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Emergenza Migranti: il peso del guardare, il timore nell’accogliere

Notizie sconfortanti in questi giorni sulla tragedia dei migranti, questa onda inarrestabile che mette alla prova l’ideologia stessa con la quale l’Europa e Schengen sono nate. (Spinelli 1941)

Una parte del medioriente è in fiamme e vi sono milioni di persone che sono partite, che stanno viaggiando, che stanno per mettersi in viaggio. Le foto di morti sulle spiagge, del bimbo Aylan, delle file di persone che camminano sulle strade d’Europa raccontano la disperazione di chi fugge e sono al centro della nostra attenzione e delle nostre emozioni.

Ne parliamo, ci disperiamo, vorremmo aprire le nostre case ai profughi, poi abbiamo paura, li temiamo, poi ci lasciamo trascinare dalle nostre vite.

Vi sono reazioni forti che davanti alle barriere di filo spinato e a cortei di disperati non possono non ricordarci altri eventi, in cui moltitudini di uomini andavano incontro a destini tremendi. È vero, non si tratta più di migrazioni forzate e deportazioni come quella degli armeni, ma non possono non richiamare ai nostri occhi quelle immagini. (Maciori, 2013, Werfel 1933)

La reazione dell’Europa è stata inzialmente confusa, ma poi grazie al discorso di Angela Merkel sull’accoglienza, che ci orienta tutto sull’accoglienza e grazie alle posizioni di acquisizione di responsabilità da parte di Papa Francesco, ha trovato una chiarezza di linea. O almeno nell’area occidentale.

Non penso affatto che Angela Merkel abbia scelto la sua posizione di fronte all’emozione di qualcosa che ha visto e con una urgenza esclusivamente morale, penso che ciò che ha visto sia stato mediato da una conoscenza profonda delle posizioni morali del suo paese ma anche dalla necessità razionale di trovare una soluzione a un problema sociale e umano di così vaste proporzioni.

 

Accoglienza dunque ma anche timori. E qui dividerei il discorso in due parti: il guardare o non guardare ciò che a volte ci appare come insopportabilmente doloroso e il sapere e decidere come accogliere.

Cominciamo con il guardare. Vi è oggi una enorme facilità di accesso visivo alla violenza e alla sofferenza che ci colpisce con forza dirompente. In psicologia è nozione provata che la visione aumenti l’impatto emotivo degli eventi su chi li osserva. In questo senso la nostra società ci espone come mai prima a questo aumento di visione e di impatto emotivo ogni volta che apriamo un giornale, che scorriamo le pagine di internet, che accendiamo la televisione. Questo è il segno della modernità: guardare la violenza, il dolore e la morte con crudo terrificante realismo e insieme da una siderale e tecnologica distanza.

Non penso che durante i progrom contro gli ebrei o nel medioevo, o semplicemente durante le nostre guerre risorgimentali, si vedesse in assoluto meno violenza. Quando c’era, era spesso l’incontro traumatico con violenza e sangue veri con il rischio di esserne coinvolti e morirne. Ma a questi scoppi di violenza immediati e improvvisi corrispondevano periodi in cui si poteva guardare altrove, concentrarsi sulle cose del quotidiano, l’aratura, la semina, il focolare.

Oggi invece staccare l’attenzione non è concesso. Ora non possiamo guardare altrove e questo accade cento volte ogni giorno.

Una fetta del dibattito delle ultime settimane si è focalizzato su “guardare o non guardare”: mettere o non mettere il piccolino Aylan in prima pagina, farlo vedere o no, parlarne e non farlo vedere.

Come se fosse possibile immaginare che nei giorni passati qualcuno non abbia visto quel piccolo bambino abbandonato. Tutti lo abbiamo visto. Così come tutti vediamo gli affogati in mare e i morti sulle strade o dentro i camion.

La scelta di non guardare, o meglio distogliere gli occhi dopo avere visto, è normale, è evitamento di emozioni, di ansia e colpa. Ma poi non ci piace e ci sembra terribile, come un fuggire, come una viltà.

Mentre guardare e poi guardare troppo a fondo dentro l’orrore rischia di farci scivolare troppo giù nella tristezza della sterile impotenza da un lato ma rischia anche di vaccinarci, di alzare il livello di tolleranza. E ci chiediamo quanto sia utile.

E come la risolvono molti di noi? Sbattono come uccellini in gabbia dentro questi muri di emozioni contrastanti, tra consolazione, rabbia, tristezza, colpa, desideri di aiuto e piccole viltà. Tutto troppo autocentrato. A volte sembrano dei selfie psicologici.

Per quanto riguarda la sostanza delle migrazioni dal medio oriente, è evidente che non si può non accogliere chi fugge da guerre, carestie, campi profughi in cerca di qualcosa che si possa chiamare vita normale, anzi vita dove vita vuol dire sopravvivenza, ma anche speranza di avere un futuro, di non morire.

Ma è anche vero che non vanno sottovalutate le difficoltà dell’arrivo, dell’integrazione, dell’avvicinamento di popolazioni che portano diversità, ricordi, tradizioni, timori. Chi arriva porta ricchezza di esperienze umane diverse, e questa ricchezza è certamente una risorsa attuale e potenziale che cambia le cose e arricchisce tutti, ma egli va accolto con la consapevolezza delle difficoltà e diversità che dovrà e dovremmo affrontare insieme perché l’integrazione si avveri (Sartori, 2000).

Al di là delle reazioni di impulso e nell’emergenza che non possono che farci aprire le nostre porte e accogliere chi fugge, affinché questa emergenza divenga progetto di convivenza occorre un posto che accolga e aiuti l’avvicinamento alla cultura locale alle sue tradizioni e costumi e leggi e persone che abbiano curiosità di conoscere, accettare il nuovo, incontrare lo sconosciuto diverso, condividere.

Questo discorso è del tutto indipendente da giudizi di superiorità culturale, anzi deve guardare al bisogno razionale di benessere sociale e buone relazioni in una società in cui per la prima volta si vive insieme.

Quando si parla di migrazione si passa da posizioni di rifiuto sprezzanti e incivili a un’ingenua mitizzazione dell’accoglienza come buona in sé, facile, naturale, esclusivamente come forma di necessità morale. Questa posizione è pericolosa perché eludendo i problemi si rischiano profonde delusioni. Accogliere ed essere accolti è difficile e doloroso e solo nella consapevolezza profonda, colta e sapiente della difficoltà si possono costruire progetti di lunga distanza che abbiano la speranza di avere successo.

A me sembra che la parte eroica consista, per chi ha la forza, nel trasformare le informazioni e le visioni in comportamenti d’aiuto concreto. Per fare questo occorre sapere come sono le cose.

E chi non può proporre comportamenti innovativi, non può accogliere, non può prendere la macchina e partire per l’Ungheria?

Il punto è di nuovo rinunciare a risposte semplici o impulsive su questioni così complesse e piene di sfaccettature. Occorre razionalità. Occorre non smettere di informarsi, a fondo e in modo doloroso e completo su quali siano le cause, le complicità, le connivenze e le incapacità che hanno portano alla situazione attuale. E occorre risolvere in modo umanitario e razionale e utile per tutti ciò che sta avvenendo così vicino a noi. Senza trascurare le nostre responsabilità nella creazione e nel mantenimento di situazioni di guerra ai nostri confini ma senza stracciarci le vesti autoflagellandoci.

Dobbiamo tutti accettare ciò che è complesso e che bisogna cambiare a partire da questo momento storico e da questa complessità. Rinunciare alla pigrizia, alle frasi fatte, alle spiegazioni semplicistiche.

E continuare a guardare. E a volte distogliere gli occhi e poi guardare di nuovo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Sartori, G. (2000). Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica. Milano, Rizzoli.
  • Altiero Spinelli:Manifesto di Ventotène, avente titolo originale Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, è un documento per la promozione dell’unità europea scritto daAltiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Ursula Hirschmann tra il 1941 ed il 1944 durante il periodo di confino presso l’isola di Ventotene, nel mar Tirreno, per poi essere pubblicato daEugenio Colorni, che ne scrisse personalmente la prefazione[1]. (da wikipedia)
  • Macioti, M,I. Il genocidio armeno nella storia e nella memoria, (2011) Edizioni Nuova Cultura, Roma,
  • Werfel, F. “I quaranta giorni del Mussa Dagh” ) (1933)in italiano 2913, ed. il Corbaccio

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La valutazione della ricerca accademica in Italia: atto secondo

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Ancora non si sono spente le polemiche sulla prima grande operazione di valutazione della ricerca accademica in Italia che parte (fortunatamente) già la nuova valutazione per gli anni 2011-2014.
Si tratta di valutare soprattutto, ma non solo, i “prodotti” della ricerca, cioè gli articoli scientifici, i saggi, i libri, insomma le pubblicazioni, di ricercatori e professori impiegati presso le istituzioni della ricerca. Alla prima valutazione nazionale, svolta dall’agenzia “Anvur” del Ministero della Ricerca e conclusasi nel 2012, è conseguito un sistema di ranking dei dipartimenti, degli enti di ricerca, delle università. Questo sistema, associato ad altri elementi, ha portato a un meccanismo di distribuzione di risorse pubbliche che ha premiato (anche se a mio avviso in misura insufficiente) i dipartimenti e le università con i risultati migliori. Gli esiti della prima valutazione nazionale sono consultabili e si riferiscono appunto solo alle istituzioni della ricerca: le valutazioni delle pubblicazioni dei singoli ricercatori e professori sono infatti comunicate solo ai diretti interessati e non sono in alcun modo rese pubbliche.
..

La qualità dei ricercatori precari – Il PostConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Ancora non si sono spente le polemiche sulla prima grande operazione di valutazione della ricerca accademica in Italia che parte (fortunatamente) già la nuova [Continua] (…)

Tratto da: Il Post

 

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Disturbi del sonno: la paralisi del sonno tra superstizione e realtà

Molto spesso ci capita di sentire spiegazioni poco scientifiche su episodi o fenomeni che ci accadono e sui comportamenti delle persone. Ultimamente mi è capitato di leggere un articolo molto interessante su un argomento decisamente affascinante. Mi riferisco alla paralisi del sonno, un disturbo del sonno appartenente alla categoria delle parasonnie associate al sonno REM.

Se provate a chiedere a conoscenti, parenti o amici, sicuramente molti non conoscono nemmeno l’esistenza di questa particolare condizione del sonno, altri la hanno forse sperimentata e altri ancora probabilmente ricondurranno questo disturbo ad un qualcosa di soprannaturale. Ed è proprio su quest’ultima possibilità che uno studio svoltosi in Italia, più precisamente in Abruzzo, con la collaborazione internazionale dell’Università di Padova, quella della California e quella di Harvard, ha ricercato le credenze popolari sottostanti la paralisi del sonno.

Lo studio ha riunito 68 partecipanti che, durante la loro vita, hanno sperimentato almeno una volta la paralisi; i dati sono stati raccolti somministrando oralmente un questionario. I risultati sono interessanti: sono state trovate svariate interpretazioni culturali del fenomeno, definito nella maggior parte dei casi come attacco da Pandafeche, le quali sono risultate associate a varie credenze soprannaturali.

La Pandafeche è stata definita in svariati modi, spesso come una strega malvagia, e qualche volta come uno spirito o un terrificante gatto umanoide. La cosa interessante è che, queste creature con ben poco di reale, venivano considerate la causa diretta della paralisi del sonno nel 38% dei casi. Il 24% dei partecipanti riferiva invece di aver sentito la presenza della Pandafeche durante la paralisi. Una parte dei partecipanti, 27 su 68, inoltre ha riferito di conoscere o mettere in atto rimedi tradizionali al fine di prevenire la paralisi; i metodi includevano posizionare una scopa lungo il lato del letto, mettere un sacchetto di sabbia dalla porta della camera, indossare una croce etc… Contrariamente, un discreto numero di partecipanti non credeva nell’esistenza della creatura ma era comunque a conoscenza dei rimedi di prevenzione, questo a testimoniare quanto nella cultura del luogo fosse radicata questa credenza.

Ma cos’è realmente la paralisi del sonno? È un fenomeno psicobiologico transitorio che ha origine dalla dissincronia nell’architettura della fase REM del sonno. Nella fase REM, durante la quale si fa la maggior pare dei sogni vividi, l’atonia dei muscoli scheletrici ha anche l’obiettivo di prevenire il mettere in atto i propri sogni (Jalal & Hinton, 2013). Può però capitare che questo meccanismo sperimenti una disfunzionalità, e l’individuo, al momento del risveglio, si senta sveglio non potendosi però muoversi o parlare: il cervello è attivo e cosciente pur essendo il corpo in uno stato di riposo.

Durante la paralisi del sonno l’attività percettiva che si ha durante il sonno può essere attivata causando così illusioni ipnagogiche (durante l’addormentamento) o ipnopompiche (durante il risveglio) e facendo quindi sperimentare al soggetto esperienze sensoriali vivide che spesso, se associate anche alla paralisi, possono tradursi in esperienze di paura o angoscianti.

Sperimentare una paralisi, nella maggior parte dei casi, non è affatto piacevole, come afferma E. :

ho letto su Internet solo cose diciamo ‘paranormali’ […] provavo sensazioni di paura, terrore, ansia, tremavo, non riuscivo a muovermi e parlare, ansimavo per farmi svegliare dai miei fratelli… (CICAP, n.d.).

È quindi intuibile del perché di certe spiegazioni a carattere soprannaturale del fenomeno, c’è inoltre da dire che la paralisi del sonno non è nemmeno un fenomeno tanto raro, si stima che sia sperimentato almeno una volta nella vita dal 18 al 40% della popolazione. Questo potrebbe quindi spiegare del perché le interpretazioni, le spiegazioni e i rimedi popolari siano così ampi e variegati. Di certo è innegabile che sia un fenomeno psicobiologico affascinante e di notevole interesse così come lo sono le credenze popolari alla sua base.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Disturbi specifici dell’apprendimento: aspetti emotivi e comorbilità

Veronica Gatta e Claudia Tropeano – OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Nel corso degli anni, diverse ricerche sono andate oltre lo studio dei processi cognitivi negli alunni con DSA, per prendere in esame anche tutti quei fattori emotivi che possono incidere profondamente sulla direzione dell’itinerario di sviluppo di un individuo e in tal modo possono concorrere a determinare situazioni di disagio, disadattamento o disturbo mentale

Durante il percorso scolastico, tanti bambini e ragazzi possono incontrare momenti di difficoltà nell’apprendimento. Queste difficoltà possono incidere sulla prestazione e sul rendimento scolastico provocando, a volte, problemi di adattamento e di autostima. Talvolta, il disagio psicologico associato, la scarsa autostima e le strategie di adattamento messe in atto vengono scambiate e attribuite a scarso impegno, pigrizia e svogliatezza.

Per difficoltà di apprendimento si fa riferimento ad una generica difficoltà in ambito scolastico e questa va distinta dal disturbo dell’apprendimento, che implica, invece, la presenza di un deficit specifico, che va indagato con un processo clinico-diagnostico (Cornoldi, 1997; 2007). I disturbi dell’apprendimento (DSA) hanno le caratteristiche di essere innati, resistenti al trattamento e resistenti all’automatizzazione. Il DSM V li colloca nell’Asse I, come disturbi della lettura, dell’espressione scritta e del calcolo. Nell’ICD-10 (OMS, 2007) vengono inseriti nei disturbi dello sviluppo psicologico, come disturbi specifici delle abilità scolastiche (disturbi specifici di lettura, di compitazione, delle abilità aritmetiche e disturbo specifico misto).

Tali disturbi, pur essendo evolutivi, cioè esistenti sin dalle primissime fasi di sviluppo, trovano la loro espressione negli anni della scolarizzazione, presentandosi come un evento inaspettato, visto che lo sviluppo del bambino negli anni precedenti è avvenuto secondo modi e tempi sostanzialmente nella norma, in condizioni individuali e ambientali sufficienti per raggiungere buoni risultati d’apprendimento (Ruggerini et al., 2004).

