativamente anche sugli altri componenti della famiglia: per quanto riguarda il neonato si riscontrano meno contatti con lui, meno responsività alle richieste di accudimento e scarsità di risposte a stimoli affettivi e pratici con dirette conseguenze sul bambino in termini di sviluppo cognitivo e sociale, fino ad arrivare a possibili disturbi del comportamento o dell’attaccamento. Anche la relazione con il partner risente del malessere della neomamma, la quale fatica a gestirla in modo adeguato arrivando a percepire una forte insoddisfazione, carenza di sostegno e aumento dei conflitti e della tensione. D’altra parte anche la reazione del coniuge e degli altri familiari, a volte ambivalente, alla depressione della donna, contribuisce a determinare e ad esacerbare lo stato della situazione. I familiari spesso esprimono preoccupazione e dispiacere nel constatare questo malessere, ma d’altra parte si sentono impotenti e possono esprimere sentimenti di colpa per il fatto di non sapere che tipo di aiuto dare. Possono inoltre sentirsi irritati di fronte alle continue lamentele della neomamma, al suo pessimismo e alla sua totale mancanza di forze e di motivazione.

Per quanto riguarda l’intervento terapeutico, spesso nella fase iniziale più acuta e comunque nei casi più severi, è necessario il consulto di uno psichiatra per considerare l’opportunità di impostare un trattamento di tipo farmacologico con antidepressivi, farmaci che hanno mostrato una buona efficacia nella riduzione dei sintomi. Dopo il superamento della fase acuta o nei casi di una sintomatologia lieve o moderata è buona prassi affiancare un intervento psicoterapeutico al fine non solo di avere un supporto, ma anche di imparare a riconoscere e prevenire i meccanismi che possono innescare una futura ricaduta. Da questo punto di vista le linee guida evidenziano una buona e provata efficacia della terapia cognitivo-comportamentale, il cui protocollo prevede in genere 15/20 sedute a cadenza settimanale: in una prima fase si esegue una valutazione sintomatologica, della personalità generale della persona; nella seconda fase il terapeuta presenta e insegna tecniche comportamentali e cognitive che dovranno essere applicate anche a casa tra una seduta e l’altra (compiti a casa); l’ultima fase, di 4/6 sedute a cadenza mensile prevede il monitoraggio della capacità della persona di mettere in pratica autonomamente quanto appreso. La stessa tipologia di trattamento può anche essere proposta sottoforma di terapia di gruppo. Questo protocollo è relativo al trattamento di sindromi post-parto depressive strutturate e ben definite, ma sarebbe importante anche introdurre misure preventive sfruttando i servizi medici prenatali, in modo da poter segnalare al più presto le donne che più sono in difficoltà e che rischiano quindi di sviluppare più facilmente un disturbo. Dato che questi interventi di tipo preventivo non sono ancora ben organizzati e comunque sono proposti raramente, risulta a maggior ragione importante la percezione della donna di ricevere un adeguato sostegno emotivo da parte del coniuge, dei familiari e degli amici, i quali costituiscono la più grande risorsa e la prima fonte di aiuto, oltre alla rete sociale più ampia su cui la donna ha la possibilità di contare.

La transizione alla genitorialità, i cambiamenti nel rapporto di coppia e la loro relazione con il conflitto coniugale

L’arrivo di un bambino, o anche semplicemente la sua attesa, introduce un elemento nuovo nella relazione di una coppia con l’effetto di provocare una ristrutturazione della relazione mentre l’assunzione da parte dei coniugi della funzione genitoriale comporta spesso anche un riassetto della personalità di ciascuno di essi. Questa transizione presenta alcune singolarità:

  • in genere si conosce il momento del suo inizio;
  • è un evento pianificato che implica una sequenza predeterminata di stadi e di esperienze attraverso i quali le persone devono passare;
  • per molte coppie il fatto di avere un bambino è associato con un peggioramento della qualità del rapporto coniugale;

Come effetto della transizione la varianza della qualità del rapporto coniugale aumenta, e ciò fa pensare che mentre alcune coppie sperimentano una diminuzione del benessere coniugale, altre possono sperimentare un miglioramento. La nascita del primo bambino dà l’avvio a cambiamenti significativi nel rapporto coniugale della coppia. Dopo la nascita, i coniugi di solito passano meno tempo insieme, si impegnano in un minor numero di attività congiunte, hanno più conflitti tra di loro e riferiscono di avere una minore attività sessuale. Questi cambiamenti si aggiungono alla natura già di per sé stressante e gravosa del doversi prendere cura del bambino. Studi longitudinali (che valutano i matrimoni prima e dopo la nascita del bambino) hanno documentato un modesto, ma significativo, peggioramento della soddisfazione coniugale in molti neo-genitori e ciò è vero in particolar modo per le mogli. Il peggioramento della soddisfazione coniugale tende ad essere correlato con un incremento della conflittualità nel rapporto tra i coniugi, con un aumento della divaricazione sul modo di concepire il loro matrimonio,con una diminuzione del coinvolgimento paterno (od un aumento del coinvolgimento materno) nella cura del bambino con la violazione delle aspettative che i coniugi avevano prima del parto, con comportamenti affiliativi e di cura inadeguati nella vita matrimoniale dopo il parto, ed infine con un supporto sociale insufficiente. Il peggioramento del benessere coniugale nel periodo di transizione non è un comportamento generalizzato, anzi è un dato di fatto che alcune coppie mostrano un significativo miglioramento della soddisfazione e del buon funzionamento coniugale dopo la nascita del primo bambino. Cowan e Cowan, per esempio (citati in Simpson et al., 2002), riferiscono casi di aumento dell’attività sessuale, un aumento del grado di intimità e una migliorata capacità di problem solving, almeno per certi coniugi all’interno di certi matrimoni.

Sono stati sviluppati molti modelli per spiegare come la transizione alla genitorialità influisca sulla qualità della relazione coniugale e sul funzionamento della coppia nel tempo, due sono quelli fondamentali: i modelli ecologico/ambientali che si preoccupano di mettere a fuoco le modalità con le quali le condizioni ambientali attuali influenzano i matrimoni; e i modelli disposizionali che rivolgono la loro attenzione alle modalità con le quali le esperienze passate influenzano il funzionamento coniugale attuale. Secondo i modelli ecologico/ambientali che hanno radice nella teoria socio-cognitiva dell’apprendimento, durante il periodo di transizione alla genitorialità cambia il bilancio tra esperienze percepite come positive ed esperienze percepite come negative e ciò provoca oscillazioni e cambiamenti di lungo termine nella qualità della relazione coniugale. I giudizi di soddisfazione o di insoddisfazione coniugale dipendono dal livello cui giungono i coniugi nello sperimentare stati d’animo negativi e nel biasimarsi a vicenda. Questi modelli sono molto attenti agli eventi attuali, ambientali e di relazione, ma non prendono in considerazione il fatto che la capacità di ciascun coniuge di valutare la qualità della relazione coniugale possa essere sistematicamente filtrata e polarizzata dalle precedenti esperienze di relazione vissute nella fanciullezza o nell’adolescenza.

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Levy-Shiff (1994) ha sviluppato un modello ecologico a cinque fattori nel quale si postula che i cambiamenti nella relazione coniugale che si verificano durante la transizione alla genitorialità siano dovuti a mutamenti nelle caratteristiche psicologiche dei genitori, nelle caratteristiche del bambino, nelle variabili della famiglia, nel tessuto sociale di sostegno e nelle norme culturali e sociali. Per esempio, variabili sociali come l’importanza attribuita al lavoro e alla carriera possono essere correlate con il peggioramento della capacità di adattamento nelle relazioni coniugali, in particolar modo quando i coniugi non sono d’accordo sulle responsabilità nella gestione del ménage familiare o sulla divisione dei compiti. Recentemente Levy-Shiff, Dimitrovsky, Shulman e Har-Even (1998) hanno ipotizzato che il modo in cui le persone valutano la genitorialità (in termini di entità della sfida, della minaccia, dello stress e della controllabilità), il grado in cui esse usano le diverse strategie di coping e la disponibilità del supporto sociale possano, se analizzate congiuntamente, predire i cambiamenti nel benessere familiare durante il periodo di transizione.

