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Il Disturbo bipolare nel mondo della musica – Intervista con Emily Maguire: il coraggio di ricominciare

La cantautrice inglese ha fatto coming out rispetto al suo disturbo bipolare, promuovendo la sua musica in diversi ospedali psichiatrici inglesi...

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 10 Dic. 2014

Tutta l’esperienza umana è fatta di buio e di luce, della voglia di trovare la felicità e di evitare la sofferenza. E’ questo di cui parlano alla fine le canzoni. Essere bipolari significa avere questi estremi di alti e bassi forse più spesso e più drammaticamente degli altri.

Emily Maguire è una cantautrice inglese dotata di una una voce fortemente espressiva (paragonata da alcuni all’indimenticabile Eva Cassidy, per intenderci) e un capacità compositiva degna delle migliori folk-singer americane. Le sue canzoni vengono trasmesse regolarmente dalla BBC e nel 2010 ha spiazzato i propri fan con la biografia Start over again (che è anche il titolo di una sua canzone), dove ha fatto coming out rispetto al suo disturbo bipolare, attirando in pochi mesi l’attenzione dei media e divenendo una sorta di testimonial per tale disturbo.

E’ stata invitata a suonare in ospedali psichiatrici e centri di riabilitazione in diverse città dell’Inghilterra, emozionando pazienti e operatori con le sue canzoni. Questo tour così particolare ricorda quel periodo, alla fine degli anni Settanta, in cui il rivoluzionario Franco Basaglia invitava gli artisti ad esibirsi nel manicomio di Trieste, per abbattere i muri dell’indifferenza.

Dalla biografia dell’artista emergono altri particolari interessanti come l’educazione musicale in violoncello fin dall’infanzia e il periodo di quattro anni vissuto nel bush australiano con il proprio compagno, in una dimensione ecosostenibile, finanziando i progetti musicali con la vendita di formaggio di capra.

I brani di Emily sono ricchi di riferimenti alla sua storia di sofferenza, come “Over the waterfall”, che recita “I bet you don’t hear a million voices ringing in your head, I bet you don’t see symbolic meaning in every word you said” (Scommetto che tu non senti un milione di voci che squillano nella tua testa, scommetto che tu non cerchi un significato simbolico in ogni parola che dici), e poi ancora “I lose my mind, if they can’t find a cure this time, they’ll take me away in a big white van…So take my hand and don’t let me go over the waterfall” (Sto perdendo la testa, se non trovano la cura giusta questa volta mi porteranno via su un furgone bianco…prendi la mia mano e non farmi andare oltre la cascata). La cascata pare una metafora molto efficace del confine tra normalità e follia. La sua storia mi ha molto incuriosito e l’ho intervistata via Skype.

  Ciao Emily. Ho letto nella tua biografia che hai scritto le prime canzoni quando ti sei trovata costretta a casa a causa della fibromialgia. La musica ti è stata d’aiuto per affrontare questo doloroso disturbo?

In quel periodo difficile la musica è stata incredibilmente utile. Lo scrivere canzoni mi ha aiutato a distrarmi dal costante dolore fisico ed è stato un modo per esprimere pensieri ed emozioni che provavo rispetto alla vita e al mondo che vedevo fuori dalla mia finestra. Sono arrivata a pensare che la malattia sia stata una fortuna “mascherata”, proprio perché mi ha dato la possibilità di avere così tanto tempo a disposizione per scrivere.

Ci racconti qualcosa di più del tuo disturbo psichiatrico e delle cure che hai intrapreso?

