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Depressione: l’impatto della sertralina sul cervello dei primati

La ricerca presente ha voluto valutare gli effetti a lungo termine degli antidepressivi non triciclici sul volume di specifiche regioni neurali del cervello di scimmie femmine adulte, così da verificare se gli effetti del trattamento con sertralina sul volume cerebrale dipendono dallo stato depressivo.

La depressione è un disturbo largamente diffuso nella popolazione, debilitante e legato, tra le altre cose, a specifiche caratteristiche cerebrali. Infatti numerose ricerche hanno dimostrato l’esistenza di differenze nel volume delle strutture neurali tra i soggetti depressi e quelli non depressi; in particolare studi condotti attraverso la risonanza magnetica, nonostante le differenze individuali dovute all’età, alle condizioni di stress vissute, alle recidive subite e alla precedente storia medica, hanno riportato in generale un ridotto volume dell’ippocampo, dell’amigdala e della corteccia cingolata nei pazienti depressi.

Il trattamento di tale patologia viene il più delle volte eseguito attraverso gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, cioè gli antidepressivi non triciclici come la sertralina, che vengono largamente prescritti per le patologie legate all’umore e non solo. Questi farmaci promuovono la remissione favorendo la sinaptogenesi o la riorganizzazione dei neuroni all’interno del circuito cerebrale specifico della depressione.

Tuttavia ricerche che valutano i cambiamenti neurali che fanno seguito ad un trattamento prolungato con antidepressivi sono difficili da svolgere con soggetti umani e all’interno di condizioni sperimentali controllate a causa della compliance al trattamento e della complessità della storia medica precedente, per questo sono pochi gli studi che hanno evidenziato la possibilità che il volume cerebrale dei pazienti con disturbo depressivo maggiore sottoposti a trattamento potrebbe differire rispetto a quello dei soggetti depressi non trattati.

Per tali ragioni la ricerca presente ha voluto valutare gli effetti a lungo termine degli antidepressivi non triciclici sul volume di specifiche regioni neurali del cervello di scimmie femmine adulte, così da verificare se gli effetti del trattamento con sertralina sul volume cerebrale dipendono dallo stato depressivo.La scelta dei primati non umani è stata dettata anche dal fatto che il loro comportamento depressivo è fisiologicamente e neuro biologicamente simile a quello degli umani e riguarda la riduzione della massa corporea, l’alterazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e dell’attività serotoninergica, l’incremento del rischio di patologie cardiovascolari e della mortalità, la riduzione del volume ippocampale.

Lo studio ha quindi considerato 42 scimmie femmine adulte che i ricercatori hanno fatto vivere all’interno di gruppi sociali stabili per 18 mesi, durante i quali è stato misurato il comportamento depressivo e ansioso degli animali. Al termine di questo periodo le scimmie sono state divise in due gruppi, uno è stato abituato all’assunzione di un placebo mentre l’altro all’assunzione di sertralina.

Il trattamento con il placebo o con la sertralina è durato per i successivi 18 mesi e in questo lasso di tempo non solo lo stato depressivo e ansioso degli animali è stato di nuovo registrato ma, attraverso la risonanza magnetica, è stato misurato anche il volume delle regioni cerebrali di interesse, ippocampo, corteccia cingolata anteriore e amigdala.

I risultati hanno mostrato in primo luogo che la sertralina non ha nessun effetto sul comportamento depressivo degli animali mentre riduce significativamente il loro stato ansioso, infatti favorisce il decremento del comportamento aggressivo, aumentando il contatto fisico e l’affiliazione con i propri simili. In secondo luogo si è osservato che le scimmie depresse trattate con la sertralina presentano un volume aumentato della corteccia cingolata anteriore di sinistra e alterazioni del volume della corteccia cingolata ventrale anteriore di sinistra, dell’ippocampo di destra e dell’ippocampo anteriore di destra; le scimmie non depresse a cui è stata somministrata la sertralina mostrano un volume ridotto dell’ippocampo di destra, dell’ippocampo anteriore di destra e della corteccia cingolata ventrale anteriore di sinistra; le scimmie depresse trattate con il placebo si caratterizzano per la riduzione del volume dell’ippocampo anteriore di destra e della corteccia cingolata anteriore di sinistra; infine non si osservano effetti particolari della sertralina sul volume dell’amigdala.

Quindi, nonostante i limiti che caratterizzano tale ricerca come ad esempio l’assenza di strumenti avanzati per la suddivisione delle aree neurali e il conseguente uso di tecniche manuali, essa può essere considerata il primo studio pubblicato che esamina gli effetti a lungo termine del trattamento con antidepressivi non triciclici sulle strutture neuro anatomiche implicate nella depressione e quindi può fornire un valido modello per verificare l’efficacia dei nuovi interventi sulle patologie connesse all’umore.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Anedonia – Definizione Psicopedia

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA

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Il termine anedonia è stato inventato alla fine dell’800 per descrivere una insensibilità patologica al provare piacere, propria di alcune malattie psichiatriche.

Negli ultimi vent’anni, questo concetto si è sempre più definito fino a entrare di diritto fra i criteri diagnostici del DSM-III (ed edizioni successive) all’interno dell’area relativa ai disturbi dell’umore, poiché permetteva di discriminare tra diverse forme di depressione.

L’anedonia è, dunque, l’incapacità di provare piacere. Certamente, la mancanza o la perdita totale della capacità edonica non è l’aspetto più comune, tuttavia il termine è ormai largamente impiegato anche quando la perdita o l’assenza è solo parziale. L’incapacità di provare piacere può essere non soltanto un’esperienza pervasiva, ma anche limitata, confinata a un solo ambito (o a un numero limitato di ambiti), come quello del cibo o del sesso, delle interazioni sociali o delle relazioni, etc.
L’anedonia può essere, dunque, inquadrata come una forma di appiattimento dello stato emotivo, una sorta di coartazione generale dell’espressività emotiva.

Chiaramente, è diversa dalla depressione (molti pazienti sottolineano di non provare sentimenti di tristezza, ma di aver perso la capacità di provar piacere per ciò che per loro, prima, era fonte di piacere), ed è individuabile anche in altre aree psicopatologiche fra cui la schizofrenia.
Può essere definita sia come tratto sia come stato. Quando ci si riferisce al tratto si intende una incapacità permanente di provare piacere che può essere presente fin dall’infanzia ed è riconosciuta anche dal paziente stesso. Mentre, lo stato può essere definito, come una pervasiva, non reattiva, compromissione della capacità di provare piacere per cose specifiche in un determinato momento.

In maniera più ampia possiamo dire che l’anedonia consiste nell’incapacità di desiderare la gratificazione. Infatti, i pazienti anedonici sarebbero tutti accomunati da una modalità inadeguata di rapportarsi all’ambiente, che si manifesterebbe, con la tendenza all’isolamento, propria della depressione maggiore oppure dei disturbi del pensiero e dell’affettività, tipici degli schizofrenici.
Restano, tuttavia, ancor oggi non del tutto chiari i meccanismi eziopatogenetici alla base dell’insorgenza dell’anedonia. Assodando che le vie dopaminergiche non sono gli unici circuiti cerebrali ad essere coinvolti, pare che a determinare la complessità psicopatologica del sintomo vi sarebbero diversi e molteplici fattori causali (genetici, ambientali, culturali, sociali), i quali, interagendo tra loro, contribuerebbero (tutti assieme) alla sua insorgenza clinica.

 

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Traumi e lutti incidono il corpo: liberarsi si può – un articolo di Giancarlo Dimaggio

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di Domenica 13 Settembre 2015

Il trauma non si imprime solo nelle vostre memorie, quella è la parte meno difficile. I ricordi si potrebbero mettere da parte. Il trauma incide i suoi segni con uno scalpello nel vostro corpo. 

Ti chiami Tom. È una domenica di Luglio, famiglia e amici sentono l’odore che si spande dal barbecue. Un flash nel cervello, scappi via, nel tuo studio di avvocato, bevi Jack Daniel’s fino ad ubriacarti. Il caldo, il fumo, il vociare dei bambini. Pum. Ti hanno riportato in Vietnam, dove avevi visto corpi bruciati, il tuo plotone massacrato. Non sei fuggito da casa, ma dalle foreste umide e opprimenti. Il tuo corpo ti ha riportato lì, non puoi tollerarlo.

Ti chiami Marylin. Sei infermiera. Esci con Michael, lo hai conosciuto al circolo tennis, da quattro anni non passavi una serata con un uomo. Al ristorante parlate di musica, cinema, bevete un po’, ridete. Andate a casa. Finite a letto, non ricordi bene quello che è successo. Nella notte senti il suo corpo vicino. Dentro ti si fa ghiaccio, sciolto da un’esplosione di rabbia. Lo insulti, lo tempesti di pugni. Lui non capisce e non ti rivolgerà la parola mai più. Tuo padre ha abusato di te quando avevi otto anni. Crac. Tua madre ti rimproverava perché lo facevi arrabbiare.

Ti chiami Valerio. Sei al parco giochi con tuo figlio. Vedi una mamma che allatta il figlio di pochi mesi. Hai un accesso di dolore a un braccio, la paura ti sommerge. Vorresti correre da un medico. Non temi l’infarto, ma di avere una malattia neurologica e non puoi spiegarlo a tuo figlio mentre gioca a pallone. Resti lì, paralizzato, con gli occhi sbarrati, estraneo a quello che succede intorno. Tua moglie, anni prima ha avuto un tumore al seno, diagnosticato durante l’allattamento. Tre anni di battaglie, poi è morta. Pum. Aveva sintomi alle braccia quando la malattia è arrivata al cervello.

Storie vere, sono pazienti con i traumi psichici di cui parla Bessel van der Kolk (2015) nel suo bellissimo Il corpo accusa il colpo. Vite spezzate da eventi unici e veloci o terribili e ripetuti. Siete stati in Iraq, a L’Aquila la notte del terremoto, in un reparto di ospedale mentre per mesi una persona cara cercava di sopravvivere? L’11 settembre vi trovavate, per rubare il titolo a Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino? Allora questo libro parla di voi.

Il trauma non si imprime solo nelle vostre memorie, quella è la parte meno difficile. I ricordi si potrebbero mettere da parte. Il trauma incide i suoi segni con uno scalpello nel vostro corpo. Scava molto. Nel profondo del cervello c’è l’amigdala, una mandorla che spara emozioni, centro di attivazione di rabbia e, soprattutto, paura. Le botte della vita la istruiscono ad accendersi facilmente. Uno stimolo minimo innesca l’allarme. Intanto la corteccia mediale prefrontale, la parte deputata a dire Ok, ok è solo fumo, stai tranquillo, non ti si brucia casa, funziona meno. Il trauma fa questo scherzo, attiva la sirena e manda in pensione i saggi che vi dicono di stare tranquilli.

Fa altro: altera il sistema immunitario, che a volte si indebolisce, altre volte vi spara addosso fuoco amico, generando malattie autoimmuni. Congela i muscoli o li tende allo spasimo, torce le viscere attraverso l’azione del nervo vago. Scolpisce memorie cattive dentro di voi.

Van der Kolk il trauma lo ha studiato a fondo dai tempi in cui curava i veterani del Vietnam. Sa cosa serve per riparare i danni. Intanto uno psicoterapeuta aggiornato che sappia far da testimone al dramma e aiuti a riorganizzare in una storia sensata i frammenti dell’esperienza. E mentre vi fa ricordare l’orrore, vi ancora al mondo intorno finché capite: non sta succedendo più.

Poi, calmare il corpo, spegnere gli allarmi: farmaci se serve, e molta mindfulness, la meditazione che rinvigorisce le aree saggie del cervello mentre prestate attenzione al respiro che placa l’animo. Imprigionati nel passato non vivete più con chi vi sta vicino, quindi: ridare vita al corpo. Arti marziali, yoga, danza, teatro.

Valerio inizia un corso di fitboxe coreografata. Calci e pugni al sacco e si balla. Entrando in sala vedeva la sua immagine nelle specchiere e aveva paura. Poi iniziava la musica, One day, baby we’ll be old, l’istruttore incalzava. Jab, montante, gancio, tre-e quattro, schiva, calcio circolare, stabilizza, mambo kick. Valerio riprende ad agire, a vivere, impara a svincolarsi da servomeccanismi che amplificavano vortici su vortici di dolore alle prime avvisaglie dell’autunno.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Van der Kolk, B. (2015) Il corpo accusa il colpo, Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Raffaello Cortina Editore. ISBN: 978-88-6030-758-3

Cambiamenti neurologici nel praticante mindfulness

Anna Scala, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Le ultime ricerche suggeriscono come la Mindfulness promuova cambiamenti funzionali nel cervello mediante la neuro plasticità.

Il concetto di Mindfulness ha una storia di oltre 2.500 anni e affonda le sue origini nelle tradizioni contemplative buddhiste.
Deriva dal buddismo theravada, una delle due maggiori correnti del pensiero buddista, diffusa in Asia meridionale e sudorientale, in particolare in Birmania, Cambogia, Laos, Sri Lanka e Thailandia, sia nell’ambiente monastico che laico. Il termine Mindfulness è la traduzione in inglese della parola “Sati” in lingua Pali, che significa “attenzione consapevole” o “attenzione nuda”.

L’idiogramma cinese per “Mindfulness” è “nian” (念) che è la combinazione di due caratteri diversi, ognuno dei quali ha il suo significato. La parte superiore dell’idiogramma significa “adesso”, mentre la parte inferiore significa “cuore” o “mente”. Letteralmente l’idiogramma completo indica l’atto di vivere il momento presente con il cuore. La parola Sati rimanda anche al verbo Sarati che vuol dire ricordare. In particolare lo sviluppo di Sati aumenta la capacità di ricordarsi dei propri pensieri e comportamenti e delle loro conseguenze su di sé e sugli altri, permettendo di imparare dai propri errori e quindi di progredire sul cammino dell’etica.

Lo sviluppo della Mindfulness o sati come “presenza mentale” e come “ricordarsi” porta all’aumento della consapevolezza delle proprie intenzioni, emozioni, pensieri, parole e azioni e delle conseguenze che possono avere su di sé e sugli altri.
In questo modo la persona può raggiungere una maggiore chiarezza riguardo a ciò che deve essere fatto (ciò che è salutare) e a ciò che non dovrebbe essere più fatto (pensieri e azioni non salutari).
In sintesi, la tradizione buddhista definisce la Mindfulness come la consapevolezza del momento presente e il ricordarsi dei propri pensieri, emozioni e azioni.

L’utilizzo, da parte della medicina occidentale, della Mindfulness per la promozione della salute è invece un’acquisizione relativamente recente: è iniziato negli anni ’70 negli Stati Uniti da parte del medico Jon Kabat-Zinn. (Rainone,2012)
Secondo la definizione di Jon Kabat-Zinn, Mindfulness significa “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante” (Kabat-Zinn,1994, p. 63). Si tratta cioè di dirigere volontariamente la propria attenzione a quello che accade nel proprio corpo e intorno a sé, momento per momento, ascoltando più accuratamente la propria esperienza e osservandola per quello che è, senza valutarla o criticarla.

Jon Kabat-Zinn in particolare ha messo a punto il protocollo Mindfulness based stress reduction. Benché l’origine della pratica Mindfulness derivi dal pensiero buddista non è necessario abbracciare la religione buddista per praticare lo sviluppo della consapevolezza.
Essa è infatti una forma di meditazione non concettuale universalmente accessibile e non dipende da alcun sistema di credenze, né da alcuna ideologia.

