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Il colloquio motivazionale nel trattamento dei disturbi d’ansia e dell’umore di Henny A. Westra (2015) – Recensione

Il colloquio motivazionale è un metodo incentrato sul cliente, per attenuare la resistenza al trattamento e aumentare la motivazione, mantenendo un buon livello di coinvolgimento del paziente ed esplorando i vari sentimenti di ambivalenza legati al cambiamento (Miller e Rollnick 1991, 2002; Leoni 2003).

In questo testo chiaro e lineare, l’autrice presenta una versione adattata di questo strumento per trattare i disturbi di ansia e i problemi ad essi associati, come la depressione. Infatti, pur mantenendo tutti gli elementi che caratterizzano il colloquio motivazionale (ad esempio, l’impegno a collaborare con il paziente, i dialoghi sul cambiamento, ecc.), viene data maggiore enfasi alla risoluzione delle ambivalenze, quali la resistenza al cambiamento e le motivazioni ad esso associate.

Secondo Henny Westra, la gestione dell’ambivalenza è un fattore determinante per il trattamento dei disturbi d’ansia. Non è infrequente, infatti, che i pazienti siano consapevoli del problema e conoscano anche delle strategie per ottenere il cambiamento desiderato. Internet, libri, nonché precedenti trattamenti, possono creare delle ottime basi per l’introspezione e la pianificazione di obiettivi.

Tuttavia, in molti casi, il vero problema riguarda la gestione degli ostacoli interni e delle ambivalenze che si interpongono tra la decisione di cambiare e le azioni necessarie a farlo veramente. Per questo motivo vengono presentate e descritte con semplicità e chiarezza, un insieme omogeneo di tecniche e di suggerimenti, arricchiti da una quantità di esempi, per affrontare l’ambivalenza, ridurre a resistenza, incrementare la motivazione intrinseca, nonché preparare il paziente al cambiamento.

Questo libro offre parecchi spunti di riflessione anche ai non addetti ai lavori ma non è un manuale di auto-aiuto; è infatti un testo rivolto soprattutto agli psicologi ed ai terapeuti che vogliono investire nel rapporto con il paziente. In questo senso, seguendo una linea di pensiero di stampo rogersiano, l’autrice sottolinea più volte come i pazienti debbano essere considerati i veri esperti di se stessi, mentre i terapeuti, da esperti del processo, debbano lavorare per creare le condizioni più adatte affinché il paziente sfrutti le proprie competenze e proponga le soluzioni migliori verso la realizzazione della propria vita.

In conclusione, questo adattamento del colloquio motivazionale ai disturbi d’ansia e dei problemi ad essi associati, non va inteso come un metodo esclusivo ma piuttosto come un insieme di strategie che possono arricchire con successo anche gli approcci maggiormente orientati all’azione, come i trattamenti cognitivo-comportamentali, allo scopo di sostenere meglio l’autonomia del paziente e le sue capacità di recupero.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Westra, L.A. (2015). Il colloquio motivazionale nel trattamento dei disturbi d’ansia e dell’umore. Strategie per individuare e superare le resistenze al cambiamento. Eclipsi Editore: Firenze.

La psicologia positiva e il trattamento della depressione

Giulia Mazzoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Seligman spiega che la psicoterapia positiva si distingue dagli interventi standard per la depressione perché è volta ad aumentare le emozioni positive, coinvolgere i punti di forza individuali e attribuire significato alla propria vita.

La psicologia positiva: che cos’è e cosa non è

La psicologia positiva è lo studio scientifico di quelle condizioni che portano la persona e la comunità ad uno stato di benessere fisico e psicologico attraverso le emozioni, le esperienze e i tratti individuali positivi.  Afferma, in particolare, l’importanza di riuscire a trasformare modalità negative di pensiero in modalità positive, che permettano soprattutto di promuovere la felicità e il benessere.

Questo si concretizza in quello che si chiama intervento positivo: un programma di attività volte a coltivare emozioni, pensieri e comportamenti positivi, che portano a valutare il proprio vissuto e la propria persona in termini positivi. Ad esempio rivalutare la propria giornata considerando tre avvenimenti positivi accaduti; pensare alla propria vita sempre in questo senso o focalizzarsi sui propri punti di forza e impiegarli nelle attività della giornata.

La psicologia positiva nasce dagli studi di Martin Seligman sull’impotenza appresa (1975), termine che si può definire come l’abitudine di interpretare sempre in maniera negativa ciò che succede, al punto che pensiamo di non essere abbastanza capaci per la maggioranza delle cose della nostra vita e non tentiamo nemmeno di affrontarle. Questa modalità si lega molto al pensiero pessimistico che è spesso tipico di coloro che attribuiscono le cause dei propri fallimenti a se stessi, e che quindi molto frequentemente incappano in stati depressivi. Seligman perciò si è chiesto se la stessa catena cognitiva di cause non potesse essere ribaltata sul versante positivo.

La psicologia positiva, tuttavia, non è il pensiero positivo (che comporta il credere ad affermazioni ottimistiche riguardanti il raggiungimento del successo assodato e adattabile ad ogni situazione) ma è invece legata ad un programma di attività scientifica, empirica e replicabile, non considera la positività come la principale modalità di pensiero ma riconosce i vantaggi del pensiero negativo e le circostanze in cui questo è da preferirsi (ad esempio quando è necessario valutare una situazione in modo molto oculato (Alloy & Abramson, 1979). Il pensare positivo ma realistico va sotto il nome di ottimismo flessibile (Seligman, 1990) ed è la capacità di scegliere il modo in cui esaminare le avversità, l’essere in grado di sapere in quali circostanze è opportuno avvalersi del pensiero ottimista senza per questo abbracciare la prospettiva di un cieco ottimismo. L’ottimismo flessibile si può considerare quindi una sorta di equivalente positivo del concetto stesso di impotenza appresa, perché anch’esso si può imparare attraverso l’allenamento all’utilizzo di spiegazioni positive dei propri eventi di vita ma, al tempo stesso, realistiche.

La psicologia positiva nasce con l’obiettivo di modificare il contenuto e la forma del pensiero degli individui, attraverso l’apprendimento dell’ottimismo flessibile, confidando nel fatto che questo influirà sulle loro idee future e le trasformerà in modalità di pensiero positive e adattive.

Il ruolo delle emozioni positive

Le emozioni positive sono uno dei fulcri della psicologia positiva e ci sono numerose evidenze circa il loro effetto sulla regressione dei disturbi mentali e fisici. Tra le ricerche più recenti, quella di Friedrickson e Joiner (2002), che ha messo in evidenza l’esistenza di un effetto delle emozioni positive chiamato a spirale crescente, indicando il fatto che persone con esperienze di pensiero positivo risultano maggiormente predisposte a trovare i significati positivi degli eventi spiacevoli e questo rappresenta il punto di partenza per l’adozione di sentimenti positivi nei confronti degli eventi di vita.

Inoltre, uno studio del 2004 di Tugade, Fredrickson e Barrett su emozioni positive e stili di coping ha messo in evidenza come le persone resilienti sono caratterizzate da una maggiore emotività positiva (un approccio energico alla vita, curiosi e aperti a nuove esperienze) e affrontano le situazioni attraverso emozioni positive, utilizzando il senso dell’humor, il rilassamento e il pensiero positivo in misura maggiore rispetto alle persone non resilienti. Questi aspetti si sono dimostrati centrali nelle modalità di ripresa da situazioni stressanti, in particolare nelle guarigioni da disturbi cardiovascolari, che sono più brevi, e in situazioni potenzialmente ansiogene (ad esempio parlare in pubblico), affrontate con maggiore positività.

L’intervento positivo

Seligman e collaboratori, nel 2005 hanno concretizzato i presupposti della psicologia positiva mettendo a punto una ricerca basata sull’efficacia di un intervento positivo su una popolazione non clinica. Nello specifico, l’intervento positivo è consistito da una serie di attività ed esercizi che i partecipanti dovevano attuare ogni giorno per una settimana (le cui istruzioni venivano fornite attraverso Internet). In particolare, le persone sono state suddivise in 5 gruppi ad ognuno dei quali veniva assegnato un esercizio tra questi: scrivere e poi consegnare una lettera di ringraziamento ad una persona che meritasse un grazie speciale e che non fosse stata ringraziata adeguatamente a suo tempo; di scrivere alla fine della giornata tre avvenimenti positivi accaduti e di cercare di darne una motivazione; di scrivere di un periodo della vita in cui ci si sentiva al meglio, riflettere sui propri punti di forza emersi nella storia e collocare la storia in un posto dove fosse possibile vederla tutti i giorni per una settimana; di prendere atto dei propri punti di forza e utilizzarne uno ogni giorno in maniera diversa. A questi 5 gruppi ne è stato affiancato uno di controllo.

I partecipanti, valutati prima e dopo attraverso strumenti di misurazione della felicità individuale e dei sintomi depressivi, sono stati richiamati per i follow-up a una settimana e a uno, tre e sei mesi. I risultati mostrarono che utilizzare i propri punti di forza e rivalutare la giornata attraverso tre cose positive che sono successe, aumenta la felicità e riduce i sintomi depressivi – seppur in un campione non clinico- in maniera duratura per tutti i sei mesi. Ringraziare una persona produce cambiamenti significativi solo a un mese, mentre gli altri due esercizi e il placebo, hanno prodotto un effetto positivo ma transitorio su felicità e sintomi depressivi.

Implicazioni cliniche degli interventi positivi: come si può tradurre questo in termini clinici?

Sono diverse le strategie terapeutiche che vengono proposte dalle teorie e ricerche della psicologia positiva, tra cui il far nascere e alimentare speranze (Snyder, Iliardi, Michael, Cheavans, 2000) o l’investimento sui punti di forza della persona, quali coraggio, abilità interpersonali, insight, ottimismo, autenticità, perseveranza, realismo, capacità di provare piacere, di riconoscere le responsabilità personali, le inclinazioni e le intenzioni future (Seligman, 2002).

Wood e Joseph, nel 2009, si sono chiesti se l’assenza di benessere e di emozioni positive potessero essere dei fattori di rischio per la depressione e hanno condotto uno studio rivalutando gli stessi soggetti dopo 10 anni. Il benessere è stato considerato attraverso indicatori come l’autoaccettazione, l’autonomia, l’instaurare relazioni positive con gli altri, la capacità di porsi uno scopo nella vita, la padronanza dell’ambiente e la crescita personale. I risultati hanno dimostrato che le persone con uno stato di benessere inferiore avevano una probabilità 7 volte maggiore di incappare in un disturbo depressivo dieci anni dopo.

Sin e Lyubomirsky (2009) inoltre, hanno condotto una meta-analisi attraverso gli studi sugli interventi positivi: i risultati combinati di 49 studi hanno rivelato che gli interventi positivi aumentano significativamente il benessere e i risultati combinati di 25 studi mostrano che gli interventi positivi sono anche efficaci per trattare i sintomi depressivi. In particolare, dalla meta-analisi è emerso che:

  • Lo stato depressivo modera l’efficacia dell’intervento positivo, cosicchè le persone depresse riportano un maggior aumento di benessere e una riduzione più marcata dei sintomi depressivi rispetto ai non depressi. Questi ultimi, tuttavia, mostrano comunuqe di beneficiare degli esercizi dell’intervento positivo. Perciò i clinici possono sentirsi legittimati ad inserire gli interventi positivi o parti di essi nel trattamento di pazienti sia depressi che non depressi, perché entrambi ne ricavano benefici.
  • Ricavano maggiori vantaggi da un intervento positivo quelle persone che si offrono spontaneamente di partecipare ad uno studio in questo senso. Questo in termini clinici si può tradurre così: le persone con un alto livello di motivazione hanno anche aspettative più ottimistiche e mettono in conto di lavorare più duramente e più a lungo.
  • I benefici dell’intervento positivo aumentano linearmente con l’età. I partecipanti più anziani potrebbero aver vissuto il trattamento positivo con maggiore serietà e maturità e applicare più impegno nell’esecuzione delle istruzioni date. Perciò i clinici potrebbero vedere maggiori miglioramenti quando impostano un intervento positivo su un paziente più anziano rispetto ad uno giovane.
  • La modalità del trattamento modera l’efficacia dell’intervento positivo: la terapia individuale è la più efficace, seguita da interventi di gruppo guidati e poi da quelli autogestiti. In un’ottica clinica quindi i migliori benefici ,per quanto riguarda gli interventi positivi si ottengono in primo luogo all’interno di una terapia individuale e secondariamente entro una terapia di gruppo.
  • La durata di un intervento positivo modera i suoi effetti: più l’intervento è lungo e più i partecipanti/pazienti hanno l’opportunità di applicare le attività positive che acquisiscono, alla propria quotidianità; con la conseguenza naturale di una maggiore efficacia.

Psicoterapia positiva

Seligman e collaboratori (2006) spiegano che la psicoterapia positiva si distingue dagli interventi standard per la depressione perché è volta ad aumentare le emozioni positive, coinvolgere i punti di forza individuali nelle proprie esperienze di vita e attribuire significato alla propria vita considerando se stessi come riflesso della società in cui si vive. I ricercatori hanno riscontrato che, con persone affette da depressioni gravi, gli effetti degli esercizi di psicologia positiva sono particolarmente straordinari. In particolare, nel primo di due studi preliminari è emerso che la psicoterapia positiva praticata su gruppi ha ridotto significatamente i livelli di depressione, da profonda a moderata, dopo 1 anno di follow up. Nel secondo studio la psicoterapia postiva assegnata ai singoli pazienti con disturbo depressivo maggiore ha prodotto una remissione molto maggiore rispetto a quello che fanno i trattamenti attraverso protocolli standard o questi combinati ai farmaci (Seligman et al., 2009)

Conclusioni

La psicologia positiva è quindi una disciplina basata su emozioni positive e sulla capacità di rivalutare positivamente i propri vissuti; da non confondere con il pensiero positivo, che invece è una visione sempre e comunque ottimistica di tutto ciò che ci circonda. Gli interventi di psicologia positiva sono perciò basati su esercizi e attività mirate alla valorizzazione degli aspetti positivi dell’esistenza e della propria persona, attraverso quelli che vengono chiamati punti di forza.

Le ricerche hanno dimostrato che le emozioni positive hanno un ruolo importante nell’aumentare il benessere delle persone e consentono una ripresa migliore e più breve da condizioni stressanti, anche fisiche. Inoltre, essere consapevoli dei propri punti di forza e utilizzarli per rivalutare positivamente gli episodi accaduti durante la giornata produce l’effetto di mantenere elevata la felicità individuale nel tempo e riduce, dove presenti, i sintomi depressivi, anche a distanza di mesi. Anche ringraziare qualcuno tuttavia, ci rende più felici. Attività di intervento positivo come queste, dunque, possono contribuire a considerare se stessi e la propria esistenza in un’ottica più piacevole e riducono, di conseguenza, la probabilità di sviluppare sintomi depressivi.

Su una popolazione clinica, gli interventi di psicologia positiva si sono rivelati efficaci nel trattamento degli stati depressivi, a condizione però che le strategie apprese venissero applicate dai pazienti quotidianamente e anche oltre la conclusione del trattamento. Gli studi hanno dimostrato che quello che va sotto il nome di Psicoterapia Positiva può utilmente integrare i protocolli standard di trattamento per il disturbo depressivo maggiore aumentandone di molto l’efficacia e soprattutto mantenendo ridotti i sintomi depressivi anche dopo un anno dalla conclusione del trattamento.