Quando avevo sedici anni mi è stato diagnosticato per la prima volta un episodio depressivo acuto e sono stata curata con antidepressivi per molti anni. All’età di ventitrè anni ho avuto un episodio psicotico e in quell’occasione mi è stato diagnosticato un disturbo bipolare e mi è stata prescritta una terapia con litio. Nel frattempo avevo fatto diversi anni di psicoterapia prima con uno psichiatra e poi con diversi counsellors. Una volta dimessa dall’ospedale, dopo la psicosi, ho deciso che avevo fatto psicoterapia a sufficienza. Dopo alcuni anni di relativo benessere il medico mi ha tolto il litio e due anni dopo ho avuto il secondo episodio psicotico all’età di ventotto anni. Sono stata nuovamente ricoverata e mi sono stati prescritti litio e olanzapina. Da allora ho fatto un po’ di counselling ma non più percorsi psicoterapici a parte una terapia ipnotica (“solution focused hypnotherapy”) che mio marito pratica e che ho trovato davvero molto utile per gli episodi depressivi. Sto ancora assumendo l’olanzapina ma non il litio, che in certi periodi mi ha dato alcuni effetti collaterali. 

Nel 2010 hai pubblicato la tua biografia Start over again, dove racconti pubblicamente le tue esperienze personali con la psicosi e il disturbo bipolare. E’ stato difficile fare questo coming out?

Sì, è stata una decisione difficile e ho anche pensato che potesse rappresentare la fine della mia carriera musicale. Ma alla fine è stata una grande liberazione ed ho ricevuto una risposta fantastica dai miei fans e da tutti coloro che hanno conosciuto la mia storia dalla trasmissione radiofonica sulla BBC. Da allora sono riuscita a parlare apertamente della mia condizione e ad essere di aiuto alle persone che soffrono allo stesso modo. Adesso inoltre le persone sanno da dove vengono le mie canzoni.

In che modo la tua esperienza di sofferenza psichica è entrata nelle tue canzoni? C’è qualche brano rappresentativo a riguardo?

Tutta l’esperienza umana è fatta di buio e di luce, della voglia di trovare la felicità e di evitare la sofferenza. E’ questo di cui parlano alla fine le canzoni. Essere bipolari significa avere questi estremi di alti e bassi forse più spesso e più drammaticamente degli altri. Le mie canzoni vengono dal profondo del mio cuore, quindi è inevitabile che i testi siano influenzati da queste esperienze. Circa un anno dopo il primo episodio psicotico, dopo essere passata attraverso tutte le fasi in cui mi sono sentita completamente terrorizzata e poi cronicamente depressa, quando iniziavo a sentirmi un po’ meglio ho scritto il brano “I’d rather be”, che esprime i miei sentimenti di gratitudine e accettazione rispetto a come sono. Ma la canzone che esprime in modo più diretto la mia esperienza con il disturbo bipolare è “Over the waterfall”.

Ci racconti qualcosa della tua straordinaria esperienza di concerti nei luoghi di cura psichiatrici inglesi?

Il mio tour negli ospedali psichiatrici all’inizio di quest’anno è stata in assoluto la cosa migliore che abbia mai fatto. E’ stata una grossa sfida, ma molto soddisfacente, anche perché nei diciassette concerti che ho fatto non ho avuto esperienze negative. Ho tenuto performance di circa mezz’ora in ogni struttura psichiatrica, cantando le mie canzoni che raccontano di sopravvivenza alla malattia mentale, leggendo estratti dal mio libro sulla mia esperienza personale con la psicosi e rispondendo alle domande dei pazienti. C’è così poca musica negli ospedali psichiatrici inglesi, che innanzitutto le mie performance sono state una forma di intrattenimento nei confronti di una routine noiosa. Sia lo staff che i pazienti hanno sempre ascoltato attentamente e alle volte sono sembrati davvero commossi. Il feedback dagli operatori è stato meraviglioso. Una aspetto “positivo” del mio disturbo bipolare è che comprende elementi sia di psicosi che di depressione, così sono stata in grado di relazionarmi sia con pazienti affetti da schizofrenia che con pazienti affetti da ansia e depressione cronica.

Sei coinvolta in altri progetti che riguardano la salute mentale?

Al momento sono un po’ fuori dal giro a causa di una tendinite a un braccio ma spero in futuro di lavorare con Mind, un ente no profit che si occupa di salute mentale. Mi piacerebbe anche proporre i miei concerti ad altri ospedali e magari anche in setting ambulatoriali.

Cosa pensi della musicoterapia?