Altri ricercatori hanno cercato di spiegare gli effetti della transizione alla genitorialità specificando come le variabili disposizionali, modellate da esperienze di relazione precedenti, possano avere influenza sul buon funzionamento della relazione coniugale.

A differenza dei modelli ecologico/ambientali, molti modelli disposizionali cercano di delineare come e perché le esperienze avute nelle precedenti relazioni (per esempio con i genitori) possano influenzare l’interazione coniugale ed avere conseguenze che si evidenziano dopo che il bambino è stato partorito.

Cowan e Cowan (1988), ad esempio, hanno sviluppato un modello che si basa sugli effetti dovuti alla famiglia di origine. Questo modello postula che le persone che hanno sperimentato delle relazioni positive con il genitore del sesso opposto durante la fanciullezza e che avevano anche dei genitori i cui matrimoni erano felici, siano
destinate a sperimentare una maggiore soddisfazione nelle loro proprie relazioni coniugali, dopo la nascita del loro bambino. In effetti, la percezione di un conflitto intenso nelle famiglie di origine di uno o di entrambi i coniugi sembra predire davvero un peggioramento post parto della soddisfazione coniugale.

Simpson et al. (2002) fanno riferimento alla teoria dell’attaccamento di Bowlby per spiegare il comportamento dei coniugi nella transizione alla genitorialità:

  • Le persone sicure sono tipicamente meno chiuse in difesa, valutano i loro partner in modo più benevolo ed usano correntemente modalità costruttive di fronteggiare gli eventi, mirate al problema ed aperte al supporto degli altri, soprattutto quando sono sotto stress. Se il loro partner offre livelli di sostegno inferiori al desiderato, formulano, a tal proposito delle attribuzioni causali costruttive. Queste loro caratteristiche di resilienza permettono alle persone sicure di rimanere ottimiste e capaci sia di ricevere che di dare supporto. Il risultato è la capacità di fronteggiare in modo efficace gli eventi stressanti e di risolvere le difficoltà emergenti con i loro partner, con un effetto che rinforza la loro relazione. Se poi le persone sicure hanno anche dei partner capaci di dare loro effettivo sostegno, le esperienze stressanti anziché provocare un peggioramento diventano l’occasione per un miglioramento della qualità della relazione coniugale e del suo modo di funzionare (Simpson e Rholes, 1994).
  • Le persone evitanti, che hanno sperimentato persistenti situazioni di rifiuto nelle relazioni del passato, per sopprimere la sofferenza e la rabbia associate con il rifiuto cronico, hanno anche imparato ad essere compulsivamente autosufficienti specialmente quando sono angosciate da eventi stressanti (Bowlby, 1979).
    Bartolomew e Horovitz (1991) hanno identificato due tipi di adulti evitanti,gli evitanti-impauriti (che hanno delle opinioni negative di se stessi) e gli evitanti-scostanti (che hanno di sé delle opinioni positive), ma hanno anche visto che gli adulti di entrambi i tipi nutrono dentro di sé, opinioni sugli altri negative e piene di diffidenza. Per evitare che i loro sistemi di attaccamento siano cronicamente attivati, queste persone utilizzano difese cognitive, emotive e comportamentali che li aiutino ad evitare le situazioni che potrebbero attivare i loro sistemi di attaccamento, a smorzare l’attivazione, a sminuire l’importanza dei bisogni legati all’attaccamento e a mettere in atto strategie di coping basate sul distanziamento e il ritiro. Usando queste difese le persone evitanti diminuiscono la probabilità di sperimentare ulteriori rifiuti da parte delle figure di attaccamento attuali, assicurandosi così che il loro sistema di attaccamento rimanga disattivato. Poiché nelle relazioni passate si sono abituate a ricevere un supporto scarso, queste persone non sono infastidite dal fatto di ricevere, dai loro attuali partner, un supporto di livello molto basso (specialmente nel caso di supporto emotivo). È poco probabile quindi che tali persone cerchino supporto dai loro part partner durante gli eventi stressanti.
  • Le persone ambivalenti hanno ricevuto nelle relazioni passate un insieme di sostegno e di cure incoerente o imprevedibile. Come risultato, queste persone, di solito, sono piene di risentimento verso le figure di attaccamento e mettono continuamente in discussione il proprio valore. Talvolta,le persone con un alto grado di ambivalenza sviluppano opinioni negative di se stessi e positive degli altri significativi, verso i quali hanno aspettative piene di speranza (anche se accompagnate da sospetto e incertezza). Date le opinioni negative che hanno di se stessi, queste persone sono sempre vigili e attente ai segni e agli indizi di possibili abbandoni (specialmente nei confronti delle percezioni di peggioramento della disponibilità e del supporto del loro partner). Come risultato, sono combattute tra il desiderio di cercare supporto dai loro partners e quello di reagire con rabbia. Esse sono convinte di non aver ricevuto nel passato un sostegno sufficiente dalle loro figure di attaccamento nei momenti di reale bisogno e, come conseguenza, anche nelle relazioni attuali hanno spesso la percezione di ricevere un supporto insufficiente, a meno che non capiti loro di avere dei partners particolarmente capaci di offrire un supporto valido ed esplicito. Tutte queste percezioni negative hanno effetti perniciosi sulla qualità e sul funzionamento delle loro relazioni, particolarmente nel corso di evento stressanti.

Il ruolo dell’ ecografia nello sviluppo della cogenitorialità

Durante la gravidanza, nella fase di transizione alla genitorialità, un ruolo importante viene assunto dal bambino che sta per nascere; la letteratura sulle dinamiche psicologiche in gravidanza evidenzia come durante il corso della gravidanza vi sia un graduale cambiamento nella percezione che i genitori hanno del bambino che viene percepito ad un livello più immaginario all’inizio della gravidanza per poi diventare sempre più concreto con il passare del tempo e soprattutto con i primi movimenti fetali. L’ecografia ostetrica è una procedura diagnostica che, effettuata di routine durante la gravidanza, si inserisce nel processo psicologico dell’attesa, determinando un cambiamento nel processo immaginario dei genitori che si devono confrontare con un’immagine visiva del figlio.

Missonnier (1999) definisce l’ecografia come un rituale di iniziazione alla genitorialità e come una via di accesso privilegiata per accedere alla relazione precoce tra i genitori ed il figlio, infatti l’ecografia può diventare un importante momento di incontro con il bambino, permettendo ai genitori di sviluppare quel legame speciale con il figlio, che da fagiolino o chicco di caffè della prima ecografia, diventerà piano piano bambino e figlio, con un volto ed un’identità propria.

A livello psicologico l’ecografia viene percepita generalmente come un’esperienza positiva, in particolare dalle madri, che oltre ad essere rassicurate sul benessere del bambino ed avere una conferma visiva della realtà della gravidanza, possono condividere il bambino con il marito e con gli altri membri familiari Garcia; inoltre già a partire dal secondo trimestre di gravidanza, dopo avere visto l’ecografia entrambi i genitori iniziano a pensare al feto come al proprio bambino e ad immaginare se stessi come madre e padre.

Attualmente è riconosciuto che le ecografie ostetriche del secondo trimestre di gravidanza sono i principali fattori coinvolti nella formazione del legame materno-fetale (bonding); nell’ultimo trimestre di gravidanza, l’ecografia contribuisce a rinforzare la relazione con il figlio permettendo ai genitori di riconoscere aspetti più specifici del bambino: i movimenti delle braccia e delle gambe, i movimenti che il bambino fa con la bocca e soprattutto i lineamenti del volto (Campbell, 2006).