Si potrebbe concludere quindi con un consiglio ai clinici: incorporare le tecniche di psicoterapia positiva nei trattamenti con protocolli standard; in particolare l’efficacia è potenziata se parliamo di terapie individuali con pazienti gravemente depressi, relativamente anziani, motivati a migliorare e in grado di riprodurre le tecniche positive per periodi sempre più lunghi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La procrastinazione – Definizione di Psicopedia

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA

 IN COLLABORAZIONE CON:

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Una persona che procrastina mette in atto una forma di evitamento che gli permette di non entrare in contatto con le proprie insicurezze, paure e limiti. Così facendo non affronta una serie di preoccupazioni e non è costretto ad avere a che fare con le emozioni che ne derivano.

Ti è mai capitato di rimandare o di non riuscire a portare a termine delle attività? Indubbiamente è qualcosa che capita a tutti, ma con quale frequenza?
Sicuramente, c’è chi ritarda saltuariamente di fare qualcosa e chi invece costantemente rimanda qualsiasi impegno o scadenza. Chiaramente nel primo casa si tratta solo di un po’ di pigrizia, nel secondo, al contrario, abbiamo a che fare con la procrastinazione.

Una persona che procrastina mette in atto una forma di evitamento che gli permette di non entrare in contatto con le proprie insicurezze, paure e limiti. Così facendo non affronta una serie di preoccupazioni e non è costretto ad avere a che fare con le emozioni che ne derivano.

 

Procrastinazione: stile rilassato e stile preoccupato

Esistono almeno due stili differenti di procrastinazione, uno definito Rilassato e l’altro Preoccupato. Il procrastinatore rilassato è colui che evita le attività o incombenze ritenute noiose, routinarie. Intraprende molte attività con entusiasmo, ma venuto meno il fascino della novità tende a stancarsi e a mollare. ll procrastinatore preoccupato è invece colui che tende ad avere scarsa fiducia nelle proprie capacità, ha difficoltà a gestire lo stress ed è spesso tormentato da una serie di paure e idee irrazionali che non gli consentono di agire.

 

Le caratteristiche cognitive della procrastinazione

La procrastinazione, dunque, ha alla base alcune caratteristiche cognitive:

1. Il Perfezionismo: la persona non si sente in grado di affrontare un compito o un problema se non riesce a farlo in maniera perfetta. Non si sente mai abbastanza pronta o sufficientemente sicura delle proprie capacità, conoscenze o competenze.

2. Paura dell’insuccesso: molti rimandano all’infinito le cose che vorrebbero fare per paura di fallire. Questa paura può a volte essere talmente forte da bloccare qualsiasi tipo di iniziativa basando tale comportamento sulla convinzione che si otterrà sicuramente un fallimento e per questo non tenta neanche.

3. Paura del successo: chi ha paura del successo può essere una persona che sente di non meritarselo e quindi vive una sorta di senso di colpa oppure può avere il timore che gli altri poi si aspettino sempre delle prestazioni di successo da lei e quindi vive queste aspettative con forte ansia e stress.

4. Rabbia: spesso si tratta di una risposta  alle pressioni e aspettative altrui vissute come intollerabili. Se non riconosciuta può diventare un problema serio, che potrebbe invadere diversi ambiti della vita.

Insomma, la procrastinazione può portare a conseguenze disparate fino a, in casi estremi, compromettere il funzionamento globale di chi la mette in pratica costantemente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Dryden W. (2001). Rimandare, rinviare, procrastinare: sempre lo stesso vizio, Editori Riuniti.

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Tendenza al suicidio & difficoltà nel decision-making

Irene Rossi

 

Numerosi studi hanno evidenziato come il modo in cui una persona prende le decisioni è tra i principali fattori che determinano la vulnerabilità a comportamenti suicidari.

L’ultimo dei molti studi condotti dal Dr. Fabrice Jollant aiuta proprio a sottolineare la relazione esistente tra la difficoltà a prendere decisioni efficaci e la tendenza al suicidio. In particolar modo la tendenza a prendere decisioni ad alto rischio è prevalente non solo in molti degli individui che commettono suicidio ma anche tra i loro parenti di primo grado. Quest’ultimo dato permette di spiegare l’apparente “ereditabilità” di tale comportamento e può avere vantaggi utili per la prevenzione al suicidio.

Nella ricerca i pensieri e i comportamenti suicidari devono necessariamente essere studiati indirettamente. In precedenza il focus era posto completamente sui soggetti che avevano tentato il suicido, senza riuscirci, andando a indagare i pensieri che avevano portato all’atto. Allo scopo di capire la vulnerabilità al suicidio Dr Jollant e i suoi colleghi del Douglas Mental Health University Institute si sono invece focalizzati sui familiari più vicini alle persone che commettono suicidio, riuscendovi. I familiari delle persone che commettono suicidio difatti portano alcuni tratti associati alla vulnerabilità al suicidio, anche se non hanno mai espresso pensieri suicidari concreti e godono di buona salute mentale.

Uno dei test neuropsicologici impiegati per la valutazione dei familiari è un gioco di scommesse, dove i giocatori devono vincere più soldi possibile scegliendo le carte tra differenti mazzi. Alcuni mazzi hanno un livello di rischio maggiore di altri: alcune volte permettono di vincere cifre molto alte ma nella maggior parte dei casi portano a perdita, soprattutto a lungo termine. Altri mazzi sono più sicuri: le vincite sono piccole ma anche le perdite lo sono e questo permette di garantire una vincita a lungo termine. Ciò che è stato osservato è che mentre le persone che vengono da famiglie senza suicidi imparano a scegliere i mazzi più sicuri, i parenti di pazienti suicidari continuano a fare scelte ad alto rischio, anche dopo numerosi tentativi, dimostrando così una maggiore difficoltà ad apprendere dalle loro esperienze.

La risonanza magnetica funzionale ha confermato che una certa area della corteccia prefrontale, che è usata per prendere decisioni funziona differentemente in queste persone, similarmente a coloro che hanno tentato il suicidio. Il gruppo di ricerca del Dr. Jollant spiega questi dati con l’ipotesi che le persone che hanno tendenza a prendere decisioni rischiose propendono per soluzioni che procurano benefici a breve termine nonostante l’alto rischio, invece di soluzioni che sono più sicure e a lungo termine ed hanno difficoltà anche nell’ individuare soluzioni alternative quando devono affrontare un problema.

Questo permette di spiegare il collegamento tra capacità di pendere decisioni e suicidio: nel contesto di una depressione maggiore questa difficoltà a prendere buone decisioni possono tradursi nel scegliere la morte, che è una decisione che permette di mettere fine immediata alle sofferenze nonostante le conseguenze irreparabili, senza vedere alcuna soluzione alternativa.

I ricercatori propongono anche delle possibili soluzioni per i soggetti a rischio: oltre alla difficoltà nel prendere decisioni è stato trovato che i parenti vicini alle vittime di suicidio hanno performato molto bene in altri test che dimostrano una buona abilità nel gestire i propri pensieri. Questo fattore può controbilanciare la difficoltà nel prendere decisioni adeguate e fungere da fattore di protezione. L’idea è quindi quella di pensare dei percorsi di psicoterapia focalizzati sul migliorare la capacità di prendere decisioni ma anche sulle altre funzioni cognitive che, se rinforzate possono ridurre la vulnerabilità al suicidio.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La TDCS: una stimolazione – non stimolazione dalle grandi potenzialità

Giuseppe Murelli, Mara Compagnoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI 

La tDCS, nata in Italia e oggi usata in tutto il mondo, é una tecnica di facile applicazione con cui é possibile stimolare diverse parti del cervello in modo non invasivo, efficace, indolore e senza effetti collaterali significativi.

INTRODUZIONE

Oggi lo studio del cervello e del suo funzionamento sta progredendo sempre di più grazie alle tecniche di neuroimmagine e di stimolazione e modulazione cerebrale. I disturbi neuropsicologici congeniti, degenerativi o dovuti a traumi e ictus sono ormai all’ordine del giorno. Non solo la farmacologia ma anche la psicoterapia si é rivelata in grado di produrre modificazioni nel funzionamento cerebrale. Comprendere quindi tale funzionamento e i modi per favorirne il miglioramento sembra essere un obiettivo importante per interventi che spaziano dalla prevenzione e riabilitazione di deficit specifici al trattamento dei disturbi emotivi.
La tDCS (stimolazione transcranica a corrente diretta continua) potrebbe rappresentare un’importante risorsa in tale percorso, viste le sue capacità di modulazione dell’eccitabilità corticale in assenza di effetti collaterali di rilievo.

 

La tDCS e i suoi meccanismi

La tDCS, nata in Italia e oggi usata in tutto il mondo, é una tecnica di facile applicazione con cui é possibile stimolare diverse parti del cervello in modo non invasivo, efficace, indolore e senza effetti collaterali significativi (le più frequenti percezioni riscontrate sono un leggero pizzicorio/prurito/calore all’inizio della stimolazione nei punti in cui sono posizionati gli elettrodi). Nonostante sia una tecnica “giovane”, molti studi la indicherebbero come un possibile prezioso strumento per il trattamento di condizioni neuropsichiatriche quali depressione, ansia, morbo di Parkinson, demenza di Alzheimer, dolore cronico, dipendenze, riabilitazione post ictus o traumi.

La tDCS permette due tipi di stimolazioni: anodica e catodica. La stimolazione anodica provoca un’eccitazione dell’attività neuronale e quella catodica la inibisce o la riduce.
La stimolazione tDCS consiste in una debole corrente elettrica continua all’intensità costante di 1-2 mA, non percepibile dalla persona, che viene applicata allo scalpo tramite una coppia di elettrodi (uno eccitatorio, l’anodo, e uno inibitorio, il catodo) di 35 cm² di superficie. Gli elettrodi sono rivestiti da una spugna sintetica imbevuta di una soluzione salina per aumentare la conduttività (consentendo di attraversare le ossa craniche e raggiungere l’area cerebrale d’interesse) ed evitare possibili effetti fastidiosi causati dall’applicazione diretta di corrente.

A questo punto vengono inseriti all’interno di una cuffia di gomma (non conduttiva) che ne facilita il fissaggio sulla testa. Generalmente viene utilizzato un montaggio in cui l’elettrodo attivo viene posizionato sull’area che si intende stimolare mentre l’elettrodo di riferimento viene posizionato sull’area sovraorbitale controlaterale o in un’area non cefalica (ad esempio sulla spalla).

Questa tecnica, attraverso il flusso di corrente da un elettrodo all’altro, modifica i potenziali di membrana dei neuroni permettendo di modulare l’eccitabilità della corteccia cerebrale e quindi l’attività neuronale del cervello, aumentando o diminuendo la funzionalità dell’area stimolata (producendo effetti a livello cognitivo e comportamentale) per un tempo che permane oltre la durata della stimolazione. In particolare, la stimolazione anodica depolarizza i neuroni aumentando l’eccitabilità corticale dell’area stimolata, mentre la stimolazione catodica iperpolarizza i neuroni con effetti inibitori. Se la stimolazione viene ripetuta più volte é possibile rendere tali modificazioni più stabili e durature (Bolognini et al. 2009).

A differenza di altre tecniche (ad esempio la TMS) la tDCS eccitatoria non stimola gli assoni dei neuroni inducendoli a scaricare potenziali d’azione, poiché induce un cambiamento di potenziale (eccitabilità neuronale spontanea) lento e di lieve entità. In particolare gli effetti sembrano essere dovuti alla modificazione della conduttività dei canali di sodio e calcio e allo spostamento di gradienti elettrici che influenzano il bilancio ionico all’interno e all’esterno della membrana neuronale, modulandone la soglia di attivazione (Ardolino et al. 2005).

Questi effetti variano al variare di:
– Densità della corrente (rapporto tra intensità di corrente e dimensione dell’elettrodo)
– Direzione del flusso di corrente (dal catodo all’anodo o dall’anodo al catodo)
– Durata della stimolazione
– Geometria neuronale su cui agisce la stimolazione
– Caratteristiche del tessuto neuronale stimolato.

Studi farmacologici associati alla tCDS hanno rilevato che:
– La somministrazione di carbamazepina (farmaco sodio-antagonista che blocca i canali del sodio rallentando l’afflusso di ioni Na⁺ all’interno della membrana neuronale e riducendone così la depolarizzazione) elimina l’aumento dell’eccitabilità neuronale indotto dalla stimolazione anodica durante la stimolazione tDCS.
– Lo stesso effetto si produce somministrando flunarizina (farmaco calcio-antagonista che rallenta l’afflusso di ioni Ca²⁺ all’interno della membrana neuronale bloccando i canali calcio-dipendenti).
Gli effetti sull’eccitabilità corticale durante la stimolazione dipenderebbero cioè dall’azione sul potenziale di membrana attraverso l’azione sui canali del sodio e del calcio.
– Gli effetti post-stimolazione sono stati ridotti dalla somministrazione di destrometorfano (antagonista per i recettori dei canali NMDA, che una volta attivati fanno fluire ioni sodio e ioni calcio all’interno della membrana neuronale).
– Ne viene invece aumentata la durata somministrando D-cicloserina (parziale agonista per i recettori NMDA) (Nitsche et al. 2004).
Anche gli effetti che permangono una volta interrotta la stimolazione tDCS dipenderebbero quindi dall’azione sul potenziale di membrana attraverso l’azione sui canali ionici.

Le modificazioni prodotte diventano più stabili e durature (effetti a lungo termine) quando la stimolazione viene ripetuta molte volte (Bolognini et al. 2009). I meccanismi alla base di questa stabilizzazione degli effetti potrebbero includere la formazione di nuove sinapsi sfruttando i meccanismi di potenziamento a lungo termine (LTP) e depressione a lungo termine (LTD). Per questi processi sembra avere un ruolo importante il sistema del glutammato e in particolare i recettori NMDA.

 

tDCS, plasticità cerebrale e implicazioni per la riabilitazione

Quando si produce una lesione cerebrale, nell’area controlaterale corrispondente (che generalmente svolge la stessa funzione) si attivano meccanismi simili all’LTP, cosicché l’area intatta possa compensare quella lesionata (Bury & Jones 2002). Una lesione cerebrale perciò diminuisce l’attivazione dell’area lesionata e aumenta l’inibizione che l’area corrispondente nell’emisfero intatto (area rivale) esercita. É stato quindi proposto che un trattamento con la stimolazione tDCS efficace per i deficit post-lesione, soprattutto per i disordini motori primari, consista nell’aumento dell’eccitabilità dell’area lesionata (stimolazione anodica) e/o nell’inibizione dell’area intatta al fine di ridurne l’iperattivazione (stimolazione catodica).

 

tDCS e trattamento comportamentale per favorire la plasticità cerebrale

Gli stessi effetti di LTP ottenuti con la stimolazione tDCS si producono nell’area trattata a seguito di un trattamento comportamentale, anche in soggetti sani.
A questo punto si può ipotizzare che training comportamentale e tDCS condividano simili meccanismi d’azione per indurre quei fenomeni di plasticità cerebrale che sono alla base del recupero post-lesione cerebrale, per cui l’uso additivo della tDCS e la sua capacità di produrre effetti a lungo termine dovrebbe aumentare gli effetti della riabilitazione comportamentale.

Per questo motivo si può ragionevolmente supporre che la loro combinazione possa massimizzare i loro effetti individuali. Ciò poiché la stimolazione anodica faciliterebbe l’attivazione dei neuroni dell’area danneggiata mentre la stimolazione catodica ridurrebbe l’azione dell’area intatta e l’inibizione che questa esercita verso l’area lesionata attraverso le connessioni interemisferiche callosali. In un tale quadro il trattamento comportamentale qualora sia associato a stimolazione cerebrale non invasiva potrebbe produrre modificazioni corticali più intense, con conseguente ripresa funzionale maggiore della funzione trattata. Inoltre, considerando che i processi spontanei di riorganizzazione plastica dopo un ictus si riducono rapidamente fino ad esaurirsi in pochi mesi, la combinazione della stimolazione tDCS, e quindi l’induzione di meccanismi di riorganizzazione plastica aggiuntivi, potrebbe permettere di allungare la finestra temporale in cui é possibile somministrare positivamente il trattamento riabilitativo.
Gli studi mostrano che:
– Il beneficio funzionale in un setting riabilitativo dopo somministrazione della sola stimolazione tDCS é risultato limitato a circa il 10-20% (Talelli & Rothwell 2006).
– Anche il solo trattamento comportamentale, pur essendo fondamentale per promuovere il recupero, non é risultato totalmente efficace (ad esempio il 50-60% dei pazienti che hanno subito un ictus mantengono dei disordini motori residui che necessitano di una qualche forma di assistenza).
– Il trattamento combinato delle due tecniche potrebbe massimizzare i loro effetti individuali, poiché la tDCS preattiverà i circuiti neurali danneggiati in modo specifico, rendendoli più responsivi alla stimolazione riabilitativa comportamentale.