Ho partecipato a sedute di musicoterapia l’ultima volta che sono stata ricoverata in ospedale ed è stato molto bello. Il musicoterapeuta è rimasto molto sorpreso quando ho iniziato a cantare alcune mie canzoni. Lo staff del reparto per acuti dove ero ricoverata mi faceva tenere la chitarra e ho anche scritto il brano “Falling on my feet” del mio primo album, durante la permanenza in ospedale. Successivamente il musicoterapista è venuto ad alcuni miei concerti. Ci sono stati tanti tagli nei servizi psichiatrici inglesi negli ultimi anni e dei diciassette luoghi dove mi sono esibita, solo due erano dotati di una qualche proposta musicoterapica. Credo che la musica possa rivestire un ruolo vitale nell’aiutare le persone con problemi psichiatrici e spero che parte della mia carriera si focalizzerà sul portare più musica nei luoghi della salute mentale.

Come vedi la situazione dello stigma psichiatrico in Inghilterra? Ti è mai capitato di essere stigmatizzata per il tuo disturbo bipolare?

Non mi sono mai sentita stigmatizzata. Un sacco di gente mi ha detto che sono stata coraggiosa a pubblicare il mio libro, ma in realtà mi sono solo sentita liberata di un peso. Penso che lo stigma diventi potente solo se lo assecondiamo e che più la gente parla di salute mentale meglio è. Per questo campagne come Time to Change, che hanno fatto in Inghilterra sono importantissime. Le cose vanno meglio adesso che alcuni anni fa e spesso cito le parole del Dottor Seuss “Sii te stesso e dì quello che senti senza timori, perché quelli che si preoccupano non contano e quelli che contano non si preoccupano”.

Nella tua esperienza in che rapporto sono la creatività e i disturbi mentali?

 Non posso parlare per tutti i disturbi mentali, ma certamente nella mia esperienza col disturbo bipolare la creatività è stata l’unica luce tra le nubi. Le tre cose che mi hanno salvato la vita sono state la musica, la meditazione e i farmaci. Credo che ogni attività creativa, che sia pittura, musica, poesia, giardinaggio o anche altre attività manuali possa essere di enorme beneficio per le persone come me che hanno così tanta energia dentro che non sanno dove dirigere e che può causare così tanti problemi. Se riesci a imparare a utilizzare quella energia in modo positivo e produttivo la malattia può davvero diventare un’occasione quasi positiva.

Ho letto che pratichi il Buddismo Tibetano, a cui negli ultimi anni la psicologia si sta ispirando per proporre tecniche terapeutiche come la meditazione per la cura dei disturbi depressivi. Hai trovato anche tu un giovamento per qualche disagio psicologico nel buddismo?

 Come ho detto la meditazione è stata una delle tre cose che mi hanno salvato la vita. Ho iniziato a fare cinque minuti ogni mattina di meditazione seduta circa quindici anni fa. Adesso pratico per un’ora ogni mattino e mezz’ora ogni sera. La mia fede buddista mi ha salvata in più di un modo. Prima di tutto convincermi del fatto che commettere un gesto suicidario sia come “saltare dalla padella alla brace”, mi ha impedito di togliermi la vita negli episodi depressivi più acuti. Anche gli insegnamenti buddisti sull’impermanenza sono stati utilissimi. Avere una guida spirituale come il Lama Jampa Thaye mi fornisce un grande sostegno emotivo durante I periodi più bui. Gli insegnamenti buddisti sull’esercizio delle proprie facoltà mentali sono metodi pratici ed utili per affrontare situazioni difficili. Sono anche affascinata dalla psicologia e dalla filosofia buddista, che trovo davvero interessante e intellettualmente stimolante. La pratica quotidiana meditativa mi ha insegnato un’autodisciplina che risulta utile anche in altri ambiti della mia vita. Inoltre credo molto nel potere della fede. So in prima persona quanto la mente possa essere potente, sia creativamente che distruttivamente. Voglia addomesticare la mia mente affinchè sia meno problematica per me e più utile per gli altri. 

 

VIDEO: EMILY MAGUIRE, OVER THE WATERFALL

 

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