Per effettuare la diagnosi, l’abilità scolastica deve presentare un grado significativo di compromissione e deve essere specifica, cioè non attribuibile a ritardo mentale o a compromissioni minori del livello cognitivo generale. Non devono essere, inoltre, presenti altri fattori esterni in grado di spiegare le difficoltà riscontrate, come difficoltà visive o uditive. La diagnosi può essere effettuata alla scuola primaria: in considerazione dell’evolutività delle componenti implicate, la diagnosi di disturbo specifico della lettura e della scrittura può essere effettuata al termine della classe seconda; la diagnosi di disturbo del calcolo, invece, può essere effettuata al termine della classe terza. Ricerche recenti indicano che la prevalenza della dislessia in Italia è compresa tra il 3,1% e il 3,2% (Barbiero et al). La prognosi dipenderebbe da numerosi fattori, quali la gravità, la tempestività e l’adeguatezza dell’intervento, il livello cognitivo, l’associazione di difficoltà nelle diverse aree, la comorbilità con altre patologie e l’ambiente (AID, 2009).

Secondo le Raccomandazioni della Consensus Conference per comorbilità si deve intendere:

  • Un’espressione di co-occorrenza, ovvero il DSA sarebbe il responsabile del manifestarsi di un disturbo psicopatologico che potenzialmente è già esistente in forma silente, in bambini predisposti geneticamente (Milani et al.,2008)
  • Lo sviluppo di problemi psicologici dovuti ai continui e ripetuti fallimenti scolastici, che lo portano a percepirsi come inappropriato e inadeguato.

Questi vissuti emotivi possono causare una forte sofferenza emotiva che può manifestarsi dapprima con rabbia, aggressività, ritiro interiore e isolamento fino all’instaurarsi di veri e propri stati di ansia e depressione (AID,2010).

Nel corso degli anni, diverse ricerche sono andate oltre lo studio dei processi cognitivi negli alunni con DSA, per prendere in esame anche tutti quei fattori emotivi (Moè, De Beni & Cornoldi, 2007) che, entrando in gioco, possono incidere profondamente sulla direzione dell’itinerario di sviluppo di un individuo e in tal modo possono concorrere a determinare situazioni di disagio, disadattamento o disturbo mentale (Ruggerini et al., 2004). Dalla letteratura, in generale, il rischio di un’evoluzione psicopatologica appare cumulativo e determinato da più fattori: un bambino con DSA può vivere degli eventi di vita concomitanti, sfavorevoli e traumatici, che possono compromettere l’efficienza delle risorse psicologiche potenziando il rischio di un disturbo psichico (Valerio et al., 2013).

L’esperienza clinica e i dati riportati da numerose ricerche suggeriscono, infatti, che i disturbi specifici dell’apprendimento, oltre che tra loro, si presentano frequentemente associati a disturbi emotivi e comportamentali e possono essere associati a grandi sofferenze emotive nell’infanzia ed a una deviazione patologica dello sviluppo; vengono infatti considerati un fattore di rischio per un futuro disagio psicologico (Mugnaini et al. 2008).

In particolar modo, la letteratura scientifica mostra che i bambini affetti da Disturbo Specifico dell’Apprendimento, e da dislessia in particolare, sembrano essere maggiormente a rischio di sviluppare altri disturbi psicopatologici in comorbilità, come ansia e depressione (Hinshaw, 1992; Kavale & Forness, 1996). Sono spesso presenti una psicopatologia dell’umore, d’ansia, o tratti ansioso-fobici, demoralizzazione, disistima di sé, learned helplessness, disagio psicoaffettivo, inibizione, somatizzazioni, difficoltà relazionali, tratti aggressivi, isolamento sociale e oppositività (Gagliano 2008).

I bambini con disturbo specifico dell’apprendimento, rispetto ai loro compagni senza particolari difficoltà, hanno un concetto di sé più negativo (Tabassam e Grainger 2002), si sentono meno supportati emotivamente, provano più ansia e hanno poca autostima (Hall, Spruill e Webster 2002), tendono a sentirsi meno responsabili del proprio apprendimento (Anderson-Inman 1999) e a persistere poco, ovvero ad abbandonare il compito alle prime difficoltà (Bouffard e Couture 2003). In alcuni casi ciò dipende dalla difficoltà nello sviluppare i processi di autoregolazione, in particolare un sistema interno di auto-ricompensa, per cui spesso vi è la presenza di una scarsa resistenza alla frustrazione (Olivier e Steenkamp 2004).

Secondo Palladino et al. (2000) e Morgan e Fuschs (2007) i bambini con dislessia sperimentano un sovrappiù di sofferenza e rischiano di rimanere invischiati in circoli viziosi, in cui fallimenti, la scarsa consapevolezza metacognitiva, la demotivazione e il disinvestimento per i doveri scolastici si potenziano reciprocamente. La disfunzionalità sociale della dislessia dipenderà, dalla sua gravità, dal tipo e numero di caratteristiche associate e di circoli viziosi attivati (Mugnaini et al 2008).

Le ricadute psicologiche della dislessia e degli altri DSA sono ampiamente note in età evolutiva ma, costituiscono un problema rilevante anche nell’adulto, sia perchè il disagio psicologico precoce può aver determinato il cristallizzarsi di una personalità segnata dalla sofferenza in varie forme, sia perchè la persistenza di problemi funzionali continua a determinare nella vita personale, emotiva e relazionale, conseguenze che sono fonte di ansia, depressione, insicurezza.

L’ansia è il più frequente sintomo emotivo riportato nei dislessici: recenti studi (Nelson & Harwood, 2013) evidenziano la presenza di sintomi riconducibili all’ansia scolastica in circa il 70% dei bambini con difficoltà di apprendimento.

Diversi studi evidenziano un aumento dei livelli di ansia, attraverso il manifestarsi di somatizzazioni (Huntington e Bender, 1993; Masi et al.,1998), come vomito, algie addominali, cefalea tensiva. Si verifica un circolo vizioso: elevati livelli di ansia durante lo svolgimento di un compito di matematica, così come durante la lettura di un brano, proprio per la natura stessa dei due compiti, interferiscono con lo svolgimento del compito, con dirette implicazioni a livello di memoria di lavoro (Eysenck, Derakshan, Santos e Calvo, 2007) e peggioramento ulteriore della prestazione. Gli alunni in difficoltà tendono ad anticipare il fallimento e questo può provocare una forte agitazione e conseguenze psicologiche. La pratica clinica ha, infatti, evidenziato come l’insuccesso prolungato, generando scarsa autostima e mancanza di fiducia nelle proprie capacità, possa indurre nel bambino, frustrato dai suoi inspiegati insuccessi, la manifestazione di una serie di disagi che vanno dalla demotivazione all’apprendimento ad una forte inibizione, fino, in alcuni casi, alla depressione (Valerio et al., 2013).

Un problema associato con l’ansia, e che nel tempo può influire ulteriormente sui disturbi psicopatologici, è la fobia scolastica. Moè et al.(2007) la definiscono come particolare paura e avversione per la scuola che si accompagna a reazioni emotive negative associate a qualche componente dell’ambiente scolastica (i compagni, la valutazione, un docente) e che coinvolge circa il 2% della popolazione scolastica, in particolare nei momenti di passaggio, ovvero a 6 e a11 anni. Se non trattata, può portare a sviluppare gravi forme di isolamento e depressione e può essere frequente nei bambini con DSA. La spiegazione da un punto di vista comportamentale si concentra sui comportamenti di evitamento che nel tempo sono stati rinforzati attraverso forme di astensione dalla scuola (King et al., 1998).

La depressione appare essere presente nei bambini e negli adolescenti con DSA (Maughan et al., 2003; Arnold et al., 2005), anche se non molto diffusa. I bambini con questo tipo di problematiche, sono ad alto rischio di provare intensi sentimenti di dolore e sofferenza. Inoltre, il basso rendimento scolastico potrebbe predisporre i bambini a diventare più isolati, ripiegati su di sé e con problemi di emarginazione, rispetto ai bambini senza difficoltà di apprendimento (Willcutt e Pennington, 2000). Infine, è stato ampiamente dimostrato che studenti con disturbi di apprendimento manifestano una più bassa percezione di valore di sé, un concetto di sé più negativo (Alesi, Rappo e Pepi, 2012; Hall, Spruill e Webster, 2002).

È possibile sostenere che le problematiche affettivo- emotive susseguenti al manifestarsi del disturbo sono il prodotto del complesso sistema di interazioni che si sviluppa tra i soggetti coinvolti nel processo di apprendimento e tra le loro rappresentazioni mentali, sulla base delle reazioni psicologiche e comportamentali all’insuccesso nell’apprendimento.

La mancanza di speranza, in aggiunta alla bassa autostima e all’impossibilità di controllare i comportamenti avversi a cui i ragazzi DSA sono sottoposti (fallimenti scolastici, difficoltà di apprendimento, problemi relazionali, …) può portare alla formazione di ciò che viene definita Impotenza Appresa da Seligman. Ciò porta l’individuo a incolpare sè stesso della situazione in cui si trova e a dare un giudizio immutabile di incapacità globale di sé. Non si tenta di modificare il proprio stato perché, da una parte, non ci si sente all’altezza e dall’altra si considera l’ambiente come statico (Seligman, 1975). Nelle storie dei dislessici sono sempre presenti le tre caratteristiche evidenziate da Seligman sull’impotenza appresa:

  • La tendenza a pensare che le cose negative siano permanenti
  • La tendenza a generalizzare la negatività e percepirla come pervasiva di tutta la vita
  • La tendenza alla personalizzazione, cioè a considerarsi come la causa della negatività.

La qualità dell’esistenza di ogni bambino è influenzata dal modo in cui egli apprende, fin dai primi anni di vita, ad affrontare le proprie emozioni. È evidente che la tensione emotiva interferisce negativamente con l’efficacia di parecchie prestazioni cognitive, come la capacità di concentrazione, l’attenzione, la capacità mnemonica. Quindi con i bambini con DSA, per i quali lo scontro con le emozioni negative è quotidiano, un programma di educazione emotiva potrebbe essere un valido aiuto per imparare ad affrontare costruttivamente le difficoltà che incontra nella vita di ogni giorno.

Alla luce dei dati riportati, è importante che i clinici rivolgano l’attenzione agli aspetti emotivi associati e ad un’analisi psicologica, indagando i fattori di rischio che aumentano la probabilità di incorrere in un disagio (adhd, predisposizione all’ansia, scarso sostegno sociale) e dall’altra lo spettro psicologico che la letteratura segnala poter essere presente in comorbilità. É fondamentale cercare e promuovere nel bambino e nel suo ambiente azioni di protezione da forme di disadattamento e conoscere ed identificare i fattori di rischio e di protezione per permettere alla scuola, agli insegnanti, ai genitori e ai clinici di delineare le priorità di intervento per la prevenzione e la riduzione del disagio.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • AID, Associazione Italiana Dislessia (2009), Consensus Conference, Disturbi evolutivi specifici di apprendimento. Raccomandazioni per la pratica clinica.
  • AID- Associazione italiana dislessia (2010). Guida al piano didattico personalizzato DOWNLOAD
  • Alesi, M., Rappo, G., Pepi, A. (2012). Self-esteem at school and self-handicapping in childhood: comparison of groups with learning disabilities. Psychol Rep;111(3):952-62.
  • Anderson-Inman, L. (1999), Computer-based solution for secondary students with learning disabilities: Emerging issues, in Reading and writing quarterly, 15, pp.239-249
  • Arnold, E.M., Goldston, D.B., Walsh, A.K., Reboussin, B.A., Daniel, S.S., Hickman, E., Wood, F.B. (2005). Severity of emotional and behavioral problems among poor and typical readers. Journal of Abnormal Child Psychology 33(2): 205-17.
  • Barbiero, C., Lonciari, I., Montico, M., Monasta, L., Penge, R., Vio, C., Tressoldi, P. E., Ferluga, V., Bigoni, A., Tullio, A., Carrozzi, M., Ronfani, L. (2012) The submerged Dyslexia iceberg: how many school children are not diagnosed? Results from an Italian study. PLOS ONE, 7 (10). DOI: 10.1371/journal.pone.0048082
  • Bouffard, T. e Couture, N. (2003), Motivational profile and academic achievement among, students enrolled in different schooling tracks in Educational Studies, 29, pp.19-38
  • Cornoldi, C. (2007). Difficoltà e disturbi dell’apprendimento. Il Mulino, Bologna
  • Eysenck, M.W., Derakshan, N., Santos, R.,& Calvo , M.G.(2007). Anxiety and cognitive performance: Attentional control theory. Emotion, 7, 336-353. DOWNLOAD
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  • Gagliano, A., Germanò, E., Calarese, T., Magazù, A., Grosso, R., Siracusano, R.M., Cedro, C. (2008). La comorbilità nella dislessia: Studio di un campione di soggetti in età evolutiva con disturbo di lettura. Dislessia, 4 (1), pp. 27-45.
  • Hall, C.W., Spruill, K.L e Webster, R.E. (2002), Motivational and attitudinal factors in college students with and without learning disabilities. Learning Disability Quartely, 25, pp.78-86
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  • Maughan, B., Pickles, A., Hagell, A., Rutter, M., Yule, W. (1996). Reading problems and antisocial behavior: Developmental trends in comorbidity. Journal of Child Psychology and Psychiatry 37(4): 405-18.
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  • Mugnaini, D., Chelazzi, C. e Romagnoli, C. (2008) Correlati psicosociali della dislessia: Una rassegna, Dislessia, vol. 5, n. 2, pp. 195-210.
  • Olivier, M.A.J. e Steenkamp, D.S (2004), Attention–deficit/hyperactivity disorder: underlyng deficits in achievement motivation. International journal for the advancement of counseling, 26, pp.47-63.
  • Oms (2007), International Classification of Diseases, ICD-10.
  • Palladino, P., Poli, P., Masi, G., Marcheschi, M. (2000). The relation between metacognition and depressive symptoms in preadolescents with learning disabilities: Data in support of Brokowski’s model. Learning Disabilties Research and Practice 15(3): 142-8.
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  • Seligman, M.P.E. (1975). Helplessness: on depression, development, and death. San Francisco, W.H. Frreman
  • Valerio, P., Pepino, A., Striano, M., & Oliverio, S. (2013). Disturbi specifici dell’apprendimento e formazione, tra Scuola e Università. Uno sguardo interdisciplinare. Napoli: Ateneapoli Srl.
  • Willcutt, E. G., Pennington, B.F. (2000). Psychiatric comorbidity in children and adolescents with reading disability. Journal of Child Psychology and Psychiatry 41(8): 1039-48.

Siblings: essere fratelli di ragazzi con disabilità – Recensione del nuovo libro di Alessia Farinella

Una breve opera ma che riassume alcune delle principali esperienze cliniche ed educative con i siblings. Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per le modalità con le quali i siblings fronteggiano e si adattano alla vulnerabilità del fratello, si tratta di un ambito della ricerca teorica e applicata molto importante.

 

Caterina ha cambiato la mia vita. Mi aiuta a guardare le cose che mi succedono dalla giusta prospettiva. Mi ha reso più sensibile ai bisogni delle altre persone e disponibile ad accettare gli altri. Ma lei fa tutto lentamente: mangiare, giocare, imparare… e anch’io devo rallentare, anche se a volte mi sembra che in realtà la sua presenza mi freni, mi porti indietro.

Alessandro

Questa è una delle brevi e incisive testimonianze di un fratello di un bambino con disabilità, che l’autrice riporta nel suo testo . Una breve opera ma che riassume alcune delle principali esperienze cliniche ed educative con i siblings, termine anglosassone comunemente utilizzato per indicare i fratelli e le sorelle di bambini, ragazzi con una disabilità.

Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per le modalità con le quali i siblings fronteggiano e si adattano alla vulnerabilità del fratello, si tratta di un ambito della ricerca teorica e applicata molto importante. È utile, infatti, sapere se per i fratelli stessi esiste un maggior rischio di comparsa di problemi emotivi, comportamentali o sociali dovuti alla vulnerabilità del congiunto e se esistono dei fattori protettivi che possono impedirne il manifestarsi (Lobato, 1993).

Inoltre come indica Farinella: la comprensione delle dinamiche interne alla fratria con disabilità consente di incrementare le conoscenze relative ai processi di coping e di resilienza delle famiglie.

I progetti Siblings per il supporto per fratelli in età preadolescenziale

Una realtà che si sta progressivamente diffondendo è quella dei gruppi di supporto per fratelli e sorelle di persone con disabilità. Seppur con caratteristiche e impostazioni differenti alcuni si configurano come gruppi di mutuo aiuto, altri come gruppi terapeutici, altri ancora come attività di laboratorio come il modello americano dei sibshop.