Mindfulness è, nella pratica, una forma di meditazione, pertanto richiede tempo, energia, determinazione, fermezza e disciplina.
Dal punto di vista dei processi mentali essa si sostanzia nel prestare nel momento presente attenzione  a quattro elementi: il proprio corpo, le proprie percezioni sensoriali (fisiologiche, fisiche e psicologiche appartenenti agli ampi domini del piacevole, spiacevole, misto e neutro), le formazioni mentali (ad es. la rabbia, il dolore o la compassione) e gli oggetti della mente (ogni formazione mentale ha un oggetto, si è arrabbiati con qualcuno e per qualcosa ecc.…).

L’osservazione di questi elementi della propria esperienza soggettiva avviene in uno stato di autentica calma non reattiva, nel quale si accetta ciò che viene osservato per quello che è, consentendo ai cambiamenti di avvenire naturalmente, senza ostacolarli né promuoverli ed evitando la solita resistenza o il solito giudizio che causano ulteriore sofferenza.

Alcune pratiche che si possono incontrare all’interno della Mindfulness sono la meditazione del respiro (osservare il proprio respiro, concentrandosi su di esso e rimanendo in osservazione di quello che accade mentre lo facciamo) e l’esplorazione del corpo o body scan (eseguire una rotazione sistematica della attenzione di consapevolezza nelle varie parti del corpo, con l’obiettivo di  “sentire” autenticamente ogni parte del corpo e soffermarsi su ciascuna di esse).

La Mindfulness può essere praticata da seduti (sitting meditation) oppure camminando (walking meditation). La meditazione da seduti consiste nell’assumere una posizione seduta dignitosa, su una sedia o un panchetto da meditazione o per terra aiutati da un cuscino. La meditazione camminata (adatta alle persone particolarmente agitate, come preparazione a quella seduta) consiste nel coltivare l’osservazione interna e la consapevolezza delle sensazioni, mentre si cammina, concentrandosi su ciascun passo.

La pratica costante della Mindfulness si è dimostrata efficace nella riduzione dello stress e delle patologie ad esso correlate, nel sollievo di sintomi fisici connessi a malattie organiche e, in generale, nella promozione di profondi e positivi cambiamenti dell’atteggiamento, del comportamento e della percezione di se stessi, degli altri e del mondo.

Tali cambiamenti sono ravvisabili in (Rainone,2012):
– una maggiore capacità di padroneggiare le situazioni difficili della vita,
– un maggiore potere di gestione dei conflitti e dei problemi ordinari e straordinari,
– un incremento dell’accettazione e della pazienza nei confronti del proprio stato di malattia o delle proprie infermità psicologiche e fisiche,
– una nuova capacità della mente di sostituire le emozioni distruttive, che portano ansia e depressione, con modi di essere più costruttivi, che promuovono l’equanimità, l’amore e la saggezza.

Via via che la Mindfulness si è diffusa nel mondo scientifico e psicologico e si è imposta anche all’interno del Cognitivismo le Neuroscienze hanno iniziato a occuparsene per studiarne gli effetti sul cervello dei praticanti. Le ultime ricerche suggeriscono come la Mindfulness promuova cambiamenti funzionali nel cervello mediante la neuro plasticità.

Haselkamp in uno studio del 2012 conferma questa ipotesi e asserisce che questi cambiamenti nella connettività funzionale siano duraturi nel tempo.
Dimostra infatti come praticanti con molti anni di meditazione siano caratterizzati da una maggiore connettività all’interno delle reti attenzionali e tra queste e le regioni prefrontali mediali. Questi dati secondo Haselkamp causerebbero un maggior sviluppo nei praticanti mindfulness delle abilità cognitive, nel mantenere l’attenzione e nello svincolarsi dalle distrazioni.

Taren e colleghi (2015) hanno evidenziato come tre giorni intensivi di meditazione mindfulness possano ridurre l’attivazione del circuito neurale “amigdala destra-corteccia cingolata anteriore” in un campione di adulti disoccupati (N=35) e che presentavano elevati livelli di stress.
Il circuito neurale “amigdala destra- corteccia cingolata anteriore” funziona da radar emotivo, attirando l’attenzione su ogni elemento nuovo, incerto o importante. Agisce sul sistema precoce di avvertimento del cervello, esaminando ogni avvenimento, controllando ogni fatto emotivamente saliente, in particolare quelli potenzialmente minacciosi.
In questo senso è collegato alla formazione dello stress.
Dunque, sebbene lo stress possa aumentare la connettività funzionale a riposo di tale circuito neurale, un breve training di mindfulness può invertire questo effetto almeno a breve termine.

È stato dimostrato come meditatori esperti siano in grado di modulare volontariamente il loro stato di coscienza e attenzione (Hauswald ,2015).
In particolare Hauswald e colleghi hanno segnalato la presenza di onde Alpha durante la meditazione (anche se gli occhi dei soggetti erano aperti) che aumentavano in ampiezza e in diminuzione in frequenza con la progressione della sessione di meditazione.
Le onde Alpha sono caratterizzate da una frequenza che va dagli 8 ai 13.9 hertz e sono tipiche della veglia ad occhi chiusi e degli istanti precedenti l’addormentamento.
Durante l’ultima parte della sessione di meditazione si modificavano i ritmi delle onde theta principalmente in meditatori con molti anni di esperienza.
Le onde Theta vanno dai 4 ai 7.9 hertz e caratterizzano gli stadi 1 e 2 del sonno REM.

In modo similare Luders nel 2012 ha condotto una ricerca in cui voleva indagare gli effetti cerebrali della meditazione a seconda del numero di anni di pratica. I risultati suggerivano come meditando per molti anni avvenisse un aumento di spessore e un potenziamento dei lobi frontali e in particolare della corteccia prefrontale mediale. Quest’ultima dialoga ricevendo informazioni e dando indicazioni con il cervello emotivo (sistema limbico) e con il più arcaico cervello rettile (rinencefalo), favorendo l’integrazione fra le funzioni esercitate da queste aree. Le modifiche al cervello avvengono per mezzo di cosiddette pieghe corticali dette “girificazioni”, ossia la formazione di giri e solchi cerebrali. I ricercatori ritengono che la formazione di queste pieghe possa promuovere e valorizzare l’elaborazione neurale (Luders , 2012). E più girificazioni si formano più il cervello riesce a lavorare meglio – un’efficienza che si mostra in una migliore elaborazione delle informazioni, facilità nel prendere decisioni e migliore memoria.

Luders nel suo studio aveva dimostrato una correlazione tra gli anni di meditazione e la quantità di piegature corticali formatesi nel tempo: l’osservazione delle scansioni ha mostrato significative differenze in base agli anni di pratica meditativa.
Nello specifico si sono riscontrate maggiori girificazioni nelle persone che praticavano la meditazione, rispetto a coloro che non meditavano.
In più questi solchi corticali erano maggiori con l’aumentare degli anni di pratica meditativa.
«La correlazione positiva tra la girificazione e il numero di anni di pratica sostiene l’idea che la meditazione aumenta la girificazione regionale del cervello», conclude Luders.

Di conseguenza coloro che meditano da più anni tramite una maggior profilatura della corteccia cerebrale sarebbero in grado di trattare più velocemente le informazioni rispetto a chi medita da meno anni e a chi non pratica la meditazione.
Questo è stato confermato da Hauswald che nel 2015 ha trovato ulteriori conferme di come lo spessore corticale sia aumentato per i praticanti di mindfulness.

In aggiunta Hauswald ha dimostrato come meditando sia possibile ridurre la perdita della materia grigia che avviene solitamente con l’avanzare dell’età.
Le analisi dei dati ottenuti dalla Risonanza Magnetica hanno confermato l’aumento di concentrazione di materia grigia (neuroni) nell’ippocampo sinistro e nella corteccia cingolata posteriore, nella giunzione temporo-parietale e nel cervelletto nel gruppo che aveva seguito il programma MBSR.
I risultati suggeriscono che la partecipazione al programma Mindfulness-Based Stress Reduction è associata a cambiamenti nella concentrazione di materia grigia nelle regioni coinvolte nei processi di apprendimento e memoria, nei processi auto-referenziali e decisionali.

Questi e altri studi dimostrano come le Neuroscienze utilizzando le loro conoscenze e strumenti come la Risonanza Magnetica e l’Elettroencefalogramma possano chiarire sempre più il ruolo che le pratiche meditative come la Mindfulness possono avere anche sul cervello dei praticanti.

Per raggiungere un livello conoscitivo sempre più elevato in effetti all’interno delle Neuroscienze è nata una branca che si occupa in modo specifico della Mindfulness. Norman Farb in questo senso può essere considerato il capostipite di questo settore delle neuroscienze con il suo contributo “Mindfulness meditation reveals distinct neural modes of self-reference” del 2007.
Visto che si parla di Rivoluzione Mindfulness è giusto indagare in profondità da un punto di vista sperimentale e scientifico la portata di queste pratiche sull’essere umano.

 

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Ci sono codardi tali fin dall’inizio ed altri che lo diventano strada facendo. I codardi ab origine sono coloro che, dopo aver deciso di interrompere il rapporto, iniziano a tradire e a seminare tracce proprio con lo scopo di esasperare l’altro e di essere lasciati: la scelta di chiudere è il motore di tutto. In questo senso l’amante è solo una pedina, uno strumento utilizzato all’interno del rapporto originario; spesso e volentieri la storia con l’amante si conclude dopo che ha portato a termine il suo compito di rottura della storia originale.

In questo caso il codardo non ha nessuna intenzione di legarsi all’amante, lo tiene a distanza, non vuole andare verso una sostituzione del primo rapporto con il secondo, ma solo verso una risoluzione del primo.
Spesso il codardo ab origine lascia tracce a 360 gradi: da un lato segnala al coniuge che sta allontanandosi, dall’altro manda messaggi all’amante che non sarà mai del tutto suo. All’amante esibisce costantemente attenzioni delicatissime dedicate al coniuge nel momento stesso in cui trascorre del tempo con lui, come a dire “non ti fare illusioni”. Persino nel giorno del compleanno del coniuge riesce a essere assente per troppo tempo, richiamato da sospetti motivi di lavoro, ma in quello stesso tempo trascorso con l’amante fa continui accenni agli straordinari regali acquistati e all’organizzazione della festa a sorpresa per il coniuge.

I messaggi inviati ai due partner sono caratterizzati dall’ambiguità e suonano pressappoco così: “Io non ti lascerò ma non sarò mai del tutto solo per te”. Gli eventuali figli possono essere utilizzati allo stesso scopo: al coniuge si dice che si resta nella coppia soprattutto per il bene dei figli (sto con te ma non del tutto) e all’amante che non si lascerà mai la famiglia per il bene dei figli (sto con te ma non del tutto). Il coniuge avverte la presenza di un altro, ma l’altro avverte la presenza di un coniuge che non sarà mai lasciato. Ognuno dei partner ha importanza in quanto salvaguarda da una intimità profonda percepita come minacciosa. L’importante è non essere né da una parte né dall’altra, ed ogni parte ha importanza soprattutto perché garantisce di non essere completamente con l’altra. Le tracce vengono lasciate ora da una parte, ora dall’altra con andamento pendolare: laddove il codardo sente maggiore il rischio di un coinvolgimento, lì lascerà più tracce che stanno proprio a significare: “non pensare di avermi, posso e voglio potermene andare quando voglio”.

È evidente che questo comportamento ci racconta di una persona titubante, con difficoltà di scelta, spesso un rimuginatore che non ha imparato cosa sia l’intimità e la solidarietà autentica. Queste persone hanno problemi personali legati alle relazioni. Alcuni diventano codardi in itinere in quanto iniziano una storia per sperimentare nuove emozioni senza tuttavia aver nessuna intenzione di minare il rapporto fondamentale, ma via via che la nuova relazione procede si fanno prendere la mano e magari si innamorano e si trovano invischiati in una rete sentimentale che non si aspettavano. Considerata la difficoltà che hanno ad assumersi le responsabilità, ad essere chiari per il timore di far soffrire l’altro e di essere dunque giudicati cattivi, non è raro che non sappiano più lasciare l’amante così come non sanno lasciare il coniuge e finiscono per trovarsi schiacciati tra due relazioni che sentono entrambi soffocanti.

Spesso il partner lasciato sarà quello che il codardo percepisce come più forte, quello che ai suoi occhi soffrirà di meno, in questo modo la sua colpa sarà minore, il male causato ridotto. Mentre fino a poco tempo prima la storia coniugale era giudicata positivamente ed il coniuge percepito con affetto e benevolenza, in seguito alla nuova passione avviene una revisione completa della storia che appare logora, pesante, insopportabile. Tale revisione porta ad auto-ingannarsi per potersi dire che nulla andava bene e che perciò era ora di cambiare; anzi, sostengono calorosamente, l’entrata in scena dell’amante non c’entra nulla, è solo un fenomeno accidentale e ininfluente: la prima storia era già finita prima che iniziasse l’altra.

È diffusa la tendenza a ritenere che la nuova storia non abbia influenzato il decorso della precedente ma anzi che sia non la causa della rottura del precedente rapporto ma la conseguenza del suo malfunzionamento; Questa spiegazione risparmia a chi tradisce il problema di affrontare la colpa e la responsabilità morale delle scelte di abbandono che si appresta a fare. Ciò è del tutto falso: la maggior parte degli uomini e delle donne non promuovono una rottura della storia coniugale (se non in casi eccezionali) se non c’è già ben delineata una nuova storia all’orizzonte, anche se amano raccontar che lo stesso fatto di interessarsi ad un altro è la prova tangibile che le cose nella storia coniugale non andavano bene per non assumersi la responsabilità della rottura e delle inevitabili sofferenze. Al contrario solo allora iniziano a rivedere la vecchia storia ed a criticarla vedendone tutti i difetti.

È proprio l’inizio della nuova storia che spinge ad assumere un atteggiamento critico e negativo verso il coniuge e la vita trascorsa con lui, per cui tutto ciò che fino a ieri era bello o perlomeno accettabile, grazioso, tenero, solido e così via, diventa pesante, insopportabile, noioso, irritante. Questo fenomeno si chiama memoria selettiva e significa che la ricostruzione che abbiamo del passato non è oggettiva e stabile ma dipende grandemente dalla visione attuale che abbiamo di noi stessi, del mondo e degli altri e dalle nostre preferenze in un dato momento. La memoria selettiva va di pari passo con quella che viene detta “attenzione selettiva” che consiste nel prestare attenzione soltanto o prevalentemente a quegli eventi che confermano le proprie convinzioni, ignorando quelli che le dimostrerebbero false oppure dando di questi ultimi delle spiegazioni ad hoc che permettono di mantenere le proprie idee.

Vediamo in un esempio l’attenzione e la memoria selettive all’opera per mantenere immutato il proprio punto di vista. Poiché sono convinto che Giulio sia il mio miglior amico di fronte ad una sua scortesia tenderò a giustificarla come frutto del suo stress sul lavoro, non farò caso ai messaggi telefonici cui non mi risponde e invece attribuirò molta importanza al fatto che si è ricordato della mia attrazione per la marmellata di marroni e me ne ha regalata una confezione per il mio compleanno. La marmellata di marroni sta in assoluto primo piano mentre tutte le piccole disattenzioni dell’ultimo periodo, disattenzioni che ad un osservatore esterno apparirebbero veri e propri segni di maleducazione o di ostilità, sono sfumate sullo sfondo, poco notate o se notate giustificate in vario modo senza mai mettere in discussione la solida amicizia.