Le particolari caratteristiche fisiche e morfologiche del volto del bambino -una grande testa sproporzionata rispetto al corpo, una fronte molto ampia e sporgente rispetto al resto del volto, occhi molto grandi rispetto all’ampiezza del viso e guance paffute e sporgenti- costituiscono infattiquello che Lorenz ha definito il prototipo infantile (babyness), un elemento universale che distingue i piccoli della specie e che attrae irresistibilmente gli adulti, assolvendo la funzione di meccanismo innato per indurre i genitori ad occuparsi dei piccoli. Inoltre l’ecografia è condivisibile con il partner, permettendo anche ai padri di accedere al bambino in modo più diretto rispetto alla mediazione del corpo materno e di condividere all’interno della coppia le fantasie coscienti sul figlio. A livello psicologico, l’ecografia ostetrica può essere quindi considerata come un fattore che contribuisce alla transizione alla cogenitorialità, impegnando la coppia in una riorganizzazione delle rappresentazioni mentali del figlio, di se stessi e del partner come genitori, attraverso l’integrazione dell’immagine visiva del bambino.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La gravidanza vista dall’interno di Joan Raphael-Leff – Recensione

BIBLIOGRAFIA:

  • Zaccagnini, C., Zavattini, G.C. (2005). Transizione alla genitorialità, conflitto coniugale e adattamento del bambino: le relazioni, i processi e le conseguenze. Psicologia clinica dello sviluppo, a. IX, vol.1.
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Representations, attitudes and beliefs of Italian and French undergraduates about University: an empirical study

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Representations, attitudes and beliefs of Italian and French undergraduates about University: an empirical study

Autore: Giorgio Giuseppe Maggiacomo (Alma mater studiorum Università di Bologna)

Abstract

Il presente lavoro si propone di esplorare i contenuti delle rappresentazioni sociali, le credenze e l’atteggiamento associati all’università. Tenendo a riferimento le direttive della Commissione Europea degli ultimi anni per le riforme dei sistemi universitari, abbiamo condotto uno studio comparativo su due sistemi europei, quello italiano e quello francese. Per farlo, abbiamo chiamato a rispondere gli studenti, che sono tra i diretti interessati dei cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi anni. Questo perché la Commissione Europea ha deciso di fondare una nuova forma di economia, che possa rendere l’Europa la potenza economica più grande, un’economia dunque basata sulla conoscenza. In questo contesto, l’università sembra avere un ruolo chiave, essendo il cuore della ricerca scientifica e della formazione permanente. Ancora di più se, come previsto dal modello della Triplice Elica (Etzkowitz, 1983), instaura un legame stretto di scambio con le aziende per produrre quell’innovazione che serve allo sviluppo del territorio. Seguendo l’approccio strutturale di Abric (1993) allo studio delle rappresentazioni sociali, e il modello di Osgood, Suci e Tannenbaum (1957) sulla misura degli atteggiamenti (1975), l’analisi dei dati raccolti ha rivelato che sussistono differenze significative tra studenti italiani e francesi alle dimensioni indagate. Le informazioni qui ottenute aggiungono quindi un tassello importante all’indagine della Commissione Europea (2011) sulle percezioni degli studenti delle riforme dei sistemi universitari.

 

Abstract (English)

This paper aims to explore the contents of social representations, beliefs and attitudes associated to university. Keeping in reference the guidelines of the European Commission of recent years on the reforms of higher education systems, we conducted a comparative study on two European systems, the Italian and the French one. To do this, we called to respond the students who are among the stakeholders of the changes that have occurred in recent years. This is because the European Commission decided to establish a new form of economy that can make Europe the biggest economic power, that is a knowledge-based economy. In this context, university seems to play a key role, being the heart of the scientific research and training. Even more so if, as required by the Triple Helix Model (Etzkowitz, 1983), university establishes a close connection with businesses to produce innovations that need to territory development. Following the Abric’s structural approach (1993) to the study of social representations, and the model of Osgood, Suci and Tannenbaum on the measurement of attitudes (1957), data analyses revealed that there are significant differences between Italian and French students to the dimensions investigated. Information achieved added a dowel to the survey on youth, education and culture, provided by the European Commission (2011), on the students’ perception of the higher education reforms.

Key words: attitudes, beliefs, innovation, social representations, university.

 

 

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Stress: in coppia le donne sono più supportive degli uomini

Gli uomini sarebbero maggiormente sensibili allo stress, il loro e quello della partner, che faticherebbero a gestire diventando più critici, meno supportivi e confortanti.

In coppia le donne sono più supportive degli uomini: è quanto emerge da uno studio condotto a Zurigo grazie al supporto della Swiss National Science Foundation Research Grants.

In particolare gli uomini sarebbero maggiormente sensibili allo stress, il loro e quello della partner, che faticherebbero a gestire diventando più critici, meno supportivi e confortanti, sopratutto quando la partner esprime i suoi sentimenti in termini maggiormente emotivi.

Il team condotto dal dr. Bradbury ha studiato 189 coppie, eterosessuali e soddisfatte delle loro relazioni, che duravano da più di 4 anni. Le coppie sono state divise in tre gruppi sperimentali in cui o l’uomo, o la donna, o entrambi i partners venivano sottoposti a stress.

Ciascuna coppia si trovava in una stanza e veniva filmata dai ricercatori per 8 minuti. Lo stress veniva indotto con dei finti colloqui di lavoro e chiedendo ai soggetti di contare alla rovescia da 2.043 il più velocemente possibile, dicendo loro di ricominciare da capo a ogni errore. Per misurare i livelli di stress, sono stati prelevati campioni di saliva e testati i livelli di cortisolo: i risultati delle rilevazioni hanno mostrato che il test è stato molto stressante per entrambi i partners.

L’analisi delle registrazioni invece ha permesso di verificare le risposte verbali, comportamentali ed emotive allo stress: è stato possibile osservare la presenza o l’assenza di sostegno positivo o negativo di ciascuno nei confronti del partner e la qualità delle interazioni non verbali (ad esempio tenersi per mano o abbracciarsi, o evitare il contatto visivo distraendosi con altri oggetti)

I risultati indicano che in condizioni di non stress sia uomini che donne sono stati in grado di sostenere positivamente il/la partner; ma sotto stress le cose sono cambiate: mentre le donne si sono dimostrate supportive nei confronti dei partner che mostravano ansia e stress, gli uomini hanno prodotto un maggior numero di commenti negativi, mostrandosi quindi meno capaci di interazioni positive supportive con le compagne.

Secondo i ricercatori conoscere il ruolo giocato dallo stress all’interno di questi scenari può essere di aiuto alla coppia: è importante sapere che lo stress può aumentare l’esigenza di essere oggetto di cura di entrambi i membri di una coppia e rendere meno probabile il fatto che uno dei due riceverà il supporto di cui necessita da parte del partner perché lo stress interferisce con la capacità di essere in contatto con le esigenze dell’altro. Alla luce di questo alcune coppie potrebbero addirittura raccogliere la sfida e decidere di cercare attivamente una maggiore vicinanza proprio nei momenti di stress per contrastarne gli effetti negativi sulla relazione.

 

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Inside Out & la valenza positiva della tristezza

Non un elogio, ma un’apologia della tristezza che esamina in profondità il suo significato più autentico, ossia l’elaborazione di un evento spiacevole. Se riconosciuta ed accolta, infatti, da segnale critico e negativo questa emozione può rivelare anche la sua azione riparatoria e innovatrice trasformandosi in un potenziale stimolo al cambiamento.

Innumerevoli sono le recensioni sul nuovo capolavoro targato Pixar, ognuna delle quali volta a valorizzare un aspetto peculiare della vicenda narrata dalla pellicola.

La storia della protagonista, l’adolescente Riley che si trova ad affrontare un trasferimento indesiderato in un’altra città a causa del lavoro del padre, diventa il paradigma del funzionamento dei nostri moti interiori e della loro modalità di condizionare i nostri comportamenti.

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out, successivamente di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni mentre la scorsa settimana ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out (NdR).

Tutte le emozioni (Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia), personificate da cinque coloratissimi personaggi che governano la console emotiva di Riley, vengono rappresentate con pari dignità, tutte con una specifica e fondamentale funzione.

