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Mentalizzazione e disturbi di personalità – Bateman & Fonagy a Pavia

Mentalizing and personality disorders: contemporary theory and practice

 Report dal Convegno del 10 settembre 2015

 

Immaginate per un attimo di tornare indietro di anni, a quando, giovani studenti, non avevate la più pallida idea di cosa fosse un Disturbo di Personalità. Il mio professore di Psicologia Clinica tenne una lezione memorabile in cui ci spiegò la storia di uno dei disturbi che più ha affascinato e dato del filo da torcere al mondo clinico: il Disturbo Borderline di Personalità.

 

Breve storia del disturbo borderline di personalità

Romanzando un po’ la storia (spero mi perdonerete per la libertà che mi prendo), già il vecchio Freud sul finire della vita in Analisi terminabile e interminabile (1937) si domandava come mai alcuni pazienti inequivocabilmente nevrotici non rispondessero alla psicoanalisi; secondo Freud questi pazienti avevano messo in atto meccanisimi di difesa primitivi in maniera così intensa e massiccia da determinare una distorsione dell’Io. In altre parole Freud aveva identificato dei pazienti pseudonevrotici, cioè pazienti che pur presentando una mente nevrotica mostravano aree psicotiche di tipo paranoide, che per di più mostravano un aspetto ben peggiore della resistenza al transfert: erano incapaci di sviluppare un rapporto di fiducia con il terapeuta.

La scoperta di questi pazienti atipici, che sembravano nevrotici ma invece erano psicotici (appunto “borderline”), segnò un punto di svolta nella storia della psicologia e rappresentò una sfida per numerosi analisti americani (e non solo) che negli anni ‘40 e ‘50 diedero vita a nuove concezioni teoriche dal punto di vista terapeutico nel tentativo di risolvere il problema di come trattare questi pazienti.

Durante il corso il mio professore si focalizzò sulle principali forme di trattamento psicoterapeutico altamente formalizzato disponibili ai tempi (siamo nel 2008) per i pazienti borderline: la Transference-Focused Psychotherapy (TFP) di Kernberg, la Dialectic Behaviour Therapy (DBT) di Linehan e la Mentalization Based Therapy (MBT) di Bateman e Fonagy, che nella mia mente di psicologa in erba formarono “la triade del trattamento per pazienti borderline”, coloro che avevano dato una risposta al problema dei pazienti borderline elaborando forme di trattamento efficaci.

 

La Mentalization Based Therapy per i disturbi di personalità

Capite bene che quindi non mi sarei mai potuta perdere Bateman e Fonagy ospiti al convegno soldout MENTALIZING AND PERSONALITY DISORDERS: CONTEMPORARY THEORY AND PRACTICE organizzato dall’Università di Pavia. Un’occasione non solo per ascoltarli presentare in prima persona il loro modello e gli ultimi aggiornamenti in merito, ma anche per vederli all’opera durante la simulazione di una seduta.

La MBT, come dice il nome stesso, pone al centro il concetto di mentalizzazione, cioè “la capacità di avere un pensiero sugli stati mentali come condizioni distinte anche se potenziali determinati del comportamento” (Bateman & Fonagy, 2004).

Tale capacità emerge attraverso l’interazione con il caregiver ed è influenzata dalla qualità della relazione di attaccamento: se il genitore è capace di riflettere in maniera accurata le intenzioni del bambino senza sopraffarlo, ciò contribuisce allo sviluppo della regolazione emotiva e della funzione autoriflessiva nel bambino. La mentalizzazione ha pertanto le sue radici nel sentirsi compresi dalla figura di attaccamento; qualsiasi comunicazione che implichi il riconoscimento dell’ascoltatore come agente intenzionale aumenterà in lui la fiducia epistemica e la possibilità che codifichi la comunicazione come rilevante, generalizzabile, degna di essere memorizzata.