Nella memoria la narrazione della storia passata di questa amicizia è densa di episodi di dedizione di Giulio nei miei confronti, di decine di volte in cui è stato presente in famiglia più di un fratello e si è dimostrato estremamente affezionato non solo a me ma altrettanto a mia moglie e ai miei figli. Non ricordo neppure un momento in cui non sia stato all’altezza delle mie aspettative ed anzi spesso ha fatto di più di quanto fosse lecito attendersi dal più grande degli amici.

Immaginiamo ora che si verifichi un evento negativo forte e ineludibile che vada ad intaccare il fatto che Giulio sia il mio più caro amico in quanto, tornando a casa improvvisamente da un viaggio di lavoro che si è rivelato più breve del previsto, lo trovo abbracciato a mia moglie. A questo punto posso fare un salto nel delirio e pur di non cambiare idea sostenere che Giulio si è dimostrato ancora una volta uno straordinario amico in quanto si è preoccupato di far compagnia a mia moglie, triste per la mia partenza, e di riscaldarla un po’ in questi giorni freddi di inverno. Oppure, molto più probabilmente, rivedrò completamente la mia visione della relazione con Giulio. La marmellata di marroni perderà la sua importanza, non sarà ricordata o addirittura verrà interpretata come un ignobile tentativo di conquistare la mia fiducia per potersi insinuare nel mio letto. La storia passata sarà completamente riveduta e tutti gli eventi che erano considerati prova certa della assoluta amicizia e dedizione di Giulio saranno dimenticati oppure ridimensionati nella loro importanza o persino reinterpretati in maniera del tutto opposta e diventeranno segni inequivocabili della fredda perfidia di Giulio e del suo diabolico piano.

Tutti noi funzioniamo regolarmente così per mantenere una certa stabilità nella costruzione che facciamo di noi stessi e del mondo e quando questa costruzione, scontrandosi con un’evidenza ineludibile, è costretta a cambiare improvvisamente si assiste a questa drammatica e improvvisa riscrittura della propria storia che ricorda i cambiamenti della storia ufficiale e della memoria collettiva che avvenivano ad ogni cambio di alleanza nel classico di George Orwell “1984” e che lascia annichiliti tutti quelli che dall’esterno vi assistono. È questo il motivo per cui in una coppia che fino a poco tempo prima ha vissuto condividendo la narrazione della propria storia se si giunge alla separazione sembra che si siano vissute due storie diverse; in perfetta buona fede essi raccontano due film diversi, non sembrano neppure aver vissuto le stesse esperienze: la rottura finale porta i due a reinterpretare tutta la vicenda alla luce di quanto è avvenuto al suo termine.

Il codardo in itinere che s’innamora è capace di trovare il marcio in ogni aspetto del rapporto e di gettare fango sul coniuge che fino a poco tempo fa giudicava un compagno accettabile; forse proprio questo è l’aspetto più doloroso: non soltanto una relazione d’amore giunge al termine ma per portare a compimento la chiusura è necessario negare la sua stessa esistenza e importanza. Non solo non c’è più, ma non c’è mai stato amore. Prima mi ingannavo, ora posso dirmi la verità. Il coniuge così non solo perde il partner ma anche il suo passato, resta da solo a ricordare una storia che non condivide più con nessuno e lo assale il dubbio che effettivamente sia solo una sua fantasia, un sogno da cui si è bruscamente risvegliato.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Ultimatum game: contrastare gli effetti della colpa deontologica nel decision-making

Per studiare la psicologia morale si ricorre spesso a un paradigma di ricerca noto come Ultimatum Game. L’Ultimatum Game pone al soggetto un compito decisionale che apparentemente riguarda soltanto aspetti economici ma che in realtà implica valutazioni morali.

Nella versione classica (Güth et al., 1982) due giocatori devono dividere una somma di denaro, supponiamo 100 euro. Un giocatore, l’offerente, propone all’altro giocatore, il ricevente, di dividere la somma in parti diverse, ad esempio può trattenere per sè 50 euro o 40 o 70 o 90 e offrirne rispettivamente 50, 60, 30 o 10. Se il ricevente accetta, la somma è divisa, ma se non accetta, nessuno dei due prende nulla. Dal punto di vista della teoria economica classica, al fine di massimizzare il proprio utile, il ricevente dovrebbe accettare qualunque offerta, anche minima, perché sempre migliore di nulla. Invece, i riceventi tendono a rifiutare offerte inferiori al 20-30% della somma da dividere (Nowak, 2000; Camerer, 2003), preferendo non guadagnare nulla piuttosto che accettare un’offerta che considerano ingiusta (Fehr and Camerer, 2007).

C’è un generale accordo sul fatto che il rifiuto sia motivato dalla sensazione che un’offerta troppo bassa sia offensiva e dallo scopo di riaffermare la giustizia punendo chi la propone. Dell’ultimatum game esiste anche la versione cosiddetta third party, nella quale i partecipanti devono decidere se accettare o rifiutare l’offerta per conto di un’altra persona (Civai et al., 2010; Corradi-Dell’Acqua et al., 2013). Questa versione consente di investigare selettivamente le motivazioni morali delle persone perché il giudice non guadagna né perde nulla.

La versione third party è stata utilizzata da Alessandra Mancini e Francesco Mancini (2015) in una ricerca pubblicata su Frontiers Psychology, 25 August 2015, dal titolo “Do not play God: contrasting effects of deontological guilt and pride on decision-making”.

La ricerca rientra nel filone che studia la opportunità di distinguere fra senso di colpa deontologico e senso di colpa altruistico e, più in generale, fra la dimensione, per così dire, verticale della moralità, finalizzata al rispetto del principio Not play God, e quella orizzontale, guidata da principi altruistico/umanitari. Ricerche precedenti hanno dimostrato che i due sensi di colpa possono essere indotti separatamente (Basile e Mancini, 2011), hanno due substrati neurali diversi (Basile et al., 2011), il senso di colpa deontologico implica una maggiore attenzione per il rispetto del principio Not Play God e dunque preferenza per scelte omissive nel dilemma del trolley e, al contrario, il senso di colpa altruistico implica maggiore attenzione per il principio altruistico/umanitario “minimizzare la sofferenza del prossimo” e preferenza per azioni congrue con tale principio (Gangemi e Mancini, 2013; Mancini e Gangemi 2015).

D’Olimpio e Mancini (2014) hanno trovato che l’induzione di senso di colpa deontologico, diversamente dalla induzione di senso di colpa altruistico, implica controlli più attenti, accurati e ripetitivi nella esecuzione di un compito e implica lavaggi più prolungati e accurati in un compito di pulizia di un oggetto. Altri studi (ad es. Biziou-van-Pol et al., 2015) hanno dimostrato che la motivazione a rispettare norme deontologiche, in particolare il divieto morale di dire bugie, può sopravanzare motivazioni prosociali, sia quelle altruistiche sia quelle cooperative.

Lo scopo specifico della ricerca era controllare l’ipotesi che l’induzione di senso di colpa deontologico avrebbe avuto un impatto diverso dall’induzione di senso di colpa altruistico nella decisione dei soggetti. Hanno partecipato allo studio tre gruppi, in uno è stato indotto senso di colpa deontologico, in uno senso di colpa altruistico e in uno fierezza morale. L’ipotesi era che il primo gruppo avrebbe accettato offerte “ingiuste” più degli altri due gruppi. L’ipotesi nasceva da una duplice considerazione. La prima è che il senso di colpa deontologico implica svilimento personale, cioè una diminuzione nella gerarchia morale, e dunque implica anche un maggior peso del principio Not play God, vale a dire una maggior sensibilità a considerazioni del tipo “chi sono io per poter assumere il ruolo di giudice?” (Gangemi e Mancini, 2013).

I risultati rivelano che i soggetti in cui era stato indotto senso di colpa deontologico, ma non quelli in colpa altruistica, accettavano offerte moderatamente sleali (30:70) più dei soggetti in cui era stata indotta fierezza. È interessante osservare che il giudizio di lealtà delle offerte era lo stesso nei tre gruppi, suggerendo che i soggetti in colpa deontologica non avevano abbassato i loro standard morali. Si possono spiegare questi risultati con l’effetto opposto che il senso di colpa deontologico e la fierezza hanno sul valore personale che ci si riconosce. In particolare, i soggetti fieri si sentivano intitolati ad agire per riaffermare la giustizia, mentre i soggetti in colpa deontologica si sentivano maggiormente inibiti dal principio Not play God e dunque limitati nella loro autonomia decisionale, vale a dire non autorizzati a mettersi nei panni di un giudice.

In sintesi, non si riconoscevano l’autorevolezza morale necessaria per essere loro stessi a far valere la giustizia. Nel senso di colpa altruistico non c’è un abbassamento del rango e le motivazioni altruistiche, nonostante ci sia una tendenza all’accettazione delle offerte moderatamente ingiuste, non sono sufficienti a produrre una differenza significativa con i soggetti fieri.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Le indicazioni degli altri articoli citati si trovano in Mancini A. e Mancini F. (2015)

L’informazione preventiva ai genitori in attesa ha effetti benefici sulla nascita del bimbo

Laura Pancrazi

 

Recenti studi dimostrano che una breve serie di lezioni organizzate allo scopo di supportare le coppie di giovani che diventano genitori per la prima volta, ha effetti positivi sulla nascita stessa del bambino.

All’incirca dieci anni fa, Mark Feinberg, ricercatore e docente presso la Pennsylvania State University, ha sviluppato il programma Family Foundation, il quale consiste nell’organizzazione di una serie di lezioni da proporre ai futuri genitori, le quali dovrebbero fornire loro gli strumenti per affrontare lo stress, l’ansia e la depressione connessi ad una transizione così importante e tuttavia delicata; guidarli nell’acquisizione di alcune competenze genitoriali; migliorare la qualità della vita ed i conseguenti benefici a lungo termine per il bambino.

In questo studio, 399 coppie in attesa del primo figlio compilavano una serie di questionari volti ad indagare il loro attuale stato di stress, ansia e depressione. Successivamente, venivano loro casualmente assegnati due diversi tipi di intervento: il programma di prevenzione Family Foundation, con la proposta di nove lezioni in totale, cinque durante la gravidanza e quattro successive; e un intervento di controllo, il quale prevedeva l’invio a casa delle coppie di materiale informativo di vario genere (manuali, riviste…).

Afferma il professor Feinberg:

[blockquote style=”1″]Quello che abbiamo constatato è che il programma Family Foundation riduce l’impatto negativo di stress, ansia e depressione sul peso del bambino alla nascita. Non solo: anche i giorni di degenza in ospedale di madre e figlio risultano essere minori tra coloro che avevano potuto beneficiare del nostro intervento. Questo dimostra l’importanza di aiutare le coppie a cooperare e supportarsi a vicenda in un momento così difficile come il passaggio alla genitorialità. Sostegno reciproco e bassi livelli di conflittualità hanno mostrato di avere un impatto positivo sulla salute mentale dei genitori, sulle relazioni familiari e sul benessere dei bambini fin dalla nascita.[/blockquote]

In uno studio successivo, i ricercatori si sono soffermati sul calcolo di quali sarebbero i benefici di un programma del genere sui costi sanitari. Ebbene, sembra che ogni dollaro speso a favore del programma Family Foundation faccia risparmiare al sistema sanitario dai 3 ai 5 dollari legati alla spesa per problemi medici, psicologici e comportamentali dei neogenitori e dei loro primogeniti. Varrebbe allora la pena investire risorse su un intervento così prezioso per tutti: per le giovani coppie, per i loro figli, e per tutto il sistema sanitario che, risparmiando sui costi associati alle gravidanze, avrebbe maggiori fondi da investire in altre ricerche e in altri programmi.

Family Foundation si sta ora estendendo alla prevenzione nelle famiglie di ufficiali militari, ma gli autori sperano di poterlo presto proporre a tutta la popolazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Essere Sigmund Freud…e darsi ottimi consigli: l’immedesimazione altera i processi di pensiero

Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, SISSA

L’illusione di essere in un corpo diverso dal nostro non cambia solo le nostre percezioni (come è già noto) ma anche il nostro modo di pensare. Grazie alla realtà virtuale alcuni soggetti hanno impersonato Sigmund Freud e si sono rivelati più bravi nel darsi consigli di natura psicologica, rispetto a quando erano semplicemente se stessi.

Ai volontari che hanno partecipato agli esperimenti di Sofia Adelaide Osimo, sarà sembrato di stare dentro una sceneggiatura di Charlie Kaufman, l’autore (e neo-vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival del Cinema di Venezia) di ‘Essere John Malkovic’, e altri film bizzarri (‘Se mi lasci ti cancello’, ‘Il ladro di orchidee’…). Come nel film i protagonisti si catapultavano (letteralmente, vedere per credere) nel corpo del famoso attore, nell’esperimento di Osimo i soggetti, dopo aver chiesto, in prima persona, consiglio su un problema di natura psicologica, si auto-rispondevano vestendo però i panni di Sigmund Freud.

E quando impersonavano lo psicanalista viennese, i loro consigli erano molto più efficaci di quando parlavano semplicemente tra sé e sé

spiega Osimo, oggi ricercatrice della SISSA, che però ha svolto questo lavoro in collaborazione con i colleghi dell’EVENT Lab dell’Università di Barcellona. La ricerca è stata appena pubblicata sulla rivista Scientific Reports.

Per creare l’illusione di essere nel corpo di qualcun altro (percependolo come se fosse il proprio) Osimo ha sfruttato la realtà virtuale immersiva. Dalla letteratura precedente è già noto che questo tipo di illusione provoca alterazioni nella percezione, Osimo e colleghi volevano invece verificare se l’impersonamento (embodiment) può influire anche sui processi di pensiero: essere qualcun altro ci fa ragionare in maniera differente? A quanto pare è proprio così.

Nell’esperimento i volontari, indossando dei dispositivi VR (Virtual Reality) molto avanzati (casco e sensori), si trovavano immersi in una stanza virtuale in cui erano presenti una replica di se stessi e Sigmund Freud. Il soggetto poteva, a turno essere nel corpo dell’avatar che riproduceva se stesso o in quello di Freud. I movimenti degli avatar, nella condizione sperimentale, erano perfettamente sincronizzati con quelli reali del soggetto, e questo provocava una forte illusione di impersonamento.

Nella prima fase di ogni sessione il soggetto era se stesso ed esponeva a Freud un problema di natura psicologica. Subito dopo “saltava” nel corpo di Freud e a quel punto si rispondeva, dando dei consigli. Il soggetto poi tornava dentro se stesso per ascoltare le parole di Freud (la voce di Freud era la stessa del soggetto, solo alterata con un tono più basso per non creare confusione). Lo scambio poteva andare avanti per più turni, fino a che il soggetto non era soddisfatto.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Essere Sigmund Freud…e darsi ottimi consigli: l'immedesimazione altera i processi di pensiero_2

In altre condizioni sperimentali Freud era invece assente, e il soggetto chiedeva e rispondeva impersonando sempre se stesso, in meccanismo molto simile a quando parliamo con noi stessi rimuginando su un problema. Spiega Osimo:

I risultati sono chiari: darsi consigli funziona sempre, ma darseli come Sigmund Freud, funziona di più. Negli esperimenti c’era un’ulteriore condizione di controllo dove i movimenti degli avatar non erano sincronizzati con quelli reali. Questo riduceva notevolmente, se non addirittura annullava, l’illusione dell’impersonamento. In questa condizione l’effetto del dialogo con se stessi – o con Freud – era vanificato, a riprova che è proprio l’illusione a modificare il processo di pensiero.