Ciò che a parer mio è più apprezzabile di questo lavoro di animazione è però il coraggio con il quale è stata nobilitata la funzione della tristezza. In due momenti precisi l’intervento di Tristezza, tanto osteggiato dalle altre emozioni protagoniste, è l’unico in grado di ristabilire un equilibrio all’interno della situazione determinando un momento decisivo di svolta. Ciò è evidente sia nel momento in cui riesce a validare il vissuto di tristezza dell’amico immaginario Bing Bong accogliendolo senza resistenze e riuscendo così a consolarlo, sia quando riesce, con un crescendo di intensità, a stimolare la reazione di pianto della ragazzina tra le braccia dei genitori, aiutandola così ad esprimere finalmente i suoi sentimenti e i suoi pensieri di preoccupazione. La sua azione catartica è davvero commovente e sorprendente.

 

INTRODUZIONE DELL’EMOZIONE DELLA TRISTEZZA:

  Non un elogio, ma un’apologia della tristezza che esamina in profondità il suo significato più autentico, ossia l’elaborazione di un evento spiacevole. Se riconosciuta ed accolta, infatti, da segnale critico e negativo questa emozione può rivelare anche la sua azione riparatoria e innovatrice trasformandosi in un potenziale stimolo al cambiamento.

Così, dopo qualche fatica, succede a Riley di riuscire, con l’appoggio e il sostegno della famiglia, ad accettare una nuova situazione e ad adattarsi alla nuova vita a San Francisco costruendosi una nuova rete di amicizie e continuando a coltivare i suoi interessi e le sue passioni.

Un film diretto forse più agli adulti che ai bambini per il livello di complessità della rappresentazione dei processi emotivi e cognitivi.

Un edificante monito a desistere dal tentativo di negare le emozioni “negative” necessarie, e talvolta propedeutiche, allo sviluppo di nuovi vissuti e prospettive positive visibili al di là dell’ostacolo.

Amy – The girl behind the name (2015): il documentario sulla vita di Amy Winehouse

Ciò che mi è rimasto maggiormente impresso nella mente dopo la visione di questo bellissimo documentario è la voce di Amy Winehouse. Una voce stridula e vitale, emozionante e simpatica, che nel film, insieme alle tanti immagini non ufficiali, risuona in continuazione contribuendo a definire il profilo umano di Amy.

Dirò forse qualcosa di prevedibile, ma ciò che mi è rimasto maggiormente impresso nella mente dopo la visione di questo bellissimo documentario è la voce di Amy Winehouse. Non solo la voce unica di una cantante dal talento pazzesco (una cantante jazz di 65 anni nel corpo di una ventenne come la definì il mitologico crooner Tony Bennet), ma anche la voce stridula di una ragazzina adolescente che lascia messaggi rabbiosi alla segreteria telefonica del fidanzato, la voce spensierata nei video amatoriali ai party con le amiche, la voce ironica nelle interviste con quell’accento da ragazza ebrea di Camden, resistente ai corsi di dizione. Una voce stridula e vitale, emozionante e simpatica, che nel film, insieme alle tanti immagini non ufficiali, risuona in continuazione contribuendo a definire il profilo umano di Amy.

 

CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO:

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L’altro elemento fondamentale del documentario sono i testi delle canzoni, che la cantante scriveva di suo pugno, e che la proiezione in sovrimpressione rende più apprezzabili rispetto al solo ascolto, quando la bellezza dell’interpretazione dell’artista ti distrae un po’ dai contenuti. I testi delle canzoni, oltre a essere freschi e poetici, sono straordinariamente veri e autentici, pieni di tutte le fragilità, le paure e i desideri affettivi di Amy. Ricorre spesso il tema dell’abbandono (I died a hundred times, you go back to her canta ad esempio in Back to black) e della disillusione (Love is a losing game…), che nella storia di Amy inizia nell’infanzia quando il padre esce di casa e si ripropone da adulta nelle difficili relazioni di coppia.

La scrittura acquisisce per l’artista senza dubbio una funzione catartica e non è un caso che i momenti in cui Amy appaia più serena e in cui non prenda il sopravvento la parte distruttiva, siano quelli in cui si impegna nel lavoro compositivo (in realtà purtroppo ci ha lasciato solo due dischi).

Il documentario mette in luce diversi elementi di rilevanza psichiatrica: l’esordio della bulimia in adolescenza ignorata dai genitori, la prescrizione inefficace di paroxetina all’età di soli tredici anni, la precoce iniziazione alle sostanze con l’abuso di alcol e cannabinoidi, il rapporto distruttivo con il marito e la scoperta di cocaina ed eroina, gli inefficaci percorsi di cure e rehab. Tra le altre cose, certi racconti del primo manager e amico d’infanzia Nick Shymansky (Riesce a farti sentire importante e poi un attimo dopo ti tratta male) rimandano chiaramente ad alcuni aspetti tipici del disturbo di personalità borderline.

 

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In un’intervista degli inizi Amy ammette profetica Se dovessi diventare famosa impazzirei, sottolineando come anche il fattore successo abbia avuto un peso sulla sua parabola esistenziale. Le scene in cui Amy viene accerchiata dai fotografi all’uscita di casa o di un locale sono angoscianti e sembra che ogni scatto di flash sia come l’ennesimo colpo a un corpo già traballante. Il successo ha anche contribuito a riavvicinare le due figure maschili più importanti e controverse della vita dell’artista, il padre e il marito, i cui atteggiamenti paiono in tante occasioni più dettati dall’opportunismo che dall’amore. Lascia parecchie perplessità, ad esempio, la scena in cui il padre Mitch si porta dietro una troupe televisiva durante una vacanza nell’isola di Santa Lucia, dove Amy cercava un po’ di quiete dai demoni londinesi.

Credo che il regista sia riuscito pienamente a ritrarre la persona Amy dietro la maschera dell’artista e sono uscito dalla sala provando tanta tenerezza e compassione per la perdita di un grandissimo talento artistico e di una ragazza troppo fragile per sopravvivere al successo nel difficile mondo dello spettacolo.

 

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AMY (2015) TRAILER UFFICIALE #2:

Trattare il dolore cronico: dalla CBT Standard ai nuovi approcci di Terza Ondata

Elena Lo Sterzo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Nota le sensazioni, le emozioni, i pensieri via via che sorgono: ascoltali come ascolti la radio.
Fa attenzione alla qualità della sensazione dolorosa, a come pulsa, alla sua temperatura, a come si modifica,
osservandola attentamente e in profondità attimo per attimo nel suo manifestarsi cosicché forse è possibile
sperimentare che non è un qualcosa di enorme, fisso e spaventoso, ma un
processo in continua trasformazione. Togli l’etichetta «dolore», limitati a
sentirlo profondamente, senza attaccarti ad esso.
nota la rabbia, la paura che sorge e fai esperienza di queste, di come esse si
manifestano nella mente e nel corpo, non come la “mia rabbia/paura” che
porterebbe automaticamente a giudicarsi, a negarla, reprimerla o agirla
contro sé o gli altri, ma come fenomeni che sorgono, occupano uno spazio
temporale e svaniscono. Puoi dire: «questo sono io che ho paura»

J. Kabat-Zinn

A differenza della CBT standard, gli approcci di Terza Ondata si basano sulla promozione dell’accettazione del dolore cronico, piuttosto che sulle strategie per controllare il dolore, così migliorano il benessere emotivo e il coinvolgimento in obiettivi personali non legati al dolore.

Il dolore ricopre la funzione biologica essenziale di segnalare una disfunzione o un danno nel corpo, proteggendoci dai danni che potrebbero conseguire dall’uso eccessivo delle aree colpite, e di promuovere l’omeostasi fisiologica. Quando il dolore, per diversi motivi, diventa cronico, perde le sue funzioni adattive.

Gli interventi psicologici attualmente utilizzati nel trattamento del dolore cronico sono idealmente concepiti come trattamento complementare a quello medico, e si pongono diversi obiettivi: il funzionamento fisico, la gestione dell’assunzione di farmaci antidolorifici, l’umore, gli schemi cognitivi, e la qualità della vita. Il cambiamento nell’intensità del dolore percepito invece, è un obbiettivo secondario.