Il disturbo di personalità secondo Bateman e Fonagy rappresenta il fallimento della comunicazione, l’impossibilità di accedere alla comunicazione culturale e di instaurare una relazione di apprendimento poiché l’apprendimento dall’esperienza è parzialmente negato dall’assenza di fiducia nella conoscenza sociale. Il cambiamento non è possibile proprio perché il paziente non ha fiducia nell’esperienza, ritiene che le intenzioni dell’interlocutore siano differenti da quelle dichiarate e quindi non considera quanto comunicato come proveniente da fonte affidabile; pertanto il normale processo di modificazione delle credenze sul mondo (di sé in relazione agli altri) rimane precluso e il paziente vive un insopportabile senso di isolamento.

Ovviamente questa sfiducia si manifesta anche in terapia, determinando grande frustrazione nel terapeuta (e anche la tendenza a colpevolizzare il paziente), il quale ha la sensazione che il paziente non lo stia ascoltando; in realtà il paziente trova difficile fidarsi della verità di ciò che sta ascoltando. La terapia quindi si pone l’obbiettivo di creare le condizioni affinché la verità epistemica possa crescere ed essere generalizzata al mondo esterno ponendo fine all’isolamento epistemico in cui il paziente verte.

Il modello di Bateman e Fonagy presenta molti aspetti caratteristici degli approcci cognitivi (per es. prevede un lavoro sulla rappresentazione cognitiva delle emozioni e sui nessi tra emozione e comportamento), ma trae la sua origine dalla tradizione psicoanalitica, in particolare bowlbyana.

Se si considerano le sue radici salta all’occhio l’assenza proprio di uno dei concetti chiave della tradizione psicoanalitica: l’inconscio. Che fine ha fatto? E’ scomparso per un semplice motivo: non è possibile lavorare sul profondo in assenza di fiducia epistemica, a maggior ragione su materiale di cui il paziente è inconsapevole.

Con i disturbi di personalità mancano le basi per poter lavorare ai “livelli superiori” e proprio da quelle bisogna partire, che si tratti di migliorare la metacognizione prima di procedere con la ristrutturazione cognitiva oppure di incrementare la fiducia epistemica prima di dedicarsi al lavoro di analisi dell’inconscio.

 

GUARDA: Peter Fonagy – Interview on Mentalizazion Based Therapy

 

BIBLIOGRAFIA:

  • TRATTAMENTO BASATO SULLA MENTALIZZAZIONE
  • Freud. S, (1937) “Analisi terminabile e interminabile”, vol. XI. Bollati Boringhieri, Torino, 1977.
  • Bateman, A.W., Fonagy, P. (2004), Il trattamento basato sulla mentalizzazione: psicoterapia con il paziente borderline. Tr. it. Raffello Cortina, Milano 2006.
  • Bateman, A.W., Fonagy, P. (2006), Guida pratica al trattamento basato sulla mentalizzazione per il disturbo borderline di personalità. Tr. it. Raffello Cortina, Milano 2010

Cosa ci insegna la storia?

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 13/09/2015

 

Di fronte alla quotidiana apocalisse di annunci catastrofici, sciagure, guerre, migrazioni, inondazioni e altri disastri, ci si chiede se questa cronaca riuscirà a elevarsi a storia, se riusciremo a imparare qualcosa da tutto questo.

L’occidente è stato spesso e fin troppo fiero di una delle sue scoperte: la storia. La capacità di dare un senso al racconto del proprio passato e la capacità di raccontarlo con precisione, uscendo dalla leggenda. Da Erodoto e Tucidide in poi ce la siamo raccontata così: noi conserviamo una memoria e da questa memoria impariamo chi siamo e cosa vogliamo essere. E impariamo anche a non ripetere gli errori del passato. Historia magistra vitae, come scriveva Cicerone nel De Oratore.