Essere qualcuno che riteniamo autorevole per qualche motivo, può dunque modificare il processi attraverso i quali risolviamo un problema. E Freud, anche alla luce dei dati di Osimo e colleghi, è giudicato universalmente autorevole quando si tratta di counselling psicologico.

Prima di procedere alla fase sperimentale abbiamo valutato, attraverso dei questionari, l’autorevolezza dello psicanalista, con dei questionari sottoposti a un campione con caratteristiche simili a quello da cui provengono i soggetti che abbiamo scelto poi per gli esperimenti. Non solo è risultato essere molto autorevole e conosciuto, ma anche la sua immagine è risultata essere estremamente riconoscibile e prototipica.

Conclude Osimo:

Abbiamo dimostrato per la prima volta che l’embodiment è efficace anche su processi cognitivi di alto livello, come problem solving e processi decisionali. Queste osservazioni aprono inoltre scenari interessanti sul fronte del counselling psicologico: potrebbe la realtà virtuale essere un giorno utilizzata in questo senso?

LINK UTILI: Articolo originale su Scientific Reports

IMMAGINI: Crediti: EVENT lab, UB

Contatti e informazioni sulla SISSA

VIDEO: Guarda un esempio di esperimento

 

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La realtà virtuale in ambito clinico – Psicoterapia

Mentalizzazione e disturbi di personalità – Bateman & Fonagy a Pavia

Mentalizing and personality disorders: contemporary theory and practice

 Report dal Convegno del 10 settembre 2015

 

Immaginate per un attimo di tornare indietro di anni, a quando, giovani studenti, non avevate la più pallida idea di cosa fosse un Disturbo di Personalità. Il mio professore di Psicologia Clinica tenne una lezione memorabile in cui ci spiegò la storia di uno dei disturbi che più ha affascinato e dato del filo da torcere al mondo clinico: il Disturbo Borderline di Personalità.

 

Breve storia del disturbo borderline di personalità

Romanzando un po’ la storia (spero mi perdonerete per la libertà che mi prendo), già il vecchio Freud sul finire della vita in Analisi terminabile e interminabile (1937) si domandava come mai alcuni pazienti inequivocabilmente nevrotici non rispondessero alla psicoanalisi; secondo Freud questi pazienti avevano messo in atto meccanisimi di difesa primitivi in maniera così intensa e massiccia da determinare una distorsione dell’Io. In altre parole Freud aveva identificato dei pazienti pseudonevrotici, cioè pazienti che pur presentando una mente nevrotica mostravano aree psicotiche di tipo paranoide, che per di più mostravano un aspetto ben peggiore della resistenza al transfert: erano incapaci di sviluppare un rapporto di fiducia con il terapeuta.

La scoperta di questi pazienti atipici, che sembravano nevrotici ma invece erano psicotici (appunto “borderline”), segnò un punto di svolta nella storia della psicologia e rappresentò una sfida per numerosi analisti americani (e non solo) che negli anni ‘40 e ‘50 diedero vita a nuove concezioni teoriche dal punto di vista terapeutico nel tentativo di risolvere il problema di come trattare questi pazienti.

Durante il corso il mio professore si focalizzò sulle principali forme di trattamento psicoterapeutico altamente formalizzato disponibili ai tempi (siamo nel 2008) per i pazienti borderline: la Transference-Focused Psychotherapy (TFP) di Kernberg, la Dialectic Behaviour Therapy (DBT) di Linehan e la Mentalization Based Therapy (MBT) di Bateman e Fonagy, che nella mia mente di psicologa in erba formarono “la triade del trattamento per pazienti borderline”, coloro che avevano dato una risposta al problema dei pazienti borderline elaborando forme di trattamento efficaci.

 

La Mentalization Based Therapy per i disturbi di personalità

Capite bene che quindi non mi sarei mai potuta perdere Bateman e Fonagy ospiti al convegno soldout MENTALIZING AND PERSONALITY DISORDERS: CONTEMPORARY THEORY AND PRACTICE organizzato dall’Università di Pavia. Un’occasione non solo per ascoltarli presentare in prima persona il loro modello e gli ultimi aggiornamenti in merito, ma anche per vederli all’opera durante la simulazione di una seduta.

La MBT, come dice il nome stesso, pone al centro il concetto di mentalizzazione, cioè “la capacità di avere un pensiero sugli stati mentali come condizioni distinte anche se potenziali determinati del comportamento” (Bateman & Fonagy, 2004).

Tale capacità emerge attraverso l’interazione con il caregiver ed è influenzata dalla qualità della relazione di attaccamento: se il genitore è capace di riflettere in maniera accurata le intenzioni del bambino senza sopraffarlo, ciò contribuisce allo sviluppo della regolazione emotiva e della funzione autoriflessiva nel bambino. La mentalizzazione ha pertanto le sue radici nel sentirsi compresi dalla figura di attaccamento; qualsiasi comunicazione che implichi il riconoscimento dell’ascoltatore come agente intenzionale aumenterà in lui la fiducia epistemica e la possibilità che codifichi la comunicazione come rilevante, generalizzabile, degna di essere memorizzata.

Il disturbo di personalità secondo Bateman e Fonagy rappresenta il fallimento della comunicazione, l’impossibilità di accedere alla comunicazione culturale e di instaurare una relazione di apprendimento poiché l’apprendimento dall’esperienza è parzialmente negato dall’assenza di fiducia nella conoscenza sociale. Il cambiamento non è possibile proprio perché il paziente non ha fiducia nell’esperienza, ritiene che le intenzioni dell’interlocutore siano differenti da quelle dichiarate e quindi non considera quanto comunicato come proveniente da fonte affidabile; pertanto il normale processo di modificazione delle credenze sul mondo (di sé in relazione agli altri) rimane precluso e il paziente vive un insopportabile senso di isolamento.

Ovviamente questa sfiducia si manifesta anche in terapia, determinando grande frustrazione nel terapeuta (e anche la tendenza a colpevolizzare il paziente), il quale ha la sensazione che il paziente non lo stia ascoltando; in realtà il paziente trova difficile fidarsi della verità di ciò che sta ascoltando. La terapia quindi si pone l’obbiettivo di creare le condizioni affinché la verità epistemica possa crescere ed essere generalizzata al mondo esterno ponendo fine all’isolamento epistemico in cui il paziente verte.

Il modello di Bateman e Fonagy presenta molti aspetti caratteristici degli approcci cognitivi (per es. prevede un lavoro sulla rappresentazione cognitiva delle emozioni e sui nessi tra emozione e comportamento), ma trae la sua origine dalla tradizione psicoanalitica, in particolare bowlbyana.

Se si considerano le sue radici salta all’occhio l’assenza proprio di uno dei concetti chiave della tradizione psicoanalitica: l’inconscio. Che fine ha fatto? E’ scomparso per un semplice motivo: non è possibile lavorare sul profondo in assenza di fiducia epistemica, a maggior ragione su materiale di cui il paziente è inconsapevole.

Con i disturbi di personalità mancano le basi per poter lavorare ai “livelli superiori” e proprio da quelle bisogna partire, che si tratti di migliorare la metacognizione prima di procedere con la ristrutturazione cognitiva oppure di incrementare la fiducia epistemica prima di dedicarsi al lavoro di analisi dell’inconscio.

 

GUARDA: Peter Fonagy – Interview on Mentalizazion Based Therapy

 

BIBLIOGRAFIA:

  • TRATTAMENTO BASATO SULLA MENTALIZZAZIONE
  • Freud. S, (1937) “Analisi terminabile e interminabile”, vol. XI. Bollati Boringhieri, Torino, 1977.
  • Bateman, A.W., Fonagy, P. (2004), Il trattamento basato sulla mentalizzazione: psicoterapia con il paziente borderline. Tr. it. Raffello Cortina, Milano 2006.
  • Bateman, A.W., Fonagy, P. (2006), Guida pratica al trattamento basato sulla mentalizzazione per il disturbo borderline di personalità. Tr. it. Raffello Cortina, Milano 2010

Cosa ci insegna la storia?

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 13/09/2015

 

Di fronte alla quotidiana apocalisse di annunci catastrofici, sciagure, guerre, migrazioni, inondazioni e altri disastri, ci si chiede se questa cronaca riuscirà a elevarsi a storia, se riusciremo a imparare qualcosa da tutto questo.

L’occidente è stato spesso e fin troppo fiero di una delle sue scoperte: la storia. La capacità di dare un senso al racconto del proprio passato e la capacità di raccontarlo con precisione, uscendo dalla leggenda. Da Erodoto e Tucidide in poi ce la siamo raccontata così: noi conserviamo una memoria e da questa memoria impariamo chi siamo e cosa vogliamo essere. E impariamo anche a non ripetere gli errori del passato. Historia magistra vitae, come scriveva Cicerone nel De Oratore.

Questa passione per le storie e per la storia come insegnamento e fonte di senso si è mantenuta nel medioevo e in età moderna. Dai secoli bui ci sono arrivate le cronache di Paolo Diacono, di Gregorio di Tours, di Rodolfo il Glabro. L’illumiminismo rinnova la storia come insegnamento, il romanticismo riscopre la storia come memoria della propria identità. Conoscere se stessi e il racconto di se stessi ci dà una direzione, ci ammaestra e concede una consolazione alla nostra confusione quotidiana.

La psicologia ha ereditato questo culto della storia come tesoro da conservare e ricordare, trasformandolo in analisi della storia personale. Non solo la psicoanalisi volge la sua attenzione al passato degli individui, ma anche le psicoterapie cognitive oggi dominanti hanno una corrente narrativa ed esistenziale. La corrente narrativa in psicoterapia incoraggia il paziente alla conoscenza di sé attraverso il racconto della propria storia. La forma narrativa consente a chi la elabora di divenire spettatore del proprio intreccio, e questo genera un aumento di risorse emotive e cognitive fruibili per ristrutturare i significati (Lenzi e Bercelli, 2010).

Le cose, però, non sono così semplici. Fin dall’inizio qualcuno notò che non è così vero che il senso della storia sia solo occidentale. Platone in persona scrisse di un viaggio di Solone in Egitto e della sua meraviglia davanti ai due millenni di cronache dettagliate che quel paese vantava già allora, seicento anni prima della nascita di Cristo. Solone capì che i greci erano come fanciulli che conoscevano del loro passato solo miti e leggende, mentre gli archivisti egizi avevano registrato con precisione le date di nascita, di insediamento e di morte di faraoni che avevano regnato duemila anni prima.
Non solo occidente, dunque. E nemmeno solo storia come insegnamento e progresso oltre gli errori del passato. Accanto a questa visione si affermò una nozione più pessimistica di storia ciclica come eterno ritorno dell’uguale nella quale gli uomini tendono a ripetere eternamente gli stessi errori. Troviamo il ritorno dell’uguale nel greco Polibio e nell’arabo Ibn Khaldūn. La loro storia è raccontata presupponendo una naturale tendenza delle generazioni sedentarizzate, eredi dei conquistatori e fondatori di imperi, a indebolirsi trascinate in una progressiva e inesorabile decadenza dovuta al benessere e al modo di vita urbano.

Questa visione ha il suo corrispettivo in psicologia nella concezione dei cicli interpersonali. I cicli sono “il modo in cui la relazione con l’altro attiva circuiti che rinforzano la patologia a causa dei segnali- in prevalenza non verbali, automatici ed emozionali- che i pazienti scambiano con i loro partner in interazione” (Safran e Segal; 1990). Si tratta di strategie che il soggetto mette in atto per evitare di vivere stati emotivi dolorosi in ogni sua relazione personale significativa.

Naturalmente in psicoterapia questa nozione assume un valore progressivo. Attraverso la conoscenza dei propri cicli di relazione con l’altro l’individuo può comprenderli e, quando necessario, liberarsene e apprendere nuovi modi di entrare in contatto con l’altro.
La concezione ciclica invece non ha nulla di progressivo in storia e in filosofia. Anzi, le concezioni cicliche sono pessimiste. Pessimista era Polibio, che riteneva che il ciclo dei regimi politici andasse sempre degradandosi in ogni forma: le monarchie decadono in tirannidi, le aristocrazie involvono in oligarchie, la democrazia avvizzisce e diventa oclocrazia, dominio della massa demagogizzata.

Non vi è nulla da imparare per Polibio e per Ibn Khaldūn. Non possiamo fare altro che assistere a questo nostro affannarsi come criceti in una ruota che gira e che ci tiene prigionieri del nostro movimento illusorio che da nessuna parte ci porta.
Anche qui vi è un corrispettivo psicologico: lo stato mentale di decentramento, ovvero la capacità di guardare alle proprie esperienze interne (pensieri, sensazioni, emozioni) come a eventi transitori che non richiedono una reazione e non come dati di realtà (Mancini e Perdighe, 2012). Vi sono intere terapie fondate sulla promozione di questi stati di accettazione e decentramento. Il cuore di questi interventi non è più la modificazione dei contenuti mentali, ma il cambiamento di atteggiamento verso questi contenuti.

Si va verso una visione disincantata, in cui la storia nulla ci insegna e si apprende solo che non si apprende nulla. Naturalmente anche in questo caso la visione delle cose può diventare più complessa e si spera che proprio questo atteggiamento di accettazione meno impegnato nel proseguimento di un progresso obbligato e fuggente sfoci in un impegno diverso, un prendere atto, un atto di consapevolezza, un vedere e constatare le cose e gli eventi per come si presentano nel momento, e non come vorremmo che fossero.

 

BIBLIOGRAFIA:

Chi predica bene e razzola male: seguiremmo mai i nostri consigli?

Quando dispensiamo consigli su come affrontare i momenti bui, spesso ci sentiamo fiduciosi nelle parole di incoraggiamento e nei suggerimenti dati ai nostri cari, tuttavia…se avessimo lo stesso problema, seguiremmo mai il nostro consiglio?

 

È più facile consigliare di sopportare che sopportare.

Robert Browning, Balaustion’s Adventure, 1871

 

Tutti quanti purtroppo, ci ritroviamo nel corso della vita, a dover fare i conti con qualche problema: che sia di tipo personale, familiare o lavorativo, lo sconforto ci butta giù e spesso riusciamo a trovare sollievo e magari una soluzione solo grazie ai consigli dei nostri amici.

Quando invece siamo noi a dispensare consigli su come affrontare i momenti bui, spesso ci sentiamo fiduciosi nelle parole di incoraggiamento e nei suggerimenti che diamo ai nostri cari affinché si sentano pronti a trovare un’efficace via d’uscita al problema, tuttavia…se avessimo lo stesso problema, seguiremmo mai il nostro consiglio?

Partendo dall’articolo scritto dalla psicologa Melissa Dahl ‘Why Is It So Hard to Take Your Own Advice?’, il giornalista Oliver Burkeman ha riflettuto sul perché di frequente non si riesca a seguire un consiglio che magari, qualche tempo prima, abbiamo dispensato fieri, dall’alto della nostra saggezza, all’amico afflitto di turno.

Burkeman scrive la rubrica settimanale ‘This column will change your life’, nella quale dedica ampio spazio alla diffusione di alcuni piccoli consigli per affrontare al meglio alcune situazioni (non senza il riferimento ad articoli scientifici e opinioni di esperti), eppure egli stesso scrive che, nonostante creda fortemente nei consigli che dispensa, non li segue poi così spesso.