Per capire le modalità di azione delle terapie psicologiche, è importante mettere a fuoco in quali modi il dolore può influenzare il funzionamento psicologico. Il dolore persistente può contribuire allo sviluppo di pensieri disfunzionali e di comportamenti controproducenti, che peggiorano il funzionamento quotidiano e che a loro volta possono prolungare l’esperienza del dolore. Le persone che soffrono di dolore cronico tendono ad avere una maggiore vulnerabilità a diversi disturbi psichiatrici, tra cui la depressione, l’ansia e il disturbo post-traumatico da stress. Tuttavia, la relazione tra dolore e depressione è bidimensionale: la presenza di un disturbo depressivo maggiore è stata identificata come un fattore di rischio chiave nella transizione da dolore acuto a dolore cronico.

Quali sono i meccanismi psicologici associati allo stress dolore-correlato che sono risultati essere adeguati target di trattamento?

  • La catastrofizzazione del dolore: uno schema mentale cognitivo ed affettivo negativo caratterizzato dall’amplificazione degli effetti negativi del dolore, dalla ruminazione e dal rimuginio sul dolore, e da sentimenti di impotenza nell’affrontarlo. Coloro che tendono a catastrofizzare il dolore risultano avere una minore percezione di controllo del dolore, un funzionamento sociale ed emotivo peggiore, e una peggiore risposta ai trattamenti medici. Trattare i pensieri catastrofici legati al dolore migliora il funzionamento fisico e psicologico nel breve termine ed aumenta la probabilità di ritornare a lavoro nonostante la presenza di dolore persistente.
  • La paura del dolore: riflette un timore di procurarsi una lesione o il peggioramento della condizione fisica, svolgendo attività che possono scatenare dolore. La paura del dolore è associata ad una maggiore intensità del dolore percepito e ad una maggiore disabilità. La paura del dolore contribuisce alla disabilità favorendo dei comportamenti passivi o di evitamento che contribuiscono al decondizionamento fisico e al dolore. Se non viene trattata, può rallentare o bloccare il recupero conseguente alla riabilitazione fisica. La paura del dolore, oltre ad essere un importante target di trattamento, sembra essere un buon predittore della risposta al trattamento stesso: i soggetti che lo temono maggiormente, all’inizio di un trattamento multidisciplinare del dolore, mostrano maggiore responsività alla tecnica dell’esposizione in vivo.
  • Molta attenzione viene data recentemente al modello della flessibilità psicologica, che va oltre il modello paura-evitamento del dolore cronico, ponendo l’accento sull’ accettazione del dolore. La flessibilità psicologica è stata definita come un abilità di impegnarsi nel momento presente, a livello emotivo, cognitivo e comportamentale, nel modo che è più in linea con i propri valori e scopi. Come l’accettazione psicologica, che favorisce un atteggiamento non giudicante verso i propri pensieri e le emozioni stressanti, l’accettazione del dolore è definita come un processo di riconoscimento non giudicante del dolore, di interruzione dei tentativi disfunzionali di controllo del dolore, e di apprendimento a vivere la vita con pienezza, nonostante il dolore. L’accettazione del dolore influenza il funzionamento psicologico attraverso due distinti meccanismi: una disponibilità a provare dolore, che riduce le reazioni emotive negative al dolore, e un continuo impegno in attività importanti per la persona, nonostante la presenza del dolore, che sostiene le emozioni positive. L’accettazione del dolore disgiunge la presenza dei pensieri catastrofici relativi al dolore dalla seguente sofferenza emotiva, e riduce il ricorso a strategie di fronteggiamento basate sul controllo o sull’evitamento, così liberando le risorse cognitive ed emotive per il perseguimento di obbiettivi più gratificanti per la persona. L’accettazione del dolore ha dimostrato di avere associazioni positive con il funzionamento cognitivo, emotivo, sociale ed occupazionale nelle persone che soffrono di dolore cronico. Inoltre, predice livelli inferiori di catastrofizzazione del dolore e una maggiore presenza di emozioni positive, le quali a loro volta riducono l’associazione tra l’intensità del dolore e le emozioni negative.

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) per il dolore cronico ha come target le risposte disfunzionali comportamentali e cognitive al dolore e le contingenze sociali e ambientali che possono modificare la reazione al dolore. La CBT per il dolore sviluppa le abilità di fronteggiamento utili a gestire il dolore e migliorare il funzionamento psicologico, come il rilassamento strutturato, l’attivazione comportamentale e la programmazione di attività piacevoli, la comunicazione assertiva, e la regolazione del comportamento allo scopo di evitare il prolungamento o il peggioramento degli attacchi di dolore. A differenza degli approcci esclusivamente comportamentali, la CBT tratta anche i pensieri disfunzionali riguardo al dolore e la catastrofizzazione del dolore attraverso l’uso formale della ristrutturazione cognitiva: l’identificazione e la sostituzione dei pensieri irrealistici o non utili riguardo al dolore, con pensieri orientati ad un comportamento adattivo e ad un funzionamento positivo.

Secondo una recente metanalisi (Hoffmann et al., 2012) la dimensione dell’effetto della CBT per il dolore cronico è da lieve a moderata in diversi ambiti: ha effetti sul dolore percepito e sul funzionamento nella vita quotidiana comparabili a quelli dei trattamenti medici standard, ma si dimostra superiore nel ridurre la tendenza alla catastrofizzazione del dolore, con miglioramenti a lungo termine della disabilità. I cambiamenti conseguenti al trattamento CBT nel senso di impotenza e nella catastrofizzazione sono gli unici predittori dei successivi cambiamenti nell’intensità del dolore percepito e nell’interferenza del dolore sul funzionamento quotidiano.

Il modello cognitivo-comportamentale è stato recentemente ampliato grazie a due nuove modalità di trattamento: la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR, Kabat-Zinn, 1990) e l’ Acceptance and Committment therapy (ACT, Hayes et al., 1999). A differenza della CBT, questi approcci si basano sulla promozione dell’accettazione del dolore cronico, piuttosto che enfatizzare le strategie per controllare il dolore, così migliorando il benessere emotivo e il coinvolgimento in obiettivi personali non legati al dolore. Anche se questi interventi agiscono entrambi sull’accettazione del dolore, differiscono nella loro implementazione e nell’approccio alla meditazione e alla pratica quotidiana.

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Mindfulness-based stress reduction

Questo approccio cerca di separare l’aspetto sensoriale del dolore dai suoi aspetti valutativi ed emotivi, e di promuovere una consapevolezza distaccata delle sensazioni somatiche e psicologiche del corpo. Attraverso la consapevolezza mindful e la meditazione, i pensieri relativi al dolore possono essere visti come eventi discreti piuttosto che come indicatori di un problema sottostante a cui bisogna dare una risposta immediata. Gli interventi MBSR sono tradizionalmente stati strutturati come sessioni settimanali di 2 ore, per 10 settimane, che sviluppano la consapevolezza del corpo e dei segnali propriocettivi, la consapevolezza del respiro e delle sensazioni fisiche e lo sviluppo di attività mindful (come mangiare e camminare). La MBSR promuove la mindfulness attraverso pratiche di meditazione quotidiana, che sono un requisito fondamentale del trattamento: il tasso di aderenza a queste pratiche sembra essere lievemente superiore a quello delle tecniche di gestione comportamentale del dolore. I meccanismi sottostanti agli interventi MBSR efficaci sono simili alla desensibilizzazione del dolore, in quanto le meditazioni prevedono esercizi da seduti, senza movimento, che espongono i partecipanti a sensazioni dolorose, sperimentando l’assenza di conseguenze catastrofiche. Gli interventi MBSR possono quindi funzionare come l’esposizione in vivo ma con l’obiettivo aggiuntivo di aumentare la tolleranza alle emozioni negative, per favorire risposte più adattive al dolore. Una differenza sostanziale con la CBT è che questa lavora al raggiungimento di obiettivi, come ad esempio un maggiore rilassamento o una diversa reazione emotiva o comportamentale, mentre la MBSR non prescrive obiettivi specifici, volendo raggiungere una condizione di osservazione non giudicante.