Indipendentemente dal modello di riferimento queste esperienze partono dalla considerazione che essere un fratello o una sorella di una persona con una vulnerabilità specifica e bisogni speciali può rappresentare per alcuni un opportunità di crescita e di resilienza e per altri un fattore di rischio.

Quindi fattore protettivo o fattore di rischio? Se la risposta non è determinabile a priori e non è sempre uguale, risulta molto importante mettere in campo iniziative che orientino verso una risposta resiliente facilitando processi di crescita post-traumatica. La disabilità di un componente è un evento doloroso e traumatico per una famiglia , certo lo è maggiormente per i genitori ma non da sottovalutare il vissuto dei fratelli e sorelle.

Tra le esperienze cliniche che l’autrice ci illustra c’è quella del Piemonte avviata nel 2010 dall’Associazione Fiori sulla Luna, che ha avviato gruppi di supporto per siblings preadolescenti di persone con disabilità ai fratelli preadolescenti. Il progetto SIBLINGS si è rivolto ai fratelli e alle sorelle di età compresa tra gli 8 e i 13 anni; ha avuto una durata annuale suddivisa in due moduli semestrali con gruppi di circa 8-10 partecipanti. Il modello di riferimento per le attività di gruppo è quello anglosassone di Meyer, 2005 e Strohm, 2005.

I momenti di incontro tra fratelli si sono connotati come occasioni ludico-ricreative in cui le attività proposte avevano i seguenti obiettivi principali:

  • creare occasioni di condivisione e comunicazione fra i siblings;
  • aiutare i ragazzi a sviluppare una migliore comprensione dei bisogni dei loro fratelli vulnerabili;
  • divertirsi insieme ad altri coetanei che condividono la condizione di siblings di persone con disabilità;
  • aiutare i partecipanti a esplorare le proprie risorse e a valorizzare la propria unicità, alla stregua dei loro fratelli disabili;
  • stimolare l’acquisizione di strategie per un migliore adattamento alla situazione di siblings di ragazzi fragili;
  • aumentare la comunicazione all’interno delle famiglie

L’esperienza è risultata positiva per i fratelli e i loro genitori ai quali gli operatori hanno dato una restituzione finale. I partecipanti hanno avuto l’occasione di condividere vissuti comuni e confrontarsi circa le loro strategie di fronteggiamento di difficoltà quotidiane di relazione con i fratelli.

I fratelli come caregiver

Il mio futuro me lo immagino da moglie e madre, magari in campagna, con due bambini che vanno in bicicletta in cortile. Se penso a mia sorella questo futuro cambia. Finché ci sono i miei genitori sono loro che se ne prendono più cura e so che stanno pensando a inserirla in un gruppo appartamento. Io non so ancora bene cosa vorrei, ma quest’idea non mi piace molto… di sicuro voglio continuare a essere parte della sua vita e che lei lo sia della mia… magari in una casa grande, con qualche aiuto potremmo anche vivere insieme.

Giorgia

Il futuro è, per i siblings di ragazzi fragili, un argomento molto delicato e complesso all’interno della famiglia. Si sperimentano preoccupazioni in merito a chi si occuperà dei fratelli quando i genitori invecchieranno, come dovranno organizzare la loro famiglia futura e se la propria vita potrà essere limitata dai bisogni speciali del fratello. Sono certamente domande lecite non egoistiche. Un’altra domanda che sottende ad una paura grande è la seguente? ma potrò trasmettere ai miei figli la disabilità del mio fratello? Il tema della natura ereditaria della disabilità è certamente un tema molto delicato, talvolta le paure sono infondate talvolta non si hanno risposte certe.

In ogni caso e su qualunque argomento specifico, i siblings hanno diritto a essere rassicurati e a ricevere informazioni veritiere e chiare.

In alcune famiglie si evitano questi discorsi per proteggersi da emozioni dolorose, in altre si pianifica il futuro del figlio sano sul quale vengono posti alti standard come riscatto. Ci sono famiglie con disabilità dove tutti hanno informazioni chiare ed anche gli altri figli sono coinvolti nelle decisioni di un fratello.

Diversi studi (Kersh e Hauser-Cram, 2006; Howell, Hauser-Cram e Kersh, 2007) sul clima familiare nell’ambito della disabilità citati dall’autrice, evidenziano come una relazione positiva tra i membri della famiglia e, in particolare tra i genitori, determina con più facilità un ambiente familiare che promuove il benessere di tutti e lo sviluppo di competenze sociali nei bambini , siano essi a sviluppo normo tipico o no.

Un libro utile, che ben sintetizza le esperienze di lavoro con i siblings. Consigliato agli operatori e volontari del settore e ai genitori.

 

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Vite senza immaginazione: cosa sono?

Vite senza immaginazione: questo è il titolo di un contributo che dedica attenzione a quelle persone che hanno difficoltà proprio nel visualizzare con l’occhio della mente diversi aspetti dell’esperienza: dall’immaginarsi qualcosa a partire da una lettura, da un racconto o dai propri ricordi. 

Il professor Zeman ha rivisitato il fenomeno approfondito Francis Galton alla fine dell’800 secondo cui si stimava che circa il 2,5% della popolazione potesse essere affetto da questo deficit; ad oggi anche a livello epidemiologico questo fenomeno risulta ancora scarsamente esplorato e non possiamo sbilanciarci sulle percentuali.

L’immaginazione mentale visiva è il risultato dell’attività di un network di regioni cerebrali ampiamente distribuite nel cervello che lavorano in interazione per generare le immagini mentali a partire anche dalle nostre memorie e ricordi: i lobi parietale e frontale “preparano” il processo della visualizzazione che viene effettivamente riprodotto dai lobi temporale e occipitale – attraverso quello che in gergo viene chiamato “l’occhio della mente”.

Dunque la difficoltà nell’immaginazione può risultare a seguito dell’alterazione funzionale di una di queste aree o della loro interazione, può trattarsi di un difetto presente dalla nascita o di un deficit a seguito di danni cerebrali.

La storia di questo articolo è bizzarra, poiché a partire dalla divulgazione su un giornale americano non specialistico di un report scientifico di un single-case study che raccontava il caso di un uomo con questo deficit di immaginazione visiva, ben 21 persone hanno contattato l’autore dell’articolo riconoscendosi nei sintomi descritti.

L’esperienza e la fenomenologia descritta da questi 21 soggetti è stata ora pubblicata sulla rivista scientifica Cortex: dal terribile impatto emotivo di Tom nel realizzare che a differenza degli altri non riesce a dare un volto alle persone nei suoi ricordi; o di Neil che fin dall’infanzia non è mai riuscito a contare le pecorelle per addormentarsi e che pur amando la lettura evita quei libri che si dilungano in descrizioni paesaggistiche che per lui rimangono pure astrazioni non traducendosi in immagini mentali.

E’ interessante notare che in quella che viene definita aphantasia congenita vi è una dissociazione tra l’incapacità di immaginare intenzionalmente qualcosa e invece quella che viene definita immaginazione involontaria, per esempio nei sogni che è generalmente preservata.

 

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Il catalogo dei seminatori: Il codardo parte II – Tracce del Tradimento Nr. 22

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTOXXII: il catalogo dei seminatori: il codardo parte II

 

Perché il codardo non riesce a dire cosa vuole? Egli pensa che se esprimesse i suoi bisogni, e in particolare i desideri di una maggiore distanza dal partner, di una maggiore area di libertà, l’altro potrebbe soffrire e giudicarlo cattivo ed insensibile.

Questo pensiero lo costringe a stare nel rapporto e gli fa percepire il rapporto stesso come soffocante, aumentando la colpevole -ai suoi occhi- voglia di fuga. Al contrario il non esprimere i suoi bisogni e uniformarsi a quelli dell’altro mettendosi a sua totale disposizione, se da un lato lo sacrifica, dall’altro gli da un senso di superiorità morale: è sempre lui che si immola per gli altri. Paradossalmente il risultato di questo tentativo di non far soffrire gli altri esita in una sofferenza diffusa e crescente di tutti: soffre il coniuge, soffre l’amante e soffre lo stesso codardo. La sofferenza di tutti è direttamente proporzionale al tempo che trascorrerà prima dell’esito che sarà comunque qualcun altro a decidere, certamente non lui.

Il suo motto sembra essere: Fate di me ciò che volete ma non chiedetemi cosa voglio! Io voglio ciò che voi volete che io voglia, la sua linea del Piave è la decisione: non la oltrepasserà mai. Decidere è un atto che comporta dei rischi, potrebbe sbagliarsi, potrebbe pentirsi, l’altro potrebbe prenderla male, non sa bene quale sia poi la scelta sensata, ha voglia di una cosa ma poi pensa a cosa perde e il suo desiderio si confonde. Poiché lo scopo del lasciar tracce è segnalare all’altro che vuole interromper il rapporto, se l’altro non capisce il volume del segnale viene costantemente aumentato creando situazioni sempre più esplicite e dolorose.

Se il partner appartiene alla categoria dei creduloni che fanno di tutto pur di non prendere atto della situazione e di non interrompere il rapporto e dunque non vede quello che è evidente a tutti gli altri, il codardo arriva a fare cose sempre più sfacciate e ad aumentare il livello delle provocazioni. Il pubblico di amici e parenti finisce per condannarlo apertamente per il modo quasi crudele e offensivo con cui tratta il partner: la colpa che voleva evitare gli viene esplicitamente attribuita. Non solo semina tracce imbarazzanti, ma quando gli vengono chieste spiegazioni del suo comportamento risponde al partner in modo evasivo: non ammette e non smentisce decisamente o se lo fa, lo fa in modo poco convinto: non vuole dire la verità, ma vuole che l’altro la capisca da solo.

La tappa intermedia a cui punta prima della fine del rapporto è una definizione del tipo: non c’è un altro (o se c’è è poco importante), il problema è che il nostro rapporto è in crisi. In questo modo egli pensa di non arrecare sofferenza all’altro dicendogli che gli preferisce un altro: tu vai bene, siamo noi che non funzioniamo. Questa posizione gli permette anche di tornare indietro sulle sue decisioni e gli lascia una porta aperta. La conclusione ideale per il codardo è una chiusura del rapporto che immagina avvenire quasi in perfetta concordia o addirittura con i ringraziamenti dell’altro. Il messaggio che goffamente tenta di far passare, spesso suscitando le ire dell’altro è Ti lascio per il tuo bene, perché non so amare e non ti merito; tu devi avere molto di più. Quanto sarebbe più facile, invece, per l’altro farsi una ragione di ciò che succede se il buon samaritano dicesse chiaramente: sto pensando al mio bene e non al tuo e tu non mi piaci più.

Non è facile distaccarsi da qualcuno che ancora si ama e che ti racconta di fare per te un gesto di altruismo estremo allontanandosi per il tuo bene e dichiarandoti mentre se ne va quanto ti ama: il codardo se ne va tentando di lasciare una buona immagine di se, tenendosi aperta la via del ritorno, impedendo all’altro di prendere le distanze, di criticarlo, di essere arrabbiato. L’altro quasi dovrebbe essere grato al suo carnefice e mentre gli taglia la testa ringraziarlo perché sta per liberarlo di ogni futuro mal di testa. Il codardo se ne va ma vuole rimanere indelebilmente nel cuore dell’altro; vuole la libertà ma non vuole lasciare libero l’altro. Il suo esibito altruismo cela un egoismo assoluto.

Alberto e Simona stavano insieme da sette anni ed erano sposati da tre. Lei aveva iniziato a tradirlo con un collega di lavoro non appena avevano deciso di sposarsi e non sapeva darsene una spiegazione se non che l’altro, un certo Oreste, aveva mostrato interesse per lei e le sembrava scortese mostrarsi scostante. Anche la decisione del matrimonio era stata presa su sollecitazione di Alberto. Simona si trovava nelle situazioni che gli altri creavano, ne era spettatrice o al massimo attrice ma mai regista. Quando parlava di Alberto ne diceva tutto il bene possibile, lo descriveva come un marito ideale, premuroso e attento. Tutto tra loro andava bene ed il fatto di avere una relazione con Oreste sembrava del tutto estraneo al loro menage familiare, come fare un corso di ikebana. I suoi genitori e i suoceri spingevano per una gravidanza che lei riteneva una cosa da fare prima o poi e proprio in contemporanea all’aumentare di queste pressioni, si moltiplicarono i segni evidenti del tradimento.

Le tracce erano così evidenti e inequivocabili che gli amici più cari della coppia avevano cercato di parlarle ma lei negava continuando ad affermare che il matrimonio era perfetto. Oreste era quasi entrato stabilmente in casa con la scusa di lavorare con Simona e spesso rimaneva a cena e talvolta trascorreva con loro anche i fine settimana, essendo scapolo. Alberto iniziò a confidarsi con Oreste circa quello che avvertiva come un progressivo allontanamento di Simona e trovò dall’altra parte un amico attento e comprensivo. Alberto diceva quanto si rendesse conto di non essere in grado di dargli la felicità a motivo della sua radicale incapacità di amare e che gli era grata per quanto lui aveva saputo darle in tutti questi anni. A sua volta Simona diceva a Oreste che si sentiva lacerata dai sensi di colpa per quanto aveva fatto e che non sarebbe mai potuta essere felice se avesse fatto soffrire così tanto quel sant’uomo di Alberto e così, dopo avergli strappato la promessa solenne di non dire mai nulla della loro storia, se ne andò lasciandoli entrambi con un palmo di naso. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Mindfulness Based Stress Reduction con pazienti oncologici: studi recenti sulle applicazioni

Laura Prosdocimo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

La ricerca oramai ha ampiamente dimostrato l’efficacia del programma Mindfulness Based Stress Reduction –MBSR. Mindfulness, ricordiamo, riguarda la pratica di consapevolezza al presente, momento per momento, in modo non giudicante, con atteggiamento aperto all’accettazione.

Il percorso di riduzione dello stress Mindfulness-Based (MBSR) comprende 8 settimane in cui i partecipanti praticano la consapevolezza per migliorare la qualità della vita e il benessere psicologico quando ci sono dei problemi di salute, come l’ipertensione, il diabete, il dolore cronico e per ridurre i livelli di stress.

Attualmente gli studi più recenti si stanno in particolare concentrando sull’analisi del potenziale del programma MBSR nell’ambito delle patologie croniche, come il tumore, il dolore cronico.

Nonostante la crescente evidenza degli effetti positivi del MBSR tra i pazienti oncologici, gli interventi di Mindfulness sono stati poco applicati a pazienti con cancro al polmone. Le statistiche globali in oncologia mostrano che il cancro del polmone è il secondo tumore più comune in tutto il mondo con nuovi casi stimati per i maschi che sono il 17,6% e per le femmine del 9% ogni anno (Jemal A et al., 2011). La diagnosi di cancro al polmone è una delle principali cause di disagio psicologico, con sintomi come l’ansia e la depressione e i livelli di maggiore stress vengono registrati nel 58% dei pazienti affetti da tumore del polmone (Carlson et al.,2004), che a sua volta riduce la qualità della vita (Temel JS, 2010).

Lo studio di Van den Hurk e colleghi (2015) è stato realizzato su un gruppo di 19 pazienti affetti da cancro del polmone (79% in stadio avanzato) e 16 partner che hanno partecipato alla formazione MBSR.

Le valutazioni si sono svolte dopo il percorso MBSR e tre mesi più tardi con i seguenti questionari:
– Disagio psicologico. L’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS)
– Qualità della vita. Questionario per il cancro al polmone (QLQ-LC13) dell’Organizzazione europea per la Ricerca e Cura del Cancro (EORTC) ,Nucleo Qualità della vita, con 13 items specifici per i sintomi associati al cancro del polmone (tosse, emottisi, dispnea, dolore) ed effetti collaterali da chemioterapia convenzionale e la radioterapia.
– Reazione psicologica allo stress. L’Impact of Event Scale (IES) è un questionario a 15 items che misura le esperienze intrusive e l’evitamento di pensieri e immagini associati all’evento.
– Rimuginio misurato con il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ) e il Livello di Attenzione/consapevolezza misurati con il Mindful Attention and Awareness Scale (MAAS). Infine la Valutazione del caregiver attraverso il Self-Perceived Pressure from Informal Care (SPPIC), un questionario che valuta in che misura il caregiving viene percepito come un peso e Valutazione della reazione del Caregiver (CRA-SE) per valutare anche gli aspetti positivi di caregiving.