C’è qualcosa dunque che rende, ai nostri occhi, i nostri problemi diversi e più gravi rispetto ai problemi altrui? O in realtà non crediamo poi tanto in ciò che diciamo per confortare i nostri cari? Burkeman, nell’articolo consigliato, espone diverse spiegazioni possibili del perchè non ci fidiamo delle belle parole che noi stessi abbiamo dispensato e continuiamo a dispensare. Se proprio non riuscite a seguire i vostri consigli, seguite il mio e leggete l’articolo…lo troverete molto interessante!

Ho l’enorme arroganza di pensare che se voi seguiste alcuni dei suggerimenti che vi do ogni settimana in questa rubrica, potreste essere un po’ più felici o più produttivi, avere rapporti meno tesi con gli altri e un po’ più di calma interiore (dalle email che mi arrivano so che almeno ogni tanto questo succede). Ma se per caso pensate che io segua immancabilmente i miei stessi consigli, siete proprio fuori strada.

Accetta il mio consiglio, tanto io non lo uso – Oliver Burkeman

Consigliato dalla Redazione

Se voi seguiste alcuni dei suggerimenti che vi do, potreste essere€™ più felici o più produttivi, avere rapporti meno tesi con gli altri e un po’ più di calma interiore. (…)

Tratto da: Internazionale

 

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La trasmissione intergenerazionale dell’ansia

Susanna Martina – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

Il genitore ansioso trasmette al proprio figlio l’ansia? Gli studi in materia di trasmissione intergenerazionale dell’ansia cercano di rispondere a questa e ad altre domande.

Disturbi d’ansia: alto impatto psico-socio-economico

L’idea che i disturbi d’ansia siano tra i più comuni e diffusi disturbi mentali all’interno della popolazione è ormai ampiamente condivisa dalla maggior parte degli studi epidemiologici sul tema. Da quanto emerge, infatti, la loro prevalenza si aggira attorno al 25% nella popolazione normale, si sviluppano precocemente, in media intorno agli 11 anni, sono più frequenti nelle donne, tendono a cronicizzarsi nel tempo e per tutti questi motivi hanno elevati costi socio-economici. Sono infatti causa di difficoltà in svariati ambiti: da quello sociale, a quello familiare, educativo e lavorativo, costituendo essi stessi un fattore di rischio per lo sviluppo di ulteriori disturbi come ad esempio la depressione o l’abuso di sostanze (Creswell & Waite, 2015). È perciò fondamentale che i ricercatori mantengano alto l’interesse nei confronti di questi disturbi, in modo da individuare trattamenti sempre più precoci ed efficaci che possano ridurne l’elevato impatto psico-socio-economico.

I disturbi d’ansia sono solitamente caratterizzati da una grande eterogeneità di sintomi tra cui ad esempio eccessive preoccupazioni, forte paura, nervosismo, insonnia, difficoltà di digestione, tensione muscolare, tachicardia, sensazione di soffocamento, panico; tale sintomatologia ha pertanto diverse implicazioni a livello cardiovascolare, respiratorio, gastrointestinale e nervoso, arrivando a compromettere notevolmente, nei casi più gravi, il funzionamento psicofisico generale dell’individuo. Gli effetti di tale compromissione si ripercuotono inoltre anche in altri ambiti della vita della persona, mettendo a rischio il suo più generale adattamento all’ambiente ed alla società.

Disturbo d’ansia generalizzato, ansia da separazione, disturbo di panico, agorafobia, fobia sociale sono infatti solo alcuni dei disturbi d’ansia più diffusi e riconosciuti come limitanti o comunque interferenti con l’apprendimento, la socializzazione, la vita sentimentale, le performance scolastiche, le ambizioni personali e/o gli scopi di vita dell’individuo. Come può un amministratore delegato soffrire di fobia sociale? O un chirurgo operare se ha la fobia del sangue? Può un operatore ecologico soffrire di agorafobia? Per tutte queste ragioni è fondamentale riuscire ad individuare non solo i fattori scatenanti, ma anche i fattori che contribuiscono al mantenimento ed alla cronicizzazione di questa specifica categoria di disturbi. Essendo un argomento molto vasto e complesso, in quest’articolo ci si focalizzerà prevalentemente sull’approfondimento delle conoscenze e delle implicazioni in materia di trasmissione intergenerazionale dell’ansia. Infatti avere una più chiara idea dei principali meccanismi e fattori coinvolti nello sviluppo e nella trasmissione della sintomatologia ansiosa tra genitori e figli, può aiutare a comprendere meglio le potenzialità di interventi precoci per il trattamento o la prevenzione dei disturbi d’ansia.

Trasmissione intergenerazionale dell’ansia

Una delle più interessanti conquiste della ricerca sul tema è la scoperta che i disturbi d’ansia ricorrono all’interno delle famiglie (Turner et al. 1987; Beidel & Turner, 1997; Merikangas et al. 1999; Eley et al. 2002). Trattandosi però di un fenomeno particolarmente complesso, la comprensione dei meccanismi implicati risulta ancora parziale e a volte contraddittoria: alcuni studi hanno infatti affermato che i bambini dei genitori affetti da disturbi d’ansia hanno sette volte più probabilità di sviluppare a loro volta un disturbo d’ansia rispetto a bambini di genitori non affetti da tale psicopatologia (Turner et al. 1987; Merikangas, et al. 1998), altri studi hanno invece sottolineato che sono i genitori dei bambini ansiosi ad essere a rischio di sviluppare essi stessi un disturbo d’ansia rispetto ai genitori dei bambini sani (Last et al. 1991; Cooper et al. 2006). Pertanto, quanto conta la genetica nel passaggio intergenerazionale di un disturbo d’ansia tra genitore e figlio? E se fosse più una questione ambientale, quali fattori hanno maggior peso? Ma, soprattutto, è il genitore ansioso che trasmette al proprio figlio l’ansia o è il temperamento ansioso del bambino a scatenare l’apprensione del genitore? Gli studi in materia di trasmissione intergenerazionale dell’ansia hanno cercato e cercano tuttora di rispondere a tutte queste domande.

Un recente contributo sul tema è stato dato da Eley e colleghi (2015) sull’American Journal of Psychiatry. Lo studio ha coinvolto 387 famiglie di gemelli monozigoti e 489 famiglie di gemelli eterozigoti insieme ai loro rispettivi partner e ad uno dei loro figli adolescenti. Le famiglie sono state valutate con diversi strumenti tarati specificamente per rilevare i diversi aspetti della sintomatologia ansiosa. I dati ottenuti hanno confermato il contributo della genetica per quanto riguarda la presenza di sintomatologia ansiosa tra gemelli omozigoti, mentre non hanno rilevato un effetto genetico altrettanto significativo rispetto alla trasmissione intergenerazionale dell’ansia tra genitori e figli. Questi risultati hanno perciò avvalorato l’ipotesi che i figli non abbiano tanto ereditato l’ansia dai propri genitori quanto più che l’abbiano sviluppata a partire da altri meccanismi quali ad esempio le esperienze di apprendimento successive. I risultati dell’esperimento sono perciò rimasti in linea con il modello attualmente più condiviso sulla trasmissione intergenerazionale dell’ansia per cui, seppure l’ereditarietà genetica contribuisca a predisporre l’individuo in termini di vulnerabilità alla sintomatologia (Robinson et al. 1992; Stein et al. 2002), il peso dei fattori ambientali sembra essere maggiormente significativo.

Trasmissione intergenerazionale dell’ansia: fattori e meccanismi implicati

Molte ricerche hanno approfondito quali fattori ambientali sono prevalentemente coinvolti nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia e tra questi i più studiati sono il legame di attaccamento genitori-figli, il funzionamento e la struttura familiare, lo stile educativo e comportamentale del genitore ed infine le credenze e le attribuzioni genitoriali. In particolare, riguardo l’attaccamento, è ormai certo che un legame di tipo insicuro nei genitori e nei bambini sia prevalentemente associato all’ansia infantile e che la percezione di controllo, il senso di autonomia ed il senso di competenza personale siano importanti mediatori nell’associazione tra fattori familiari e disturbi d’ansia (Rapee, 2001; Barlow, 2004). Tuttavia restano ancora da chiarire alcuni specifici meccanismi attraverso cui l’attaccamento contribuisce alla trasmissione intergenerazionale dei disturbi ansia, in particolare il diverso contributo dell’attaccamento materno rispetto a quello paterno nello sviluppo di specifiche forme d’ansia infantile. Alcune ricerche suggeriscono infatti l’ipotesi che il legame di attaccamento paterno possa giocare un ruolo prevalente rispetto a quello materno nello sviluppo dell’ansia sociale (Lamb, 1980; Bogels & Phares, 2008).

Per quanto riguarda il funzionamento e la struttura familiare, si può affermare che la qualità del rapporto di coppia tra i genitori ed in particolare la loro capacità di supportarsi a vicenda, influenzano direttamente la qualità del rapporto che ciascun genitore instaura poi con il proprio figlio e che questo si ripercuote sul figlio in termini di maggior senso di sicurezza acquisito; tale senso di sicurezza costituisce uno dei principali fattori protettivi per lo sviluppo di future psicopatologie nel bambino (Lamb, 1980; Amato & Rezac, 1994; Brunelli et. al 1995). Ma quali aspetti del funzionamento e della struttura familiare sono specifici per l’ansia nei bambini? Alcune ricerche hanno effettivamente riscontrato un’associazione specifica tra qualità della relazione di coppia tra i genitori ed ansia nei figli (McHale & Rasmussen, 1998) tuttavia i risultati sono ancora limitati. In relazione all’ansia infantile sono stati inoltre studiati aspetti della struttura familiare come l’ordine di nascita, la numerosità della famiglia ed il rapporto con i fratelli. Purtroppo, anche in questo caso, i risultati ottenuti sono limitati e a tratti discordanti e di conseguenza non permettono una chiara comprensione del fenomeno. In particolare, ad esempio, secondo alcuni studi sarebbero i figli unici ed i primogeniti maggiormente a rischio di sviluppare timidezza ed ansietà (Zimbardo, 1977) per le alte aspettative di successo riposte in loro dai genitori, mentre secondo altri studi sarebbero i fratelli minori quelli più a rischio in quanto potenzialmente più esposti a situazioni di prepotenza e dominanza negativa da parte dei fratelli maggiori (Dunn et al, 1994). Anche l’associazione tra disturbi d’ansia e grandezza della famiglia non è ben definita, infatti in alcuni casi una famiglia numerosa costituisce un fattore protettivo dalle conseguenze negative di relazioni conflittuali tra i genitori, mentre in altri casi costituisce un aggravante a causa dell’atmosfera potenzialmente più caotica e conflittuale (Bogels & Brechman-Toussaint, 2006). Perciò, ad oggi, la specifica associazione tra funzionamento e struttura familiare ed ansia infantile resta ancora da chiarire; tuttavia si può affermare che, in generale, una scarsa qualità del rapporto di coppia tra i genitori, uno scarso supporto reciproco tra i genitori, conflittualità intrafamiliare ed un generale malfunzionamento intrafamiliare sono fattori significativi nello sviluppo e mantenimento dell’ansia.

Per quanto riguarda gli stili educativi ed i comportamenti genitoriali, la letteratura ha ormai fornito sufficienti evidenze per confermare come stili e comportamenti genitoriali ipercontrollanti e rifiutanti siano principalmente responsabili dello sviluppo e del mantenimento dell’ansia nei bambini. Lo stile educativo definito parental over-control è caratterizzato da un’eccessiva regolazione e/o limitazione dell’autonomia del bambino nelle attività e nelle routine quotidiane, con un alto livello di vigilanza ed intrusività. Questo tipo di atteggiamento genitoriale tende a limitare notevolmente lo sviluppo del bambino in termini di autonomia ed indipendenza, e contribuisce ad infondergli uno scarso senso di autoefficacia oltre che a un senso di insicurezza e di incontrollabilità del mondo esterno. Anche uno stile genitoriale caratterizzato da parental negativity, ovvero da mancanza di calore e approvazione, contribuisce a creare nel bambino idee negative e distorte sul mondo, su di sé e sul futuro (Krohne, 1990; Krohne & Hock, 1991). Le ricerche hanno inoltre evidenziato come i genitori affetti da disturbi d’ansia adottino maggiormente stili educativi e comportamenti intrusivi, iperprotettivi e ipercontrollanti rispetto ai genitori sani, contribuendo in larga parte a sviluppare e mantenere l’ansia nei propri figli. Inoltre, come accennato precedentemente riguardo al legame di attaccamento, anche in questo caso madre e padre sembrano giocare ruoli distinti, in particolare sembra che lo stile relazionale ed il comportamento dei padri sia specificamente associato al livello di ansia sociale nei bambini (Bogels & Perotti, 2011).

Ma cosa porta il genitore ad agire in un certo modo? In questo senso fattori cognitivi come credenze ed attribuzioni genitoriali hanno un ruolo fondamentale nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia: da una parte influenzano direttamente il comportamento manifesto del genitore, dall’altra influiscono indirettamente sull’adozione di stili relazionali più o meno efficaci (Bogels & Brechman-Toussaint, 2006). Attraverso un apprendimento di tipo vicario, definito parental modelling, il bambino, osservando direttamente le risposte comportamentali dell’adulto, apprende il suo stesso modello di risposta e tende poi a riutilizzarlo in simili situazioni future. È chiaro quindi come un genitore ansioso, che tende a reagire alle situazioni in modo eccessivamente apprensivo e spaventato, passi al proprio figlio un modello di risposta comportamentale simile, favorendo in quest’ultimo lo sviluppo e/o il rinforzo di tratti ansiosi (Askew et al., 2008).

Altre categorie di credenze e attribuzioni genitoriali condizionano invece indirettamente lo stile educativo adottato dal genitore. In particolare, la percezione che il genitore ha del temperamento o del comportamento del proprio bambino, condiziona fortemente le aspettative del genitore stesso e di conseguenza influenza lo stile relazionale da lui successivamente adottato (Bogels & Brechman-Toussaint, 2006). In questo senso esiste quindi una reciprocità tra temperamento infantile e risposta genitoriale: un bambino con un temperamento caratterizzato da alti livelli di arousal ed emotività contribuisce a creare nel genitore aspettative relazionali che influenzano necessariamente il modo in cui il genitore si comporta; tale comportamento influenza a sua volta la risposta emotiva del bambino e così via in un rapporto di reciproca influenza (Bogels & Brechman-Toussaint, 2006). Sembra che a mediare questa relazione contribuisca anche il senso di controllo e di efficacia percepita del genitore in situazioni di care-giving. Alcune ricerche hanno infatti dimostrato che genitori affetti da disturbi d’ansia, con aspettative negative sulle reazioni del proprio bambino e con scarso senso di autoefficacia in situazioni di care-giving si comportano con maggior intrusività, iperprotezione, ansietà e controllo (Creswell et al. 2010; Creswell et al. 2013) Altre ricerche hanno infine posto l’attenzione su una particolare modalità di pensiero definita negative interpretation bias, ovvero la tendenza ad interpretare negativamente situazioni ambigue, ritenendola anch’essa responsabile dello sviluppo e del mantenimento dei disturbi d’ansia nei figli (Podina et al. 2013).