La MBSR si è dimostrata efficacie nel trattare i sintomi medici e psicologici, l’intensità del dolore, nel migliorare le strategie di fronteggiamento dello stress e del dolore, e tali benefici possono durare fino a 4 anni dopo l’intervento. Questo approccio ha dato buoni risultati in diversi gruppi di pazienti con dolore cronico, come ad esempio soggetti con la sindrome del colon irritabile, con dolore al collo, emicrania, fibromialgia, e dolore muscolo scheletrico cronico. Riduce inoltre i sintomi depressivi in soggetti con fibromialgia, e potenzia l’effetto dei trattamenti multidisciplinari nel ridurre la disabilità, l’ansia, la depressione e la catastrofizzazione. Gli studi di metanalisi evidenziano da lievi a moderati effetti di questo approccio sull’ansia, sulla depressione e sullo stress psicologico in pazienti con dolore cronico.

Acceptance and commitment therapy (ACT)

La ACT adotta un approccio teorico secondo cui i pensieri non devono essere affrontati o cambiati: piuttosto, le risposte ai pensieri possono essere modificate in modo da minimizzare le loro conseguenze negative. Gli interventi ACT migliorano il benessere attraverso la conoscenza ed il riconoscimento sostanziale e non giudicante degli eventi mentali (pensieri ed emozioni), promuovendo l’accettazione di questi eventi, ed aumentando le abilità dell’individuo di rimanere presente e consapevole dei fattori psicologici e ambientali rilevanti per il sé; nel fare ciò, le persone sono capaci di regolare il loro comportamento in modo che esso sia in linea con i loro scopi e valori, piuttosto che focalizzarsi sul sollievo immediato dalle sensazioni fisiche, dai pensieri e dalle emozioni spiacevoli. Nel trattamento del dolore, l’ACT propone il raggiungimento di una consapevolezza ragionata e dell’ accettazione del dolore, riducendo l’attenzione alla diminuzione del dolore o ai contenuti dei pensieri e piuttosto impiegando energie per mettere in atto dei comportamenti funzionali e soddisfacenti. L’ACT condivide molti concetti teorici della MBSR, poiché entrambe hanno l’obiettivo di promuovere una mentalità mindful e l’accettazione del dolore ma la differenza è che l’ACT non utilizza meditazioni quotidiane: si focalizza piuttosto sull’identificazione dei valori e degli scopi della persona, che devono servire per guidare il suo comportamento. I trattamenti basati sull’ACT hanno mostrato dei benefici su diversi fattori psicologici (senso di auto-efficacia, depressione, ansia) in molti gruppi di pazienti con dolore cronico. Alcuni studi di interventi ACT per il dolore cronico hanno riportato una dimensione dell’effetto da moderato a grande nel migliorare l’ansia e lo stress legati al dolore e la performance fisica, e nel ridurre la disabilità e il numero di visite mediche, con minori effetti invece sull’intensità del dolore percepito e sulla depressione.

Un recente ricerca di Akerblom e colleghi (2015), ha indagato se il fattore accettazione del dolore fungesse da mediatore nel determinare l’esito di un trattamento multidisciplinare di approccio CBT per pazienti con dolore cronico. Sono stati valutati anche altri tre importanti mediatori, spesso considerati come variabili di processo nei trattamenti CBT: il senso di controllo sulla propria vita, lo stress emotivo e il supporto sociale. E’ emerso che l’accettazione del dolore non era associata all’intensità del dolore percepito post-trattamento, ma costituiva invece il mediatore più forte dell’esito, misurato come interferenza del dolore e depressione, controllando per i suddetti mediatori valutati. Interessante notare questa importante influenza del fattore accettazione, pur non essendo stato il target esplicito di trattamento.

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Trattare il dolore cronico dalla CBT Standard ai nuovi approcci di Terza Ondata - Vignetta Cavezzali
M. Cavezzali: I dolori del giovane Werther

 

I professionisti coinvolti nel trattamento del dolore cronico devono essere consapevoli della importante eterogeneità dei pazienti con questa problematica, così come dei molti diversi fattori che possono predire la risposta al trattamento. Turk (2005) ha proposto ha individuato 3 sottogruppi di soggetti che presentano diversi pattern di risposta al trattamento: i pazienti ‘disfunzionali’, che riportano alti livelli di interferenza del dolore e dello stress ad esso associato nella vita quotidiana; i pazienti ‘stressati a livello interpersonale’, che riportano una mancanza di supporto dalle persone care nel fronteggiare il dolore; e gli individui che sono ‘funzionali’ nel fronteggiare il dolore, che riportano livelli sensibilmente più alti di funzionamento e supporto sociale percepito e livelli inferiori di disfunzioni legate al dolore. Da studi successivi è emerso che i pazienti ‘disfunzionali’ dimostrano una maggiore risposta al trattamento multidisciplinare che preveda anche un percorso psicologico, rispetto ai soggetti ‘stressati a livello interpersonale’. Può essere quindi utile identificare a quale sottogruppo di pazienti appartiene il soggetto da prendere in carico, utilizzando strumenti come il Multidimensional Pain Inventory (Ferrari et al., 2000) e tramite un assessment dettagliato dell’intensità del dolore percepito e della disabilità ad esso connessa. Inoltre, la disponibilità e prontezza del paziente ad adottare un approccio di auto-gestione del dolore cronico, sembra avere una ricaduta significativa sull’esito del trattamento. I pazienti che sono in ancora in una fase di precontemplazione (facendo riferimento alla Ruota del Cambiamento di Prochaska e Di Clemente, 1984) possono beneficiare maggiormente di terapie basate sull’insight, diversamente da quelli che sono in una fase di azione, che possono ricavare maggior beneficio da tecniche basate sul rilassamento e altre strategie attive di fronteggiamento. Un questionario utile per valutare questa disposizione del paziente è il Pain Stages of Change Questionnaire (Monticone et al., 2014).

La combinazione tra diverse modalità di trattamento psicologico e con altri interventi di tipo medico, può costituire il passo logico successivo nel migliorare gli esiti dei trattamenti per il dolore cronico. La creazione di un approccio flessibile e orientato ad obbiettivi precisi, come ad esempio l’ACT, può incrementare il coinvolgimento e l’aderenza al trattamento nella CBT. Inoltre, la combinazione dell’esposizione graduale in vivo con l’ACT può portare maggiori benefici nel trattare la paura del dolore e i conseguenti sintomi ansiosi (Bailey et al., 2010).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Le prime relazioni del bambino. Dalla nascita a due anni, i legami fondamentali per lo sviluppo (2015) – Recensione

 

In un mare magnum di letteratura (per addetti ai lavori e divulgativa, con differenti livelli di credibilità scientifica) relativa allo sviluppo dei bambini fino ai 5/6 anni, Lynne Murray – Professoressa di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Reading (UK) – propone un prezioso testo con l’obiettivo di fornire una panoramica sullo sviluppo psicologico del bambino nei primi due anni di vita. In questo periodo di sviluppo, infatti, si assiste a una rapida crescita fisica, cognitiva e “interpersonale” del bambino che corrisponde anche a diversi “livelli” di interazione (e difficoltà) con le figure di accudimento.

Il primo capitolo del manuale è dedicato allo sviluppo sociale del bambino. Tale argomento rappresenta un aspetto cruciale del libro e risulta avere molteplici implicazioni sia dal punto di vista del bambino che delle figure di accudimento. Il bambino, infatti, mostra una naturale propensione alle relazioni e, nel corso dei primi due anni di vita, si può osservare una graduale e continua modificazione delle modalità con cui si relaziona ai genitori e agli altri bambini. Tali cambiamenti vengono percepiti dai genitori che, generalmente in maniera del tutto naturale, compiono delle “correzioni sintoniche” che facilitano e promuovono tali mutamenti.