Entro un 1 anno dalla formazione MBSR sono state fatte, da un ricercatore non coinvolto nella formazione MBSR, delle interviste semi-strutturate sui seguenti argomenti :
Fattibilità di MBSR:
– Facilitatori alla partecipazione;
– Barriere alla partecipazione;
– Partecipazione con il gruppo dei pari;
– Partecipazione con il partner.
L’esperienza della formazione MBSR:
– A livello fisico;
– Emozionale;
– Spirituale;
– Relazionale.

Di quelli che hanno iniziato la formazione, 13 pazienti (68%) e 11 partner (69%) hanno completato la valutazione post-trattamento. La valutazione di follow-up è stata completata da 9 (47%) pazienti e 8 (50%) partner.

I pazienti hanno dichiarato che la durata e la frequenza della formazione era fattibile, nonostante i loro sintomi fisici e le terapie in corso. La funzionalità fisica è stata menzionata da alcuni pazienti e partner come un facilitatore. E’ stato valutato positivamente il fatto di partecipare a un gruppo, sentito come un ambiente aperto e sicuro e partecipare con il partner ha migliorato la comunicazione tra loro e con i bambini.

I pazienti hanno evidenziato aspetti di cui non avevano consapevolezza prima, hanno descritto con una maggiore consapevolezza i loro pensieri, le loro emozioni e sensazioni; con l’intuizione acquisita di recente dei loro schemi abituali, alcuni partecipanti sono stati in grado di cambiare il loro comportamento e diversi hanno cominciato a fare delle scelte e stabilire delle priorità che erano più in linea con i loro valori. Altri partecipanti, tuttavia, non sono stati in grado o non hanno voluto accettare la loro situazione.
Questo studio ha dimostrato che la partecipazione alla formazione MBSR è fattibile per i malati di cancro del polmone e i loro partner, nonostante il trattamento farmacologico e la malattia avanzata. La maggioranza ha completato l’MBSR, (23% di drop-out è in linea alla media di studi precedenti (Ledesma D. and Kumano, 2009).

Sebbene non siano state rilevate variazioni sullo stress psicologico nei pazienti e i loro partner, questi ultimi hanno sperimentato una minore pressione relativa al caregiving dopo la formazione MBSR. L’analisi qualitativa ha rivelato che il percorso ha avviato processi di cambiamento e acquisizione di migliore capacità di insight che risulta particolarmente d’aiuto per far fronte ad una malattia fatale.

Molti pazienti oncologici presentano alti livelli di ansia, depressione, affaticamento, dolore, disturbi del sonno dopo il completamento dei trattamenti primari (Carlson et al., 2004). I potenziali benefici per la salute dalla meditazione di Mindfulness in oncologia come in altri settings medici stanno diventando chiari, in gran parte grazie allo sviluppo e la diffusione delle applicazioni del programma MBSR di Jon Kabat-Zinn e colleghi (Kabat-Zinn J.,1990) e altri interventi mindfulness-based (MBI), compreso l’adattamento chiamato Mindfulness-Based Cancer Recovery (MBCR; Carlson & Speca, 2010).

In ambito oncologico i risultati di nove studi randomizzati controllati (RCT) indicano un effetto positivo degli interventi Mindfulness-Based sui sintomi di stress, disturbi dell’umore, depressione, ansia, stress percepito, sulla qualità della vita, il funzionamento fisico, sonno, stanchezza, e stati d’animo (Branstrom, Kvillemo, e Moskowitz, 2011; Carlson et al, 2013;. Garland et al, 2014;.. Henderson et al, 2012;. Hoffman et al, 2012; Lengacher et al, 2009;. Shapiro, Bootzin, Figueredo, Lopez, e Schwartz, 2003; Speca, Carlson, Goodey, e Angen, 2000;. Wurtzen et al, 2013).

Tuttavia non è ancora noto quali elementi del programma MBSR promuovano il cambiamento e quali costrutti specifici siano fondamentali per dei risultati di cambiamento. Ricercatori clinici da ambiti diversi enfatizzano l’importanza di capire come gli interventi funzionino al fine di rendere più efficace il trattamento a seconda dell’ambito d’intervento.

La premessa fondamentale di MBI è che le tecniche praticate (vale a dire, la meditazione mindfulness) coltivano la consapevolezza come una qualità della coscienza (Kabat-Zinn, 1990), ma questo costrutto è difficile da misurare. Le misure di self-report analizzate contengono da 1 a 5 sfaccettature in disaccordo con la definizione del costrutto (es. Grossman & Van Dam, 2011). Due delle misure più accuratamente convalidate della consapevolezza sono il Mindful Attention Awareness Scale (MAAS) e il Five Facet Mindfulness. (FFMQ).

Il MAAS produce un unico punteggio che rappresenta la presenza o l’assenza di attenzione e consapevolezza di ciò che sta accadendo nel presente nelle attività quotidiane (cioè, la propria tendenza ad “agire consapevolmente”).

Il FFMQ valuta le “abilità di mindfulness” come partecipare all’attuale momento di esperienza, accettando / permettendo l’esperienza senza giudizio, etichettare esperienze interiori con le parole, agendo con la consapevolezza nella vita quotidiana e sperimentando la non reattività di esperienza interiore. Sia MAAS che FFMQ correlano con le rilevazioni sul funzionamento psicologico e di benessere.

Tuttavia, non è chiaro se questi questionari valutano aspetti del funzionamento connessi con la consapevolezza di per sé, o dei suoi antecedenti o effetti (Brown et al., 2007). Teorie riguardanti i meccanismi di MBIs sostengono che il coltivare la consapevolezza innesca processi di regolazione delle emozioni che ottimizzano il funzionamento psicologico e riducono lo stress psicologico (Fig.1) e ci sono sempre più evidenze che MBIs migliorano le capacità di consapevolezza in soggetti normali, gruppi sottoposti a stress e gruppi di soggetti malati di cancro.

Tuttavia Carmody, Baer, Lykins, e Olendzki (2009) hanno scoperto che durante il programma MBSR, l’auto regolazione delle emozioni e dei pensieri non risulta essere un mediatore dell’associazione tra il tratto mindfulness e la riduzione dei sintomi psicologici.
Per definire il cambiamento in una variabile particolare, il cambiamento deve in quella variabile precedere e predire i risultati di cambiamento attraverso l’intervento. La maggior parte degli studi MBI presentano i dati di variabili misurate in due momenti (prima e dopo il programma) e perciò non era possibile valutare la precedenza temporale di cambiamento.
Senza evidenza della sequenza temporale di cambiamento non possono essere esclusi modelli alternativi (ad esempio, il miglioramento del funzionamento psicologico dovuto all’associazione tra partecipazione a MBI e una maggiore consapevolezza) (Baer, 2011). La mancanza di evidenze della sequenza del cambiamento contribuisce anche ad aumentare l’ambiguità nel distinguere il costrutto di mindfulness dai suoi antecedenti ed effetti.

Nello studio di Labelle e colleghi (2015) vennero selezionati 324 pazienti dalla lista d’attesa, i quali completarono i questionari prima, a metà programma e alla fine. Le variabili rilevate sono le seguenti:
Sintomi fisici e psicologici legati allo stress con il Calgary Symptoms of Stress Inventory (CSOSI; Carlson & Thomas, 2007), disturbo dell’umore con il Profile of Mood States (POMS; McNair, Lorr, & Droppelman, 1971), la consapevolezza al momento presente con il Mindful Attention Awareness Scale (MAAS; Brown & Ryan, 2003), Osservazione, descrizione a parole, azione, non giudizio e non reazione attraverso il Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ; Baer et al., 2006), ruminazione : Rumination-Reflection Questionnaire (RRQ; Trapnell & Campbell, 1999), tratti di rimuginio : Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer, Miller, Metzger, & Borkovec, 1990), evitamento esperienziale e la tendenza a valutare l’esperienza interiore negativamente: Acceptance and Action Questionnaire (AAQ; Hayes et al., 2004).

Il gruppo MBSR è costituito da 135 pazienti e 76 del gruppo di controllo, sono stati considerati drop-out pazienti che hanno frequentato meno del 50% del programma. Alla tabella 2 troviamo le statistiche descrittive dei questionari ad ogni punto temporale.
I partecipanti MBCR hanno rivelato maggiore decremento dei sintomi di stress e disturbi di umore durante il periodo. La partecipazione è inoltre associata ad un maggiore aumento di consapevolezza rilevato tramite MAAS e tutte e cinque gli aspetti del FFMQ e il gruppo rilevò maggiore riduzione della uminazione, rimuginio, evitamento esperienziale rispetto al gruppo di controllo. La tabella n. 4 riporta i risultati (secondo il modello lineare gerarchico –HLM-). E’ stata rilevata una prima variazione significativa dell’Osservazione, poi del non giudizio, ruminazione, rimuginio, riduzione del disturbo dell’umore correlato al numero di partecipazione alle sessioni (figura n. 3).

Il secondo obiettivo di questo studio è stato quello di verificare se i primi cambiamenti di consapevolezza e regolazione delle emozioni (ER) mediano l’effetto di MBSR sui cambiamenti successivi. I risultati non sono coerenti con la teoria che i cambiamenti nella consapevolezza precedono e mediano i miglioramenti in ER e funzionamento psicologico (Figura 1), quando la sequenza di cambiamento viene esaminata relativamente a una singola valutazione a metà programma. È interessante notare che lo sviluppo precoce dell’ osservazione del presente con consapevolezza non giudicante (PNA) media successive variazioni delle altre abilità di mindfulness (MAAS, descrivere e non-reagire).

Un dibattito fondamentale in letteratura è se questionari mindfulness valutino la consapevolezza di per sé, le condizioni che supportano lo svolgersi e l’espressione della consapevolezza (ad esempio, gli atteggiamenti, come non giudicante / di accettazione), o gli antecedenti di mindfulness (ad esempio, migliore regolazione emotiva; Brown et al. , 2007).

In uno studio osservazionale che indagava le sfaccettature del FFMQ in relazione alla regolazione emotiva e le variabili di salute / benessere mentale, Coffey Hartman, e Fredrickson (2010) hanno concluso che l’osservazione e il non-giudizio sembrano essere le vere misure della mindfulness, in linea con la definizione del costrutto come, consapevolezza del momento presente in modo non giudicante preso in esame anche da Bishop e colleghi (2004).

In modo simile lo studio di Labelle (2015) suggerisce che il descrivere e non-reagire possono essere meglio concettualizzati come sequele di mindfulness, o della regolazione emotiva, misurando cosa mindfulness fà piuttosto che cosa sia (Brown et al. 2007; Coffey et al. 2010). I risultati inoltre suggeriscono che la riduzione della ruminazione e del rimuginio sono la via attraverso la quale MBSR migliora l’attenzione al momento presente e la non-reattività in pazienti oncologici.

Anche riduzioni relativamente piccole della ruminazione e del rimuginio nella fase iniziale possono aver reso più semplice per i partecipanti l’applicazione delle tecniche di mindfulness, contribuendo a migliorare i punteggi di mindfulness nel corso del tempo.
Solo una associazione risulta essere nella direzione del modello teorico. Precoci riduzioni del rimuginio mediano l’effetto di MBCR sui successivi miglioramenti dei sintomi da stress. Questo risultato è pertinente e comune tra i pazienti oncologici ed è connesso ai sintomi psicologici e al benessere (esempio Schroeevers et al., 2006).

E’ interessante inoltre osservare che la riduzione della ruminazione durante la prima metà del programma media l’effetto MBSR relativo ad un successivo minore evitamento esperienziale. Durante l’MBSR, riducendo l’eccessivo coinvolgimento con i propri pensieri relativi alle perdite, paure e ingiustizie si possono ridurre modelli che includono pensieri spiacevoli e sentimenti attivati nel tentativo di controllare quelle esperienze.

I dati raccolti in tre momenti temporali (pre- mid- and post- MBSR) possono non aver rivelato la complessità del cambiamento e/o relazioni tra i cambiamenti nella mindfulness, regolazione delle emozioni e i risultati psicologici. Il poter determinare il momento preciso di cambiamento durante il programma MBSR attraverso più frequenti valutazioni (es. settimanalmente) permetterebbe delle conclusioni più forti riguardo i meccanismi del programma. Tuttavia questo studio offre un contributo nel comprendere “come” gli interventi mindfulness-based funzionino in oncologia e in altri ambiti.

E’ stata inoltre condotta una meta-analisi che ha valutato i benefici della riduzione dello stress basato mindfulness-(MBSR) sul disagio psicologico tra le sopravvissute al cancro al seno (Hua-ping Huang et al.,2005).

Metodo

Due revisori indipendentemente hanno recensito  ed estratto i dati da PUBMED, EMBASE e Cochrane Central Register of Controlled Trials. E’ stato utilizzato il programma Review Manager 5.3 a per riunire i dati raccolti.
Tutti gli studi inclusi nella meta analisi dovevano rispettare i seguenti criteri:
1) i partecipanti: donne con diagnosi di tumore al seno;

2) intervento : MBSR;

3) confronto: trattamento standard o usuale.;

4) risultati: qualità della vita (QOL) e area psicologica come depressione, ansia e stress;

5) disegno di studio: trial clinico randomizzato (RCT), prima e dopo lo studio intervento.
Sono stati identificati nove studi che coinvolgono 964 partecipanti.

Risultati

Rispetto al gruppo di controllo, i pazienti nel gruppo MBSR hanno un miglioramento significativo per quanto riguarda l’aspetto psicologico: depressione (differenza media MD), 5,09; 95%, fiducia in se stessi (IC), 3,63-6,55; P <0,00001], ansia (MD, 2,79; 95% CI, 1,62-3,96; p <0,00001), stress (MD, 4,10; 95% CI, 2,46-5,74; p <0,00001). MBSR può anche migliorare la qualità complessiva della vita (QOL) (MD, -1,16; 95% CI, -2,21 a -0,12; p = 0.03).

Sulla base dei risultati di questa meta-analisi, MBSR mostra un effetto positivo sulla funzione psicologica e qualità della vita delle sopravvissute al cancro al seno. Quindi gli autori di questa meta-analisi concludono che l’MBSR può essere raccomandato per i pazienti con cancro al seno, come una parte della loro riabilitazione.

Altro studio (Lengacher et al. 2015) randomizzato controllato sugli effetti di MBSR per i disturbi del sonno in donne sopravvissute al cancro al seno (BCS), suggerisce che MBSR può essere un trattamento efficace per migliorare i parametri oggettivi e soggettivi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’inconscio – Introduzione alla Psicologia nr. 27

Inconscio: L’inconscio è formato, dunque, da desideri repressi e esiliati lontano dalla coscienza. Questi desideri possono riemergere, dall’inconscio alla coscienza, o come fenomeni onirici o come disagio psichico.
INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 27)

Il concetto di inconscio comparve per la prima volta tra gli scritti di Cartesio, e successivamente fu perfezionato da Locke e da Leibniz. Sigmund Freud, si riappropriò di questo costrutto dotandolo di sostanza e facendolo diventare uno dei capisaldi della sua teoria. Infatti, Freud lo considerava uno dei concetti chiave nell’approccio psicoanalitico, uniti a quello di preconscio e conscio. Tutti e tre queste nozioni costituiscono quella che Freud definisce la prima topica, una delle principali teorie che sostanzia l’approccio psicoanalitico attraverso l’individuazione di queste forze, il preconscio, l’inconscio e il conscio, che agiscono fuori e dentro di noi. In soldoni, si hanno tre regioni distinte, separate dai vincoli della censura e della rimozione.

Ma, l’inconscio è il territorio con meno vincoli, in quanto in questo spazio la vita psichica è poco limitata da una serie di barriere, presenti invece nelle altre due istanze.

Nell’inconscio per esempio non è presente la negazione, il dubbio, e l’incertezza. Tutto quello che lo caratterizza è frutto della censura che lavora tra il conscio e il preconscio.
Inoltre, non appartengono all’inconscio i principi della logica su cui verte la vita quotidiana e per questo non c’è neanche la dimensione del tempo e dello spazio.