Questa passione per le storie e per la storia come insegnamento e fonte di senso si è mantenuta nel medioevo e in età moderna. Dai secoli bui ci sono arrivate le cronache di Paolo Diacono, di Gregorio di Tours, di Rodolfo il Glabro. L’illumiminismo rinnova la storia come insegnamento, il romanticismo riscopre la storia come memoria della propria identità. Conoscere se stessi e il racconto di se stessi ci dà una direzione, ci ammaestra e concede una consolazione alla nostra confusione quotidiana.

La psicologia ha ereditato questo culto della storia come tesoro da conservare e ricordare, trasformandolo in analisi della storia personale. Non solo la psicoanalisi volge la sua attenzione al passato degli individui, ma anche le psicoterapie cognitive oggi dominanti hanno una corrente narrativa ed esistenziale. La corrente narrativa in psicoterapia incoraggia il paziente alla conoscenza di sé attraverso il racconto della propria storia. La forma narrativa consente a chi la elabora di divenire spettatore del proprio intreccio, e questo genera un aumento di risorse emotive e cognitive fruibili per ristrutturare i significati (Lenzi e Bercelli, 2010).

Le cose, però, non sono così semplici. Fin dall’inizio qualcuno notò che non è così vero che il senso della storia sia solo occidentale. Platone in persona scrisse di un viaggio di Solone in Egitto e della sua meraviglia davanti ai due millenni di cronache dettagliate che quel paese vantava già allora, seicento anni prima della nascita di Cristo. Solone capì che i greci erano come fanciulli che conoscevano del loro passato solo miti e leggende, mentre gli archivisti egizi avevano registrato con precisione le date di nascita, di insediamento e di morte di faraoni che avevano regnato duemila anni prima.
Non solo occidente, dunque. E nemmeno solo storia come insegnamento e progresso oltre gli errori del passato. Accanto a questa visione si affermò una nozione più pessimistica di storia ciclica come eterno ritorno dell’uguale nella quale gli uomini tendono a ripetere eternamente gli stessi errori. Troviamo il ritorno dell’uguale nel greco Polibio e nell’arabo Ibn Khaldūn. La loro storia è raccontata presupponendo una naturale tendenza delle generazioni sedentarizzate, eredi dei conquistatori e fondatori di imperi, a indebolirsi trascinate in una progressiva e inesorabile decadenza dovuta al benessere e al modo di vita urbano.

Questa visione ha il suo corrispettivo in psicologia nella concezione dei cicli interpersonali. I cicli sono “il modo in cui la relazione con l’altro attiva circuiti che rinforzano la patologia a causa dei segnali- in prevalenza non verbali, automatici ed emozionali- che i pazienti scambiano con i loro partner in interazione” (Safran e Segal; 1990). Si tratta di strategie che il soggetto mette in atto per evitare di vivere stati emotivi dolorosi in ogni sua relazione personale significativa.

Naturalmente in psicoterapia questa nozione assume un valore progressivo. Attraverso la conoscenza dei propri cicli di relazione con l’altro l’individuo può comprenderli e, quando necessario, liberarsene e apprendere nuovi modi di entrare in contatto con l’altro.
La concezione ciclica invece non ha nulla di progressivo in storia e in filosofia. Anzi, le concezioni cicliche sono pessimiste. Pessimista era Polibio, che riteneva che il ciclo dei regimi politici andasse sempre degradandosi in ogni forma: le monarchie decadono in tirannidi, le aristocrazie involvono in oligarchie, la democrazia avvizzisce e diventa oclocrazia, dominio della massa demagogizzata.

Non vi è nulla da imparare per Polibio e per Ibn Khaldūn. Non possiamo fare altro che assistere a questo nostro affannarsi come criceti in una ruota che gira e che ci tiene prigionieri del nostro movimento illusorio che da nessuna parte ci porta.
Anche qui vi è un corrispettivo psicologico: lo stato mentale di decentramento, ovvero la capacità di guardare alle proprie esperienze interne (pensieri, sensazioni, emozioni) come a eventi transitori che non richiedono una reazione e non come dati di realtà (Mancini e Perdighe, 2012). Vi sono intere terapie fondate sulla promozione di questi stati di accettazione e decentramento. Il cuore di questi interventi non è più la modificazione dei contenuti mentali, ma il cambiamento di atteggiamento verso questi contenuti.

