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Omosessualità: perchè le Terapie Riparative sono inutili (e dannose)

Le Terapie Riparative sono valutate scientificamente infondate, inutili al cambiamento dell'orientamento sessuale, dannose ed eticamente scorrette

Di Redazione

Pubblicato il 20 Gen. 2015

Aggiornato il 05 Ago. 2022 12:26

Articolo di Pier Luigi Gallucci pubblicato il 14 Gennaio 2015 su Gallucci Psicologo Torino

L’omosessualità non è una malattia, nè una scelta: non c’è nulla di rotto, nulla da riparare. Lo studio dello psicologo può diventare il luogo per smettere di farsi le domande degli altri e individuare le proprie.

“L’impresa di trasformare un omosessuale in un eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori dell’impresa opposta” (S. Freud, 1920)

C’è anche il logo di Expo2015 che sponsorizza l’ennesimo convegno ‘in difesa della famiglia tradizionale’ e propone l’idea che l’omosessualità sia una malattia e si possa curare, suscitando il dibattito e lo sdegno della stampa nazionale.

A parte l’imbarazzo per l’arretratezza dell’immagine politica, sociale e culturale che ne viene fuori, a livello internazionale per giunta, direi che, come psicologi, sulle terapie riparative per l’omosessualità non si può tacere e vale spendere qualche parola su cosa sono e come (non) funzionano.

Le terapie riparative (o di conversione) sono un metodo psicoterapeutico che mira a cambiare l’orientamento sessuale da omosessuale a eterosessuale, o quantomeno ridurre ed eliminare i desideri e i comportamenti omosessuali. I suoi sostenitori, come Joseph Nicolosi e Charles Socarides, ipotizzano che il “danno da riparare” sia avvenuto durante lo sviluppo evolutivo, nel periodo di separazione-individuazione, quando nel maschio omosessuale si determinerebbe un’identificazione con la madre. In più, la relazione disfunzionale col padre provocherebbe un deficit di mascolinità e assertività.

Secondo questi autori, la persona omosessuale cercherebbe di rafforzare temporaneamente la propria mascolinità attraverso il proprio partner, ma in modo insufficiente, determinando così la promiscuità che sarebbe tipica dello “stile di vita gay”. Questo tipo di approccio si basa su vecchie concezioni della psicoanalisi ortodossa (tra l’altro lo stesso Freud aveva una visione molto più aperta e avanzata), ma che è ormai superato dalla storia, un ramo morto della psicologia.

Per far fronte ai desideri e comportamenti omosessuali e incrementare quelli eterosessuali, una psicoterapia di tipo riparativo prevede per esempio: la tecnica della covert sensitization, con cui si insegna al paziente ad immaginare qualcosa di spiacevole per contrastare i desideri omoerotici indesiderati (per esempio contrarre l’HIV); l’uso di sexual surrogates del sesso opposto; la proibizione della masturbazione; incoraggiare la frequentazione di persone eterosessuali dello stesso sesso; la lettura della Bibbia e la preghiera.

Già da questa sintetica descrizione emerge come le terapie riparative si configurino come interventi parziali (si considerano solo uomini gay e non lesbiche o persone bisessuali), direttivi e suggestivi in cui gli aspetti ideologici, morali e religiosi prevalgono su quelli scientifici.

Le ricerche scientifiche internazionali hanno infatti rilevato l’inutilità, se non gli effetti negativi sull’equilibrio psichico dei pazienti che vi si sottopongono (depressione, bassa autostima, vergogna, difficoltà relazionali, disfunzioni sessuali e tentati suicidi). Il risultato al limite è che i soggetti diventano astinenti nel comportamento sessuale, acquisiscono strumenti per reprimere e dissociare le proprie pulsioni, ma non cambiano certo i loro desideri profondi, l’attrazione affettiva e sessuale che provano.

Le terapie riparative sono state identificate quindi come scientificamente infondate, inutili al cambiamento dell’orientamento sessuale, dannose per l’equilibrio psichico dei pazienti ed eticamente scorrette dalle principali associazioni dei professionisti della salute mentale a livello internazionale (ad esempio l’American Psychological Association nel 2009), e a livello nazionale dall’Ordine degli psicologi italiani (art. 4 del Codice deontologico) e dagli ordini regionali (ad esempio l’Ordine degli psicologi del Piemonte).