L’inconscio è formato, dunque, da desideri repressi e esiliati lontano dalla coscienza. Questi desideri possono riemergere, dall’inconscio alla coscienza, o come fenomeni onirici o come disagio psichico.
Le operazioni che caratterizzano il regno dell’inconscio sono: lo spostamento, procedimento per cui nei sogni si sostituisce una rappresentazione con un’altra semanticamente affine; la condensazione, in cui in una sola immagine sintetizza elementi diversi, di cui alcuni manifesti ed altri latenti. Questi ultimi rappresentano il procedimento simbolico.

L’inconscio, dunque, comunica messaggi, segnali ed emozioni attraverso il corpo, i comportamenti, la voce, la scrittura, e il modo di gesticolare. L’inconscio è sempre attivo e vigile, infatti, quando dormiamo, entriamo in uno stato in cui può parlare liberamente e quello che si percepisce a livello conscio sono i sogni, anch’essi ricchi di messaggi, significati nascosti, desideri ed emozioni represse. Infatti, Freud definiva i sogni come la soddisfazione inconscia di un desiderio rimosso.

Col tempo e col divenire delle teorie psicologiche il concetto d’inconscio non è sparito, ma si è modificato ed evoluto. Anche Beck e Ellis, fondatori della moderna Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, ne parlavano. Originariamente, erano due psicoanalisti che cercavano di spostare l’intervento terapeutico dalla parte inconscia a quella cosciente dell’individuo. Di conseguenza, nell’ambito del cognitivismo col termine inconscio si intende quella parte del funzionamento mentale che è non accessibile alla coscienza non perché è stata rimossa, ma perché non è mai stata conosciuta, e quindi non sarà, né potrà, mai essere ricordata (Migone P, 2006). E, in ogni caso non è neanche utile il materiale presente nell’inconscio da usare a scopo terapeutico.

Insomma, l’inconscio cognitivo è formato da informazioni che non sono conosciute coscientemente e per questo non possono essere dimenticate.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La necessità del rancore, con misura – un articolo di Giancarlo Dimaggio

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di Sabato 8 Agosto 2015 

Il perdono è sopravvalutato. Il rancore intossica. Sono stato ferito ieri, dieci anni fa e venti. Un’affermazione universale. Piccoli torti, grandi offese, vere violenze. L’amante che ci tradisce dopo averci giurato fedeltà eterna, il professore che regala il dottorato al collega incapace. L’amico che ci trascura nel bisogno, il figlio che ignora il solco paterno. E, crescendo in gravità, il cocainomane al volante che ci strappa la persona amata, il terrorista che ci uccide un parente, la ragazza violentata in centro città.

Passata la reazione immediata, la ferita porta un’emozione a crescere: il rancore. Per sua natura si espande nella mente, richiama ricordi, invoca la messa in scena nel teatro privato e pubblico della scena accaduta e la colorisce di fantasie di punizione e vendetta. Chi si sente vittima usa il rancore per ricordare giorno dopo giorno, in un’incessante amplificazione dell’offesa subita.

Laura Tappatà, nel suo Il dono del rancore, ne tesse una specie di elogio. Dipinge un quadro in cui sembra che viviamo in una società permeata da buonismo, che esalta la cultura del perdono morale, e pare ci siamo dimenticati che provare rancore sia umano, inevitabile, e sia di più: vivificante, consolida l’identità, permette di trasformare, se ben incanalata, l’energia del dolore in trascendenza creativa. Sintetizza: C’è molta più nobiltà in un rancore consapevole e lucido che in un perdono regalato per convenzione morale.

Rancore e perdono, due tra le vie che la vittima percorre per affrontare il danno ricevuto: coltivare il ricordo dell’offesa o comprendere l’aggressore, vedere l’umanità che ne ha guidato il gesto e, infine, lasciare andare dopo averlo moralmente assolto. Compio la seconda operazione nell’immaginazione: chi ha perpetrato violenza era guidato da profonda sofferenza, ne visualizzo vessazioni subite nell’infanzia. Calcolo la combinazione tra la sua natura geneticamente data e i danni che la storia gli ha inferto: risulta che il gesto del genitore incestuoso, dell’attentatore suicida, del guidatore drogato era inevitabile. Non posso più provare rancore se penso la sua azione come obbligata da una catena infinita di cause ed effetti che lo ha portato senza possibilità di scelta a diventare ciò che è.

Compio l’operazione non fino in fondo: si tratta di decidere che il libero arbitrio non esiste (non mi pronuncio sulla questione). Posso perdonare nel mio cuore l’attentatore, il violentatore, l’assassino senza invocare il nome di dio?

Eppure la posizione di Tappatà non mi convince appieno, anche se la sua critica della cultura del facile perdono ha le sue ragioni. Su quella si radicano decisioni insensate che portano a liberare criminali capaci solo di simulare un pentimento che il loro cervello non è attrezzato per provare, psicopatici che una volta usciti aggrediranno ancora per natura. La tendenza al facile perdono su base morale finisce per favorire chi aggredisce e priva la vittima di scudi.

Ma non vedo la cultura del perdono dominare. Vedo più facilmente ritorsione, guerre eterne, faide familiari. Madri che piangono figli uccisi che incitano fratelli e mariti al ricordo e a un pareggiamento dei conti che genera vittime che a loro volte saranno piante pubblicamente e urleranno sangue. Vedo orgogli facilmente offesi, gente che ricorda.

Mi chiedo: abbiamo bisogno di un elogio del rancore o è una prassi che già viene coltivata spontaneamente e con successo?

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La necessità del rancore, con misura - un articolo di Giancarlo Dimaggio

La cultura del perdono esiste, vero. Il perdono cristiano, in nome dell’essere supremo. Strada psicologicamente semplicistica. Più recentemente è entrata nel mondo occidentale la pratica della compassione buddhista. È una strada diversa. Non è perdono morale, quanto comprensione che l’altro, alla radice, è uguale a noi, accompagnata dalla consapevolezza continuamente ricercata che ogni passione che abita la nostra mente non definisce l’identità. Il rancore – come colpa, gioia, tristezza, vergogna – può abitare la nostra mente ma noi possiamo lasciarlo scivolare nelle periferie della coscienza. Per uno scopo: non lasciarci dominare da quello che è, in ultima analisi, solo uno stato della mente e del corpo.

Poi c’è la psicologia del perdono, coltivata dalle ultime generazioni di psicoterapeuti. Barcaccia e Mancini ne hanno riassunto l’utilità in Teoria e clinica del perdono. Chi perdona ne trae benessere spirituale, fisico, mentale. Si tratta di invitare i pazienti che vengono nei nostri studi a perdonare chi ha tradito il loro sogno d’amore o professionale o li ha abusati, umiliati. Difficile, ma si può.

Ripenso alle storie che ascolto nel mio studio di psicoterapia. Se esiste una dialettica tra perdono e rancore, io mi volto altrove. Ascolto donne violentate, adulti risentiti verso i genitori che li hanno trascurati e sottomessi, coniugi che nel corso degli anni hanno accumulato disattenzioni o tradimenti e non dimenticano niente.

Si chiedono ‘devo perdonare?’ e si rispondono ‘non ce la faccio’. Io non li invito a farlo. Promuovere prematuramente il perdono è nocivo: svaluta la ferita. Qui Tappatà ha colto nel segno. Il dolore ricorda che si è subita un’ingiustizia – escluderei però le liti condominiali –. La rabbia, il nucleo emotivo primario del rancore, aiuta a sentirsi in diritto di difendersi, di scacciare l’aggressore. Immaginate una donna abusata alla quale dite: ‘perdona’, quando per tutta la vita ha aspettato di sentirsi dire: ‘quello che è successo è un crimine, tu non sei colpevole, sei la vittima’. Inconsapevoli, la gettate nell’abisso di chi ha chiesto invano di essere presa sul serio.

E allora coltiviamo il rancore? No. Perché colonizza la mente, la incatena al gesto dell’aggressore, limita la libertà.

Che fare quindi? Ricordare l’offesa subita? All’inizio sì. Dare voce a risentimento, rabbia, fantasie di punizione? Sì. È giusto, umano, con misura serve. Ma più importante: si coltivi la memoria del dolore e si blocchi l’interlocutore prima che scivoli di nuovo verso il rancore. Poi la domanda: è necessario che la sua mente, dopo tutto questo tempo, si fermi ancora su questo dolore? Chi lei è oggi, dipende così tanto dal male che ha subito allora? Molti in risposta, comprendono che il dolore di ieri non deve per obbligo persistere oggi. La vita di molti si scioglie, il dolore è lenito, il rancore non più necessario.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Barcaccia B., Mancini F. (a cura di), Teoria e clinica del perdono. Raffaello Cortina Editore, Milano 2013.

La meditazione Zen migliora l’apprendimento sensomotorio

La meditazione Zen avrebbe effetti anche sui processi di apprendimento secondo quanto dimostrato dai ricercatori della Ruhr-University Bochum e della Ludwig-Maximilians-University di Monaco.

Lo studio è stato condotto durante un ritiro di meditazione Zen di praticanti con diversi anni di pratica: il ritiro prevedeva il completo silenzio con 8 ore di meditazione al giorno.

Tutti i soggetti praticavano una meditazione caratterizzata dalla attenzione consapevole dei propri pensieri, stati interni e stimoli esterni. In aggiunta ad alcuni partecipanti è stato chiesto di meditare per due ore al giorno focalizzandosi sulle sensazioni del dito indice della mano destra, allenando la consapevolezza delle percezioni e sensazioni relative a questa specifica parte del corpo.

Nelle fasi pre e post assessment è stato valutato quantitativamente il livello di percezione tattile mediante un indice che misura la soglia che misura quanto distanti debbono essere due stimoli affinchè siano discriminati come due distinte sensazioni. Sono proprio i praticanti che hanno meditato per un certo periodo di tempo sul loro dito destro a mostrare significativi miglioramenti (di circa il 17%) nell’acuità tattile del dito indice della mano destra rispetto al gruppo di controllo.

Un aumento, effetto della meditazione, che è comparabile ai cambiamenti conseguenti all’allenamento e alla stimolazione fisico-corporea. Questi risultati vanno anche letti considerando le evidenze empiriche a supporto della grouded cognition e dell’utilizzo della mental imagery a scopo riabilitativo e di training fisico: gli stati mentali essendo in qualche misura embodied hanno margini di effetto sulle componenti senso-motorie dell’esperienza e delle azioni. Ora questa ricerca ha mostrato che la “semplice” attenzione consapevole (un processo mentale) sulle proprie sensazioni tattili è in grado di modificare le soglie percettive e l’acuità sensoriale, agendo sui meccanismi di apprendimento sensomotorio.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Massimo Recalcati e il mito della soggettività sotto assedio

Di Iacopo Camozzo Caneve

Il mito della soggettività sotto assedio

Su “ma la vita psichica non si spiega con i numeri”

 

Sul numero di lunedì 7 settembre di Repubblica, esce, con occhiello in prima pagina, un interessante articolo a riferire del Reproducibility Project, uno studio condotto a partire dal 2011 da un gruppo di 270 psicologi dell’Università della Virginia nel quale sono stati riprodotti 100 studi pubblicati da tre importanti riviste scientifiche per valutarne l’effettiva riproducibilità (elemento chiave di ciò che viene comunemente definito “scienza”).

Il risultato è che solo il 36 % degli esperimenti riprodotti ha dato risultati sovrapponibili agli originali. Dunque uno studio, che usa il metodo della scienza, mette in discussione i risultati di altri studi, anch’essi scientifici e dunque frutto dell’applicazione del metodo scientifico.

Così funziona la scienza, questo ci permette l’applicazione del rigore scientifico, e per questo, ci si augura, le siamo tutti grati.

Risultato assolutamente interessante, dunque, tanto da aprire immediatamente un vivace dibattito, portato avanti con gli strumenti stessi della scienza – sia in seno alla psicologia che nelle cosiddette “scienze dure” che di numeri ed esperimenti naturalmente vivono- sul significato da dare a questo risultato, e sui possibili rimedi da apportare nei disegni di ricerca per poter limitare ulteriormente la possibilità di risultati fallaci (forse a volte dovuti a contingenze economico-politiche più che a intrinseca debolezza del metodo stesso).

Il dibattito, insomma, è aperto.

Ciò che più colpisce, nelle due pagine di giornale, non è però tanto l’articolo in questione, quanto quello che dovrebbe esserne il “commento” (questa la dicitura sopra il titolo), a firma di Massimo Recalcati, commento che si dibatte tra l’essere l’ennesima apologia della psicoanalisi e la non certo ultima tirata contro un non meglio definito, se non nell’essere quanto di più sgradito all’Autore, “mito dell’oggettività”.

 

 

 

Il discorso di Recalcati si snoda attraverso quattro passaggi principali:

1) Assume l’esistenza di una stortura nel pensiero occidentale, figlio malato della scienza: il “mito dell’oggettività”, nelle righe seguenti confuso e scambiato a piacimento con la scienza tout court.

Aderire alla scienza significa essere oggettivi, non è un Mito, è un criterio del metodo, è il metodo stesso. Altrimenti, si fa altro dalla scienza, legittimo, ma altro.

2) Identifica alcune evenienze di tale fenomeno nella psicologia: il criteri di creazione del DSM, gli studi sugli effetti della dopamina durante l’innamoramento e l’esperienza dell’Autore durante un recente congresso scientifico internazionale sui disturbi dell’alimentazione nel quale “dati statistici, numeri, procedure e percentuali hanno letteralmente dissolto la soggettività del paziente”.

Ma la soggettività del paziente è nel paziente, al più nella stanza di terapia; lamentarne la mancanza in un convegno scientifico internazionale significa cercarla là dove non è richiesto si palesi. Dissolverla, ammesso sia possibile, è ben altra cosa.

3) Fa scivolare il concetto di oggettività su quello di media statistica (la prima però è un aspetto di metodo, la seconda una sintesi di risultati), a sua volta confuso con il concetto di “normalità” (un giudizio di valore confuso con la sintesi di risultati); poggiando su questo fallace doppio passaggio, il “mito dell’oggettività” pretenderebbe dunque che tutto ciò che ricade fuori dalla media sia stortura e anormalità.

Ma, si oppone Massimo Recalcati, “non è forse in questa devianza che dovremmo definire l’unicità irripetibile dell’esistenza come tale?”, scagliandosi contro un nemico immaginario appena costruito per l’occorrenza.

4) Giunge infine, al culmine di cotanta costruzione narrativa, come in ogni lieto fine che si rispetti, a identificare nella psicoanalisi l’ultimo baluardo a salvare l’unicità dell’essere umano in quanto tale, ponendosi come “modello di scienza che non può essere ridotto al furore scientista della quantificazione”.

Cosa ciò significhi esattamente non è detto, quale modello di scienza alternativo sia proposto rimane un mistero, ma ci sentiamo certamente tutti meglio sapendo che le nostre soggettività sono al sicuro dal mostro malefico dei numeri….

Per lo psicoanalista, conclude -a intendere sia diverso per chi anche con i numeri e le percentuali di uno studio cerca la maggior efficacia clinica possibile- per lo psicoanalista, dunque, “ogni caso è unico, non riproducibile, non comparabile”.

Ci congratuliamo.

A me pare serpeggi sotto questo para-ragionamento in 4 fasi uno strisciante gioco di parole, mai svelato del tutto, ma insinuato per tutto il testo, per cui l’obiettività della scienza sia in contrasto con la soggettività dell’umano.

A parte il suggestivo gioco di parole, che come ogni gioco di parole ha il potere di insinuarsi nella nostra mente con una carica di Verità gratuita e non guadagnata sul campo, c’è da chiedersi perché e in che modo la scienza in quanto tale, che è un paradigma con i suoi scopi, le sue proprie regole e i suoi definiti ambiti di applicabilità, debba o anche solo possa essere in opposizione con l’irripetibile unicità dell’esistenza, e tantomeno con la squisita irripetibilità di ogni essere umano.

Come dire, se si scopre che durante quel fenomeno tra due appartenenti alla specie umana denominato innamoramento i livelli di dopamina cerebrale hanno un certo andamento, questo non si spiega come possa avere a che vedere con la conturbante esperienza soggettiva dell’essere innamorati, con dita tremanti che si sfiorano o con la vibrante eccitazione dell’attesa dell’incontro con l’amato/a. Le mani intrecciate non conoscono dopamina.