Conclusioni

L’idea che i disturbi d’ansia siano disturbi ad alta prevalenza e che abbiano un grave impatto psicologico, sociale ed economico è ormai consolidata. Uno degli aspetti più interessanti di questa eterogenea categoria di disturbi è il fatto che ricorrano frequentemente tra le generazioni. Numerosi studi hanno infatti identificato i fattori ed i meccanismi specificamente coinvolti nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia. Attualmente, il modello più condiviso afferma che il contributo maggiore allo sviluppo e mantenimento dell’ansia tra generazioni è dato da fattori di tipo ambientale come il legame di attaccamento, il funzionamento e la struttura familiare, lo stile educativo e comportamentale del genitore e le credenze e le attribuzioni genitoriali.

La complessità dei risultati ottenuti in materia, sembra inoltre suggerire che il rapporto tra ansia genitoriale ed infantile sia biunivoco e di reciproca influenza: come un genitore ansioso, guidato dalle proprie credenze e attribuzioni, influenza le risposte cognitive e comportamentali del proprio figlio trasmettendogli la propria ansia, altrettanto un figlio con un particolare temperamento può influenzare negativamente la risposta comportamentale del genitore, rinforzando un circolo vizioso difficile da interrompere. Tra i meccanisimi chiave identificati nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia, il parental modelling assume un ruolo privilegiato in quanto è responsabile dell’apprendimento vicario delle risposte ansiogene nei bambini attraverso l’osservazione dei genitori.

Giocano inoltre un ruolo chiave anche le cognizioni e le attribuzioni dei genitori, che, se distorte, tendono ad influire negativamente sulle strategie educative da loro adottate. Sembra infine che, avendo padri e madri diversi ruoli nell’educazione dei figli, questi contribuiscano diversamente alla trasmissione dei disturbi d’ansia, e in particolare sembra che il contributo paterno sia predominante nella trasmissione dell’ansia sociale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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Un possibile nuovo metodo per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress

Molte ricerche hanno dimostrato che l’esposizione a fonti di stress rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo del disturbo post traumatico da stress e che gli individui che soffrono di DPTS oltre ai sintomi caratteristici di tale disturbo manifestano un aumentato condizionamento alla paura se sottoposti in laboratorio a protocolli sperimentali.

Ciò sembrerebbe dipendere dalla serotonina, infatti una disregolazione dei sistemi serotoninergici è legata alla comparsa di patologie affettive dovute allo stress come il disturbo post traumatico da stress e livelli elevati di serotonina causano alterazioni nei processi di valutazione delle fonti di minaccia.

Il legame tra l’essere stati esposti a stress o traumi e la reazione eccessiva alla paura condizionata ravvisabile in laboratorio può essere indagato anche attraverso modelli animali, come infatti si è preposto di fare lo studio in questione che ha sottoposto dei topi a delle fonti di stress e ha poi valutato l’impatto che tale esperienza ha sul successivo condizionamento alla paura. In particolare sulla base delle precedenti evidenze la ricerca si è basata sull’ipotesi secondo cui sarebbero i topi esposti a stimoli stressanti a presentare una certa vulnerabilità all’apprendimento della paura in quanto, in seguito al trauma, si attivano dei processi di consolidamento della memoria mediati dalla serotonina; tale vulnerabilità non può essere invece attribuita agli animali non stressati.

Quindi in primo luogo i topi sono stati divisi in due gruppi, quelli che facevano parte del primo gruppo sono stati immobilizzati per due giorni e quindi sottoposti a stress, quelli che invece facevano parte del secondo gruppo sono stati lasciati liberi per due giorni e quindi non sottoposti a stress. A questa prima fase sperimentale è seguito il condizionamento alla paura, in cui dei suoni rappresentavano lo stimolo neutro e un piccolo shock elettrico alle zampe quello incondizionato; lo stimolo neutro e quello incondizionato solo nel 50% dei casi si presentavano simultaneamente, in tal modo è stato possibile aumentare l’impatto dello stress a differenza di quanto accade in un paradigma classico di condizionamento in cui i due stimoli sono sempre abbinati. Il condizionamento alla paura è stato valutato dopo 2 ore o dopo 24 ore dalla fine della fase di condizionamento e l’attività serotoninergica è stata controllata a livello del nucleo del rafe dorsale e a livello del recettore serotoninergico 2C, collocato nell’amigdala basolaterale e particolarmente implicato nella regolazione dei sintomi ansiogeni.

I risultati hanno innanzitutto confermato le ipotesi di ricerca e cioè il fatto che i topi esposti a fonti di stress presentano un aumento dell’espressione del recettore serotoninergico 2C, dimostrando come lo stress possa attivare processi di consolidamento della memoria mediati dalla serotonina.

Questo effetto, come previsto, non è riscontrabile nel caso dei topi che non sono stati immobilizzati ed è ulteriormente confermato dal fatto che lo stress ripetuto aumenta la memoria della paura nel lungo termine (24 ore dopo la fine della fase di condizionamento) ma non nel breve termine (2 ore dopo la fine della fase di condizionamento). In secondo luogo si è osservato che, durante la fase di condizionamento alla paura, è l’attività serotoninergica relativa alla condizione in cui il suono e lo shock elettrico non sono abbinati a regolare la forza della memoria associativa del caso in cui lo stimolo neutro e quello incondizionato sono simultanei.

Questo effetto, attribuibile solo a topi stressati, ha permesso allo studio presente di dimostrare che le regole standard dei processi di condizionamento possono essere influenzate da variabili contingenti come lo stress, aspetto non previsto dalle teorie classiche del condizionamento che per questo sono state a lungo criticate. Quindi la ricerca in questione ha proposto un buon modello, in quanto come i topi sottoposti a stress manifestano un incremento della memoria della paura allo stesso modo le persone che sono state protagoniste di traumi presentano una maggiore vulnerabilità allo sviluppo del disturbo post traumatico da stress. Infine se è vero che l’esposizione a stress aumenta l’espressione del recettore serotoninergico 2C, favorendo in tal modo i processi di consolidamento della memoria, al fine di trattare disturbi come il DPTS, la ricerca suggerisce di ricorrere a molecole antagoniste di tali recettori, pur evidenziando la necessità di ulteriori approfondimenti in merito.

 

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La riformulazione verbale del significato del trauma: un intervento efficace per i pazienti con disturbo post traumatico da stress

BIBLIOGRAFIA:

La ruminazione rabbiosa e il comportamento aggressivo nel disturbo borderline di personalità 

La ricerca mira ad indagare il ruolo della ruminazione rabbiosa nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità.

93 pazienti con DBP sono stati arruolati in diversi centri clinici, ambulatoriali e di ricovero in 3 città (Bologna, Milano e Vicenza). La popolazione clinica è stata testata con una batteria volta ad indagare la diagnosi di DP, la tendenza all’aggressività, alla ruminazione rabbiosa e alla disregolazione emotiva.

I risultati della ricerca dimostrano che il ruolo della ruminazione rabbiosa risulta centrale nella spiegazione della tendenza a compiere azione aggressive. Il dato è in linea con il modello della Cascata Emotiva di E. Selby. In conclusione, in questi pazienti la tendenza a ruminare rabbiosamente su eventi conflittuali sembra spiegare l’incremento dell’impulsività e della disregolazione comportamentale che porta ad azioni aggressive.

La psicoterapia potrebbe focalizzarsi dunque su tale meccanismo problematico (Ruminazione Rabbiosa) al fine di ridurre la tendenza all’aggressività in persone con problematiche di regolazione emotiva.

 

Anger rumination and aggressive behaviour in borderline personality disorder

 

  • Francesca Martino a, b
  • Gabriele Caselli b, c
  • Domenico Berardi a
  • Francesca Fiore b
  • Erika Marino d
  • Marco Menchetti a
  • Elena Prunetti d
  • Giovanni Maria Ruggiero b
  • Anna Sasdelli e
  • Edward Selby f
  • Sandra Sassaroli b

 

[accordion title1=”About the authors” text1=”a Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Bologna, Bologna, Italy; b Studi Cognitivi, Milano, Italy; c Sigmund Freud University, Milano, Italy; d Clinica Privata Villa Margherita, Vicenza, Italy; e Dipartimento di Scienze biomediche e neuromotorie, Università of Bologna, Bologna, Italy;f Dipartimento di Psicologia, Rutgers University, Piscataway, NJ, USA.” ]

 

 

Abstract

Background

Emotional instability and dyscontrolled behaviours are central features in borderline personality disorder (BPD). Recently, some cognitive dysfunctional mechanisms, such as anger rumination, have been found to increase negative emotions and promote dyscontrolled behaviours. Even though rumination has consistently been linked to BPD traits in non-clinical samples, its relationship with problematic behaviour has yet to be established in a clinical population.

Aim

The purpose of the study was to explore the relationships between emotional dysregulation, anger rumination and aggression proneness in a clinical sample of patients with BPD.

Methods

Enrolled patients with personality disorders (93 with BPD) completed a comprehensive assessment for personality disorder symptoms, anger rumination, emotional dysregulation and aggression proneness.

Results

Anger rumination was found to significantly predict aggression proneness, over and above emotional dysregulation. Furthermore, both BPD diagnosis and anger rumination were significant predictors of aggression proneness.

Conclusion

Future research should examine whether clinical techniques aimed at reducing rumination are helpful for reducing aggressive and other dyscontrolled behaviours in treating patients with BPD. Copyright © 2015 John Wiley & Sons, Ltd.

 

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Master Online in Mediatore Familiare

Separazioni e divorzi: la fine di un matrimonio purtroppo è un evento molto frequente nella nostra società e spesso ad essere coinvolti in una situazione così conflittuale non sono solo le due parti in causa ma anche i figli e le persone che ruotano attorno al nucleo familiare.

La crisi di una coppia ha ripercussioni molto forti sulla sfera emotiva e psicologica: qualsiasi sia il motivo che ha scatenato la separazione, subentrano sentimenti ed emozioni che possono destabilizzare la persona se essa stessa non è in grado di gestirli, rischiando di esserne sopraffatta.

Rabbia, rancore, disorientamento, delusione, perdita di fiducia in se stessi, senso di colpa, desiderio di vendetta per i torti subiti: queste emozioni nella quasi totalità dei casi impediscono alle parti di affrontare i problemi lucidamente e di instaurare un dialogo costruttivo per raggiugere un diverso equilibrio rispetto a quello perduto. Durante la crisi i componenti della coppia si rimpallano l’un l’altro la responsabilità della situazione conflittuale, ciascuno crede di avere la ragione dalla propria parte e tenta di dimostrare come la causa del fallimento del matrimonio sia imputabile solo all’altro partner.

In tutto ciò i figli si trovano ad essere spettatori impotenti, spesso chiamati in causa dalle parti come giustificazione per ottenere la soddisfazione di egoistiche pretese, con forti ripercussioni a livello psicologico.

Per comporre i conflitti ed evitare il trascinarsi per tempo indefinito di una situazione di sofferenza e di tensione, è consigliabile che le parti si affidino a professionisti competenti che sappiano guidare le volontà contrastanti verso una soluzione comune: psicologi di coppia e mediatori familiari.

In particolare il Mediatore Familiare è una figura terza ed imparziale che ha il compito di supportare la coppia in crisi durante le fasi della separazione e del divorzio per raggiungere una posizione condivisa in merito alle diverse problematiche sollevate dalle parti. L’obiettivo principale è quello di raggiungere la cogenitorialità, ovvero la salvaguardia delle responsabilità genitoriali individuali verso i figli, ma anche di gestire le richieste materiali dei partners (divisione dei beni, determinazione dell’assegno di mantenimento, assegnazione della casa coniugale, ecc.). Il ricorso al Mediatore Familiare è un’opzione alternativa da considerare prima di iniziare un procedimento attraverso il sistema giudiziario.

 

Mediazione familiare - ICOTEALa Mediazione Familiare, per la delicatezza dei temi che deve affrontare (aspetti sia emotivi che materiali), è una disciplina trasversale tra psicologia, sociologia e giurisprudenza e necessita la padronanza di competenze specifiche.

In Italia il Mediatore Familiare non è una figura professionale regolamentata, non esiste un albo dedicato. Tuttavia vi sono centri di formazione specializzati che erogano corsi ad hoc riconosciuti a livello nazionale. I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l è una di queste realtà: essa offre un Master di Primo Livello per Mediatore familiare di 1500 ore da seguire online e finanziato dalla Comunità Europea tramite un Voucher Formativo che copre parzialmente il costo, oltre alla possibilità di ricorrere ad una rateizzazione del pagamento.

 

Il percorso di studio si sviluppa in 12 mesi ed affronta le seguenti tematiche:

  • Modulo 1°: La coppia e la famiglia – l’individuo, formazione, ciclo vitale, la collusione, l’età di latenza, il contratto, la rottura, il divorzio psichico, effetti separazione, lavoro con i minori, analisi transazionale, teoria attaccamento
  • Modulo 2°: Il Conflitto – modello Sistemico-Relazionale, Analisi e la fenomenologia, epistemologia, le cause, Tema Relazionale Conflittuale Centrale, modalità di gestione, coinvolgimento dei figli
  • Modulo 3°: La Mediazione – abilità, formazione del setting, mediazione nel giudizio, accesso volontario e invio coatto in mediazione, interruzione, le difficoltà, modelli teorici, promozione professionale
  • Modulo 4°: Il Diritto – matrimonio civile e concordatario, diritti, doveri, separazione, divorzio, giudizio di separazione, figli e affidamento condiviso.

 

Essendo I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l un Istituto Universitario, l’attestato che sarà rilasciato ““Master primo livello Mediatore Familiare” ha valore legale sia in Italia che all’estero, utile per:

  • concorsi pubblici
  • istituzione pubbliche: Tribunale – ASL (Azienda Sanitaria) – Scuole – Comuni
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  • graduatorie scolastiche
  • cooperative sociali
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Ai professionisti nel settore sanitario verrà rilasciato un Certificato di 50 Crediti Formativi / ECM (Educazione Continua in Medicina), in quanto, I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l. è stata accreditata presso il Ministero della Salute in qualità di Provider n. 4182 per la formazione ECM – Educazione Continua in Medicina.

Ai Liberi Professionisti, Dipendenti Pubblici o Privati iscritti presso Ordini/Albi/Collegi verranno riconosciuti Crediti Formativi Professionali.

Per maggiori informazioni visita il sito www.icotea.it o scrivere a [email protected]

Vittorio Gallese Visiting Fellow a Berlino condurrà un gruppo di ricerca sulle neuroscienze sociali

Vittorio Gallese è stato da poco nominato Visiting Fellow (2016-2018) alla Berlin School of Mind and Brain e condurrà un gruppo di ricerca sulle neuroscienze sociali. Ecco la press release:

Berlin School of Mind and Brain – COMUNICATO STAMPA – 11 Settembre 2015

Vittorio Gallese next Einstein Visiting Fellow 2016–2018

Funded by Einstein Foundation Berlin

Vittorio Gallese of Università di Parma is one of the leading experts in social neuroscience. As a visiting scholar of the Berlin School of Mind and Brain he will set up his own group and conduct research into the development of socio-cultural identity.

Vittorio Gallese von der Università di Parma gilt als einer der weltweit führenden Experten im Bereich der sozialen Neurowissenschaften. An der Berlin School of Mind and Brain will er die Entwicklung der sozio-kulturellen Identität erforschen.

 

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Relazione terapeutica, alleanza e outcome: il ruolo del terapeuta alla luce della teoria dell’attaccamento e dei sistemi motivazionali interpersonali

Valentina Carnevali, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

I dati di ricerca hanno ripetutamente dimostrato come l’alleanza terapeutica sia un potente fattore predittivo dell’esito del trattamento psicoterapeutico (per una recente meta-analisi, si veda Horvath, Del Re, Flückiger et al., 2011).