É importante osservare che la tDCS si configura come una tecnica estremamente promettente ma allo stesso tempo di semplice uso e priva di effetti collaterali qualora utilizzata seguendo le linee guida (Rossi et al. 2009).

 

Alcuni studi precedenti in cui é stata utilizzata la tDCS

Gli studi neuropsicologici con la tDCS non sono ancora numerosissimi, nonostante le potenzialità di questa tecnica, ma stanno pian piano aumentando.
Gli effetti della tDCS sono stati valutati rispetto a:
– Corteccia motoria:
La risposta dell’area motoria primaria (M1), valutata misurando i potenziali motori evocati, é risultata maggiore dopo una stimolazione tDCS anodica e minore dopo una stimolazione catodica (Lang et al. 2004). Numerose modificazioni sono state riportate anche a livello comportamentale.

– Corteccia visiva:
Il picco del potenziale visivo evocato N70 é aumentato dopo una stimolazione anodica e ridotto dopo una stimolazione catodica (Antal et al. 2004a).
Il picco del potenziale visivo evocato P100 viene ridotto dopo una stimolazione anodica e amplificato dopo una stimolazione catodica.
Modificazioni della percezione visiva sono state descritte, in termini sia di facilitazione che di inibizione.

– Corteccia somatosensoriale:
La stimolazione anodica della corteccia sensomotoria aumenta i potenziali sensomotori prodotti stimolando il nervo mediano destro (Matsunaga et al. 2004), mentre la stimolazione catodica li riduce lievemente (non le componenti ad alta frequenza) (Dieckhöfer et al. 2006).
La stimolazione catodica della corteccia somatosensoriale riduce la capacità di discriminazione tattile per la stimolazione vibratoria dell’anulare sinistro (Rogalewski et al. 2004).

– Funzioni cognitive:
La stimolazione anodica della corteccia prefrontale sinistra facilita la classificazione probabilistica implicita (Kincses et al. 2004) e le capacità della memoria di lavoro durante un compito di sequenziamento di lettere (Fregni et al. 2005).
La stimolazione catodica della corteccia prefrontale anteriore aumenta il comportamento ingannevole in compiti in cui si può scegliere se dire la verità o mentire. Ciò viene riscontrato parallelamente a tempi di reazione minori quando la risposta é falsa provando anche un senso di colpa minore (Karim et al. 2009).
La stimolazione anodica della corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra determina un miglioramento nella prestazione di un compito complesso di problem-solving verbale che richiede l’attivazione delle funzioni esecutive (Cerruti & Schlaug 2008).
La stimolazione anodica della corteccia prefrontale dorsolaterale, destra o sinistra, e catodica dell’area controlaterale riducono il rischio di comportamento impulsivo durante compiti ambigui di presa di decisione (Fecteau et al. 2007).
La stimolazione catodica della corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra durante le fasi iniziali di apprendimento del test della Torre di Londra, e la stimolazione anodica della stessa area nelle fasi successive in cui lo svolgimento del test é stato appreso, producono un miglioramento della prestazione. La stimolazione catodica iniziale sembra funzionare come un riduttore di rumore neuronale che facilita l’acquisizione delle funzioni esecutive alla base del test della torre di Londra, mentre la stimolazione anodica successiva faciliterebbe l’attivazione dei neuroni che hanno ormai stabilito una configurazione di connessioni neuronali funzionale (Dockery et al. 2009).

Dal punto di vista neuropsicologico, gli effetti benefici della tDCS sono stati dimostrati principalmente per la negligenza spaziale unilaterale (Sparing et al. 2009), e nel trattamento dell’afasia (Monti et al. 2008).

 

La stimolazione magnetica transcranica (TMS)

La TMS è una tecnica di stimolazione cerebrale non invasiva basata sul principio dell’induzione elettromagnetica, che può essere usata sia per studiare la relazione tra cervello e comportamento che per esplorare l’eccitabilità di differenti regioni cerebrali.

Il meccanismo di azione della TMS utilizza un impulso di corrente elettrica, che passando attraverso una bobina di metallo (usualmente rame) genera un campo magnetico. I moderni apparecchi per la stimolazione magnetica utilizzano un condensatore connesso a una bobina stimolante contenente una spirale (coil), che può essere appoggiata direttamente sullo scalpo permettendo una più semplice stimolazione mirata. Da essa fluisce un campo elettromagnetico di elevata potenza (da 0.2 a 4.0 T) e breve durata (~200 µs) che attraversa i tessuti cutanei, muscolari e ossei del cranio, e raggiunge la corteccia cerebrale inducendo una corrente elettrica transitoria capace di elicitare potenziali d’azione, che causa la depolarizzazione delle membrane cellulari (Barker et al., 1987; 1985) e la depolarizzazione transinaptica della popolazione di neuroni corticali.
Un’interessante proprietà della TMS é che la stimolazione prolungata produce un blocco temporaneo e reversibile della funzione dell’area corticale sottostante al punto di posizionamento della bobina. Questa tecnica è tuttora utilizzata in laboratorio per simulare e studiare le conseguenze di una disattivazione temporanea di specifiche aree cerebrali sull’esecuzione di compiti cognitivi complessi (ad esempio rispetto al linguaggio, al movimento, all’attenzione…), e quindi conoscerne meglio il ruolo funzionale (ad esempio la TMS può rappresentare un’alternativa semplice e non invasiva al test di Wada).

 

TDCS vs TMS

Sia la tDCS che la TMS sembrano portare a risultati simili: la possibilità di modificare l’eccitabilità corticale e la conseguente (ri)modulazione dei meccanismi di rilascio e reuptake dei neurotrasmettitori.
La differenza principale sta nel fatto che la TMS, attraverso la produzione di campi magnetici, induce campi elettrici in grado di elicitare potenziali d’azione, che a loro volta portano a dirette modificazioni della risposta neuronale (depolarizzazione corticale e scarica dei neuroni in caso di stimolazione eccitatoria o iperpolarizzazione corticale in caso di stimolazione inibitoria). La tDCS, invece, produce deboli campi elettrici che inducono nel cervello correnti elettriche di bassa o bassissima intensità, capaci di modulare il potenziale di membrana dei neuroni in modo da facilitare (stimolazione eccitatoria) o inibire (stimolazione inibitoria) la scarica neuronale, che non viene mai direttamente indotta.
Altre differenze tra le due tecniche riguardano aspetti “pratici”: la TMS è focale e quindi precisa nell’induzione degli effetti ma d’altro canto più costosa, più complessa nell’utilizzo e, a causa del campo magnetico che viene creato, attualmente é sconsigliata ai portatori di pacemaker e di protesi acustiche, a chi “indossa” delle protesi metalliche craniofacciali di ricostruzione e alle donne in gravidanza; é controindicata in particolar modo per chi soffre di epilessia o presenti una storia clinica con simili episodi.
La scelta tra le due tecniche va quindi fatta di volta in volta a seconda del caso specifico, valutando con attenzione il rapporto costi-benefici.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Ci emozioniamo leggendo in una seconda lingua?

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati 

 

Se leggiamo di qualcuno che sorride ed è felice, sorridiamo a nostra volta, senza accorgercene, e la stessa reazione avviene per altre emozioni. Se però il testo non è nella nostra lingua madre, ma in una seconda lingua, allora mente, e corpo, reagiscono in maniera più blanda.

Questo effetto, pensa Francesco Foroni, autore di un nuovo studio che lo ha osservato per la prima volta, potrebbe dipendere dalla differenza nelle modalità in cui impariamo la lingua madre e la seconda lingua. Ne “la Storia infinita”, Bastiano si fa talmente coinvolgere dalla narrazione, che finisce per provare le stesse emozioni dei personaggi (e alla fine entra per davvero dentro il libro). Quel che accade al protagonista del libro di Micheal Ende è esattamente quello che accade a ognuno di noi quando leggiamo un romanzo o un racconto: ripetiamo, letteralmente, processi fisiologici e le emozioni dei personaggi descritti nel testo.

Francesco Foroni, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste ha dimostrato questo fenomeno già qualche anno fa in uno studio pubblicato su Psychological Science (2009). In un nuovo studio, pubblicato su Brain and Cognition, ora mostra cosa accade quando leggiamo in una lingua acquisita in età adulta. [blockquote style=”1″]L’interpretazione di questi fenomeni fa capo alla corrente teorica dell’embodiment: quando processiamo informazioni di natura emotiva, il nostro organismo ‘mima’ le emozioni specifiche, mettendo in atto gli stati fisiologici caratteristici di questa emozione[/blockquote] spiega Foroni.

Questo significa, spiega ancora lo scienziato, che quando leggiamo di una persona felice, sorridiamo, se invece il personaggio è arrabbiato, aggrottiamo la fronte (nella maggior parte dei casi queste espressioni sono impercettibili e non ne siamo necessariamente coscienti). [blockquote style=”1″]Il fenomeno è molto intenso quando leggiamo nella nostra lingua, ma secondo il mio nuovo studio, se leggiamo in una seconda lingua, imparata successivamente alla lingua madre, allora questa risposta fisiologica, pur non sparendo del tutto si attenua drasticamente[/blockquote].

Foroni ha misurato le espressioni facciali (con un’elettromiografia, una tecnica che registra l’attivazione dei muscoli) di 26 soggetti mentre leggevano dei testi in inglese. I soggetti erano madrelingua olandese, e avevano imparato l’inglese a scuola dopo i dodici anni di età. A differenza che con la lingua madre le espressioni facciali dei soggetti in risposta alla lettura di informazioni riguardanti le emozioni erano molto più sfumate. Il risultato è in accordo con le teorie dell’embodiment: secondo questo approccio infatti normalmente impariamo le parole associate alle emozioni “di prima mano”, in contesti emozionali (la mamma che ci sorride mentre ci chiede di farle un sorriso, per esempio), mentre la seconda lingua viene normalmente acquisita in ambienti più “freddi” e con metodi formali, a scuola per esempio.

In questo modo l’associazione fra la parola che rappresenta l’emozione e il vissuto dell’emozione stessa è molto più labile [blockquote style=”1″]da qui le risposte molto più diluite che ho osservato nel mio studio.[/blockquote] L’osservazione ha alcune implicazioni. [blockquote style=”1″]Pensate per esempio alle situazioni in cui gli individui devono prendere decisioni. La letteratura dice che quando siamo influenzati dalle emozioni tendiamo a essere meno razionali e prendere decisioni che non sono basate su una corretta valutazione del problema. È possibile che trovarsi in un contesto che implica l’uso di una seconda lingua possa cambiare il tipo di decisioni che vengono prese limitando il potenziale impatto negativo delle emozioni[/blockquote] spiega Foroni.

 

 

Maggiori informazioni sulla SISSA

 

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LINK UTILI: • Articolo originale su Brain and Cognition: http://goo.gl/LmJ0uY

Il parenting nelle famiglie non tradizionali

 

Negli ultimi anni si è iniziato ad esplorare il tema del parenting in relazione alle profonde trasformazioni della famiglia. Il dibattito sulle famiglie separate, ricostruite, monoparentali, omoparentali ha aperto il campo alla riflessione sul parenting nelle diverse tipologie familiari.

Il tema del parenting è da sempre un ambito di interesse della filosofia, della pedagogia, della sociologia e le attuali trasformazioni della famiglia riprendono questa area di interesse, riproponendo riflessioni storiche legate alla comprensione del ruolo genitoriale, delle funzioni, degli stili e delle competenze genitoriali (Benedetto, Ingrassia, 2010).

L’attenzione verso il ruolo del genitore, in ogni epoca storica, è servito per supportare modelli di vita ed educazione sociale considerati favorevoli ad un percorso di crescita psico-socio-culturale del figlio basato su uno sviluppo positivo e armonioso.
In psicologia, Winnicott, Bowlby, Stern sono i primi ad aver rilevato l’importanza della qualità delle cure materne nei processi di formazione del sistema psichico (Bowlby, 1989; Stern, 1985, 2004; Winnicott 1968) e gli effetti della deprivazione relazionale o delle cure disfunzionali.

Il tema del parenting ha subito lo stesso destino di altri importanti temi in psicologia: le prime definizioni si sono concentrate su modelli lineari legati ad una logica causa- effetto ( Bornstein, 2002; Baumrind, 1991), individuando comportamenti genitoriali responsabili dei processi di sviluppo fisico, emotivo e sociale del bambino, a cui sono seguiti modelli sistemico-circolare ( Belsky,1984; Novak, 1996). In particolare, Bornstein ha approfondito il ruolo del genitore nella quotidianità, osservando le specificità del ruolo di accudimento come la capacità del genitore di organizzare esperienze, di determinare spazi e opportunità educative che promuovono lo sviluppo fisico, emotivo, sociale e intellettuale dei figli, mentre Belsky (1984) e Novak (1996) hanno rilevato le diverse variabili legate allo sviluppo del comportamento genitoriale.

In realtà, lo studio del parenting si avvale sia dei modelli lineari che permettono l’analisi e la definizione delle specifiche funzioni genitoriali, sia di quelli sistemici che mettono in relazione le diverse variabili all’interno del fenomeno studiato.
Il parenting, infatti, è un concetto che si presenta in continua trasformazione in relazione alle trasformazioni sociali della famiglia, alla molteplicità dei legami famigliari presenti e ai mutamenti sociali, storici ed economici.

Il parenting è un concetto dinamico e flessibile anche da punto di vista individuale: è influenzato dalla storia personale di ogni partner, dalle caratteristiche di personalità, dalle relazioni di coppia, ma anche dall’aspettativa e dalla rappresentazione sociale che ciascuno ha rispetto al ruolo genitoriale, dagli eventi normativi o critici, dai sistemi di credenze personali e famigliari. Dal punto di vista socio-culturale il parenting, invece, è condizionato dalle culture di riferimento, dalle credenze collettive sui sistemi di accudimento, dai modelli di organizzazione famigliare.
Quindi il parenting è un concetto complesso, che non si presenta in modo statico, definito con un unico modello di riferimento, bensì flessibile e suscettibile dei cambiamenti legati alla storia della persona, alla vita famigliare e socio-culturale. In particolare il parenting è un costrutto che presenta caratteristiche specifiche in funzione delle diverse tipologie famigliari. Si trasforma nel caso delle famiglie separate nel passaggio da famiglia coniugale a monoparentale, nel caso di famiglie ricomposte nel processo di assunzione della co-genitorialità (Lavadera, Di Benedetto, Malagoli Togliatti, 2008), nel caso di famiglie adottive che accolgono figli con un’ origine diversa nel processo di integrazione delle appartenenze famigliari diverse ( Paradiso, 2015), nelle famiglie affidatarie nel processo di accoglienza e sostegno di un bambino che momentaneamente non può vivere nella sua famiglia, nel caso di famiglie migranti nei processi di integrazione culturale (Super e Harkness, 1986, Volpini, 2011) o di famiglie con figli portatori di handicap nel percorso di sostegno del figlio nell’accettazione e gestione della propria disabilità.