La scienza scopre regolarità nel multiforme gioco del reale, identifica schemi generali che si ripetono; e con questo noi umani possiamo gettare lo sguardo al di là delle apparenze, possiamo conoscere, capire, prevedere. Conoscendo e prevedendo possiamo intervenire.

Intervenire, per noi clinici, significa che nella meravigliosa e irripetibile unicità dei nostri pazienti leniremo più rapidamente la sofferenza. Questo è il nostro scopo come conoscitori del funzionamento della mente, e se possiamo portare a termine il nostro compito è proprio grazie all’oggettività che ci consente di prevedere.

Dunque, prof. Recalcati, anche per chi utilizza la ricerca e i numeri come mezzo per conoscere, può starne certo, ogni caso è unico, non riproducibile, non comparabile.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Repubblica 7.9.15 Ma la vita psichica non si spiega con i numeri –  di Massimo Recalcati.

Il nostro tempo è assillato dal culto della cifra: tutto dovrebbe essere misurato, pesato, tradotto in numeri, quantificato. Il mito dell’oggettività al di là di ogni interpretazione non anima solo alcune recenti correnti filosofiche, ma sembra essere diventato una sorta di imperativo “morale” diffusosi in tutte le aree del sapere. Nemmeno la psicologia può sfuggire a questa tendenza. Anzi, essa sembra sposare con sempre più determinazione l’idea propria delle scienze “dure” — come la matematica o la fisica — che una ricerca per essere considerata degna di scientificità non solo debba galileianamente essere riproducibile in termini sperimentali ma, soprattutto, produrre numeri, percentuali, cifre attendibili. Nemmeno la dimensione labirintica della vita psichica deve costituire una eccezione al nuovo impero dell’oggettività. L’impeto della valutazione — oggi diffuso in tutti gli ambiti del sapere — sospinge gioco forza la psicologia verso la psicometria: misurare atteggiamenti, conoscenze, abilità, credenze, sentimenti, personalità. L’intera classificazione delle malattie mentali proposta dai vari Dsm, per esempio, si fonda su un principio descrittivo basato su ricorrenze statistiche. Nelle Università, non solo italiane, la psicologia tende sempre più ad abbandonare il campo delle cosiddette scienze umane per scivolare verso quello delle scienze obbiettive, ispirate al criterio della quantificazione dei risultati. Una tesi di laurea che non sia corredata da sequenze di numeri, grafici matematici, curve statistiche, oltre che da “inglesismi” di ogni genere, viene ormai considerata, a priori, come una tesi di serie B. Anche il fenomeno che più di tutti esalta la soggettività umana, com’è quello dell’innamoramento, viene spiegato dalle neuroscienze come un fenomeno determinato dall’effetto biochimico dell’azione della dopamina su alcune zone del cervello e destinato fatalmente a spegnersi tra i sei e gli otto mesi. In un recente congresso scientifico interazionale sui disturbi dell’alimentazione al quale ho partecipato ho ascoltato esterrefatto relazioni di colleghi nord-americani che avevano letteralmente dissolto la soggettività del paziente in dati statistici, numeri, procedure anonime, percentuali. Del paziente, della sua anamnesi, della sua storia clinica, delle sue particolarità più proprie, non restava più nulla. Il feticismo della cifra e della generalizzazione protocollare aveva semplicemente inghiottito quello che ogni scienza medica dovrebbe invece rispettare: l’incomparabilità assoluta del soggetto. Il problema è scottante: esiste davvero la possibilità di misurare la vita psichica? E come non vedere che questa domanda trascina con sé la tendenza insidiosa — segnalata con forza da Michel Foucault e da Franco Basaglia — di una medicalizzazione violenta della vita umana? La spinta feticistica alla misurazione vorrebbe, infatti, cancellare il carattere singolare e irripetibile della soggettività umana segregando come “vita malata” quella che si trova fuori dalla media statistica stabilita che definisce la normalità. È questa la dimensione più politica che è al fondo della riduzione della psicologia alla psicometria: quello che devia da una supposta normalità è una deviazione statistica che deve essere trattata affinché ritorni nel suo alveo mediano. E se allora si gettasse nel lazzaretto dell’anormalità anche il pensiero critico, non omologato, quello deviante dalla universalità della norma? Ma, ancora, non è forse in questa devianza che dovremmo definire l’unicità irripetibile dell’esistenza come tale? L’esistenza, in altre parole, non è sempre una deviazione dalla norma? La psicoanalisi offre alla psicologia un modello di scienza che non può essere ridotto al furore scientista della quantificazione. Ogni caso è per lo psicoanalista unico, non riproducibile, non comparabile. Eppure la pratica clinica della psicoanalisi non può essere senza principi, non è una improvvisazione irrazionale. Essa offre, piuttosto, il modello di una pratica epistemica che invita a diffidare di ogni generalizzazione per considerare l’”uno per uno”, la singolarità deviante della vita umana. “

Il dolore cronico: la necessità di un approccio multisistemico

Silvia Vitaloni, Eleonora Girani – OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Il dolore svolge un’importante funzione per l’adattamento: percepirlo e anticiparlo implica l’attuazione di una serie di comportamenti necessari a garantire la sopravvivenza dell’individuo. Ma quando la sua durata si protrae oltre il tempo di guarigione, esso perde il carattere funzionale di allarme e acquisisce le caratteristiche della malattia cronica.

Il dolore è una spiacevole esperienza sensitiva ed emotiva associata ad un reale e/o potenziale danno (Cugno et al, 2010). L’esperienza dolorifica si divide in dolore acuto, finalizzato ad allertare il corpo della presenza di stimoli pericolosi o potenzialmente tali, e dolore cronico definito non solo come un’estensione di un dolore acuto ma come una risposta di mal adattamento del dolore (Cugno et al, 2010). Il dolore svolge un’importante funzione per l’adattamento: infatti percepirlo e anticiparlo implica l’attuazione di una serie di comportamenti necessari a garantire la sopravvivenza dell’individuo. Ma quando si trasforma da episodio acuto in condizione cronica, cioè quando la sua durata si protrae oltre il tempo di guarigione, esso perde il carattere funzionale di allarme e acquisisce le caratteristiche della malattia cronica (Cugno et al, 2010).

I pazienti affetti da dolore cronico possono essere suddivisi in base a delle classificazioni standard in:

  • Pazienti con dolore obiettivo, ovvero individui con un buon adattamento pre-morboso, una normale reazione al dolore ed una lesione ben definibile;
  • Pazienti che esagerano il dolore, ovvero individui con problemi psicopatologici come parte dell’adattamento pre-morboso, un’insolita reazione al dolore (mancanza di depressione o ansia) e il riscontro di elementi organici minimi;
  • Pazienti con dolore indeterminato, ovvero individui con un buon adattamento pre-morboso, una normale reazione al dolore, in assenza di riscontri fisici obiettivi;
  • Pazienti con un dolore caratterizzato da una componente affettiva o associativa, ovvero pazienti con uno scarso andamento pre-morboso, in totale assenza di riscontri fisici obiettivi (Hendler, 1981).

Oltre a essere in relazione con fattori fisici il dolore può essere la conseguenza di processi cognitivi ed emozionali. Infatti risulta ampiamente dimostrato (Michielin, 2004) che lo stato emozionale influenza le caratteristiche e l’intensità di dolore percepito. Un recente studio ha messo in evidenza come i fattori psicologici possano causare un’iper-reattività muscolare in risposta ad uno stress psicologico che contribuisce allo spasmo muscolare e pertanto, all’aumento dell’effetto nocicettivo e all’esacerbazione del dolore. Quest’ultimo a sua volta potrebbe agire come un ulteriore fattore stressante, aumentando ancor di più la tensione muscolare, provocando la formazione di punti scatenanti (trigger point) e contribuendo al perpetuarsi del ciclo tensione-dolore (Michielin, 2004).

Ma prima di soffermarci sui fattori psichici coinvolti nella percezione dello stimolo dolorifico, risulta importante comprendere come il corpo e la mente sentono il dolore.

In generale lo stimolo nocivo viene raccolto da nocicettori (i recettori periferici del dolore) che si suddividono in termici, chimici, meccanici e polimodali, e trasmesso alle aree corticali deputate all’elaborazione dello stimolo tramite vie ascendenti e discendenti che possiedono diversi livelli di integrazione (Cugno et al, 2010). La percezione finale da parte del sistema nervoso centrale costituisce il dolore accusato dal paziente; ad elaborare lo stimolo infatti partecipano diverse strutture cerebrali centrali a più livelli tra cui: cervelletto, talamo, insula, corteccia cingolata superiore e molte altre. Soggettivamente, il dolore è vissuto come un’emozione a connotazione negativa che ostacola qualsiasi attività psicologica. Può essere associato a rabbia, aggressività, paura, preoccupazione e, molto frequentemente ad umore depresso. Questo è particolarmente vero nei casi di dolore cronico, in cui viene meno il comportamento auto-protettivo e i meccanismi neurobiologici di base sono più complessi (M. Muehlbacher, M. K. Nickel, C. , 2006) .

Il dolore cronico viene definito psicogeno quando la sintomatologia dolorosa non ha evidente causa organica ma è attribuibile a fattori psichici, ovvero a una sofferenza affettivo-emotiva. Per tale motivo risulta importante in questi casi offrire al paziente che riporta tale sintomatologia la possibilità di essere sottoposto a valutazione psicodiagnostica poiché in tali manifestazioni il quadro risulta ampiamente complesso, tale da richiedere una presa in carico multifattoriale ( psicoterapeutica e farmacologica).

Nell’articolo ci soffermeremo su due tipologie di dolore cronico: la Sindrome da Fatica Cronica e le cefalee. Nel dicembre 1994, un gruppo internazionale di studio costituito dai Centers for Disease Control (CDC) di Atlanta – USA, ha pubblicato sugli Annals of Internal Medicine una nuova definizione della Sindrome da Fatica Cronica (CFS, Chronic Fatigue Syndrome) come Una fatica persistente per almeno 6 mesi che non è alleviata da riposo, che si esacerba con piccoli sforzi e che provoca una sostanziale riduzione dei livelli precedenti delle attività occupazionali, sociali o personali (Carlo-Stella et al., 2004) modificando in parte la definizione data da Holmes e Coll. alcuni anni prima.

Per poter porre tale diagnosi è necessaria le presenza di 4 o più dei seguenti sintomi, anche questi presenti per almeno 6 mesi:

  • Disturbi della memoria e della concentrazione tali da ridurre i precedenti livelli di attività occupazionale personale.
  • Faringite.
  • Dolori delle ghiandole linfonodali cervicali ed ascellari.
  • Dolori muscolari e delle articolazioni, senza infiammazioni o rigonfiamento delle stesse.
  • Cefalea di tipo diverso da quella presente eventualmente in passato.
  • Sonno non ristoratore.
  • Debolezza post esercizio fisico, che perdura per almeno 24 ore.

Va poi sottolineato che la Sindrome da Stanchezza Cronica non è una forma di depressione, tuttavia tale patologia può essere presente in soggetti con CFS, quale reazione alla stanchezza cronica.( Razzaboni e Ercolani, 2000). La CFS risulta essere una patologia debilitante ed invalidante: in Italia si riscontrano circa 200-300.000 casi di CFS; si tratta quasi esclusivamente di individui giovani o di mezza età, sia uomini che donne, mentre si conferma pressoché assente in età più avanzata (Carlo-Stella e Cuccia, 2009). Le cause di questa sindrome sono tutt’ora oggetto di studio.

Sono ipotizzati modelli multifattoriali e non esistono esami specifici per confermare la diagnosi di CFS (Razzaboni e Ercolani 2000). Per quanto riguarda le prospettive terapeutiche, purtroppo non vi è alcun farmaco in grado di guarire definitivamente la malattia (Craig e Kakumanu 2002). Dai risultati che provengono da diversi studi (Demitrack, 1996), si può affermare che circa il 10-30% dei pazienti con CFS ha avuto almeno un episodio di depressione negli anni precedenti l’insorgenza della CFS, mentre un 50-70% ha sviluppato depressione negli anni successivi alla comparsa della CFS. Se si tiene conto che queste cifre sono più elevate rispetto alla prevalenza della depressione nella popolazione generale (circa il 5-10%), si può desumere che una storia passata di depressione può rendere una persona più vulnerabile alla CFS e che una depressione reattiva è spesso una parte importante di una malattia come la CFS. Negli stati di CSF vengono utilizzati farmaci antidepressivi, come per esempio l’amitriptilina altri principi secondari sono sono Fluoxetinae la Duloxetina: i risultati appaiono discreti ma vengono dati nel breve periodo. Per tale motivo, infatti, in un articolo pubblicato sulla rivista Psychological Medicine (P. D. White, K. Goldsmith, A. L. Johnson, T. Chalder and M. Sharpe (2013).) vengono riportati i risultati di una ricerca condotta dall’Università Londinese Queen Mary dimostrando che il recupero dei sintomi associati alla sindrome da stanchezza cronica (CFS) sia possibile, per alcuni pazienti, grazie all’associazione tra psicofarmacologia e terapia Cognitivo Comportamentale.

Così come per la CFS anche per le cefalee è importante riflettere sull’importanza di un approccio di cura ad ampio raggio. Le cefalee vengono distinte in cefalee primarie (emicrania, cefalea muscolo-tensiva, cefalea a grappolo) e cefalee secondarie (secondarie a patologie cerebrali, craniali, internistiche o psichiatriche, oltre a quelle derivanti da abuso di farmaci). L’elemento più importante per un corretto inquadramento diagnostico di tutte le cefalee è una precisa analisi dei sintomi riferiti (ad es. frequenza, localizzazione esatta del dolore, durata, tipo, presenza di altri segni clinici associati come ad es. nausea oppure lacrimazione) e delle circostanze in cui si manifestano. Emicrania e cefalee tensive sono spesso in comorbilità con disturbi d’ansia nel 52% dei casi (con maggiore incidenza del disturbo d’ansia generalizzato), depressione nel 36,4% dei casi (con maggiore incidenza nella distimia) e nei disturbi somatoformi nel 21,7% dei casi (Puca et al., Cephalgia, 1999). Per quanto concerne la comorbilità depressione-emicrania, la correlazione risulta bidirezionale: il rischio di onset dell’emicrania in pazienti con depressione varia da 2.8 a 3.5 e il rischio di onset della depressione in pazienti con emicrania varia da 2.4 a 5.8 (Antoniacci et al., J Headache Pain, 2009). La compresenza di entrambe le patologie può portare a condizioni disabilitanti con una riduzione della qualità di vita e della capacità lavorativa e un forte impatto sul decorso e sulla prognosi dell’emicrania. Alla base di questa comorbilità ci sarebbero dei meccanismi patogenetici comuni, tra i quali: disfunzione serotoninergica, disfunzione dopaminergica, abuso di medicinali, oscillazione degli ormoni ovarici (Antoniacci et al., J Headache Pain, 2009).

Sia per quanto concerne la depressione che l’emicrania abbiamo un’alterazione dei livelli di serotonina: nel primo caso si osserva un abbassamento cronico dei livelli, mentre nel secondo un aumento di concentrazione durante l’attacco di emicrania seguito da una diminuzione tra un attacco e l’altro; per quanto riguarda invece le fluttuazioni ormonali si osserva come l’abbassamento del livello di estrogeni aumenti la probabilità che si verifichino attacchi di emicrania e fluttuazioni del tono dell’umore (Baskin et al., Neurol.Sci., 2009). Considerando quindi che alla base del legame depressione-emicrania ci sarebbe un meccanismo neurobiologico comune, alcuni antidepressivi infatti sono oggi utilizzati con risultati soddisfacenti non solo nel trattamento della depressione, ma anche nella profilassi dell’emicrania (Baskin et al., Neurol.Sci., 2009). Anche se non esistono delle linee guida universali per agevolare la scelta del farmaco antidepressivo in pazienti con emicrania, alcuni farmaci come la sertralina, fluoxetina e venlafaxina hanno riportato benefici e miglioramenti (Finocchi et al., Neurol. Sci, 2010).

Considerato che i pazienti con emicrania sono ad alto rischio rispetto all’insorgenza della depressione e che quest’ultima a sua volta può compromettere la prognosi dell’emicrania, nell’individuare le strategie terapeutiche maggiormente adeguate alla cura delle cefalee è oggi chiaro quanto sia importante nelle fasi di valutazione un accurato screening psicologico e un trattamento che preveda l’utilizzo della terapia cognitivo comportamentale.