Nel secondo capitolo, invece, l’attenzione dell’autrice si focalizza sulla natura della relazione di attaccamento/accudimento tra genitori e bambino. Tale relazione costituisce l’alveo nel quale il benessere del bambino si sviluppa e rappresenta, quando ben “sintonizzata”, un fattore protettivo che consente la diminuzione del rischio di sviluppare future problematiche comportamentali e affettive. Le difficoltà di “sintonizzazione”, infatti, possono rappresentare delle problematiche complesse da individuare e trattare. A tal proposito, infatti, l’autrice pone l’accento sulla formazione e gli alti standard qualitativi che dovrebbero contraddistinguere le strutture e il personale impegnato nel lavoro con questa delicata fase di crescita (dagli asili nido ai centri di aiuto per genitori in difficoltà).

Altra fase cruciale nello sviluppo psico-fisiologico del bambino è la regolazione emotiva. Il terzo capitolo è dedicato a questo complesso argomento e a come i genitori influiscano su tale processo. Il bambino, infatti, tende a regolare le proprie esperienze emotive in maniera naturale ma, in un ambiente emotivo di sostegno, affetto e prossimità dei genitori (anche attraverso il contatto corporeo), tale processo viene favorito e “guidato”. L’autrice si sofferma anche sulla gestione dei comportamenti “difficili” (i.e., esteriorizzanti e interiorizzanti) e sulla gestione efficace degli stessi attraverso esemplificazioni grafiche dei momenti “critici” (e.g., comportamenti oppositivi, l’addormentamento, i comportamenti di ribellione).

L’ultimo capitolo è focalizzato sullo sviluppo cognitivo del bambino e su tutte le abilità (motorie, attentive, del linguaggio ecc.) che ne facilitano la crescita. Ad esempio, attività come la lettura condivisa – adattata a seconda dell’età – sostiene fortemente tale sviluppo e permette, contemporaneamente, l’implementazione delle abilità di concentrazione e attenzione condivisa. In questo caso, così come sottolineato più volte nel manuale, è la “qualità” più che la “quantità” dell’attività svolta a rendere efficace la pratica e a garantire un miglioramento maggiormente significativo dell’abilità appresa.

La psicopatologia correlata alla crescita non rappresenta il punto focale del libro ma, dopo un’attenta lettura e grazie all’utilizzo di una cospicua mole di immagini, il lettore potrà avere una chiara idea di cosa potrebbe “non funzionare” nel rapporto con il proprio bambino. Questo aspetto risulta essere, a mio avviso, di particolare importanza e rappresenta un’eccezione degna di nota nel panorama dei manuali dedicati a questa fascia di età dello sviluppo. L’autrice, in questo modo, rende possibile una maggiore comprensione delle dinamiche descritte – diadiche e non – a un pubblico non esclusivamente di “addetti ai lavori” che potrà beneficiarne sia per la comprensione degli aspetti psico-biologici sottostanti a determinati comportamenti, sia per implementare il proprio apporto alla crescita cognitivo-affettiva del bambino stesso.

 

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Autore:

Dott. Walter Sapuppo
Psicologo, Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale, AAI Certified Coder. Docente presso le scuole di psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca e docente presso la Sigmund Freud University, Milano. Socio della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e della Society for Psychotherapy Research (SPR).

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Murray L. (2015), Le prime relazioni del bambino. Dalla nascita a due anni, i legami fondamentali per lo sviluppo. Milano: Raffaello Cortina Editore.

 

Un collirio per contrastare le malattie neurodegenerative?

 

Una speciale soluzione oftalmica potrebbe essere impiegata con successo nella cura delle patologie neurodegenerative. Lo studio è stato condotto su modello animale, e se si rivelasse efficace sull’uomo avrebbe delle implicazioni notevoli.

Una speciale soluzione oftalmica potrebbe essere impiegata con successo nella cura delle patologie neurodegenerative. Questa la scoperta di un team di ricercatori dell’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Ibcn-Cnr), coordinato dalla dottoressa Paola Tirassa. Lo studio è stato condotto su modello animale, e se si rivelasse efficace sull’uomo avrebbe delle implicazioni notevoli nel trattamento di patologie quali l’encefalopatia diabetica, l’infiammazione cronica o danni da agenti chimici.

La ricerca, pubblicata sulla rivista European Journal of Neuroscience, dimostra come la somministrazione di gocce oculari, contenenti NGF (acronimo di Nerve growth factor), sia in grado di ridurre gli effetti del danno neuronale, stimolando la produzione di nuovi neuroni da parte delle cellule progenitrici presenti nel cervello. L’ NGF è il fattore responsabile della crescita delle cellule nervose scoperto dal Premio Nobel Rita Levi Montalcini, che ne individuò per prima le capacità riparative e rigenerative.

La terapia oculare risulta efficace in quanto le gocce consentono di superare la barriera retinica e raggiungere le aree cerebrali, contrastando gli effetti degenerativi causati dai danni cerebrali. Lo studio dell’Ibcn-Cnr rappresenta dunque la base per lo sviluppo di terapie non invasive per la cura delle malattie neurodegenerative.

La ricerca ha consentito inoltre di far luce sui meccanismi biologici coinvolti nello sviluppo delle connessioni e delle strutture cerebrali, individuando nella zona subventricolare (SVZ, SubVentricular Zone) dei ventricoli laterali la principale zona d’azione del NGF. Quest’area è considerata infatti la più ricca fonte di cellule progenitrici; queste, se stimolate dal fattore di crescita contenuto nel collirio, generano nuovi neuroni che vanno a rimpiazzare quelli lesionati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dipendenza da sigarette? Colpa dell’insula!

Sabrina Guzzetti

 

Nuove evidenze suggeriscono che la corteccia insulare può giocare un ruolo importante nei processi cognitivi ed emozionali che portano all’uso di droghe e alla dipendenza, specie per quanto riguarda la nicotina.

Questa la scoperta pubblicata sulla rivista Addictive Behaviors da un gruppo di ricerca dell’Università di Rochester, negli Stati Uniti. La nicotina, il principale composto del tabacco, agisce da rinforzo positivo al consumo di sigarette e ne induce la dipendenza, i cui fenomeni, quali assunzione compulsiva e stereotipata, astinenza e tolleranza, sono del tutto assimilabili a quelli provocati da alcol, eroina e cocaina.

Secondo il Dr. Amir Abdolahi, primo autore dello studio e PhD e ricercatore presso il Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica, una regione del cervello chiamata corteccia insulare può essere la chiave per il trattamento di questa forma di dipendenza. L’insula è una porzione della corteccia cerebrale che si trova profondamente all’interno della scissura che separa il lobo temporale da quello frontale e che può essere selettivamente danneggiata dalle lesioni ischemiche che si verificano a seguito di un ictus. I ricercatori, per studiare il suo ruolo nella dipendenza da sigarette, hanno reclutato una coorte di 156 fumatori attivi ricoverati per ictus ischemico presso tre diversi ospedali di Rochester, 38 dei quali con lesione insulare.

Il loro pattern di consumo di sigarette ed i loro sintomi di astinenza sono stati monitorati sia durante il periodo di ospedalizzazione, sia nei tre mesi successivi alla dimissione. Dai risultati è emerso che il tempo medio intercorso tra l’evento ictale e la prima ricaduta è stato decisamente più lungo per il gruppo di pazienti che presentava un interessamento dell’insula rispetto al gruppo di pazienti con ictus in altre regioni cerebrali (17,5 vs 10,4 giorni). Inoltre, tra chi ha smesso diligentemente di fumare, la lesione all’insula è anche associata a minori sintomi di dipendenza, quali irritabilità, ansia, difficoltà di concentrazione, aumento di fame, tristezza, disturbi del sonno e il cosiddetto craving, l’incontrollabile forte desiderio di assumere la sostanza.

Infine, la lesione insulare è stata associata ad una probabilità doppia (70% vs 37%) di interrompere l’assunzione di qualsiasi prodotto alla nicotina. Questa scoperta propone l’insula come un target potenziale per le terapie anti-fumo, sia in termini dello sviluppo di nuovi farmaci che agiscano specificamente su questa parte del cervello, sia rispetto all’utilizzo di tecniche come la Stimolazione Cerebrale Profonda o altre metodiche non invasive di stimolazione cerebrale, come la Stimolazione Magnetica Transcranica o la Stimolazione Transcranica a Corrente Diretta.