In ciascuna realtà famigliare i genitori sono chiamati a sviluppare funzioni genitoriali specifiche legate alle peculiarità del ciclo di vita della famiglia e dei compiti di sviluppo relativi, a fianco delle funzioni e competenze legate al parenting nella famiglia tradizionale che riguardano il percorso di sviluppo del figlio, in relazione alle tappe di sviluppo emotivo-cognitivo- sociale e culturale e quindi ai bisogni di sviluppo del bambino.
Quindi, ogni tipologia famigliare, proprio perchè è chiamata a far fronte a compiti di sviluppo specifici della propria realtà famigliare, sviluppa un parenting specifico. La peculiarità del ciclo di vita della famiglia modifica le realtà famigliari rendendo necessario l’esercizio di un ruolo genitoriale coerente con i bisogni dei figli, i cambiamenti e le transizioni famigliari.

L’osservazione clinica dimostra che le criticità famigliari nella relazione genitori-figli dipendono da un parenting che non è orientato ai compiti di sviluppo specifici della famiglia in oggetto e ai bisogni evolutivi dei figli, sia nella famiglia tradizionale, sia in quella non tradizionale.
L’analisi delle peculiarità del parenting nelle diverse tipologie famigliari è un aspetto importante dell’intervento psico-sociale di comunità poiché rappresenta la possibilità concreta per promuovere e sviluppare programmi di preparazione, di sviluppo, di sostegno e di valutazione delle competenze genitoriali, orientati ad una logica di sviluppo del benessere famigliare e della salute del bambino.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Danza e psicologia: esiste una relazione tra lo stile e il genere della danza e i tratti di personalità?

Marika Ferri

 

L’esperienza di molti danceurs suggerisce che il genere di danza praticato riveli affinità personali con determinati “ruoli sociali e psicologici” di alcune tipologie di ballo.

Studi di ricerca (Luck G.& Saarikallio, Suvi & Thompson, Marc & Burger, Birgitta & Toiviainen, 2010; Luck G. & Saarikallio, Suvi & Burger, Birgitta &Thompson, Marc & Toiviainen, 2010; Burger, Birgitta & Thompson, Marc & Saarikallio, Suvi & Luck, Geoff & Toiviainen, 2010) evidenziano che stile e genere siano due caratteristiche influenzate da alcuni tratti di personalità.

[blockquote style=”1″]Il movimento rivela molte cose diverse. E’ il risultato della tensione verso un oggetto a cui si attribuisce valore, oppure di uno stato mentale. La sua forma e il suo ritmo mostrano la disposizione della persona che si muove in quella particolare situazione. Può caratterizzare uno stato d’animo momentaneo e una reazione fugace, così come dei tratti costanti di una personalità.[/blockquote]

Rudolf Von Laban

Nel 1900 il ballerino e coreografo Rudolf Von Laban (Doerr E., 2009), padre fondatore della dance-therapy e della DMT-Danza Movimento Terapia- teorizza l’ipotesi di un legame tra azione motoria e stati emotivi definendo la danza uno strumento atto a rivelare molte caratteristiche individuali, come gli stati d’animo e tratti di personalità. Certo, una tale affermazione genera molti dubbi riguardanti la conferma scientifica di tale ipotesi, ma dobbiamo tenere in considerazione che stiamo parlando di danza. E’ attività sportiva? Arte? Altro? Esistono infiniti idiomi di cui dover parlare.
Inoltre risaliamo al 1900, quando la psicanalisi deteneva le redini del mondo psichico.

Sicuramente sarebbe alquanto semplicistico e riduttivo pensare che una donna che pratica danza del ventre o kizomba -il “nuovo tango africano”che sta conquistando le piste da ballo- sia anche sessualmente seduttiva nei confronti degli uomini, ma è anche vero, però, che la scelta individuale del genere di ballo a cui dedicarsi può rivelare una maggiore o minore sintonia con certi “ruoli sociali e psicologici” rappresentativi di alcune tipologie di ballo.

Tale ipotesi fa riferimento a due approcci alla danza (Billmann F.S., 2011): la prima (Sachs C., 1994) prende in considerazione il ballo come espressione artistica strettamente connessa alle nostre radici culturali: in tutte le epoche infatti, il ballo è sempre stato una componente essenziale della vita umana, era parte e forma di ringraziamento e celebrazione di cerimonie liturgiche, di nascite e riti propiziatori (raccolti, cambi di stagione). Ballare al suono dei ritmi tribali permetteva agli uomini di sintonizzarsi con la propria dimensione spirituale.

Il secondo approccio, squisitamente psicologico, fa riferimento alla Teoria sul Sintomo (Freud, 1926): per Freud il sintomo ha una funzione di messaggio in quanto rappresenta un modo con cui l’essere umano cerca di avviare una forma di comunicazione con l’altro; la danza ha questa stessa funzione, di messaggio concretizzato attraverso il corpo a seguito di un input musicale.
Secondo Freud il sintomo ha anche un’altra funzione, di metafora, cioè sintomo come segno e sostituto di un soddisfacimento pulsionale mancato. Quindi potremmo pensare alla danza come un “sintomo” che tenta di sostituire altro.

Riflettendo su questa funzione della danza facciamo l’esempio di un disagio interiore derivato da stati emotivi negativi come la tristezza, la rabbia o l’ansia che l’individuo cerca di eliminare o diminuire ballando. Pensiamo poi al clima di “allegria” trasmesso dalla musica dei balli latino-americani e dei balli da sala, oppure alla carica energetica trasmessa da musiche hip-hop o rock.
Oppure a un bisogno da soddisfare inerente la costruzione della propria identità, come quello di accettazione da parte degli altri, validazione del sé, di status o di centralità psicologica che si tenta di conquistare attraverso la pratica del ballo, magari svolgendolo a livello professionale. Faccio riferimento alla danza classica o contemporanea, con le caratteristiche di perfezionismo, precisione e dedizione richieste ai ballerini che le praticano e che spesso ritroviamo nei loro costrutti nucleari di personalità.
Ed ancora un desiderio inappagato relativo ai ruoli sessuali, alla propria sensualità o alla relazione in generale nei confronti dell’altro sesso, che ritroviamo in tutti i balli di coppia, ma soprattutto nel tango argentino.

Partendo da queste considerazioni, presupponendo che la musica evoca forti emozioni nell’individuo che l’ascolta e che tali emozioni possono essere espresse attraverso il corpo, uno studio ha indagato la relazione esistente tra tratti di personalità e stile di ballo (Luck G.& Saarikallio, Suvi & Thompson, Marc & Burger, Birgitta & Toiviainen, 2010; Luck G. & Saarikallio, Suvi & Burger, Birgitta &Thompson, Marc & Toiviainen, 2010). I ricercatori hanno selezionato 60 soggetti con i punteggi più alti ai test di personalità e hanno registrato in digitale i loro movimenti corporei, attraverso la tecnologia motion-capture, mentre ballavano spontaneamente diversi generi musicali -techno , latino, pop , funk e rock-.

E’ stato poi possibile raggruppare e classificare i movimenti in base a cinque tratti di personalità;
i tratti di personalità individuati fanno riferimento alla teoria dei fattori di Eysenck (Eysenck, S.B.G., Eysenck, H.J., Barrett, P., 1985) nella quale gli estroversi, ricercano stimolazioni esterne per ottenere un certo livello di stimolazione e gli introversi tendono ad evitare la stimolazione esterna per evitare un eccesso di stimolazione interna:
-Tratto estroversione: legato a soggetti che esprimono molta energia nel ballo e valorizzano i movimenti della testa e delle braccia soprattutto quando ballano musica rock;
-Tratto apertura: legato a movimenti ritmici in verticale e uniformi quando ballano musica techno.
-Tratto coscienziosità: i soggetti che appartengono a questa categoria compiono movimenti ampi delle mani e tendono a invadere lo spazio della pista da ballo;
-Tratto gradevolezza: legato a movimenti lenti e deboli delle mani, a spostamenti corporei destra/sinistra, quando ballano ritmi latini;
-Tratto nevrosi: i soggetti danzano in uno spazio contenuto e compiono movimenti a scatti quando ballano musica rock;
-Tratto introversione: mostrato da soggetti che esprimono un certo contenimento nell’espressione dell’emotività mentre ballano; tale tratto appartiene soprattutto ai ballerini professionisti, i quali sembrerebbero concentrare l’espressività emotiva durante le esibizioni.
Da questa ricerca è emerso che lo stile di ballo è influenzato dai tratti di personalità.
Inoltre lo studio ha evidenziato che esiste una correlazione tra i diversi tratti di personalità e diversi modi di rispondere a particolari generi musicali (Burger, Birgitta & Thompson, Marc & Saarikallio, Suvi & Luck, Geoff & Toiviainen, 2010) .

Alcuni elementi in comune con questo studio emergono da una recente inchiesta (Corriere Adriatico, 2015), condotta dagli ideatori del famoso gioco Just Dance 2015 su 100 esperti di danza con metodologia WOA -Web Opinion Analysis- indagando atteggiamento e modalità di relazione dei soggetti che praticano un certo genere di ballo, il loro look , l’attenzione verso la forma fisica e la loro cultura musicale.
I ballerini di latino-americano sembrano essere quelli con un atteggiamento caratterizzato da temperamento gioioso (70%), carisma (54%), estroversione (52%) allegria (46%), socievolezza (85%), emotività e visione colorata del mondo (63%). Inoltre hanno un look curato ed eccentrico (61%).

I ballerini che praticano hip hop, evidenziano un profilo che sembra essere opposto a quello dei precedenti ballerini in termini di socievolezza, estroversione e tenderebbero a fare gruppo solo con coloro che praticano lo stesso tipo di danza. Evidenzierebbero, inoltre, una ideologia ribelle e rivoluzionaria(42%).
I ballerini di rock’n’roll tenderebbero anche loro a ballare con amanti dello stesso genere musicale (53%). La danza, per loro, rappresenta un mezzo di affermazione delle proprie idee (34%) . Inoltre amano presentarsi con un look alternativo(62%). Perfezionismo (88%), capacità di concentrazione (75%), dedizione all’ allenamento (63%) e preoccupazione per la forma fisica (84%) sono invece alcune caratteristiche evidenziate dai ballerini di danza moderna.
Da questo studio si evidenzia che il genere di danza praticata è influenzato da specifiche caratteristiche di personalità (91% dei soggetti).

Al termine di questa rassegna possiamo dire che Rudolf Von Laban ha avuto delle buone intuizioni sulla relazione tra tratti di personalità , stile di ballo e genere di danza praticata.
E voi… quale ballo scegliereste di praticare?

 

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BIBLIOGRAFIA:

Mindfulness, imagery e la creazione di falsi ricordi

Irene Rossi

 

Quando i ricordi di esperienze immaginate si avvicinano molto alle esperienze reali si possono avere difficoltà nel determinare quale sia un ricordo reale e quale immaginato, portando in questo modo alla creazione di falsi ricordi.

La mindfulness è un concetto ormai largamente usato in ambito accademico, clinico e sociale. Può essere definita come una modalità di prestare attenzione, momento per momento, al qui ed ora, in modo intenzionale e non giudicante, al fine di ottenere una maggiore consapevolezza della propria esperienza immediata.

Da tempo è stato dimostrato come la pratica della mindfulness sia associata a numerosi benefici per la mente e il corpo, tuttavia una nuova ricerca, pubblicata su Psychological Science, ha messo in evidenza un’inattesa conseguenza di tale pratica: può portare ad una riduzione dell’accuratezza della memoria con difficoltà nel distinguere eventi realmente accaduti da quelli solo immaginati. Alcune memorie originano da fonti esterne, ovvero da esperienze effettive e concrete come potrebbe essere ad esempio mangiare un piatto di pasta; mentre altre originano da fonti interne, come accade se si immagina di mangiare un piatto di pasta.

Quando i ricordi di esperienze immaginate si avvicinano molto alle esperienze reali si possono avere difficoltà nel determinare quale sia un ricordo reale e quale immaginato, portando in questo modo alla creazione di falsi ricordi. Per indagare se la mindfulness possa portare a confusione sull’origine di un ricordo i ricercatori hanno condotto una serie di 3 esperimenti.

Nei primi due, i partecipanti sono stati selezionati in modo casuale per partecipare a un particolare esercizio guidato della durata di 15 minuti. I soggetti del primo gruppo erano istruiti a focalizzare la loro attenzione sul respiro, senza alcun giudizio, secondo la metodologia mindfulness, mentre a quelli nel secondo gruppo era richiesto di pensare a qualsiasi cosa venisse loro in mente nell’arco di 15 minuti da trascorrere in silenzio. Nel primo esperimento, dopo l’esercizio guidato, ai partecipanti è stata fatta studiare una lista di 15 parole legate semanticamente al concetto di spazzatura, nonostante la lista non includesse propriamente la parola “spazzatura”. Ai partecipanti è poi stato chiesto di richiamare più parole possibili tra quelle studiate. I risultati hanno rivelato che il 39% dei partecipanti al gruppo mindfulness avevano maggiori falsi ricordi, in quanto riportavano tra gli stimoli anche la parola “spazzatura”, riportata solo dal 20% dei soggetti del secondo gruppo.

Nel secondo esperimento i partecipanti hanno completato un compito di richiamo sia prima di sottoporsi all’esercizio guidato di mindufuless o di “pensiero libero”, sia dopo. I dati hanno mostrato che i partecipanti avevano più facilità a rievocare erroneamente la parola critica “spazzatura” dopo la mindfulness piuttosto che prima.

Nel terzo esperimento i soggetti dovevano determinare se una parola era già stata presentata in una lista di parole cui erano stati esposti precedentemente: alcune delle parole erano state effettivamente già presentate mentre altre non lo erano ma erano legate semanticamente con le parole presentate. Sia i partecipanti che avevano svolto la seduta di mindulness che quelli che non l’avevano svolta hanno mostrato un’alta accuratezza nel riconoscere le parole che erano state effettivamente presentate.

Tuttavia i partecipanti avevano una maggior tendenza a fare falsi riconoscimenti per le parole non presentate dopo aver completato l’esercizio di mindfulness. Tutti questi risultati suggeriscono quindi che la mindulness può ostacolare i processi cognitivi che contribuiscono ad identificare correttamente la sorgente dei ricordi. Dopo la mindfulness i ricordi per esperienze solo immaginate diventano più simili a memorie di esperienze effettive, in questo modo le persone hanno più difficoltà a discriminare se le esperienze siano reali o meno.

 

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Non mi piace! (o quasi) un nuovo tasto per esprimere empatia su Facebook

Un tasto per essere vicini, nelle difficoltà, ai nostri amici di Facebook potrebbe essere in arrivo. L’empatia diventa virtuale?

Dopo numerose insistenze da parte degli utenti di Facebook, Mark Zuckerberg si è espresso sull’eventuale lancio, nel famoso social network, del tasto ‘Non mi piace’.

In realtà, Zuckerberg si dice ben lontano dal trasformare Facebook in un forum dove valutare negativamente gli status altrui e, al contrario, propone qualcosa di più: un tasto per far sentire la nostra vicinanza agli amici che condividono stati relativi a momenti particolarmente tristi della loro vita o stati su infauste notizie d’attualità.

L’empatia diventa virtuale dunque: quali saranno gli effetti del nuovo tasto? Ci sarà un’esplosione di post tragici al solo fine di ottenere maggiore visibilità o finalmente avremo un modo per porre l’attenzione su argomenti delicati e per sentire il sostegno degli altri nei nostri momenti più difficili? Nell’attesa di scoprirlo e per saperne di più vi rimando alla lettura dell’articolo consigliato.

Mr. Zuckerberg said Facebook has found that users don’t want to vote down others, but would like to express support  when someone shares something sad, such as news about a family member dying or an article about the refugee crisis. ‘What they really want is an ability to express empathy’ Mr. Zuckerberg. ‘If you’re expressing something sad… it may not feel comfortable to ‘like’ that post, but your friends and people want to be able to express that they understand’.