La presa in carico più efficace per il paziente affetto da dolore cronico è multidisciplinare, prevede più figure professionali con competenze differenti che lavorano in equipe in modo da affrontare tutti gli aspetti legati alla patologia. 

L’approccio cognitivo-comportamentale è stato definito dalle linee guida Nazionali ed Internazionali come quello di prima scelta, sia che il trattamento del dolore preveda o meno la somministrazione di un farmaco (Michielin, 2004).

Il protocollo cognitivo comportamentale ha come scopo i seguenti obiettivi:

  • Aumentare la compliance del paziente,
  • Migliorare la qualità di vita contrastando l’insorgenza di atteggiamenti ansioso-depressivi che inevitabilmente accompagnano la sintomatologia dolorosa cronica,
  • Ottenere una diminuzione nella percezione soggettiva del dolore e quindi un minor consumo/abuso di farmaci analgesici e raggiungere il massimo livello di prestazionalità funzionale del paziente, compatibilmente con la patologia di base.
  • Ristrutturazione cognitiva circa le convinzioni errate o disfunzionali sul dolore
  • Apprendimento abilità di fronteggia mento del dolore (Michielin, 2004).

Risulta ormai chiaro come il lavoro psicoterapeutico possa essere utile al trattamento di un problema che risulti globalmente di natura e orientamento principalmente corporeo; anche in quest’ultimo caso si tenderà sempre meno a considerare mente e corpo come elementi separati in favore di una conoscenza del funzionamento umano maggiormente embodied.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Psicologia della satira e del riso: mostrare le zanne per attacco o per divertimento?

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta Domenica 06 settembre 2015

La satira forse è davvero troppo per un animale. Eppure gli animali qualcosa fanno che somiglia al riso: essi scoprono i denti. Come ha potuto un atto minaccioso come l’esibizione dei denti diventare un atto così (apparentemente) innocente e fraterno come ridere? Forse ridere non è del tutto innocente, forse non è un atto che non vuole nuocere e per il quale i denti non servono. Del resto oggi si parla di satira, che non è un riso innocente.

Gli uomini fanno satira e ridendo, castigano le abitudini e i comportamenti. Quando gli etologi, a cominciare da Lorenz, osservarono che gli animali non ridono ritennero anche che essi non fossero capaci di un’acrobatica operazione mentale: essere consapevoli di un certo modo di fare e di comportarsi e metterlo in ridicolo, satireggiarlo.

Vero, la satira forse è davvero troppo per un animale. Eppure, sarà altrettanto vero che gli animali non ridono? Vediamo meglio. La mimica della faccia umana, controllata da un elevatissimo numero di muscoli, è molto più complessa di quella degli animali non primati, privi di questa sofisticata strumentazione motoria. Un cane può essere espressivo con gli occhi, ma ha un potere limitato su quel che accade più in basso, sulle guance e intorno alla bocca e non mette in atto le mille sfumature del riso umano estese dal dolce sorriso alla risata rabbiosa e sprezzante, dal sorriso sardonico all’ilarità conviviale.

Eppure gli animali qualcosa fanno che somiglia al riso, qualcosa che porta diritto alla satira. E cosa fanno? Essi scoprono i denti. Secondo Konrad Lorenz, l’etologo entrato nell’immaginario per le sue passeggiate con gli anatroccoli, l’atto animale più vicino al riso umano è la rivelazione della dentatura, della chiostra di zanne. Un atto minaccioso e proprio dei carnivori. Gli erbivori non scoprono i denti, sarebbe –è il caso di dirlo- ridicolo per loro che li usano per nutrirsi e non per aggredire. Gli erbivori non ridono.

Come ha potuto un atto minaccioso come l’esibizione dei denti diventare un atto così (apparentemente) innocente e fraterno come ridere? Forse ridere non è del tutto innocente, forse non è un atto che non vuole nuocere e per il quale i denti non servono. Del resto oggi si parla di satira, che non è un riso innocente.

Per un animale mostrare i denti è una minaccia, indubbiamente. È un segnale di attacco, ti dico che voglio usare i denti su di te per mordere. Però, attenzione, la comunicazione è qualcosa di sofisticato in tutti gli animali sociali, non solo nei primati.

Nei predatori che operano in gruppo, in branchi organizzati socialmente, mostrare i denti è un segnale ricco d’informazione la cui complessità è necessaria per comunicare durante la caccia, un’impresa collaborativa non banale. Cacciare non è forza bruta; è esplorazione del territorio, ricerca della preda e comunicazione ai compagni di branco della presenza e della possibilità di attaccare. I predatori comunicano socialmente per indicare la preda.

Indicare è l’atto di nascita della comunicazione e del linguaggio (Liotti, 2001). Indicando attiriamo l’attenzione dei nostri compagni di branco su un oggetto e proponiamo delle intenzioni, dei progetti, degli scopi. Insomma comunichiamo e quindi parliamo, creiamo un linguaggio. Linguaggio mimico e impreciso, ma che un giorno diventa –nelle specie evolute- linguaggio vocale e poi verbale e concettuale, e quindi preciso.

Il predatore che mostra i denti vuole attirare l’attenzione dei compagni di branco per segnalare la presenza di una preda. Tra un po’, quando avrà ottenuto l’interesse dei compagni, unendo sonori versi animali all’esibizione dei denti, volgerà il muso verso la preda per indicarla e lo farà continuando a mostrare i denti. E lo farà continuando a tenere le labbra ritirate all’indietro e in alto e in basso in modo da tenere scoperto il bianco luccicare delle zanne e continuando a emettere sempre più sonoramente il verso della propria specie animale: l’ululato canino, il ruggito felino. Verso che ben presto si propagherà contagiosamente all’intero branco.

Denti scoperti, suoni vocali che si diffondono nel gruppo per imitazione contagiosa. Non vi ricorda nulla? Queste sono risate. Il branco ha trovato la sua preda e ride mentre si slancia all’attacco. C’è l’aggressività, ma anche la gioia dell’atto sociale, la felicità del sentirsi parte di un gruppo.

E c’è il sollievo: anche per oggi abbiamo guadagnato la pagnotta. È un po’ triste trovare nel riso questo fondo aggressivo verso la preda, verso il debole. A questo si riduce anche il riso umano, perfino nelle sue forme più sofisticate: la gioia dell’aggressività condivisa verso il nemico?

Non sempre. La civilizzazione ci permette di superare questo fondo pessimistico che troviamo nelle emozioni animali e umane. Si può depurare il riso della sua aggressività e filtrarne la componente fraterna, ridere assieme agli altri per esprimere solidarietà, condivisione, dolcezza. È quel che accade nel sorriso degli innamorati, degli amici e degli ospiti che ci accolgono nei viaggi verso paesi lontani.

Tuttavia nel riso rimane un triste fondo aggressivo che ci delude, che lo rende uno strumento da maneggiare con cura. Ridendo si castiga, com’è proprio della satira. Si crea comunicazione e solidarietà ai danni del satireggiato, ma un dubbio serpeggia tra i compagni di satira: quanto durerà questa solidarietà? Chi sarà il prossimo a essere deriso? Non possiamo rilassarci mentre ridiamo e già iniziamo le manovre per trovare la prossima preda, per volgere l’aggressività del gruppo su qualcuno: che sia un altro, che non sia io il prossimo.

Il giudizio e la condanna di una vittima purtroppo spesso avvelenano il piacere di ridere assieme. Si ride assieme, ma si ride di qualcuno. È inevitabile.

Siamo affascinati dal giudicare e dal castigare ridendo. È la forza della satira, e un riso troppo innocente alla lunga stucca. Sono orgasmi dell’anima che conferiscono dignità e senso ai propri troppo umani rancori.

Tuttavia, anche del sapore piccante della satira ci si stufa. Nella satira si cela il rischio della deriva rancorosa. Forse è quello che è accaduto in Italia dopo la grande abbuffata satiresca iniziata negli anni ’70 con Il Male -non so quanti ricordino quel giornale- e poi proseguita con Cuore negli anni ’80. Dopo un’abbuffata di satira si smette, è da un po’ abbiamo smesso di ridere con quella ferocia; ma è solo un pendolo destinato a tornare indietro. La tristezza seriosa che segue una serata tra amici eccessivamente ridanciana ben presto ci stanca, e ricominciamo a cercare qualcuno o qualcosa da deridere in compagnia degli amici. Fraternamente e ferocemente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Liotti, G. (2001). Le Opere della Coscienza. Milano: Raffaello Cortina Editore
  • Lorenz, K. (2008). L’Aggressività. Milano: Il Saggiatore. Das sogenannte Böse zur Naturgeschichte der Aggression. Verlag Dr. G Borotha-Schoeler, 1963.

Gli occhi sono veramente lo specchio dell’anima?

Gli occhi sono veramente lo specchio dell’anima? Che risposte hanno dato la psicoanalisi e la psicologia empirica durante il secolo scorso?

Nel romanzo di formazione di Charlotte Brontë “Jane Eyre” appare la seguente citazione: [blockquote style=”1″]The soul, fortunately, has an interpreter – often an unconscious but still a faithful interpreter – in the eye[/blockquote] (Brontë, 1847, p. 267).

Tale affermazione racchiude e anticipa alcuni dei temi fondamentali della psicoanalisi freudiana e della psicologia sperimentale, sebbene provenga da un romanzo redatto in un periodo antecedente alla nascita delle due discipline, ossia sottolinea come lo sguardo abbia una connotazione essenziale per la comprensione delle emozioni, delle angosce e degli stati dell’Altro. In realtà l’importanza dello sguardo e dell’espressività è inscritta nella storia dell’uomo fin dai suoi albori, come testimoniano le più antiche opere d’arte e letterarie, a partire dall’Antica Grecia fino ad arrivare alle forme più “recenti” di Romanticismo ed Espressionismo.

Ma gli occhi sono veramente lo specchio dell’anima? Che risposte hanno dato la psicoanalisi e la psicologia empirica durante il secolo scorso?

La psicoanalisi freudiana e post-freudiana, sebbene fortemente divisa su alcune tematiche, ha da sempre mostrato una linea di pensiero unica e condivisa per quanto concerne l’importanza dello sguardo nello sviluppo della mente, dell’empatia e, in generale, delle relazioni sociali e affettive tra gli esseri umani. Lo psicoanalista Jacques Lacan (Recalcati, 2015) sottolineava, in particolare, come lo sguardo dell’Altro non sia solamente un elemento centrale per sintonizzarsi affettivamente col mondo interiore di un’altra persona, bensì anche un elemento costitutivo per la nostra stessa esistenza e per l’immagine che sviluppiamo di noi stessi, che si fonda su un rispecchiamento nell’altro, parafrasando Fonagy, ossia nella capacità di costituire noi stessi a partire dall’immagine che osserviamo nell’Altro di noi.

Questo concetto è in linea con la teorizzazione di Martin Heidegger, il quale sottolinea come il presupposto ontologico dell’empatia sia nella possibilità di incontrare un altro che sia costitutivo della nostra essenza, ossia: [blockquote style=”1″]L’esserci in quanto siffatto essere-nel-mondo è contemporaneamente un essere-l’uno-con-l’altro, un essere con altri […] un incontrarsi l’un l’altro, un essere l’uno con l’altro nel modo d’essere-l’uno-con-l’altro[/blockquote] (Heidegger, 2008, p. 32).

Si può comprendere come la dimensione espressiva degli occhi e dello sguardo umano non sia solo centrale per la capacità di entrare in contatto col vissuto dell’Altro, quindi di empatizzare, ma anche per la capacità di guardare dentro al proprio mondo, alla propria essenza, arrivando a giungere il “K bioniano” che abita in noi. Queste considerazioni vanno a legittimare, dunque, un altro proverbio molto famoso che sostiene come la conoscenza degli altri passi necessariamente da una forte capacità introspettiva verso noi stessi. Queste considerazioni di carattere psicoanalitico e filosofico trovano un riscontro evidente nella psicopatologia. Si pensi, ad esempio, a quelle patologie che potremmo definire “patologie della cognizione sociale”, ovvero patologie dove il mondo dell’Altro diventa incomprensibile, alieno e impossibile da accedere, ma soprattutto patologie dove il proprio mondo interiore tende ad alienarsi.

Il caso principale e più conosciuto è sicuramente quello dell’Autismo, dove il soggetto vive in una condizione di totale distacco dal mondo degli altri, in cui la realtà emotiva, propria e altrui, viene mortificata a favore dei dettagli (comportamento espresso nelle classiche stereotipie e nelle cosiddette abilità savant, come il calcolo del calendario), come descritto nella cosiddetta teoria della coerenza centrale debole (Happé & Frith, 2006) e nella teoria del cervello sistematizzatore (Baron-Cohen, 2005). Attorno ai numeri, alle ripetizioni e alle sistematizzazioni si creano le basi di un muro che separa il soggetto autistico dalla dimensione emotiva. L’espressione fenotipica di questa dinamica è stata osservata in alcuni esperimenti che hanno utilizzato la tecnica dell’ Eye-Tracker, ossia una tecnica che, attraverso un’ analisi dei movimenti oculari, riesce a indicare dove il soggetto sta maggiormente tenendo il proprio focus attentivo.

Lo studio del gruppo di Michael Spezio (2007) ha messo in rilievo come i soggetti autistici tendano a non osservare dettagli socio-emotivi cruciali nei volti come la bocca e, in particolare, gli occhi, rispetto al gruppo di controllo. La chiusura verso l’Altro, dunque, passa innanzitutto da una “naturale” mancanza di attenzione verso quello che l’Altro prova e può sentire in un dato istante.

Altri dati empirici su altri gruppi di pazienti hanno messo in evidenza gli aspetti sottolineati dal gruppo di Lo Spezio. Ad esempio, l’equipe di Mark Dadds (2006) ha mostrato come bambini con forti tratti psicopatici (ossia bambini che, con ogni probabilità, svilupperanno psicopatia da adulti) palesino forti difficoltà a mantenere l’eye contact con visi umani, determinando una gravissima difficoltà di sintonizzazione e riconoscimento delle emozioni negli altri esseri umani. Il deficit di sintonizzazione e riconoscimento dell’espressione facciale non sarebbe, quindi, di per sé un difetto nella rappresentazione semantica di questi stati, bensì, come sottolinea anche Adolphs (2010), un deficit nella capacità primordiale di porre automaticamente l’attenzione su social cues (e.g. occhi). Tale dato risulta avvalorato dal fatto che i bambini dell’esperimento di Dadds, così come la paziente con lesione all’amigdala (regione cruciale per quest’abilità) S.M., riuscissero ad individuare e sintonizzarsi con l’emozione che l’Altro stava esperendo, se richiesto loro di focalizzarsi esplicitamente sui loro occhi.

Questi dati supportano le considerazioni psicoanalitiche e filosofiche di Lacan e Heidegger. La vuotezza emotiva ed empatica dei soggetti psicopatici si esprime in un danno strutturale nell’esser-ci nel mondo dell’Altro e/o rispecchiarsi nel mondo dipinto negli occhi dell’Altro. Ed ecco come la psicologia empirica sottolinea il carattere fortemente evolutivo di questo danno che non ha solo delle radici genetiche, che comunque esistono come egregiamente descritto nel libro di Simon Baron-Cohen “La Scienza del Male” (2012), bensì arcaiche, evolutesi durante le primissime interazioni col “primo Altro”: la madre.

Il famoso esperimento della “Still Face” di Edward Tronick (1978) o lo studio sulla Depressione Anaclitica di Spitz e Wolf (1946) mostrano egregiamente come in presenza di un Altro emotivamente assente, attraverso la sua assenza fisica o la sua assenza emotiva (sguardo spento, “morto”, non comunicativo), la vita del bambino tenda a precipitare nel vuoto, nello sconforto fino ad arrivare, come nel caso degli studi di Spitz, alla morte biologica. Inoltre, sempre Mark Dadds e il suo gruppo (2012) hanno messo in rilievo come i bambini con tratti psicopatici mostrino, fin dai primissimi anni di vita, un’incapacità nel condividere il proprio sguardo con un’altra persona anche nell’ambito dell’interazione primaria con la loro madre.