Essa rappresenta infatti il fattore terapeutico aspecifico (non correlato all’uso di tecniche proprie di specifici orientamenti e modelli psicoterapeutici) con maggiore capacità di predire il buon esito del trattamento, configurandosi così come un nucleo concettuale e clinico di estrema rilevanza.

Secondo Bordin (1979) l’alleanza terapeutica è costituita da tre componenti: (1) l’esplicita condivisione di obiettivi da parte di paziente e terapeuta, (2) la chiara definizione di compiti reciproci all’inizio del trattamento (la negoziazione di obiettivi e compiti tra paziente e terapeuta è un momento cruciale nella costruzione dell’alleanza) e (3) il tipo di legame affettivo che si costituisce fra i due, caratterizzato da fiducia e rispetto. Da tale definizione è possibile evincere che l’alleanza e, conseguentemente, la psicoterapia in senso lato, si delineano come un lavoro collaborativo tra due soggetti interagenti ed entrambi attivi, ciascuno nel proprio ruolo. In particolare, il legame affettivo tra paziente e terapeuta, terzo elemento costitutivo dell’alleanza nonché fattore aspecifico di grande efficacia clinica, emerge dall’interazione tra due variabili principali: da una parte i comportamenti, le emozioni e i pensieri del terapeuta, dall’altra le proiezioni transferali che nascono dalle esperienze passate del paziente. Ecco che dunque entrambi gli elementi della diade clinica, paziente e terapeuta, ciascuno dotato di una propria storia evolutiva e di un proprio mondo interno, divengono di estrema importanza nella costruzione dell’alleanza e nella conduzione di una terapia avente buon esito.

La teoria dell’Attaccamento di Bowlby (1988) offre un’interessante cornice all’interno della quale esplorare il concetto di “alleanza terapeutica”, in quanto la sua costruzione e il suo mantenimento non possono prescindere dall’attivazione dei sistemi motivazionali (tra cui quello dell’attaccamento) di paziente e terapeuta, all’interno del dialogo clinico.

Tale teoria postula l’esistenza nell’uomo di una tendenza innata a ricercare per tutto l’arco di vita la vicinanza protettiva di una figura ben conosciuta ogni volta che si costituiscano situazioni di pericolo, dolore, fatica, solitudine, offrendo così all’individuo un notevole vantaggio in termini di sopravvivenza e adattamento all’ambiente.

L’ Attaccamento è dunque ascrivibile al concetto di “Sistema Motivazionale Interpersonale (SMI)”, definibile come una tendenza innata a base evolutiva capace di regolare comportamenti ed emozioni in vista di specifiche mete, plasmata, nella sua espressione, dalle memorie di quanto è precedentemente accaduto durante il suo esercizio. Tale SMI regola la richiesta di cura e si coordina con lo speculare sistema dell’Accudimento, adibito all’offerta di cura. Gli altri sistemi motivazionali dell’uomo sono il sistema agonistico (competizione per il rango), quello cooperativo (cooperazione tra pari, cruciale nella costruzione di una buona alleanza terapeutica) e quello sessuale: molti di essi entrano in gioco proprio durante lo scambio clinico tra terapeuta e paziente.

Bowlby propone inoltre che, come risultato dell’interazione con il caregiver durante l’infanzia, gli individui sviluppino specifiche rappresentazioni mentali relative al sé, all’altro e alla relazione. Tali Modelli Operativi Interni (MOI), memorie implicite e non verbalizzabili, guidano il comportamento di attaccamento successivo del bambino e, soprattutto, controllano il modo in cui i membri di una diade, anche in età adulta, anticipano, interpretano e dirigono le relazioni con i partner quando diviene attivo il sistema motivazionale dell’attaccamento.

A partire dalla teorizzazione di Bowlby e da studi osservazionali di interazioni madre-bambino, Ainsworth e colleghi (1978) hanno identificato tre diversi pattern di attaccamento (successivamente ampliati a quattro da Main e Solomon (1986) con l’introduzione del pattern disorganizzato), relativi a diversi MOI e correlati a specifiche modalità di gestione dell’angoscia nelle relazioni col caregiver: sicuro (B), insicuro evitante (A) e insicuro ansioso-ambivalente (C). Un caregiver sensibile e rispondente alle esigenze del bambino consentirà lo sviluppo di un attaccamento sicuro, caratterizzato da piena fiducia in sé, nell’altro e nelle relazioni. Caregivers insensibili o non rispondenti, al contrario, comporteranno un’insoddisfazione del bisogno innato di accudimento e determineranno da un lato l’evitamento della relazione (pattern A, le richieste di cura non sono mai soddisfatte) e dall’altro il desiderio ambivalente di vicinanza ed evitamento del contatto (pattern C, il caregiver è incostante e imprevedibile).

In un contesto terapeutico, ogni volta che nel dialogo clinico affiorino memorie e aspettative di difficoltà e dolore mentale, l’attivazione del sistema di attaccamento diviene praticamente inevitabile. Il rapporto clinico tra psicoterapeuta e paziente si presenta dunque frequentemente come un vero e proprio legame di attaccamento, e in esso si possono rintracciare alcune delle caratteristiche specifiche di tale relazione, quali la ricerca di vicinanza, la protesta nei confronti della separazione e la ricerca di una base sicura (Weiss, 1982). Il paziente, in almeno alcuni momenti del dialogo clinico, racconta la propria sofferenza, paura o angoscia e lo stato mentale che accompagna questa narrazione implica pressoché sempre l’attivazione del sistema motivazionale di attaccamento. Il paziente tenderà quindi ad applicare alla relazione con il terapeuta le memorie, le aspettative e i significati costruiti nella relazione con i genitori (MOI degli attaccamenti precoci) e gli stati mentali relativi all’attaccamento adulto.

Da un lato ciò comporta una minaccia all’alleanza terapeutica, perché sposta la relazione dal sistema cooperativo (il migliore per il mantenimento di buoni livelli di alleanza, in cui paziente e terapeuta lavorano insieme sullo stesso piano per il conseguimento di obiettivi condivisi) a un altro sistema, per di più gravato da MOI insicuri o disorganizzati. Dall’altro, proprio la comparsa di strutture e dinamiche mentali relative all’attaccamento nel dialogo clinico, è condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014). Lo stesso Bowlby (1988) ha sottolineato che la relazione psicoterapeutica può costituire un importante fattore di cambiamento dello stile di attaccamento, consentendo al paziente di passare da uno stile insicuro a uno stile sicuro. In questo processo, il ruolo del terapeuta è anche quello di agire come una figura di attaccamento, creando una base sicura che consenta al paziente di procedere nell’esplorazione delle proprie esperienze e dei propri vissuti di attaccamento, favorendo esperienze emozionali correttive capaci di disconfermare i MOI insicuri: i vissuti di attaccamento del clinico andranno quindi ad agire specularmente già in questa fase.

Specularmente, come sottolinea Baldoni (2008), la relazione terapeutica può configurarsi come una potenziale condizione di minaccia anche per il clinico, esposto a possibili frustrazioni narcisistiche, incapacità o difficoltà diagnostica, eventuali fallimenti terapeutici o anche a disorientamento e sofferenza emotiva conseguenti all’entrare in contatto con gli stati mentali del paziente. Anche nel terapeuta possono così attivarsi comportamenti di attaccamento e MOI specifici, correlati alle esperienze passate e capaci di influire in modo significativo all’interno della relazione clinica e nella costruzione/ mantenimento/ riparazione dell’alleanza.

Lavoro terapeutico e alleanza non possono così non risultare profondamente influenzati anche dal terapeuta e dai suoi attributi personali e professionali. Le caratteristiche personali e le capacità individuali del terapeuta che favoriscono l’alleanza o che, al contrario, ne rendono più probabile la compromissione, sono state oggetto di numerose indagini (Backeland, Lundwall, 1975; Bein, Anderson, Strupp et al., 2000; Dunkle, Friendlander, 1996; Kvilinghan, Patton, Foote, 1998; Safran, Muran, 2000). Un’ampia rassegna (Ackerman, Hilsenroth, 2001, 2003) ha evidenziato numerosi attributi favorenti l’alleanza, tra i quali: capacità di esplorare temi interpersonali, elevato livello di metacognizione, tendenza a favorire l’espressione di emozioni in un’atmosfera di sostegno e attivo incoraggiamento, capacità di assumere un ruolo collaborativo nel dialogo col paziente al fine di perseguire insieme obiettivi specifici, genuinità dell’interesse per l’esperienza del paziente, accuratezza e parsimonia nelle interpretazioni. Sull’altro versante, sono stati individuati anche i fattori ostacolanti l’alleanza, tra cui: autoreferenzialità del terapeuta, tendenza a distrarsi quando il paziente parla, scarso coinvolgimento emotivo nello scambio clinico, sfiducia nelle proprie capacità di aiutare il paziente, tendenza a criticarlo e a colpevolizzarlo, uso inappropriato dell’autosvelamento e del silenzio, uso eccessivo di interpretazioni di transfert. Inoltre, i risultati di una prolungata ricerca curata da Norcross (2011) hanno messo in luce, quale “fattore di efficacia terapeutica promettente ma ancora non sufficientemente supportato da dati di ricerca”, proprio lo stile di attaccamento, capace di influenzare alleanza terapeutica e outcome.

Nonostante questo campo sia stato per ora solo parzialmente esplorato, è possibile individuare, tra le altre, alcune prospettive cliniche che hanno cercato di approfondire le correlazioni tra lo stile di attaccamento del terapeuta e alcuni aspetti della relazione terapeutica, quali la costruzione dell’alleanza, il suo mantenimento nel corso della terapia e i possibili esiti dell’intervento.

Secondo Wilkinson (2003), medici e psicologi con stile di attaccamento insicuro si rivelano meno efficaci nella relazione clinica e sono maggiormente esposti al burn-out. Il distanziamento della rabbia e il diniego della vulnerabilità e della paura limitano l’espressione autentica della sofferenza e favoriscono lo spostamento sugli aspetti somatici, tecnici e specialistici (esami, test, farmaci…). I clinici con stile di attaccamento sicuro, invece, si adattano meglio alle diverse condizioni terapeutiche e riescono ad avvicinarsi ai bisogni specifici del paziente, integrando le proprie capacità riflessive con le informazioni cognitive e la comunicazione emotiva. Ne consegue una migliore qualità della relazione clinica e una maggiore soddisfazione personale del lavoro svolto (Dozier, Cue, Barnett, 1994).

Secondo Baldoni (2008), poichè un colloquio clinico è da considerarsi una relazione complessa in un contesto di relativa minaccia, in una situazione terapeutica i comportamenti e le reazioni emotive dei due partecipanti saranno significativamente influenzate dalle rappresentazioni relative alle esperienze di pericolo attivate nei reciproci modelli operativi interni. A partire da tale premessa, Baldoni ha delineato come i diversi stili di attaccamento del terapeuta possano influenzare la relazione clinica. Un clinico con uno stile insicuro distanziante (tipo A), si potrebbe caratterizzare per i tratti tipici di tale pattern: distanziamento dai propri bisogni e dagli affetti vissuti come negativi e pericolosi per il sé; tendenza ad assumere in modo compiacente il punto di vista degli altri, senza però riuscire a comprenderne a pieno i bisogni psicologici (scarsa funzione riflessiva e scarsa empatia); propensione a svolgere compiti tecnici privi di coinvolgimento emotivo (privilegiando la cognizione rispetto all’affettività); possibilità di intrusioni improvvise di emozioni distanziate e acting out.

Quando un clinico insicuro distanziante incontra un paziente con le stesse caratteristiche, i loro stili di attaccamento con ogni probabilità colluderanno e la relazione tenderà ad essere caratterizzata da un approccio rigidamente tecnico-cognitivo (spiegazioni razionali, ma superficiali, dei vari disturbi, visti soprattutto da un punto di vista biologico), con conseguente evitamento delle aree problematiche e distanziamento delle emozioni negative e tendenza a falsificare gli affetti pericolosi per il Sé.

I clinici con attaccamento insicuro preoccupato (tipo C) potrebbero manifestare invece uno stile opposto: drammatizzazione dei problemi ed enfatizzazione degli affetti, con conseguente ricerca di aiuto e comprensione da parte dei colleghi; rischio di fronteggiare le situazioni con aggressività o, al contrario, mostrando dipendenza e fuga dalle responsabilità; difficoltà nella costruzione di relazioni stabili e soddisfacenti; scarsa funzione riflessiva; difficoltà a tollerare frustrazioni e ambiguità, con tendenza a imporre le proprie idee ai pazienti.

Quando un terapeuta preoccupato incontra un paziente avente caratteristiche distanzianti, o viceversa, potrà verificarsi una parziale compensazione delle tendenze di entrambi, ma più frequentemente si manifesteranno incomprensioni riguardanti le aree trascurate dai reciproci stili di attaccamento (l’affettività per i soggetti distanzianti e la cognizione per quelli preoccupati), con il risultato di una difficoltà di comprensione reciproca e di condivisione dei risultati. Una delle conseguenze potrà essere la scarsa compliance terapeutica o l’interruzione improvvisa della terapia.
Inoltre, la scarsa capacità di mentalizzazione dei clinici con stile di attaccamento insicuro potrebbe portarli a svolgere con difficoltà un’adeguata funzione riflessiva all’interno della relazione. I terapeuti distanzianti rischierebbero di non riuscire a tenere debitamente conto delle proprie risposte emotive e a confrontarle con la percezione degli stati mentali dei pazienti, mentre quelli preoccupati potrebbero risultare concentrati sui propri stati mentali e avere difficoltà a rappresentarsi quelli degli altri.

In queste condizioni si verificherebbero con facilità fallimenti nella percezione del Sé e dell’altro (in termini di emozioni, desideri, aspettative e credenze), con conseguenze negative sul processo diagnostico, sulla qualità della relazione e sul buon esito della terapia. E’ così possibile che il terapeuta faccia un uso non adeguato o addirittura difensivo della diagnosi, attui interventi o interpretazioni inappropriati o troppo precoci, fatichi a riconoscere i propri stati emotivi e quelli del paziente e agisca comportamenti inappropriati.

Al contrario, un clinico con attaccamento sicuro (tipo B), essendo in grado di integrare informazioni cognitive (logiche) con l’affettività e presentando una buona capacità riflessiva ed empatica, potrà affrontare la relazione terapeutica in modo più consapevole, manifestando capacità di mentalizzazione, di comprensione empatica, di comunicazione e di analisi razionale del problemi, collaborando col paziente e adattandosi al meglio, in modo duttile ed equilibrato, alle sue specifiche caratteristiche e necessità (indipendentemente dal suo stile di attaccamento).
Tali considerazioni, sottolinea Baldoni, si riferiscono a tendenze e rischi dei quali il clinico dovrebbe essere il più possibile consapevole, ma in realtà la formazione terapeutica è spesso in grado di compensare in buona parte le caratteristiche di attaccamento meno funzionali al buon esito della relazione col paziente.

Per quanto riguarda invece le indagini sperimentali in tale campo, a fianco di una già forte consapevolezza circa le relazioni esistenti tra attaccamento sicuro del paziente e buoni esiti nella costruzione dell’alleanza terapeutica e nel percorso di trattamento (Diener e Monroe, 2011; Smith, Msetfi e Golding, 2010), vi è oggi anche una parallela tendenza a studiare l’effetto dell’attaccamento del terapeuta su alleanza e outcome, anche attraverso ricerche empiriche.