 

CONTINUA DOPO IL VIDEO:

 

Facebook Plans a ‘Dislike’ Button, but Only for Empathy, Zuckerberg SaysConsigliato dalla Redazione

Facebook is working on something akin to a dislike button, CEO Mark Zuckerberg said. (…)

Tratto da: WSJ

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Attaccamento disorganizzato: predittore dei disturbi psicologici nell’arco di vita

Costanzo Frau, Psicologo Psicoterapeuta.

 

L’attaccamento disorganizzato è il maggior predittore dei disturbi psicologici nell’arco di vita. Diversi studi hanno confermato che esiste una relazione tra l’attaccamento disorganizzato nell’infanzia e la dissociazione patologica nell’età adulta.

Questo pattern di attaccamento può portare ad un modello operativo interno frammentato come risultato di un’esperienza traumatica con il caregiver. In accordo con il modello teorico di Bartholomew abbiamo preso in considerazione i pazienti con un attaccamento “Evitante-Spaventato” (ansia ed evitamento elevati). Nella valutazione con i self-report questo pattern di attaccamento è quello che si avvicina maggiormente a quello che nella Adult Attachment Interview (AAI) è definito “con traumi o lutti non risolti”.

L’obiettivo della nostra ricerca era quello di indagare la relazione tra patterns specifici di attaccamento, tratti di personalità, sintomi dissociativi e credenze disfunzionali collegate all’ansia.

Il campione era composto da 35 pazienti afferenti ad un Centro di Salute Mentale. Al momento della valutazione tutti i pazienti avevano già ricevuto una diagnosi psichiatrica. Ad ogni soggetto è stata somministrata una batteria di test che comprendeva: Attachment Style Questionnaire (ASQ) per valutare l’attaccamento, il Dissociative Experience Scale (DES) per valutare i sintomi dissociativi, il NJRE Questionnaire, la SCID-II e lo Young Schema Questionnaire per valutare i disturbi di personalità, La scala per l’Intolleranza dell’Incertezza e il Responsibility Attitude Scale per valutare le credenze disfunzionali collegate all’ansia.

I risultati hanno evidenziato una correlazione tra gli stili di attaccamento con ansia ed evitamento elevati, i sintomi dissociativi e le credenze correlate all’ansia. In aggiunta è emersa una correlazione significativa tra l’Attaccamento Evitante-Spaventato e gli schemi rigidi e coartati identificati tramite lo Young Schema Questionnaire. Dai dati emersi si potrebbe ipotizzare un collegamento tra lo stile di attaccamento con ansia ed evitamento elevati, i sintomi dissociativi e la personalità rigida e coartata. I pazienti con questo stile di attaccamento, diversamente da quanto ipotizzato, non hanno mostrato punteggi più elevati al test di valutazione della Not Just Right Experience (la sensazione che qualcosa non è come dovrebbe essere). Future ricerche potrebbero indagare i livelli di dissociazione e di NJRE in un campione più ampio di pazienti con attaccamento disorganizzato utilizzando la Adult Attachment Interview, per verificare se soggetti presentino entrambi i fenomeni.

 

La ricerca pubblicata:

 

Attaccamento evitante-spaventato, sintomi dissociativi e credenze psicopatologiche relative all’ansia

Costanzo Frau*, Riccardo Navarra**, Chiara Caruso***, Matteo Giovini****

[accordion title1=”About the authors” text1=”*Studio di Psicologia Cognitiva e Comportamentale, Cagliari, Italy. **Dipartimento di Neuroscienze e Imaging, Università “G. d’Annunzio”, Chieti, Italy. ***Studi Cognitivi, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, San Benedetto del 
Tronto, Italy. ****Studi Cognitivi, Modena, Italy, Azienda U.S.L di Modena, Italy.
” ]

 

Abstract (italiano)

Alcuni studi longitudinali prospettici hanno evidenziato una propensione maggiore alla dissociazione in bambini e adolescenti con storie di attaccamento disorganizzato nella prima infanzia. Nonostante ciò rimane poco chiara la relazione tra questi due costrutti e la strutturazione della personalità patologica. La nostra ricerca ha voluto mettere a confronto, tramite dei questionari autosommini- strati, la relazione esistente tra gli stili di attaccamento organizzato/disorganizzato, tratti di personalità, sintomi dissociativi e credenze psicopatologiche relative all’ansia. Il campione comprendeva 35 pazienti afferenti ad un Centro di Salute Mentale. Dai dati finali emerge una correlazione tra stili di attaccamento con ansia ed evitamento elevati, sintomi dissociativi e credenze legate all’ansia. È emersa inoltre una associazione signi- ficativa tra lo stile di attaccamento “evitante-spaventato” e il disturbo di personalità os- sessivo-compulsivo. Questi risultati suggeriscono che questo stile di attaccamento, oltre a presentare una relazione con la sintomatologia dissociativa, potrebbe essere il precur- sore di una struttura di personalità rigida e coartata.

Parole chiave: attaccamento, dissociazione, not just right experience, personalità osses- sivo-compulsiva, credenze psicopatologiche dell’ansia.

 

Abstract (English)

Avoidant-fearful attachment, dissociative symptoms and dysfunctional beliefs related to anxiety.

Disorganized attachment is the greatest predictor of psychological disorders over life. Several studies confirmed the hypothesis of a relationship between disorganized attachment in infancy and pathological dissociation in adulthood. This pattern of attachment would lead to internal working models fragmented and incompatible with each other as a result of traumatic experience with the caregiver. According to the model of Bartholomew we considered patients with “Avoidant-Fearful” attachment (high anxiety and avoidance). Using self-report measures this pattern is the most similar to the disorganized attachment classified by AAI as “Unresolved for loss or injury”. Our research aimed to investigate the relationship between specific patterns of attachment, personality traits, dissociative symptoms and dysfunctional beliefs related to anxiety.

The sample included 35 patients referred to a mental health center. At the time of evaluation all patients had a psychiatric diagnosis. A battery of tests was administered to each subject: the Attachment Style Questionnaire to assess attachment, the Dissociative Experience Scale to assess dissociative symptoms, the NJRE Questionnaire, the SCID-II and the Young Schema Questionnaire to assess personality disorders, Intolerance of Uncertainty Scale and Responsibility Attitude Scale to assess dysfunctional beliefs related to anxiety.

Results show a correlation between attachment styles with high anxiety and avoidance, dissociative symptoms and beliefs related to anxiety. In addition they show a significant relation between “Avoidant-Fearful” attachment style and rigid schemas and coercion identified by the Young Schema Questionnaire. Findings suggest that attachment style with high anxiety and avoidance, as well as presenting a relation with dissociative symptoms, could be the precursor of a rigid and constricted personality. Patients with a fearful-avoidant attachment were not found to score higher on tests that evaluated the Not Just Right Experience (the feeling that something is not as it should be) in spite of our hypothesis that the sense of unworthiness and pathological responsibility of the patients with a disorganized attachment corresponds to the construct of NJRE. Future research could investigate levels of dissociation and NJRE in a larger sample of patients with disorganized attachment assessed by the Adult Attachment Interview, in case subjects present both phenomena.

Keywords: attachment, dissociation, not just right experience, obsessive-compulsive personality disorder, dysfunctional beliefs related to anxiety.

 

 

Pubblicazione:

  • Attaccamento evitante-spaventato, sintomi dissociativi e credenze psicopatologiche relative all’ansia in: Attaccamento e Sistemi Complessi (Attachment and Complex Systems), Vol. 2, n. 2, luglio 2015, pp. 67-84

 

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Una ricerca esplorativa sull’adattamento psicologico e sulle influenze familiari e culturali in preadolescenza

An exploratory research on psychological adjustment and on familial and cultural influences in preadolescence

Dott.ssa Francesca Tagliavia
Università degli Studi di Padova
Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione (DPSS)
Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA)

 

RIASSUNTO

Attraverso una batteria di test, è stato possibile esplorare diversi aspetti della vita dei nostri preadolescenti italiani; non solo gli aspetti più specificatamente “individuali”, con la fiducia (e la speranza) di trovare uno sviluppo sano e positivo, ma anche e soprattutto quegli aspetti culturali e familiari, che svolgono un ruolo decisivo soprattutto in questo periodo evolutivo. Gli interessi che hanno mosso questo lavoro erano, quindi, strettamente legati alla comprensione del loro ambiente familiare e di quello delle relazioni più estese. La nostra ricerca ha avuto luogo, dunque, all’interno del contesto italiano e si è proposta di delineare una cornice scientifica e teorica, in grado di dare continuità alle ricerche che ci hanno preceduto, ma soprattutto di rendere giustizia ai nostri preadolescenti italiani, affinché anche il nostro lavoro possa rappresentare un contributo all’interno del vasto e complicato stato dell’arte.

PAROLE CHIAVE: disturbi internalizzanti ed esternalizzanti, autonomia, aspetti culturali, familiarismo, preadolescenza.

ABSTRACT

Through a battery of tests, it was possible to explore different aspects of the lives of our Italian pre-adolescents; not only the more specifically ‘‘individual’’ aspects, with confidence (and hope) to find a healthy and positive development, but also and especially cultural and family aspects, which play a crucial role especially in this period of evolution. The interests that have conducted us to this work were closely linked to the understanding of their family environment and that of a more extended relationship. Our research took place, therefore, within the Italian context and it was proposed to outline a scientific and theoretical framework, able to give continuity to the research that preceded us, but especially to do justice to our Italian pre-adolescents, so that our work can also be a contribution within the vast and complicated state of the art.

KEYWORDS: internalizing and externalizing disorders, autonomy, cultural aspects, familism, preadolescence.

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

 

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Relazioni di coppia: l’altra faccia della violenza

Francesco Romeo, Elena Sirotti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Con il termine violenza si fa riferimento a quella situazione nella quale uno dei due contendenti ha più potere ed utilizza quest’ultimo per imporre i propri interessi e le proprie scelte all’altro.

Una relazione di coppia dovrebbe basarsi su uno scambio reciproco di attenzioni ed amore, ciò nonostante è normale che tra due persone si sviluppino dinamiche conflittuali. Il conflitto è ritenuto comunemente un elemento dannoso e disgregante per la coppia, in realtà può essere un elemento per sviluppare e maturare il rapporto stesso. Il conflitto diventa un processo distruttivo solo con la ritualità e la frequenza nel tempo.

La relazione coniugale accompagna tutto lo sviluppo della vita familiare, ed è per tanto soggetta a molti passaggi critici e a nuovi compiti per la realizzazione degli obiettivi che di volta in volta è chiamata a raggiungere. Essi possono essere riassunti nel compito complessivo di impegnarsi a rinnovare, riformulare e rilanciare il patto coniugale nei momenti critici della vita di coppia (Scabini e Iafrate, 2003).

Costruire l’identità di coppia non è un compito che si esaurisca agli inizi del matrimonio o che si concluda in tempo breve: essa è sottoposta a prove ed a crisi che i due partner devono affrontare costantemente. Il conflitto viene definito come quel processo interpersonale che si verifica ogniqualvolta il raggiungimento di uno scopo di uno dei partner è incompatibile con il raggiungimento di uno scopo dell’altro (D’Amico, 2006).
É però importante sottolineare che il processo conflittuale assume connotazioni differenti a seconda che sia inserito in una relazione cooperativa o in una relazione competitiva.

La cooperazione permette la negoziazione e la risoluzione del problema nel modo più soddisfacente per entrambi i coniugi. Fanno parte degli stili relazionali cooperativi la negoziazione, il compromesso, l’accondiscendenza, le modalità affiliative e le abilità di problem solving. La competizione, al contrario, esalta l’opposizione tra le parti e conduce al mantenimento o all’esasperazione di un circolo vizioso di ostilità, portando verso forme ancora più negative e aggressive di scambio. Gli stili relazionali competitivi sono l’aggressività verbale, la violenza fisica, la coercizione e il dominio.
Si può osservare, inoltre, che alcuni stili comportamentali possono essere ricondotti ad entrambe le logiche a seconda del loro utilizzo: rientrano infatti in una logica cooperativa se utilizzati moderatamente, ma danno luogo a comportamenti competitivi se utilizzati massicciamente.
Per esempio l’assenza d’impegno può essere associata all’espansione del conflitto, ma anche il suo eccessivo impiego può diventare una modalità rigida di relazione, provocando attacchi all’identità personale del partner e favorendo la tendenza ad accumulare una gran quantità di problemi.
Attualmente, però, l’attenzione degli studiosi si sta rivolgendo sempre meno all’esame del singolo stile di conflitto cercando, in alternativa, una spiegazione che faccia riferimento alla struttura del conflitto e al livello di dipendenza dei partner.

Ci sono molte controversie in letteratura sul peso che il genere ha nel modo in cui uomini e donne risolvono i conflitti. Si crede comunque che la diversità nel comportamento di uomini e donne nella gestione dei conflitti non sia da attribuire ad una diversità biologica, quanto piuttosto all’argomento che origina il conflitto, o alla mancanza di equità presente nella relazione, o a entrambe.
Altre ricerche hanno mostrato che le strategie di gestione dei conflitti utilizzate nei due sessi sono abbastanza simili ed in alcuni casi vanno addirittura nella direzione opposta a quella prevista dagli stereotipi sessuali. Si è riscontrato ad esempio, che gli uomini usano maggiormente strategie di tipo cooperativo, mentre le donne usano più frequentemente strategie che includono un’ampia gamma di comportamenti competitivi quali insultare, minacciare, criticare e intimidire il partner; modi di fare che – ovviamente – non corrispondono allo stereotipo della donna sensibile, cooperativa e attraente.

Il conflitto fa parte della sfera relazionale, della logica di complementarietà della coppia ma nella società attuale viene spesso considerato come un evento negativo e quindi si tende a negarlo oppure a valutarlo come un segno premonitore di una possibile separazione (Fruggeri, 1997). Non si pensa quindi che in realtà il conflitto possa risultare un elemento di evoluzione attraverso cui confrontarsi e mettere alla prova l’autenticità del legame.

Un ulteriore aggravio della conflittualità all’interno della coppia avviene quando dal conflitto si passa a situazioni perverse di violenza.
Come abbiamo visto il conflitto fa parte della vita di coppia, e man mano che il rapporto diviene più intimo aumentano le circostanze che possono far scaturire discussioni.

Con il termine violenza si fa riferimento a quella situazione nella quale uno dei due contendenti ha più potere ed utilizza quest’ultimo per imporre i propri interessi e le proprie scelte all’altro. Così facendo inevitabilmente lo danneggia (Godenzi, 1993). A tutti capita, prima o poi, di biasimare, aggredire verbalmente, sminuire, rimproverare o compiere azioni che ledono in parte l’altro. Esso diventa un processo distruttivo solo con la frequenza e la ripetizione nel tempo. Il conflitto nella coppia violenta assume infatti una dimensione di ritualità, divenendo un vero e proprio insieme di atteggiamenti e comportamenti che si replicano nella medesima modalità tanto da diventare difficili da respingere, soprattutto perché danno origine ad una dinamica di interazione quotidiana che si cristallizza nel tempo (Christopher e Lloyd, 2000).

Ciò che disorienta la vittima e che spesso la induce a reputarsi colpevole della violenza e quindi a non denunciare l’abuso è il fatto che a perpetuare questi soprusi siano persone a lei care, persone che dovrebbero amarla e proteggerla.
La relazione perversa è quella che unisce le persone non nel segno dell’amore e della costruttività ma nel segno di un legame tossico, che fa soffrire anziché dare gioia, che sottrae energie anziché crearle e che conduce alla distruzione (Bernardini de Pace, 2004).
L’aggressore e l’aggredito funzionano secondo lo stesso meccanismo totalizzante. In entrambi i casi c’è un’esacerbazione delle funzioni critiche: verso l’esterno nel caso dell’aggressore, verso se stessi nel caso della vittima (Hirigoyen, 2000).