In uno studio, in fase di pubblicazione, condotto nell’ambito di un progetto per la mia tesi di laurea con la professoressa Fulvia Castelli (De Angelis & Castelli, 2015), si è cercato di dare un senso a tutte le considerazioni fin qui fatte, attingendo alle fonti qui citate e ad altri studi presenti nella letteratura. Si è considerata l’abilità di Emotional Attention (Vuilleumier, 2005), ossia l’abilità di porre l’attenzione su dettagli rilevanti da un punto di vista socio-emotivo, come precursore principale dell’empatia.

Dunque, è stata ipotizzata l’esistenza di due stili cognitivi, uno stile emotigeno “hot”, maggiormente focalizzato su dettagli socio-emotivi, e uno stile analitico “cold”, maggiormente focalizzato su dettagli poco emotigeni e fortemente analitici. In un paradigma ispirato a quello di Tania Singer e collaboratori (2004), in cui i soggetti prendevano visione di un filmato di un loro parente e/o amico in una situazione di dolore, le persone che adottavano uno stile cognitivo “hot” risultavano significativamente più empatiche con il/la loro caro/a dei “cold”. Questo risultato ha posto non solo un mattoncino importante all’impianto teorico dei lacaniani e degli “heideggeriani”, ma ha anche rappresentato un supporto alle teorie, prima citate, sugli effetti negativi di uno stile cognitivo sistematizzatore e orientato ai dettagli sui livelli di empatia degli esseri umani.
In conclusione, le considerazioni riportate in questo articolo mettono in evidenza come effettivamente gli occhi siano lo specchio dell’animo umano.

Una vita “senza sguardi” è una vita “cold”, una vita dove l’incontro con l’Altro è precluso e, quindi, precludendo l’incontro con l’Altro si va a precludere l’incontro con il Me-rispecchiato nello sguardo dell’Altro che mi costituisce. Oramai è evidente come le psicopatie e l’autismo stiano aumentando a dismisura a causa di un mondo, fondato sull’oggettificazione dell’Altro come oggetto di godimento feticistico e assoluto, dunque fondato sulla mercificazione degli esseri umani tipica del modello capitalistico attuale.

Nel nostro tempo, e non solo nella psicopatologia, è importante che la psicologia clinica e la psichiatria rioffrano al soggetto la possibilità di tornare “a guardare gli occhi dell’Altro”, sia da un punto di vista riabilitativo che relazionale. Esistono già dei nuovi trattamenti per la psicopatia in via di sperimentazione (Baskin-Sommers et al., 2014) che lavorano sulla possibilità di modificare il deficit empatico strutturale grazie a un lavoro sui bias attentivi suddetti, restituendo la possibilità a questi soggetti di “rivedere” il mondo emotivo attorno a loro, “smuovendosi” dal loro stile cognitivo cold.

Questo passaggio non può prescindere però dall’incontro con un Altro, da una relazione fatta non solo di vista e di sguardi, ma anche di suoni e odori (la vista non è l’unico canale di veicolazione emotiva!), in modo che le vite, a trecentosessanta gradi, riacquisiscano il senso perduto. Per farlo bisogna imparare a specchiar-si negli occhi, perché gli occhi lo sono: sono lo specchio dell’anima.

 

 

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Note sull’autore

Jacopo De Angelis è Dottore in Psicologia presso l’Università degli Studi di Pavia (Psicologia Sperimentale e Neuroscienze Cognitive). Attualmente è in procinto di avviare un progetto di ricerca, nell’ambito del suo programma di tirocinio, con l’Università Bicocca (MI) sulle tematiche inerenti l’empatia.
Per contattarlo scrivere al seguente indirizzo: [email protected]

Il lutto. Psicoterapia cognitivo-evoluzionista e EMDR (2015) – Recensione

Queste pagine hanno l’abilità di inserirsi nel delicato equilibrio tra il lutto come processo psicologico umano naturale, inevitabile e auspicabile, e il lutto patologico, dove il dolore diventa qualcosa di troppo, troppo forte, troppo grande che ha il potere di disorganizzare l’esistenza della persona, arrivando in alcuni casi a tramandarsi come fattore di vulnerabilità nella vita delle generazioni successive.

Una cosa prima di tutte; difficile recensire il libro di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa con la stessa lucidità, profondità e delicatezza con la quale è stato scritto.
La scelta di un una chiave di lettura psicologica e psichiatrica del fenomeno non impedisce al lettore di scorgere, attraverso una finestra sempre aperta, l’aspetto biologico – evoluzionistico, antropologico, storico, religioso, letterario e profondamente umano.
Come possiamo concepire l’assenza, il non essere, la non esistenza di qualcuno che è stato parte della nostra vita e del nostro essere, della nostra identità? Che forma prende? Che luogo abita fuori o dentro di noi chi “non c’è più” ?

Gli autori attraversano con ricchezza di riflessioni teoriche e cliniche il cordoglio, fenomeno così radicato nella natura vulnerabile dell’uomo ma di cui tuttavia si è persa familiarità. Queste pagine hanno l’abilità di inserirsi nel delicato equilibrio tra il lutto come processo psicologico umano naturale, inevitabile e auspicabile, e il lutto patologico, dove il dolore diventa qualcosa di troppo, troppo forte, troppo grande che ha il potere di disorganizzare l’esistenza della persona, arrivando in alcuni casi a tramandarsi come fattore di vulnerabilità nella vita delle generazioni successive.

Per orientarci nella ricca esposizione che attraversa la fenomenologia del cordoglio, i fattori che lo influenzano, le strategie fisiologiche di adattamento e le strade attraverso le quali il lutto si complica, gli autori ci suggeriscono un luogo privilegiato di osservazione, quello della dimensione intersoggettiva, che nel lutto sopravvive e trova conferma.

Che cosa accade quando perdiamo qualcuno al quale siamo profondamente legati?
Ci sentiamo inizialmente storditi, increduli, confusi e distaccati, sprovvisti di un senso, reazioni simili a quelle osservabili dopo un trauma acuto ma contraddistinte dal peculiare significato del trauma da separazione. Cerchiamo.

E’ una ricerca allarmata, inquieta, in cui il desiderio per la persona che “non è più” diviene pervasivo, totalizzante, persistente, e compare la collera per l’abbandono subito. Si attiva in modo potente il nostro innato sistema dell’attaccamento. Di fronte all’impossibilità del ricongiungimento, che costantemente ci si palesa, compaiono disperazione, una generalizzata e profonda tristezza, disinteresse; uno stato in cui la separazione viene vissuta in termini di mutilazione, con prevalenza di un umore depresso, fino all’accettazione, se ci riusciamo, della perdita.

E che cosa accade a questo punto e, ancora una volta, dov’è chi non c’è più, chi non è più con noi, dove siamo noi ora? Quando e come un lutto può definirsi “risolto”?
I teorici del lutto, dettagliando percorsi simili, mettono in luce la necessità di attraversare il cordoglio, sopportare tutto il dolore emotivo che l’accompagna, accettare l’ineluttabilità della perdita e riorganizzare la relazione perduta esplorando un nuovo modo di “stare nel mondo” e una nuova relazione interna, viva, con il defunto; non di fine si tratta, dunque, ma di trasformazione.

Ed è quel particolare tipo di relazione, unica e indissolubile, a rendere il cordoglio, se pur universale in molte delle sue manifestazioni, così soggettivo. La natura soggettiva del cordoglio diviene ancor più evidente se pensiamo al mondo preesistente di relazioni, divenuto parte dell’individuo. Solo conoscendo la relazione e le emozioni di cui è connotata possiamo comprendere la risposta di una persona davanti ad una perdita. Pur constatando la carenza di studi sulla relazione tra attaccamento e lutto, non possiamo non considerare, sotto la guida degli autori, quanto la forma che assume il cordoglio di un individuo sia plasmata da memorie implicite potentemente riattivate dal dolore della perdita e in grado di guidare rappresentazioni di sé, dell’altro e delle relazioni.

Pensiamo, nel migliore dei casi, ad un lutto affrontato con capacità di sentire, comprendere, esprimere la sofferenza ed organizzarla in un senso di sé coerente e pensiamo, d’altra parte, a quando un lutto irrompe in una storia di sviluppo traumatico; la perdita riattiva esperienze precoci e disorganizzate di paura e impotenza e al dolore del lutto si sovrappone la minaccia alla propria incolumità. L’attivazione di sistemi arcaici come quello di difesa, con la conseguente cronica attivazione di risposte di allarme attive e passive, può rappresentare in questi casi l’unica soluzione possibile.
Gli autori descrivono e tracciano questo ed altri percorsi attraverso i quali diverse variabili (dal background bio – psico – sociale al “gradiente” di traumaticità legato al tipo di perdita e alle circostanze in cui si verifica) concorrono a complicare il lutto o, in alcuni casi, a generare una reazione post-traumatica a tutti gli effetti.

Le diverse forme di lutto patologico condividono l’impossibilità di riconoscere la perdita come definitiva.
Se nel processo fisiologico del lutto la relazione si trasforma e troviamo un graduale riattivarsi della capacità di reinvestire in nuovi interessi, attività, relazioni, quando il lutto si complica diviene impossibile riappropriarsi di un senso e di un senso di padronanza sulla propria vita, che resta ferma e disorientata in uno stato di minaccia, attesa, ricerca disperata, collera. E’ un lutto radicato nel corpo, isolato e bloccato in una memoria somatica impossibile da integrare, sganciato dalla parola, non pensabile, non verbalizzabile, e senza un significato che possa contenerlo in qualche forma.

Come può allora riprendere o avere inizio il processo di risoluzione, riorganizzazione, trasformazione di sé e della relazione quando la dimensione della perdita si incontra o si sovrappone a quella del trauma?

Si comprende qui la necessità di un intervento terapeutico in grado di individuare il punto di rottura e riattivare il processo naturale che conduce dalla perdita alla trasformazione della relazione.
Gli autori ben ci spiegano come questo sia possibile solo garantendosi un duplice accesso, quello della mente, guidato dalla parola, dal linguaggio interno riattivato nel dialogo terapeutico e quello del corpo, depositario della memoria procedurale del lutto traumatico.

Gli autori descrivono possibili strade terapeutiche, come la Psicoterapia cognitivo – evoluzionista e l’EMDR, attraverso le quali il dolore incastrato tra corpo e mente si riorganizza e diventa sufficientemente tollerabile da poter essere vissuto; l’individuo può allora recuperare memorie connotate emotivamente e riappropriarsi della capacità di “pensare la propria mente” costruendo nuove rappresentazioni e nuovi significati dai quali partire per continuare a vivere in un nuovo mondo dove l’amore in presenza diventa amore in assenza.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Onofri, A., La Rosa, C. (2015). Il lutto. Psicoterapia cognitivo – evoluzionista e EMDR. Giovanni Fioriti Editore, Roma.

Overclaiming: la convinzione di sapere ciò che in realtà non si sa

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Psychological Science la conoscenza può diventare affar pericoloso, dal momento in cui più ci si sente sicuri di sapere più è facile cadere in errore.

Il fenomeno che gli studiosi chiamano overclaiming (che si potrebbe tradurre come “iper-asserire con convinzione”) sarebbe spinto dalla convinzione di sapere, di avere già visto qualcosa anche in assenza di una vera traccia nella memoria del nostro bagaglio concettuale. Secondo gli studiosi dunque, avere un alto livello di expertise in una disciplina può portare a fenomeni in cui si è convinti di conoscere ciò che in realtà non si sa.

In una serie di esperimenti i ricercatori hanno chiesto ai soggetti (più di 500) di valutare la familiarità con una serie di concetti di una certa disciplina (ad esempio, finanza, biologia, filosofia, etc.), alcuni dei quali erano plausibili ma inesistenti.

Dai risultati è emerso che più le persone sono esperte e conoscitrici di una certa disciplina maggiore è la probabilità che si sentano troppo sicuri della propria conoscenza e cadano in errore, percependo di conoscere vocaboli e concetti in realtà falsi e inesistenti – proprio nella loro specialità.

Un esempio è questo: per un biologo è molto più semplice credere di conoscere la parola meta-tossina (falsa e inventata) rispetto a un non biologo. Il meccanismo sotteso richiama la familiarità dei concetti appresi: avere la mente piena di parole quali “metabolico, retrogrado, tossina” può più facilmente trarre in inganno nel farci credere di conoscere un falso nel vocabolario della biologia.

E la percentuale di tali errori rimane alta anche quando i partecipanti vengono allertati rispetto al fatto che vi potrebbero essere dei falsi tra i concetti loro presentati. Ma non sembra essere una questione di desiderabilità sociale, di non perdere la faccia visto che sei un esperto: proprio per i più competenti può essere difficile riconoscere ciò che ignorano. Ulteriori ricerche indagheranno anche i fattori emotivi e personologici in gioco nel moderare questo inatteso fenomeno.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Lo faccio domani: capire le emozioni di chi procrastina

In Psicologia si definisce procrastinazione quel comportamento che spinge a ritardare volontariamente un’azione nonostante prevedibili conseguenze future negative: si opta per il piacere di breve durata a costo dei benefici a lungo termine.

A chi di voi non è mai capitato di rimandare qualcosa con la classica frase Lo faccio domani e, ovviamente, quel domani non è più arrivato, a meno che non si siano subìti gli effetti negativi di tale rimandare? Oppure, nota dolente per molti, quante volte il famoso Lunedì dieta ha visto il susseguirsi di settimane e poi di mesi e ancora di stagioni?

Può capitare quasi a tutti, dunque, di rimandare alcuni compiti, perdendo di vista gli annessi obiettivi futuri, e diventare dei procrastinatori.

 In Psicologia si definisce Procrastinazione quel comportamento che spinge a ritardare volontariamente un’azione nonostante prevedibili conseguenze future negative: si opta per il piacere di breve durata a costo dei benefici a lungo termine.

Vi sono individui che tendono solo raramente a rimandare i propri impegni, mentre vi sono persone che danno priorità al piacere momentaneo, sacrificando così il proprio futuro, costantemente e in quasi tutti gli ambiti della loro vita (o per lo meno quelli più importanti): in questo caso si parla di procrastinatori cronici.

La procrastinazione tocca diverse sfere di vita, da quella lavorativa a quella relazionale, e può dunque spesso portare chi procrastina a spiacevoli conseguenze, sia sul piano fisico che psicologico. Cosa succede però, a livello emotivo, che porta una persona a rimandare continuamente un’azione?

Spesso alcuni interventi terapeutici tendono a dare maggiore priorità a una migliore gestione temporale: dividere dunque il progetto in piccoli passi e condurre il paziente a iniziare pian piano da questi. Gran parte del lavoro andrebbe anche indirizzato sulla sfera emotiva del paziente, sull’ansia e sulla ‘miopia temporale’ (l’incapacità di pensarsi adeguatamente nel futuro) tipiche di chi procrastina assiduamente.

Fortunatamente la letteratura a riguardo è ampia e la ricerca in continua evoluzione. Nell’articolo consigliato vengono riportati i più recenti passi in avanti in tema di procrastinazione: ricercatori dell’Università di Stoccolma, hanno per esempio studiato gli effetti di una terapia online e di una terapia di auto aiuto sui procrastinatori cronici. Altri esperti, studiando le distorsioni cognitive più diffuse tra i procrastinatori, hanno offerto riflessioni interessanti per gli interventi terapeutici da effettuare in questi casi, concentrando la loro attenzione sulle emozioni dei pazienti. Viene inoltre riportata una piccola To do list per procrastinare sempre meno.

L’articolo è ricco di spunti interessanti per terapeuti, psicologi e per gli stessi procrastinatori…a meno che, questi ultimi, non rimandino anche tale lettura a domani!

The essence of procrastination is ‘we’re giving in to feel good’ (…) Procrastination is ‘I know I should be doing it, I want to, it gets under my skin -when I don’t-.’ (…) ‘If you’re an occasional procrastinator, quit thinking about your feelings and get to the next task. But if you’re a chronic procrastinator, you might need therapy to better understand your emotions and how you’re coping with them through avoidance’.

To Stop Procrastinating, Start by Understanding the Emotions InvolvedConsigliato dalla Redazione

New research suggests procrastination is a way some people cope with stress and avoid the feeling of anxiety before a new assignment or task. (…)

Tratto da: WSJ

 

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