Recentemente le terapie riparative hanno subìto un’evoluzione 2.0, diremmo un approccio “post-riparativo”: non si afferma più che l’omosessualità sia una malattia (posizione ormai indifendibile), ma che, se vi sono persone che chiedono aiuto perchè soffrono a causa del proprio orientamento sessuale, prevale il principio di autodeterminazione del paziente.

E allora cogliamo l’occasione per capire quali sono gli obiettivi di una psicoterapia attraverso l’esempio di due situazioni.

Francesca, 30 anni, chiede consulto a un terapeuta perchè è stata lasciata da poco dal marito con cui conviveva e con cui progettava di avere dei figli. L’abbandono le giunge inaspettato, e dopo lo shock iniziale, si sente molto triste, arrabbiata e sola. La donna ha alcune amiche lesbiche con cui si confida quotidianamente e con cui dichiara di sentire profonda sintonia, comprensione e complicità. Dice di non avere più fiducia negli uomini e chiede di poter diventare lesbica.

Paolo è un uomo di 50 anni che è stato lasciato dal suo compagno con cui conviveva da molti anni. Afferma che le relazioni gay si basano solo sul sesso, che i gay pensano solo a quello. Secondo lui, se fosse eterosessuale, sarebbe diverso: potrebbe finalmente vivere una relazione stabile, avere una vita serena, una famiglia vera. E chiede al terapeuta di poter diventare eterosessuale.

Cosa fa a questo punto un terapeuta riparatore? Perchè è più auspicabile la seconda situazione rispetto alla prima? Dipende dal principio di autodeterminazione del paziente o dal (pre)giudizio del terapeuta?

Le terapie riparative sono un tipo di trattamento direttivo-suggestivo in cui il terapeuta rinuncia alla sua posizione di neutralità, diventando mero esecutore di una richiesta (indotta) e propugnatore di norme esterne: un tecnico che prende la domanda così com’è e la agisce direttamente. Ma il conflitto interno del paziente non si elabora eliminando una delle parti e alleandosi nel disprezzo dell’altra (collusione).

Le terapie riparative non funzionano perchè:

– incoraggiano i pazienti a fondare su un’autorità esterna le proprie scelte di vita, anzichè svilupparne di proprie;

– rinforzano solo un polo del conflitto del paziente e lo agiscono, anziché esplorarlo, nella relazione terapeutica;

– non producono l’attesa “riconversione”, ma, anziché coltivare una maggiore consapevolezza e accettazione di sé, spesso peggiorano le condizioni psichiche della persona.

Il principale strumento del terapeuta è la domanda, non la risposta. Il terapeuta non può ridursi a essere un tecnico che cambia i comportamenti, ma ha la funzione di un esploratore di domande e prospettive, aiuta a ricercare il senso della sofferenza, mentre la persona costruisce le sue di risposte. Senza necessariamente pensare che debbano essere certe, chiare, definitive, ma anzi tollerando inevitabili gradi di frustrazione, incertezza, confusione.

Il lavoro psicologico non mira solo e primariamente alla soppressione del sintomo, ma alla conoscenza della sua funzione nel sistema emotivo, cognitivo e relazionale del paziente. Il primo compito di un terapeuta è quindi quello di capire in quale contesto (personale, familiare, sociale e culturale) nasce la domanda di cura del paziente. Quello di considerare la sofferenza come un aspetto non tanto da eliminare, correggere, riparare, quanto da esplorare nel suo senso, funzione e significato nella vita di quella persona.

I terapeuti riparativi hanno degli obiettivi ortopedici, di riparare qualcosa di rotto, di riportare il paziente dentro i confini di un modello pre-stabilito considerato “normale” e desiderabile (dalla persona stessa, dallo psicologo, dal contesto sociale e culturale più ampio). Se invece il terapeuta si pone nell’ottica di analisi della domanda, si pone degli obiettivi di sviluppo autentico della persona. E la psicoterapia non è più riparativa, ma diventa affermativa.

L’omosessualità non è una malattia, nè una scelta: non c’è nulla di rotto, nulla da riparare. Lo studio dello psicologo può diventare il luogo per smettere di farsi le domande degli altri e individuare le proprie.

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