L’abuso si manifesta nei momenti di crisi, quando il maltrattante deve prendere una decisione e non vuole assumersene la responsabilità che viene così delegata al partner.
Anche quando il maltrattante ritiene che un comportamento della vittima sia inadeguato può reagire in modo violento. In questo caso l’aggressore si sente di solito giustificato, e non attribuisce a se stesso la responsabilità della violenza, che in quel momento considera un modo di agire appropriato (Ponzio, 2004).

La violenza a questo punto può assumere diverse forme che con il tempo tendono ad intrecciarsi. La più conosciuta è sicuramente la violenza fisica. Essa comprende tutte quelle azioni che comportano l’aggressione fisica come percuotere (con e senza oggetti), spingere, scuotere, mordere, strangolare, legare, bruciare con sigarette, privare del sonno e privare delle cure mediche. Ne fanno parte anche quei gesti intimidatori che terrorizzano l’altra persona come spaccare oggetti o uccidere animali a cui la vittima è affezionata. Questo tipo di violenza è la più facile da riconoscere perché le sue conseguenze sono ben visibili sui corpi delle vittime. Un altro tipo di violenza molto conosciuto è la violenza sessuale. Essa comprende tutti gli atti sessuali imposti con la forza dalla coazione fino alla violenza carnale e alla prostituzione coatta.
La violenza si può attuare anche a livello economico. Essa comprende il divieto di lavorare, la costrizione a lavorare, il sequestro del salario nonché la facoltà di disporre esclusivamente delle risorse finanziarie arrogatosi da uno/una dei/delle partner.

Un ulteriore tipo di violenza è quella psicologica. Quest’ultima è la più subdola di tutte perché non lascia ferite visibili ma nascoste nell’animo della vittima. Essa comprende sia minacce gravi, privazione della libertà, nonché forme che di per sé non costituiscono nessuna minaccia immediata ma che, se sommate, debbono essere considerate alla stregua di un atto di violenza vero e proprio. In questo ambito rientra la violenza di carattere discriminatorio sotto forma di disprezzo, offesa, umiliazione, biasimo, critica che infonde sensi di colpa, intimidazione o insulto. Vi rientrano pure gli impedimenti imposti alla vita sociale di una persona, quali il divieto di uscire di casa, il divieto o il controllo severo dei contatti con i familiari e/o con conoscenti ed amici.

Una delle forme più recenti di violenza, riconosciuta ormai anche dalla giurisprudenza italiana in seguito ad eventi fin troppo noti, è quella relativa allo stalking. Stalking è un termine inglese, il cui significato letterale è “inseguimento”, che indica un insieme di comportamenti di sorveglianza e controllo ripetuti ed intrusivi volti a ricercare un contatto con la vittima (Bernardini de Pace, 2004). Questa sindrome si può manifestare in varie modalità: attraverso lettere, telefonate, e-mail, messaggi sul cellulare, pedinamenti; e può essere rivolta a personaggi diversi (come personaggi di successo o datori di lavoro) anche se nella maggior parte dei casi gli aggressori sono ex-conviventi o ex-coniugi che non si rassegnano alla separazione.

Diverse sono le classificazioni di violenza intrafamiliare a seconda dei destinatari dei maltrattamenti subiti:
-maltrattamento infantile: già alla fine del XIX secolo si era formato un movimento contro i maltrattamenti gravi nei confronti dei minori.
In tempi più recenti, la violenza intrafamiliare contro i minori ritorna alla ribalta negli anni ’70. Oggi il dibattito pubblico è focalizzato soprattutto sulla violenza sessuale, mentre le punizioni fisiche, anche di grave entità, sembrano suscitare meno interesse seppure possano portare, nelle forme più estreme, alla morte del bambino.
-violenza tra coppie sposate o conviventi: una porzione consistente della violenza domestica è rappresentata dalla violenza interna alla coppia. In base alle conoscenze odierne le persone che usano violenza all’interno delle relazioni di coppia sono nel 80% dei casi uomini (Romito, 2000). Gli episodi violenti possono avvenire anche dopo l’eventuale separazione. Anche fra partner omosessuali possono verificarsi episodi di violenza del tutto simili a quelli che si verificano in seno alle coppie eterosessuali. Più di una coppia su quattro (il 28%) riporta casi di violenza durante la sua vita coniugale (Creazzo, 2003), arrivando nei casi più estremi all’omicidio del partner.
-violenza su persone anziane/ violenza tra fratelli/ violenza sui genitori: le conoscenze e l’entità delle ricerche in questi tre ambiti sono a tutt’oggi scarse, anche se negli ultimi anni si sta scoprendo un “mondo sommerso” che desta preoccupazione.

L’entità del fenomeno “violenza intrafamiliare” è significativa e in crescita, inoltre difficile da quantificare con esattezza in quanto oltre ai dati evidenti studiati è necessario riflettere su quelli che non vengono alla luce e che costituiscono una zona d’ombra rilevante.
Quando si tratta di azioni che la società non permette o non tollera, come in caso di violenza domestica, infatti, le cifre riflettono solo in modo molto limitato l’entità effettiva del fenomeno. Le indicazioni che una persona fornisce ad un ricercatore o ad un agente di polizia riguardo le esperienze fatte in materia di violenza domestica sono influenzate dai più svariati fattori. A titolo d’esempio, basti pensare che una donna può voler serbare il silenzio perché teme ulteriori repressioni; una madre non sporge denuncia contro il marito che abusa del figlio perché ritiene che “i panni sporchi vadano lavati in casa”. Un uomo può vergognarsi a deporre perché ritiene poco maschile l’essere maltrattato dalla propria moglie. Simili esempi contribuiscono a far sì che accanto alla cosiddetta zona chiara, ossia ai fatti noti, vi sia sempre una zona oscura di cui non è semplice quantificare l’entità.

La violenza più conosciuta e studiata all’interno delle dinamiche familiari è la violenza sulla donna. Molti studi ed anni di lavoro dei Centri anti-violenza, infatti, testimoniano come questo tipo di violenza si sia manifestato in moltissime case e secondo modalità molto differenti.
È ormai nella mentalità comune classificare con il termine aggressore solo persone di sesso maschile, e invece includere nella categoria vittima solo persone di sesso femminile.
Negli ultimi anni però un nuovo filone di ricerche ha evidenziato un fenomeno ignorato da sempre: la violenza femminile sui mariti. È stato infatti riscontrato che in molti casi la donna è l’elemento violento della coppia e che questa violenza non sia sempre giustificata da maltrattamenti precedenti.

Sicuramente la violenza nei confronti delle donne è un fenomeno di portata rilevante, nonché considerabile come una vera piaga sociale, però è necessario prestare attenzione a non farsi condizionare dagli stereotipi culturali e considerare e studiare pertanto anche quelle forme di violenza intrafamiliare meno conosciute, ma di pari importanza. Su questa linea ormai da anni stanno procedendo le ricerche nei paesi anglosassoni dove, oltre alla violenza sulle donne viene analizzata anche quella che le donne fanno sui loro compagni.
È stato infatti riscontrato che in molti casi la donna è l’elemento violento della coppia e che questa violenza non sia sempre giustificata da maltrattamenti precedenti. Se è infatti accertato che l’80% delle vittime di violenza in casa sono donne, è pur vero che rimane una fetta del 20% che è composta da bambini, anziani ed anche da uomini.

Negli anni ’80 Straus creò la “Conflict Tactics Scale” (CTS) per valutare da più angolazioni il fenomeno del conflitto. Questo strumento era formato da tre scale relative alle seguenti aree: ragionamento, aggressioni verbali ed aggressioni fisiche od atti violenti. È un test autosomministrato: all’intervistato viene chiesto di rispondere se e quanto spesso ha attuato determinati comportamenti verso il proprio partner, per esempio: gettare un oggetto, spingere, schiaffeggiare, dare calci o mordere, minacciare o usare un coltello o una pistola. Ad ogni risposta positiva del soggetto viene attribuito il punteggio di uno, se la risposta è negativa il punteggio attribuito è zero. In seguito al soggetto preso in esame viene nuovamente somministrato il CTS ma relativamente alle azioni che il partner attua nei suoi confronti. Di nuovo, ad ogni risposta positiva del soggetto viene attribuito il punteggio di uno, se la risposta è negativa il punteggio attribuito è zero. Questo strumento fu molto criticato, così Straus (1990) e i suoi collaboratori lo ampliarono e perfezionarono: aggiunsero domande su chi iniziava il conflitto e sulle conseguenze dello stesso.

Basandosi sulle risposte date alla CTS Straus e Gelles conclusero che gli indici di violenza delle mogli sono notevolmente simili agli indici di violenza dei mariti. Gli Autori mostrano che 11,6% dei mariti intervistati ammettono di aver compiuto almeno un atto di violenza nei confronti delle loro compagne nell’anno precedente la ricerca, nello stesso lasso di tempo però le mogli che ammettono di aver fatto altrettanto sono il 12,4%. Anche queste ricerche sono state soggette a forti critiche, innanzitutto perché il CTS tende a ridurre le differenze dei due tipi di violenza (maschile e femminile). Le domande del questionario, facendo riferimento ad un numero limitato di azioni aggressive, equiparano la violenza maschile a quella femminile e non tengono ad esempio conto del fatto che gli uomini utilizzino la violenza sessuale molto più spesso delle donne.
Un’altra critica mossa a questo tipo di ricerche è di non tenere conto della motivazione dell’aggressione, cioè se la violenza aveva lo scopo di ferire il partner, di auto-difesa o di rappresaglia.

La motivazione dell’auto-difesa è la giustificazione più utilizzata dai gruppi di femministe che gestiscono i Centri anti-violenza. Gli studi di questi Centri riportano solo casi nei quali l’unico ad essere colpevole è l’uomo, ed è davvero rarissimo che un addetto a questi Centri ponga alla vittima domande sulle sue possibili violenze contro il marito.
Esistono però dati contro la giustificazione dell’auto-difesa come unica motivazione della violenza femminile. Per esempio dal National Family Violence Survey (Jurik e Gregware, 1989) svolto in America nel 1985 su 495 coppie violente emersero questi dati rispetto all’anno precedente:
-nel 25,9% dei casi solo l’uomo era violento;
-nel 25,5% dei casi solo la donna era violenta;
-nel restante 48,6% erano violenti entrambi i partner.
È difficile quindi affermare che nel quarto delle coppie in cui la donna è l’unica ad usare violenza lo faccia solamente per autodifesa, mentre nel quarto di coppie in cui è l’uomo ad essere violento lo sia per una supposta “cattiveria”.

Nel 1991 il Dipartimento di Giustizia americano riportava i seguenti dati: 680 uomini (tra mariti e fidanzati) che avevano ucciso nel corso dell’anno le loro compagne e 1300 mogli o fidanzate che avevano assassinato i loro partner. Anche da una ricerca di Straus del 2005 emerge che in un anno in America le aggressioni verso le donne da parte dei mariti sono state 122 su 1000 contro le 124 aggressioni su 1000 che le donne hanno effettuato sui loro partner.

Sempre Strauss in uno studio più recente (2008) condotto su 13.601 studenti universitari di 32 diversi paesi che hanno partecipato all’ internazionale di Dating Violence Study. Dall’analisi di questi dati è emerso che quasi un terzo della ragazze, allo stesso modo dei compagni maschi, aveva aggredito fisicamente il partner negli ultimi 12 mesi. Inoltre emerge che la forma di violenza è quella bidirezionale (nella quale entrambi i partner sono violenti), seguita dalla violenza di tipo “femminile” nei confronti dei compagni. La violenza dell’uomo sulla compagna è risultata quella meno frequente secondo i partecipanti sia uomini che donne. Inoltre Strauss sottolinea che la violenza è determinata dal maggior predominio di un partner sull’altro e che questo non è legato in alcun modo al genere del soggetto.

Purtroppo questo ambito di ricerca è relativamente recente e seriamente limitato dai pregiudizi che colpiscono questo tipo di argomenti. Quasi tutta la letteratura e le ricerche sulla violenza sui mariti è in lingua inglese e sviluppata negli Stati Uniti o in Canada. Si pensi solo alle difficoltà ancora presenti in Italia a parlare del maltrattamento femminile per immaginare quanta strada bisogna ancora percorrere per discutere e fare ricerca sul maltrattamento maschile.
Le ricerche, purtroppo, non danno risposte definitive e negli anni futuri bisognerà procedere con esse in varie direzioni per capire come si svolgono, effettivamente, le dinamiche violente all’interno di una coppia.

L’immaginazione umana non ha limiti quando si tratta di umiliare e soggiogare il prossimo. Questa “abilità” ha purtroppo pervaso tutta la società ed è entrata persino nelle nostre case.
L’esperienza di essere vittima è entrata a far parte della vita di ogni uomo: sconfitte, mortificazioni od umiliazioni sono esperienze quotidiane di sottomissione allo strapotere esercitato principalmente da altri uomini. Ma anche le madri, le insegnanti o le partner possono rendere vittime i ragazzi e gli uomini.

Per i maschi è però più problematico vivere questa situazione, perché essere sottomesso ad una donna contrasta con gli stereotipi prevalenti riguardo i ruoli sociali, con l’idea comune che vede l’uomo come forte e dominante.
Nel mondo occidentale infatti l’idea predominante è quella secondo la quale l’essere vittima di un abuso e l’essere uomo si escludono a vicenda. Un uomo abusato fatica ad essere preso sul serio, e di conseguenza ha pochissime possibilità di analizzare ed elaborare le lesioni fisiche e psichiche derivanti dall’esperienza del maltrattamento.

Le attiviste femministe, in particolare, continuano a sostenere che la violenza domestica è unilateralmente esercitata verso la donna e continuano a negare la realtà degli uomini vittima. Esse non capiscono che i ricercatori nell’ambito della violenza femminile non vogliono sminuire la drammaticità dell’esperienza che le donne maltrattate hanno vissuto, ma vogliono sviluppare conoscenze e progetti riabilitativi e di prevenzione adatti al sesso maschile.

Come già detto, è molto comune che in caso di violenza domestica le persone colpite non vogliano che le autorità si occupino di quanto è successo. Questo tabù blocca moltissime donne dal denunciare i soprusi che hanno subito.
Per gli uomini la situazione è ancora peggiore. Come abbiamo visto, infatti, la violenza sull’uomo è molto comune; viene però considerata quasi inesistente perché purtroppo non se ne parla affatto. Visto che non si parla di uomini vittima non si parla nemmeno di donne carnefici e così non esistono né centri di ascolto per gli uomini né gruppi o programmi di supporto per le donne violente che continuano a vivere nella società come se niente fosse. Infine se le donne vittime di violenza non hanno il coraggio di denunciare il partner per paura di essere isolate dai conoscenti, questa paura per gli uomini è ancora più reale a causa degli schemi di genere che hanno le persone, che vedono come responsabile della violenza subita lo stesso uomo.
È importante per tutta la società che questo nuovo fenomeno esca allo scoperto, per poter attuare adeguati protocolli preventivi e riabilitativi. È essenziale inoltre, che in tutte le case, uomini e donne imparino che la violenza sui propri cari non “accade” e basta e che abusare di un proprio congiunto non è mai accettabile.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bernardini de Pace A. (2004). Calci nel cuore – storie di crudeltà e mobbing familiare. Milano: Sperling & Kupfer Editori.
  • Christopher F.S. & Lloyd S.A. (2000). “Phisical and Sexual Aggression Relationship”, in AA.VV. Close Relationship: a soucebook . Ed. Hendrick C., Hendrick SS. Thousand Oakes (CA), pp. 331-342
  • Creazzo G. (2003). Mi prendo e mi porto via – Le donne che hanno chiesto aiuto ai centri anti-violenza in Emilia-Romagna-. Milano: FrancoAngeli.
  • D’Amico R. (2006). Le relazioni di coppia -potere, dipendenza, autonomia- Roma: Editori Laterza.
  • Fruggeri L. (1997), Famiglie -Dinamiche interpersonali e processi psico-sociali- Roma: La Nuova Italia Scientifica.
  • Godenzi A. (1993). Gewalt im sozialen Nahraum. Basilea/Francoforte sul Meno.
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  • Straus M.A (2008). Dominance and symmetry in partner violence by male and female university students in 32 nations. Children and Youth Services Review, Volume 30, Issue 3, pp.252-275.   DOWNLOAD

Terza età: il collegamento tra livello di forma fisica, attività cerebrale e funzioni esecutive

Daniela Sonzogni

Un nuovo studio condotto da un team presso l’Università dell’Illinois rivela la connessione tra l’attivazione del cervello, la fitness cardiorespiratoria e la funzione esecutiva negli anziani.