Rubino, Barker, Roth e collaboratori (2000), ad esempio, hanno studiato, in un campione di 77 psicoterapeuti in formazione, la correlazione tra stile di attaccamento (valutato con il Relationship Scales Questionnaire, RSQ), empatia e livello di profondità dei commenti a filmati di pazienti che attraversavano una fase di rottura dell’alleanza terapeutica e dei quali era noto lo stile di attaccamento (sicuro, distanziante, invischiato o spaventato). I terapeuti con attaccamenti insicuri hanno fornito un numero di risposte empatiche significativamente inferiore rispetto a terapeuti con attaccamenti sicuri, e la differenza risultava particolarmente rilevante quando il commento riguardava i filmati di pazienti sicuri e spaventati. Questo dato è spiegabile con l’eccessivo coinvolgimento evocato dalla sofferenza o dall’ostilità del paziente, che potrebbe portare il terapeuta a rispondere in maniera angosciata o ostile, o anche con atteggiamenti iper-accudenti che lo inducono a trovare soluzioni immediate pregiudicando in tal modo l’atteggiamento di collaborazione in vista di uno scopo congiunto alla base di una buona alleanza terapeutica.

In generale, rispetto all’intero campione di psicoterapeuti, i commenti empatici più frequenti riguardavano i filmati dei pazienti con attaccamenti spaventati, erano un po’ meno frequenti con i filmati dei sicuri e degli invischiati ed erano minimi con quelli degli evitanti. Ciò è spiegabile con la particolare intensità e conflittualità delle richieste di aiuto dei pazienti spaventati, che da un lato suscita l’interesse del clinico e, dall’altro, data la forte conflittualità, lo costringe alla riflessione.
Rispetto alla profondità dei commenti, infine, questi risultavano più convenzionali e di profilo qualitativo inferiore più con i pazienti evitanti che con quelli invischiati e spaventati. Questa minore profondità delle risposte con pazienti distanzianti può essere spiegata in quanto, tali pazienti, hanno un atteggiamento che spesso minimizza da un lato l’espressione dei propri bisogni di ricevere aiuto e cura e dall’altro l’importanza della relazione con il terapeuta, provocando nel clinico una certa lontananza emotiva e quindi una maggiore difficoltà nell’empatizzare con i bisogni profondi, ma non espressi, del paziente.

La letteratura scientifica inizia così a connotarsi anche per la presenza di ricerche empiriche volte ad indagare le relazioni esistenti tra lo stile di attaccamento del terapeuta e alcuni aspetti della relazione clinica (Sauer, Lopez e Gormley, 2003; Black et al., 2005; Dinger e Strack, 2009; Bucci et al., 2015); tuttavia i risultati ottenuti non sempre sono in linea tra loro e non è semplice trarre conclusioni definitive sull’argomento.
Per quanto riguarda le revisioni della letteratura, queste si sono concentrate maggiormente sul ruolo del paziente (Daniel, 2006; Diener e Monroe, 2011; Smith et al., 2010), trascurando così la figura del terapeuta, tanto che ad oggi non esistono molte review che analizzino in modo sistematico gli studi compiuti in merito alle relazioni che intercorrono tra stile di attaccamento del clinico, alleanza e risultati della terapia.

Una recente rassegna (Degnan et al., 2014) ha però cercato di colmare tale vuoto, analizzando e comparando i risultati di 11 studi (a partire da 2258 lavori totali) volti ad indagare la relazione tra stile di attaccamento del terapeuta e alleanza terapeutica e/o outcome, compiuti tra il 1980 e il 2014, includendo nelle analisi solo quelli che si fossero avvalsi di misure validate per la valutazione dell’alleanza/outcome e dell’attaccamento. Nello specifico, l’alleanza è stata misurata principalmente attraverso il Working Alliance Inventory, WAI (in 6 degli studi considerati), mentre l’outcome è stato valutato soprattutto con la Symptom Check List-90 (SCL-90-R). Per la misura dell’attaccamento si è fatto ricorso a vari strumenti, alcuni etero-somministrati, altri ad auto-somministrazione: Adult Attachment Interview, AAI; Experiences in Close Relationship Scale, ECRS; Relationship Questionnaire, RS; Relationship Scale Questionnaire, RSQ; Attachment Styles Questionnaire, ASQ; Adult Attachment Scale, AAS.

L’utilizzo di misurazioni non omogenee, sia per quanto riguarda l’attaccamento che per quanto concerne l’alleanza terapeutica e l’outcome, costituisce però un’importante criticità dello studio, poiché non consente un corretto confronto dei risultati ottenuti.
E’ comunque possibile evidenziare qualche risultato interessante, anche se non sempre le conclusioni ottenute sono coerenti tra i diversi studi presi in esame.

Dei sette studi che hanno valutato l’impatto di un attaccamento sicuro, solo tre hanno dimostrato un’effettiva associazione positiva tra la sicurezza del terapeuta e l’alleanza terapeutica (Black et al., 2005; Bruck et al., 2006; Dunkle e Friendlander, 1996).
Dieci degli undici studi esaminati hanno misurato invece l’impatto di un terapeuta con attaccamento insicuro sull’alleanza. Tre studi (Black et al., 2005; Dinger et al., 2009; Sauer et al., 2003) suggeriscono che i clinici con uno stile di attaccamento ansioso stabiliscono alleanze di lavoro più povere con i loro clienti. Un ulteriore studio (Sauer et al., 2003) ha dimostrato che l’attaccamento ansioso del terapeuta è correlato positivamente a buoni livelli di alleanza all’inizio della terapia, ma ha un effetto negativo sulla alleanza stessa nel corso del tempo.
Su quattro studi, solo uno ha riscontrato un impatto diretto dello stile di attaccamento del terapeuta sui risultati del trattamento (Bruck et al., 2006): un attaccamento sicuro nel terapeuta porterebbe a esiti terapeutici più favorevoli rispetto a quelli ottenuti da un terapeuta con attaccamento ansioso o evitante.

Tuttavia, i risultati preliminari suggeriscono che questi rapporti potrebbero non essere così lineari e che stili di attaccamento del terapeuta e caratteristiche del paziente interagiscono tra loro nei processi di influenza dell’alleanza e degli esiti del trattamento. Altri studi hanno dimostrato che lo stile di attaccamento del terapeuta ha una maggiore influenza sull’alleanza e sull’outcome quando i pazienti presentano un quadro clinico grave. In particolare, uno studio (Schauenburg et al., 2010) ha messo in luce che lo stile di attaccamento sicuro del terapeuta ha avuto un migliore impatto su alleanza e outcome quando i pazienti presentavano una maggiore compromissione psicopatologica. Specularmente, è stato anche mostrato che l’attaccamento ansioso del terapeuta influenza negativamente la costruzione dell’alleanza con pazienti che riportano una maggiore compromissione a livello del funzionamento interpersonale.
Infine, i risultati di tre studi (Tyrell et al., 1999;Bruck et al., 2006; Petrowsi et al., 2011) suggeriscono che stili di attaccamento dissimili in paziente e terapeuta possono risultare vantaggiosi in termini di alleanza terapeutica e outcome: una mancanza di sovrapposizione tra stile di attaccamento di terapeuta e paziente renderebbe quest’ultimo più in grado di esplorare tali differenze e disconfermare così le strategie interpersonali ed emotive usualmente utilizzate, divenendo più in grado di adottare nuovi e più funzionali comportamenti, al servizio della terapia e dei suoi esiti positivi. Tuttavia, questo dato non è confermato da tutti gli studi che hanno indagato tale combinazione, tanto che un lavoro più recente (Wiseman e Tishby, 2014) ha dimostrato un impatto positivo su alleanza terapeutica e outcome qualora terapeuta e paziente presentino analoghi pattern di attaccamento (almeno in caso di attaccamento evitante a basso indice).

Nonostante l’indubbia necessità di procedere alla definizione di studi più rigorosi che valutino le associazioni tra stile di attaccamento del terapeuta e alleanza, la rassegna presa in esame mette in luce l’esistenza di alcune prove preliminari circa l’impatto positivo che un attaccamento sicuro nel terapeuta può avere sulla costruzione e sulla qualità dell’alleanza. La maggiore capacità di adattare il proprio stile interpersonale a seconda delle caratteristiche del paziente potrebbe essere un importante fattore favorente il buon esito della terapia.

Vi è inoltre qualche evidenza del fatto che un attaccamento insicuro può comportare conseguenze più rilevanti quando si lavora con pazienti complessi, maggiormente compromessi da un punto di vista clinico.
Alcune ricerche hanno poi evidenziato che lavorare con le emozioni potrebbe risultare più difficile per i terapeuti con attaccamento insicuro, in quanto gli evitanti potrebbero avvertire un certo disagio ad entrare in contatto con vissuti emotivi negativi, mentre gli ansiosi potrebbero percepire un eccessivo e disorganizzante coinvolgimento.

Poiché per ora non vi sono evidenze definitive e unanimi che emergano da ricerche empiriche circa le associazioni tra stile di attaccamento e alleanza terapeutica, è bene che i clinici prestino particolare attenzione alle proprie esperienze di attaccamento e a come queste possano entrare in gioco durante la terapia. Migliorare la conoscenza del proprio stile di attaccamento potrebbe aiutare i terapeuti a comprendere meglio alcune dinamiche interpersonali all’interno della relazione terapeutica, orientando così l’intervento e disponendo di maggiori strumenti clinici in caso sia necessario riparare alcune rotture dell’alleanza (Wallin, 2009).

Per quanto riguarda la “combinazione” tra stile di attaccamento del paziente e stile del terapeuta, al momento non è chiaro se la corrispondenza (o mismatching) sia benefica. Mallinckrodt (2010) afferma che i terapeuti dovrebbero inizialmente assecondare lo stile interpersonale del paziente per incrementarne la motivazione e l’aderenza alla terapia e successivamente, con il progredire del lavoro clinico, creare uno scarto tra il proprio stile e quello del paziente al fine di favorirne l’esplorazione e la messa in discussione, utile al cambiamento atteso.
Una via feconda per la ricerca in psicoterapia potrebbe essere costituita dall’indagare come i terapeuti dovrebbero utilizzare le maggiori conoscenze circa il proprio stile di attaccamento individuale ai fini di una migliore alleanza col paziente.

Per concludere, questa rassegna (a fianco di altri studi) evidenzia l’esistenza di alcune iniziali conferme dell’assunto secondo il quale lo stile di attaccamento del terapeuta e le interazioni tra l’attaccamento del clinico e quello del paziente impattano sull’alleanza e sui risultati della terapia. Tuttavia, alcune debolezze metodologiche e la grande eterogeneità delle caratteristiche e dei risultati degli studi considerati sottolineano la necessità di procedere nella definizione di nuovi e più rigorosi disegni di ricerca in quest’area, senza dubbio di grande interesse e rilevanza clinica. Alla luce di quanto fin qui riscontrato, è comunque bene che i terapeuti prestino particolare attenzione al proprio stile di attaccamento, a quello del paziente e alle conseguenze che questi potrebbero avere all’interno della relazione clinica: una buona conoscenza di tali aspetti, unitamente a quanto si ricava dalla Teoria dell’Attaccamento e dei Sistemi Motivazionali Interpersonali, costituisce senza dubbio un valido strumento per procedere con maggiore consapevolezza all’interno della pratica clinica.

 

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La comunicazione terapeutica: gli strumenti e le strategie per renderla efficace

BIBLIOGRAFIA:

Genitori positivi, figli forti. Come trasformare l’amore in educazione efficace (2003) – Recensione

Agevolmente fruibile dai genitori, questa guida pratica e scorrevole traccia semplici e chiare linee guida utili a rendere il ruolo educativo un’esperienza anche piacevole e positiva, oltre che impegnativa e faticosa. 

L’attenzione empatica e la sensibilità genitoriale alla prospettiva del bambino, avvicinandolo al suo mondo e al suo modo di sentire, permette di creare una maggior sintonizzazione con i suoi vissuti emotivi e bisogni e, dunque, anche una più facile comunione di intenti nel rapporto educativo.
Se i modelli pedagogici tradizionali sono stati per lo più centrati sulla definizione del limite e sull’enfatizzazione dell’errore, questa metodica educativa ridimensiona la tendenza classica per dare maggiore rilievo allo spazio di libertà entro il limite e alla valorizzazione della qualità della relazione tra minore e adulto.

L’ “accettazione incondizionata”, ben diversa dal permissivismo, e le aspettative genitoriali, proporzionate al livello evolutivo del figlio, già di per sé favoriscono nel bambino lo sviluppo di un atteggiamento di fiducia che lo porterà ad affrontare le situazioni quotidiane in modo costruttivo e senza particolare timore per gli elementi di novità.

Tra i principi educativi più importanti vengono sottolineati:

– la trasmissione di regole chiare, sintetiche, concrete, espresse al positivo e comunicate in momenti non conflittuali in modo tale da evidenziare il comportamento adeguato atteso, evitando di comunicare aspettative negative facilmente associabili anche alla possibilità di trasgressione e di conseguente rimprovero; ciò promuove non solo pensieri e azioni funzionali, ma anche una maggiore autoefficacia personale;

– la coerenza educativa tra i genitori che favorisce l’interiorizzazione di norme univoche e costanti che rendono la regola un’abitudine sicura e condivisa;

– la valorizzazione delle condotte adeguate manifestate dal bambino che gratifica i suoi sforzi e li sostiene con puntuali rinforzi sociali (sorrisi, coccole), dinamici (attività piacevoli) o simbolici (punteggi); ciò incoraggia nel tempo l’evoluzione da una motivazione di tipo estrinseco ad una più intrinseca e autonoma che sta alla base della capacità di autocontrollo e di autoregolazione;

– il contenimento dei comportamenti provocatori e fastidiosi tramite l’estinzione: ignorare questi tipi di azione ne incoraggia infatti gradualmente la scomparsa;

– la punizione dei comportamenti problematici e dannosi attraverso l’applicazione di conseguenze negative (assegnazione di un compito non gradito o sospensione di attività piacevoli) e, nei casi più estremi, tramite il contenimento fisico o il time-out (allontanamento temporaneo del bambino da una situazione gradevole dopo l’emissione di una condotta inadeguata); si sconsiglia l’utilizzo della delega e della minaccia: la prima risulta una strategia tanto facile nell’applicazione quanto inefficace nell’effetto, poiché comporta nel futuro un minor potere di autorevolezza; la seconda contribuisce solo ad aumentare l’ansia e la tensione nel bambino per ciò che avverrà;

– l’”ascolto pulito”, uno spazio di “disponibilità affettiva, benevolenza, comprensione e vicinanza emotiva”, all’interno del quale poter esprimere quotidianamente contenuti emotivi positivi o negativi al fine di elaborarli in modo costruttivo.

I brevi questionari di autovalutazione che corredano il manuale rendono la lettura più coinvolgente ed interattiva, consentendo un’efficace auto-osservazione da parte del genitore che è invitato ad aprire margini di riflessione su metodi alternativi a quelli abituali e a verificare gli apprendimenti acquisiti.

Se educare (dal latino e-ducere) significa “trarre fuori”, liberare, far emergere ciò che è latente, è fondamentale creare un ambiente positivo che stimoli questo processo di crescita.

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BIBLIOGRAFIA:

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