 

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Il provocatore Parte Prima – Tracce del Tradimento Nr. 24

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXIV: il provocatore Parte Prima 

 

Lo scopo che muove il provocatore è del tutto opposto a quello che anima il codardo. Entrambi vogliono produrre un cambiamento della situazione ma mentre il codardo vuole un cambiamento da cui il coniuge sia escluso, il provocatore vuole un cambiamento nella relazione con il coniuge.

In fondo vorrebbe limitarsi a testare l’interesse del coniuge nei suoi confronti perché ritiene che sia diminuito con il passare del tempo e a sollecitarlo di nuovo. Notoriamente si può desiderare solo ciò che non si ha o ciò che si teme di poter perdere; anche le cose che più ci sono indispensabili, come l’acqua e l’aria, non sono oggetto di desiderio quando sono disponibili, e perciò non ci rendiamo conto della loro importanza e non passiamo il tempo a tesserne le lodi. Tuttavia è sufficiente che si prospetti una possibile carenza per riaccendere un vivo interesse per loro, per farci sentire uno struggente desiderio e per indirizzare tutte le nostre azioni alla conquista di questi beni indispensabili.

In amore succede pressappoco la stessa cosa. In una fase iniziale, che viene normalmente definita innamoramento, l’altro, la sua presenza, il suo desiderio di stare con noi e di rimanervi sono tutt’altro che scontati; possono scomparire da un momento all’altro così come sono arrivati; non v’è certezza sulla solidità, intensità e durata del rapporto e questo accende il desiderio per qualcosa che si è intuito essere meraviglioso ma che non si sa se lo si potrà davvero avere e per quanto tempo e indirizza tutte le azioni verso il consolidamento del rapporto. Paradossalmente quando il rapporto è consolidato e magari certificato con un contratto matrimoniale il desiderio si attenua, quasi scompare e sia il desiderato che il desiderante non lo avvertono più.

In realtà non si tratta di un paradosso; pur se la percezione dell’altro come qualcosa di meraviglioso permane (il che non sempre accade quando si passa da una fugace e saltuaria frequentazione alla quotidianità della convivenza che trasforma il partner amoroso in un compagno di decisioni sulla quotidianità), quello che viene a mancare è il secondo ingrediente indispensabile per il desiderio: l’incertezza sulla disponibilità dell’oggetto desiderato. La disponibilità illimitata e la facilità all’accesso rendono qualsiasi bene prezioso non psicologicamente desiderabile, anche se costantemente utilizzato e ritenuto indispensabile. Per sentire di nuovo il desiderio occorre immaginare o sperimentare la possibilità di una perdita. Il provocatore è preoccupato e mosso proprio da questa avvertita mancanza di desiderio che erroneamente scambia per mancanza di interesse e dunque di amore.

Il provocatore è preoccupato sia della mancanza di desiderio del partner che della sua e la soluzione che intravede è quella di mettere in forse il rapporto, di rendere incerto e angosciante quello che sembrava certo e scontato. La soluzione sembra essere l’entrata in scena di un amante che tuttavia è elemento utile ma non indispensabile; quello che è indispensabile è il diffondersi tra i due del timore di una possibile perdita. In realtà l’essenziale non è l’amante ma le tracce! Sono le tracce che attivano il processo per cui ognuno sente la probabilità della interruzione del rapporto: da un lato il coniuge si sente minacciato per la possibilità di essere sostituito dall’amante e dall’altra il provocatore sente che potrebbe essere scoperto e lasciato: per entrambi dunque quello che era scontato cessa di esserlo. L’amante è un particolare ininfluente seppure piacevole, è al servizio della coppia perché il provocatore non ha nessuna seria intenzione di costruire con lui una nuova storia, il suo ruolo è, banalmente, quello di far ingelosire il coniuge.

Romano quando raccontava delle sue frequenti avventure extraconiugali aveva la faccia furbetta di un bambino che ha appena rubato la marmellata ed ha la consapevolezza di averla fatta grossa, la paura di essere scoperto e la quasi certezza di essere perdonato. La cosa che colpiva gli amici che lo ascoltavano era che parlava più della moglie che dell’amante di turno. Ogni cosa era in relazione a lei e venivano meticolosamente descritte le sue perplessità, i controlli, le esplosioni di gelosia, le sospettosità e gli stati d’animo di apprensione che tutto ciò creava in lui.

Talvolta l’amante non esiste neppure e le tracce vengono lasciate soprattutto mostrandosi distratti, disattenti, elusivi; certamente avere un amante facilita il compito e rende più reale la partita e dunque più rischiosa e stuzzicante. Tuttavia l’amante è scelto senza troppa attenzione, le caratteristiche che deve avere sono di essere facilmente disponibile senza richiedere un eccessivo impegno per conquistarlo e non avere aspettative troppo forti sulla nascente relazione in modo da poter essere liquidato senza troppe difficoltà.

È l’amante che sta al servizio della coppia, che serve a ravvivarne il desiderio; è lui il vero escluso, quello che uscirà dolorante da tutta la vicenda. In genere il provocatore chiarisce subito, per non avere difficoltà in futuro e per non generare illusioni, quali siano le sue intenzioni a lunga scadenza: “per quanto ti ami non potrò mai lasciare la mia famiglia (meglio se si può mettere in prima linea l’amore per i figli)” detto in altre parole “il nostro rapporto si iscrive all’interno di una relazione stabile e solida che è quella con il mio coniuge e ad essa è sottomesso e strumentale”.

A volte il tradimento è semplicemente una storiella allo stato iniziale o addirittura soltanto una ipotesi possibile ancora non verificata; il nostro provocatore non ha disinvestito dal rapporto originale e dunque non ha tempo da perdere in ulteriori investimenti. Con ciò non vogliamo dire che la vicenda con l’amante non possa essere piacevole e passionale, anzi normalmente lo è e ciò conferma al nostro provocatore che quelle sono le caratteristiche dell’amore che deve ricreare anche nella storia per lui veramente importante, quella con il coniuge. “Tu mi puoi perdere, io ti posso perdere” questo è il messaggio che il provocatore vuole dare e che attiva il reciproco desiderio.

Egli non sa dare valore ad un rapporto stabile e tranquillo dove non essendoci sommovimenti non esistono neppure forti emozioni; egli misura l’importanza dell’altro ed il coinvolgimento dall’intensità delle emozioni suscitate. Spesso queste persone hanno bisogno per tutta l’esistenza di una relazione parallela alla relazione principale per far sentire quest’ultima sempre precaria ed in pericolo e dunque sempre in bilico. E mantenere vivo il legame che altrimenti non saprebbero esplorare. Anche e soprattutto in questo caso il prezzo maggiore lo pagherà l’amante che rischia di restare in una situazione di stand by non vivendo una esistenza propria se non nell’attesa che finalmente il suo partner lasci il coniuge: uno strumento per mantenere precarietà e vivacità al rapporto fondamentale che in fondo non è mai stato in discussione.

Una storiella apparsa in forma di vignetta sul “New Yorker”, ben descrive la marginalità dell’amante in questa situazione. Un uomo e una donna curvi e malinconici inquadrati sotto un lampione nella notte, erano stati amanti per tutta la vita. Lui era rimasto vedovo da poco più di un anno e non si era ancora ripreso dal dolore provato, lei era rimasta paziente ad aspettarlo tutta una vita, la sua unica vita.

D’un tratto lei dice a lui: “Tesoro, perché non ci sposiamo ora?
E lui, meravigliatissimo: “Ma chi? Noi due?
Lei: “Si, noi due perché cosa ci sarebbe di strano?
Lui, sempre più incredulo: “Ma alla nostra età…
Lei incalzante: ”Si alla nostra età, che c’è di male?
Lui, rassegnato: “Ma alla nostra età chi vuoi che ci prenda!”

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

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