Il processo di invecchiamento è associato al declino delle funzioni cerebrali, tra cui la memoria e la velocità di elaborazione delle informazioni ad opera del cervello, ma una ricerca precedente ha trovato che alti livelli di forma fisica, in particolare nel circuito cardiorespiratorio, in adulti più anziani porta ad una migliore funzione esecutiva nel cervello che aiuta con il ragionamento e con il problem solving.

Un nuovo studio condotto da un team presso l’Università dell’Illinois rivela la connessione tra l’attivazione del cervello, la fitness cardiorespiratoria e la funzione esecutiva negli anziani, scoprendo che il dual task (doppio compito da fare in sovrapposizione) da parte della corteccia frontale, regione deputata allo svolgimento delle funzioni esecutive, è correlato sia alla riuscita del compito sia al benessere cardiorespiratorio.

Studi precedenti hanno dimostrato che c’è un rapporto tra benessere cardiorespiratorio e prestazioni comportamentali negli anziani mentre altri hanno esaminato la funzione cerebrale e la fitness cardiorespiratoria ma solo in questo lavoro sono stati collegati tutte e tre.

In questo studio, il team di ricercatori ha esaminato i dati di brain imaging e il livello di benessere di 128 adulti tra i 59 e gli 80 anni. Attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI) i ricercatori hanno scoperto che alcune regioni del cervello sono state attivate più frequentemente durante l’esecuzione di due attività simultanee rispetto ad una singola attività. È stato esaminato un dual task poiché è una misura della funzione esecutiva che è richiesta per più processi cognitivi, come la memoria di lavoro, la gestione delle attività, il coordinamento e l’inibizione. Si sa che più cresce l’età più diminuisce la funzione esecutiva così hanno scoperto che con un maggiore benessere cardiorespiratorio è possibile migliorare le prestazioni comportamentali delle funzioni esecutive, così come la relativa attivazione cerebrale.

Il team ha trovato una generale relazione tra i livelli di fitness cardiorespiratoria e le funzioni esecutive superiori che può essere spiegata attraverso l’attivazione della corteccia cingolata anteriore e l’area motoria supplementare.

Sono state analizzate le aree del cervello che sono state attivate mentre i partecipanti erano impegnati nello svolgimento di due compiti e l’attivazione della corteccia cingolata anteriore e dell’area motoria supplementare è stata associata a un maggiore benessere cardiorespiratorio.

Questa ricerca si aggiunge alla sempre più ampia comprensione della relazione tra l’attività fisica, le funzioni cognitive e le funzioni del cervello e suggerisce che possiamo migliorare la nostra salute cerebrale, cambiando stile di vita.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Inside Out: La teoria cognitiva della mente e le funzioni delle emozioni

Di Ennio Ammendola

 

Inside Out è appena uscito in Italia e se potete correte a vederlo. È una storia animata per tutte le età, sebbene le sue metafore psicologiche siano a tratti complesse. Non è la solita storia animata popolata di maghi, streghe ed elfi, o supereroi e viaggi spaziali e così via. Qui si tratta di quello che succede a ciascuno di noi quotidianamente. È difficile non ritrovarsi in uno dei momenti descritti in “Inside Out” ed è ancora più difficile che riusciate a vederlo tutto senza fermarvi un attimo per esclamare “Questo è successo anche a me!”

 

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Questa storia vi aiuterà a ridere e a piangere al tempo stesso; la cosa più sorprendente alla fine sarà la consapevolezza della capacità che ciascuno di noi ha di connettersi con il livello più profondo delle proprie emozioni.

Da un punto di vista psicologico “Inside Out” ci consente di riesaminare quale sia il valore delle emozioni nel definire chi siamo e ci aiuta a capire perché ci comportiamo in un determinato modo. La nostra compagna di avventura è Riley, una ragazza di 11 anni piena di vita che dallo stato del Minnesota si trasferisce a San Franscisco. Questo spostamento non è vissuto nel migliore dei modi e “Inside Out” descrive come Riley come cambi da ragazza felice con moltissimi hobbies a ragazza estremamente infelice.

Ed è a questo punto che inizia la magia della storia perché siamo trasportati nella mente di Riley dove incontriamo le sue emozioni. Ad attenderci ci sono Gioia, Tristezza, Rabbia, Disgusto e Paura. Ho usato intenzionalmente le maiuscole per meglio personificarle. Ciascuna emozione ha un colore ben definito e non vi nascondo che mi sono sentito subito a mio agio con questo accostamento cromatico, che si è rivelato molto utile per identificare quale sia l’emozione in gioco e perché ci si comporti e si parli in un certo modo. Avete mai tentato di dare voce alle vostre emozioni? Forse inizierete a farlo dopo aver visto questa fantastica storia.

Un punto importante a favore di “Inside Out” è che si tratta di uno dei primi film che utilizza in maniera semplice e chiara i concetti della teoria cognitiva della mente, presentandoli alla cultura di massa che in genere ha più familiarità con le teorie psicoanalitiche. Era ora che accadesse questo. I concetti cognitivi sono indubbiamente, rispetto a quelli psicoanalitici, molto meno ricchi di fascino e di mistero. Da una parte inconscio e forze profonde, dall’altra emozioni, pensieri e memoria di lavoro. La Pixar, tuttavia, è riuscita a presentare in maniera accattivante questi aridi concetti scientifici.

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Il film mostra brillantemente come ognuna delle cinque emozioni ha una determinata funzione, che tutte loro vanno esplorate e nessuna di esse va mai ignorata.

Mi sono particolarmente commosso quando il film ha riprodotto uno dei capisaldi teorici della terapia che pratico personalmente, la terapia razionale emotivo comportamentale:

ovvero che il modo in cui ci sentiamo emotivamente e il modo in cui agiamo sono la risultante di ciò che ci sia passando per la testa.

In “Inside Out” partiamo dalla componente emotiva per poi passare a quelle comportamentali e cognitive. Non dobbiamo commettete l’errore di pensare che noi siamo incondizionatamente in balia delle emozioni. Possiamo invece cercare di normalizzare la loro influenza sulle nostre azioni.

Tuttavia “Inside Out” ha anche dei messaggi che possono essere interpretati in una dimensione più psicoanalitica quando si sofferma sul valore delle prime esperienze, del trauma di Riley e di tematiche legate all’attaccamento.

Andate a vederlo e fatemi sapere cosa ne pensate! non vi nascondo che alla fine ho pianto quando Gioia e Tristezza sono riuscite a tornate alla base.

 

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Depressione post partum paterna: una nuova sfida per la genitorialità?

Barbara Sbrolla – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

I futuri padri presentano un’alta probabilità di sviluppare sintomi somatici che potrebbero portare all’esacerbarsi di una depressione, dalla sindrome della couvade nel pre-partum, a sensazioni di fatica e nervosismo che possono attenuarsi nell’immediato del post-partum per poi aumentare nel corso di tutto il primo anno di vita del bambino.

Solitamente quando si parla di depressione post-partum (DPP) si tende a pensare ad una problematica che riguarda le neo-mamme ed i loro bambini.

Secondo il DSM 5, le donne possono trovarsi ad affrontare, nelle prime 4 settimane dal parto (o già nel periodo del peripartum), un episodio depressivo maggiore caratterizzato da sentimenti di tristezza, apatia, senso di inefficacia personale, deflessione dell’umore, labilità emotiva, appiattimento dell’autostima, autosvalutazione, sensi di colpa immotivati, sensazione di essere senza speranza e/o di catastrofe imminente, ansia ed insonnia. Il focus dei numerosi studi che negli ultimi 50 anni sono stati svolti per comprendere il fenomeno dal punto di vista biologico, psicologico e sociale è sempre stato la diade madre-bambino, con il padre che sembrava rimanere relegato sullo sfondo, in attesa di poter esplicare il proprio ruolo regolatore e morale più avanti, quando il bambino sarebbe cresciuto.

Solo da circa 20 anni l’attenzione sembra essersi spostata, grazie ai numerosi e repentini cambiamenti sociali, sulla triade madre-bambino-padre. La caduta della società patriarcale, l’emancipazione delle donne soprattutto in ambito lavorativo e l’interscambiabilità dei ruoli genitoriali insieme alla scoperta che esista, da parte dei padri, la ricerca di una soddisfazione psicologica e non semplicemente un obbligo morale verso i figli, hanno fatto sì che ai neo-papà vengano puntati i riflettori addosso ed attribuita un’importanza fondamentale fin dai primi mesi di vita del bambino, contemporaneamente ad un maggior coinvolgimento nella cura della prole e nel supporto emotivo e pratico della compagna.
Adattarsi alle nuove esigenze della famiglia non è un compito semplice, in special modo se si pensa al fatto che gli uomini spesso non dispongono di esempi paterni di genitorialità moderna o di una rete informale di supporto per superare le difficoltà che si pongono loro innanzi. In uno studio italiano di Pellai del 2009 condotto su un campione di futuri padri sembra essere emersa una concezione legata a stereotipi di identità di genere, in cui la maggior preoccupazione, oltre a quella economica classica di provvedere alla famiglia, è quella di come potersi ritagliare del tempo libero dopo la nascita del bambino piuttosto che soffermarsi sulle ripercussioni psicologiche e fisiche che potrebbero gravare sulla coppia genitoriale. Questo pur avendo già esperito, nel 27% dei casi, problemi di sonno legati a preoccupazioni circa l’imminente nascita e la mancanza, nel 50% dei casi, di una rete informale di supporto.

I futuri padri presentano un’alta probabilità di sviluppare sintomi somatici che potrebbero portare all’esacerbarsi di una depressione, dalla sindrome della couvade nel pre-partum (Trethowan e Conlon), a sensazioni di fatica, irritabilità, nervosismo, incapacità di riposarsi ed ansia che possono attenuarsi nell’immediato del post-partum per poi aumentare nel corso di tutto il primo anno di vita del bambino. Le percentuali di uomini che soddisfano i criteri di depressione prima del parto sembrano rimanere costanti a 3 mesi dalla nascita del bambino (circa il 5% del campione studiato da Areias e colleghi), per poi aumentare notevolmente alla conclusione del primo anno (23.8%). Nei primi studi sull’argomento, questa depressione nell’uomo sembrava essere alimentata dal ‘vivere insieme’ la depressione post-partum materna, ma ora quest’ultima sembra essere solo un fattore di rischio più che una causa: è per questo che si può parlare di una vera e propria depressione post-partum paterna, che colpisce almeno il 10% dei neo-papà (Paulson, 2010).

Non esistono ancora dei criteri per definire la depressione post-partum paterna, perciò vengono usati quelli validi per la stessa problematica nelle donne, anche se così facendo non vengono prese in considerazioni le differenze dei fattori sociali, biologici e di esordio. Solitamente si tende a valutare la depressione nei neo-padri con questionari self-report come il BDI (Beck Depression Inventory) o con test per diagnosticare la DPP materna, come la Postpartum Depression Screening Scale (PDSS). In questo senso, degno di nota è lo studio di Ramchandani e colleghi per validare l’EPDS (Edinburgh Postnatal Depression Scale) anche per la DPP paterna.

La depressione post-partum materna ha un esordio precoce rispetto la paterna, che esordisce in maniera più subdola e con note dal risvolto violento più evidenti, oltre a quelle tipiche di un episodio depressivo. L’ansia, l’irritabilità e la sensazione di fallimento che gli uomini con DPP si trovano ad affrontare possono portare anche ad agiti contro la propria partner: circa 1 donna su 4 riporta di aver avuto esperienza di un outburst violento da parte del proprio partner per la prima volta durante il primo anno dal parto (Madsen, Juhl 2007). Questo fenomeno è anche legato al fatto che sembrano entrare in gioco delle dinamiche della coppia genitoriale altamente stressanti e conflittuali dovute alla diminuzione della soddisfazione coniugale, sentimenti di esclusione dalla diade madre-bambino, e minor appagamento dalle interazioni con i figli (che sembrano sorridere meno durante gli scambi relazionali con i padri rispetto alle madri, probabilmente a causa del minor tempo a disposizione) ed al fatto che alcuni uomini riportano di impiegare anche 2 mesi per stabilire un legame vero e proprio con il bambino.

 

La costituzione del legame genitoriale con il proprio figlio è mediata anche da dei cambiamenti ormonali, tanto nella donna quanto nell’uomo, anche se con le dovute differenze. Nei neo-padri, infatti, il livello di testosterone si abbassa negli ultimi mesi prima del parto e si mantiene al di sotto della baseline per diversi mesi dopo la nascita del bambino; nello stesso modo si alzano i livelli di estrogeni, per permettere risposte biologiche meno aggressive e facilitare le cure genitoriali e l’attaccamento verso la prole (Rholde et al, 2005). Fluttuazioni ormonali di questo tipo potrebbero sì essere collegate allo sviluppo di una depressione (Burnham et al., 2003; Fleming et al., 2003, Kozorovitskiy et al., 2006), ma anche indicare una strada verso la prevenzione e lo screening della DPP paterna.

Dal punto di vista sociale, se è vero che si possa usufruire di corsi pre-parto (ultimamente dedicati alle coppie genitoriali), manuali teorico-pratici e di una certa rete di supporto, è anche vero che molto spesso il rischio è che gli interventi di preparazione aumentino la percezione che il parto e il crescere un neonato sia una cosa facile. Quando ci si trova davanti alla realtà, si viene a creare un gap tra le problematiche anticipate mentalmente e le reali richieste che vengono poi esperite che potrebbe portare la coppia genitoriale a doversi confrontare con un ammontare di stress inaspettato in un periodo di grande cambiamento psicologico, relazionale e fisico che, in una società perfetta, fatta di famiglie perfette, aumenta l’incertezza, i dubbi e i sentimenti di scarsa efficacia personale. A queste difficoltà si possono aggiungere dei fattori di rischio per la DPP paterna, quali: una gravidanza non programmata, che potrebbe comportare degli aggiustamenti sia relazionali che difficoltà economiche, l’età dei genitori, storie pregresse di depressione nel padre, la presenza o meno di altri figli, una DPP materna, conflittualità all’interno della coppia genitoriale.

Studiare la depressione post-partum paterna si rivela importante perché sembra essere associata al rischio di difficoltà cognitive e comportamentali del bambino nel medio e lungo termine (Ramchandani et al., 2011; Paulson et al., 2009). Le difficoltà comportamentali, come iperattività, scarso controllo degli impulsi, problemi di condotta, specialmente nei bambini (maschi), sembrano essere più collegati alla DPP paterna, che potrebbe inoltre aggravare gli effetti negativi della DPP materna, qualora presente. Avere entrambi i genitori depressi può portare, oltre allo svilupparsi di un attaccamento non sicuro nei bambini, a un funzionamento psicosociale scarso, ideazioni suicidarie e tentativi anticonservativi nei figli adolescenti e depressione nelle figlie. E’ inoltre un forte fattore di rischio per maltrattamento del bambino ed infanticidio: il bambino potrebbe essere infatti visto come il distruttore di un equilibrio precario ma faticosamente raggiunto o essere vittima di grave negligenza.

Per l’importanza di questi cambiamenti psico-sociali e delle ricadute collegate alla DPP paterna, si rendono necessari dei programmi di sostegno alla genitorialità estesi alla coppia che possano tenere presente il ruolo preponderante del padre nelle dinamiche familiari: il padre può essere un grande supporto per la cura dei figli e per la propria compagna, se libero dalla DPP. Si possono progettare, appositamente per i neo-papà, dei programmi educativi volti a controllare l’ansia e la depressione, assieme alla creazione di una rete di supporto che possa permettere una sana espressione del loro ruolo genitoriale, come programmi di paternità (possibilità di usufruire di permessi lavorativi) e screening perinatale.

 

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Stalking: il corteggiamento diventa persecuzione. Ma perché?

Lo stalking è una condotta lesiva, che compromette notevolmente la tranquillità di un’altra persona. Nei casi più estremi può essere definito un vero e proprio reato. Ma perché un soggetto arriva a tanto?

Vi è un soggetto, la cui maggior parte dei suoi pensieri riguardano prevalentemente un’altra persona. Fin qui sembrerebbe una cosa piuttosto normale, se non fosse che tali pensieri potrebbero evolversi in ossessione, e portare il soggetto ad attuare una serie di comportamenti ripetuti nel tempo nei confronti di quella persona che ne diviene una vera e propria vittima perseguitata. Quando si verificano episodi di questo genere ci si trova di fronte al cosiddetto Stalking.
Il termine Stalking deriva dall’inglese To Stalk che significa Appostare, Fare la posta, e sta a indicare un fenomeno di grave entità. Una condivisa definizione è la seguente: Forma di aggressione messa in atto da un persecutore che irrompe in maniere ripetitiva, indesiderata e distruttiva nella vita privata di un altro individuo, causando in quest’ultimo gravi conseguenze fisiche o psicologiche (Maran, 2010).

La letteratura internazionale asserisce che il fenomeno, per poter essere etichettato come Stalking, richiede la copresenza di tre elementi: un molestatore (altrimenti detto Stalker), una vittima e una serie di comportamenti intrusivi ripetuti nel tempo.

Ma lo stalking è qualcosa di piuttosto complesso e non sempre identificabile. Questo perché i comportamenti che lo caratterizzano possono sfumare in atteggiamenti normali e leciti all’interno di qualsiasi relazione personale. Ad esempio fare una telefonata, mandare un sms, regalare dei fiori, sono tutti atti legittimi da compiere, specialmente durante un corteggiamento; il problema viene però poi a sussistere nel momento in cui tali condotte diventano inopportune e troppo frequenti, al punto tale che possono venire percepiti dall’altro come una vera e propria intrusione della vita privata.

Quindi, per trattarsi di vero stalking, le molestie devono essere ripetute nel tempo e le azioni non devono essere gradite dalla vittima, piuttosto devono suscitarle fastidio e preoccupazione, per la propria incolumità e per quella delle persone ad essa vicine.

Questi alcuni dei possibili comportamenti attuabili da parte dello stalker:

  • Comunicare continuamente mediante telefono, sms, lettere, mail a qualsiasi orario;
  • Lasciare messaggi sui social network, oppure sull’automobile, porta di casa, luogo del lavoro;
  • Pedinare la vittima;
  • Investigare su come trascorre la giornata;
  • Inviare messaggi indesiderati;
  • Diffondere diffamazioni o oltraggiare direttamente la vittima;
  • Danneggiare le proprietà della vittima;
  • Compiere aggressioni fisiche o sessuali nei confronti della vittima;
  • Minacciare direttamente la vittima e le persone ad essa vicine.

Questi sono solo alcuni esempi di condotte di stalking; comunque tutti hanno la medesima caratteristica: si tratta di comportamenti persecutori e insistenti, la cui vittima ne risulta impaurita e angosciata. Talvolta queste emozioni negative impediscono lo sporgere di una denuncia nei confronti del proprio molestatore. Varie ricerche hanno messo in luce che sono molti i soggetti che si tengono per sé le persecuzioni subite a causa del timore delle ripercussioni che la denuncia stessa potrebbe poi comportare (James e all, 2003).

In ogni caso lo stalking è una condotta lesiva, che compromette notevolmente la tranquillità di un’altra persona. Nei casi più estremi può essere definito un vero e proprio reato. Ma perché un soggetto arriva a tanto? Quali motivi sottendono a questo comportamento persecutorio?

Le spiegazioni alla base di questo triste fenomeno possono essere di vario tipo, ma sembrerebbe che la finalità sia prevalentemente una sola: attirare l’attenzione della vittima e far sì che essa cambi un determinato atteggiamento. Secondo una celebre classificazione (Mullen e all, 1999) è possibile categorizzare il molestatore secondo le seguenti motivazioni:

  • Il rifiutato: si tratta di soggetti che non si arrendono di fronte alla rottura di un legame sentimentale e sono spinti a far di tutto per ripristinare la relazione;
  • Il rancoroso: in questo caso si tratta di soggetti che ritengono di aver subito un torto da parte della vittima, e sono quindi intenzionati a farsi giustizia. Tali episodi riguardano soprattutto il luogo del lavoro, ad esempio nel caso di un licenziamento ritenuto ingiusto;
  • L’inadeguato: si tratta in questo caso di corteggiatori alla disperata ricerca di un partner, però con scarso successo. Ciò induce la persona ad assillare costantemente la vittima;
  • Il predatore: colui che insegue la vittima e ne prepara un attacco. Questi casi spesso evolvono in violenza sessuale;
  • In cerca di intimità: sono quei soggetti che assillano o aggrediscono soggetti di cui si sono innamorati per instaurarne una relazione.

Una serie di indagini svolte sul territorio europeo mettono in luce dati allarmanti: pare infatti che su 42000 donne intervistate circa il 18% siano state vittime di stalking.

Si tratta quindi di un fenomeno piuttosto diffuso e da non sottovalutare, visto che potrebbe comportare serie conseguenze per le vittime, come lo svilupparsi di disturbi psicologici, trasferimenti al fine di evitare le molestie, e in casi estremi le persecuzioni potrebbero sfociare in violenze e omicidi.

Negli ultimi anni la legislazione italiana ha evoluto le sue norme in merito ai comportamenti persecutori, e al giorno d’oggi lo stalking potrebbe essere adeguatamente punito. Attualmente il problema sta nel fatto che in Italia non esiste una legislazione specifica per un modello comportamentale ripetitivo ed assillante di molestie, e la linea di confine tra insistenza innocua e molestie assillanti non è del tutto netta, in quanto molti comportamenti persecutori sono considerati socialmente ammissibili. Lo stalker viene infatti punito secondo il grado di intensità della molestia.

Si tratta di un fenomeno non univoco, ogni storia o episodio di stalking ha caratteristiche singolari, per cui diviene difficile anche identificare strategie di azione volte alla risoluzione del problema. Sarebbe ad ogni modo opportuno che la vittima vinca i propri timori e che si adoperi in qualche modo al fine di contrastare le molestie.

Infatti per superare il senso di impotenza sovente presente nella vittima è opportuno che essa prenda coscienza del fatto che ciò che sta subendo è ingiusto, e che inneschi quindi una certa reazione volta a debellare tutti quei comportamenti di stalking.

 

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Sei cappelli per pensare: ragionare con creatività ed efficacia

 

Il metodo sei cappelli per pensare permette di interpretare ruoli fissi, i cappelli, che incarnano diversi punti di vista, anche quello più lontano dalla nostra indole. Questo ci aiuta a liberarci dagli schemi creati dalla posizione o dal carattere.

Ognuno di noi si trova, nella vita di tutti i giorni, a confrontarsi con problemi di varia natura. A volte riusciamo ad individuare la possibile soluzione in modo immediato, altre volte invece ci sembra di perderci all’interno del problema, senza riuscire a trovare la via d’uscita e lasciandoci sopraffare.

L’etimologia greca della parola problema rimanda ad un’azione proattiva, ovvero gettare avanti. Secondo questa prospettiva, il problema può essere accolto come una sfida, qualcosa che nell’immediato sembra bloccarci, ma che nasconde in sé una possibilità di crescita, qualcosa che ci fa superare i nostri limiti percepiti, oltre la nostra zona di comfort. Affrontando in modo attivo e curioso un problema, mi concedo una maggiore possibilità di movimento.

Un metodo utile per adottare una prospettiva ampia e oltre i nostri automatismi è il six thinking hats, tradotto in italiano sei cappelli per pensare proposto da Edward De Bono (1985). Noto in tutto il mondo per i suoi studi sul pensiero laterale e sulla creatività, ha collaborato con numerose università e aziende aiutandole ad innovare i prodotti e i processi produttivi. Il sistema ideato da De Bono consente di organizzare il nostro modo di pensare in maniera più efficace, prendendo in considerazione un aspetto alla volta.
Si tratta di interpretare ruoli fissi, i cappelli, che incarnano diversi punti di vista, anche quello più lontano dalla nostra indole. Questo ci aiuta a liberarci dagli schemi creati dalla posizione o dal carattere, permettendo agli ottimisti di esprimere pensieri negativi o ai razionali di provare ad essere creativi.

Lo scopo dei sei cappelli per pensare è la chiarificazione del pensiero, ottenuta consentendo al pensatore di adottare un modo di pensare per volta, invece che tentare di fare tutto in una volta sola. Il paragone più calzante potrebbe essere quello della stampa a colori, dove ogni colore viene stampato separatamente fino ad ottenere il risultato finale. Il sistema è progettato per far passare il pensiero dal normale metodo dialettico al metodo di mappatura. Il pensiero diventa così un processo a due fasi: la prima è l’esecuzione della mappa, la seconda è la scelta di un percorso sulla mappa. Se la mappa è composta da tutte le prospettive, il percorso migliore risulta spesso di immediata evidenza.

I vari cappelli coprono, secondo l’autore, i principali aspetti del pensiero. Il maggior pregio del sistema è rappresentato dalla sua artificiosità. I sei cappelli costituiscono un artificio formale e conveniente per chiedere l’adozione di un certo modo di pensare a se stessi o agli altri. Consentono un approccio veloce e ordinato, evitando di perdere tempo in controversie e discussioni sterili.

Ma vediamo nello specifico quali sono questi sei cappelli:

  • Il cappello bianco: imparzialità e obiettività:

Il bianco è un colore neutro e oggettivo. Il cappello bianco riguarda fatti e dati oggettivi. Il pensatore deve agire come un computer, che fornisce i dati e le cifre che gli vengono richieste. ‘Mi chiedi di dirti perché cambio lavoro e dirtelo con il cappello bianco. Il salario non è migliore. Non ci sono maggiori opportunità di guadagni extra. La distanza da casa è uguale. Le possibilità di carriera sono le stesse. Il tipo di lavoro è identico. In termini di cappello bianco non posso dirti altro’.

Indossare questo cappello significa individuare tutte le informazioni e i dati oggettivi relativi ad una situazione. Riprendendo l’esempio del lavoro, alcuni dati potrebbero essere lo stipendio, gli orari, la distanza da casa, i costi per lo spostamento, ecc. L’autore suggerisce di prestare attenzione alla differenza tra fatti soggettivi e oggettivi: ‘il capo non capisce niente’ è una tua interpretazione della realtà.

  • Il cappello rosso: emozioni e sentimenti

Il cappello rosso riguarda la emozioni, i sentimenti e ogni aspetto non razionale del pensiero. Secondo l’autore, se si impedisce l’ingresso delle emozioni e dei sentimenti nel pensiero, essi rimarranno nascosti nello sfondo , esercitando un’influenza occulta. Non occorre mai giustificare o spiegare una sensazione. Ad esempio ‘Non chiedermi perché. questa faccenda non mi convince affatto. Puzza’.

  • Il cappello nero: le cose che non vanno

Il cappello nero riguarda ciò che è falso, scorretto o sbagliato. Mette in luce ciò che è in disaccordo con l’esperienza e il sapere comuni. Spiega perché una cosa non potrà funzionare, individua i rischi e i pericoli. È un tentativo di inserire con obiettività gli elementi negativi nella mappa. Il pensiero con il cappello nero non deve essere un modo per indulgere al pessimismo o a sensazioni negative per le quali andrebbe utilizzato il cappello rosso. Ad esempio ‘Se metto il cappello nero devo far notare che in questa villa manca l’impianto elettrico’.

  • Il cappello giallo: gradi di ottimismo

Il cappello giallo riguarda la positività e la costruttività. Il giallo rappresenta la solarità e l’ottimismo. Il pensiero con il cappello giallo concerne le valutazioni positive ed è quindi l’opposto del cappello nero. Copre aspetti che vanno dalla logicità e praticità fino ai sogni, alle fantasie e alle speranze. Cerca e valuta guadagni e benefici e poi una base logica su cui fondarli. Offre suggerimenti e proposte concrete, è connesso alla fattibilità e alla realizzabilità con l’obiettivo di efficienza. Non ha a che vedere con un atteggiamento marcatamente ottimistico che sarebbe da cappello rosso. Ad esempio ‘Se metto il cappello nero devo far notare che in questa villa manca l’impianto elettrico. Se metto il cappello giallo prendo atto del fatto che non ci saranno le bollette da pagare’.

  • Il cappello verde: il pensiero creativo e laterale

Il verde è simbolo di fertilità, crescita e sviluppi futuri contenuti nei semi. Questo cappello ha la funzione specifica di produrre nuove idee e nuovi modi di vedere le cose. Significa abbandonare le vecchie idee per trovare idee migliori. L’obiettivo è il cambiamento. È necessario andare oltre a ciò che è noto, ovvio e sembra soddisfacente. È una ricerca di alternative. Il pensiero laterale è un insieme di atteggiamenti, espressioni e tecniche che consente di tagliare trasversalmente gli schemi di un sistema auto-organizzato, per generare concezioni e percezioni nuove. Ad esempio: ‘la mia idea da cappello verde è di proporre che ai detenuti per lunghi periodi sia pagata una pensione al momento della scarcerazione. Li aiuteremmo a reinserirsi nella società e, con qualcosa da perdere, è più difficile che tornino alla criminalità. Potete anche prenderla come una provocazione’.

  • Il cappello blu: la messa a fuoco

Il cappello blu è adibito al controllo. Il pensatore con il cappello blu organizza il pensiero stesso. Quando si indossa questo cappello si smette di pensare all’argomento di discussione e si pensa invece al pensiero necessario per esaminare l’argomento. È simile a un direttore d’orchestra, invita gli altri pensatori a usare i vari cappelli. Stabilisce gli argomenti a cui il pensiero deve rivolgersi. Ha l’incarico di provvedere a riassunti, quadri complessivi, conclusioni. Appiana le controversie ed esorta all’adozione del pensiero a mappatura. Ad esempio: ‘Finora non si è arrivati a nessuna conclusione. Metto il cappello blu e suggerisco di cambiare un po’ l’aria, passando per un momento al cappello rosso. Qual è la nostra effettiva reazione di fronte a questa proposta di ridurre gli straordinari?’

Inizialmente si può sperimentare un certo disagio nell’utilizzo dei cappelli, guadagnando però in convenienza rispetto alla possibilità di sviluppare una mappa chiara e ampia della situazione che, fornendoci tutti gli elementi necessari, ci consentirà con maggiore agio di prendere una direzione piuttosto che un’altra.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • De Bono, E. (1985). Sei cappelli per pensare. Trad. it. (1991). Milano: Rizzoli
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