Si va verso una visione disincantata, in cui la storia nulla ci insegna e si apprende solo che non si apprende nulla. Naturalmente anche in questo caso la visione delle cose può diventare più complessa e si spera che proprio questo atteggiamento di accettazione meno impegnato nel proseguimento di un progresso obbligato e fuggente sfoci in un impegno diverso, un prendere atto, un atto di consapevolezza, un vedere e constatare le cose e gli eventi per come si presentano nel momento, e non come vorremmo che fossero.

 

BIBLIOGRAFIA:

Chi predica bene e razzola male: seguiremmo mai i nostri consigli?

Quando dispensiamo consigli su come affrontare i momenti bui, spesso ci sentiamo fiduciosi nelle parole di incoraggiamento e nei suggerimenti dati ai nostri cari, tuttavia…se avessimo lo stesso problema, seguiremmo mai il nostro consiglio?

 

È più facile consigliare di sopportare che sopportare.

Robert Browning, Balaustion’s Adventure, 1871

 

Tutti quanti purtroppo, ci ritroviamo nel corso della vita, a dover fare i conti con qualche problema: che sia di tipo personale, familiare o lavorativo, lo sconforto ci butta giù e spesso riusciamo a trovare sollievo e magari una soluzione solo grazie ai consigli dei nostri amici.

Quando invece siamo noi a dispensare consigli su come affrontare i momenti bui, spesso ci sentiamo fiduciosi nelle parole di incoraggiamento e nei suggerimenti che diamo ai nostri cari affinché si sentano pronti a trovare un’efficace via d’uscita al problema, tuttavia…se avessimo lo stesso problema, seguiremmo mai il nostro consiglio?

Partendo dall’articolo scritto dalla psicologa Melissa Dahl ‘Why Is It So Hard to Take Your Own Advice?’, il giornalista Oliver Burkeman ha riflettuto sul perché di frequente non si riesca a seguire un consiglio che magari, qualche tempo prima, abbiamo dispensato fieri, dall’alto della nostra saggezza, all’amico afflitto di turno.

Burkeman scrive la rubrica settimanale ‘This column will change your life’, nella quale dedica ampio spazio alla diffusione di alcuni piccoli consigli per affrontare al meglio alcune situazioni (non senza il riferimento ad articoli scientifici e opinioni di esperti), eppure egli stesso scrive che, nonostante creda fortemente nei consigli che dispensa, non li segue poi così spesso.

C’è qualcosa dunque che rende, ai nostri occhi, i nostri problemi diversi e più gravi rispetto ai problemi altrui? O in realtà non crediamo poi tanto in ciò che diciamo per confortare i nostri cari? Burkeman, nell’articolo consigliato, espone diverse spiegazioni possibili del perchè non ci fidiamo delle belle parole che noi stessi abbiamo dispensato e continuiamo a dispensare. Se proprio non riuscite a seguire i vostri consigli, seguite il mio e leggete l’articolo…lo troverete molto interessante!

Ho l’enorme arroganza di pensare che se voi seguiste alcuni dei suggerimenti che vi do ogni settimana in questa rubrica, potreste essere un po’ più felici o più produttivi, avere rapporti meno tesi con gli altri e un po’ più di calma interiore (dalle email che mi arrivano so che almeno ogni tanto questo succede). Ma se per caso pensate che io segua immancabilmente i miei stessi consigli, siete proprio fuori strada.

Accetta il mio consiglio, tanto io non lo uso – Oliver Burkeman

Consigliato dalla Redazione

Se voi seguiste alcuni dei suggerimenti che vi do, potreste essere€™ più felici o più produttivi, avere rapporti meno tesi con gli altri e un po’ più di calma interiore. (…)

Tratto da: Internazionale

 

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La trasmissione intergenerazionale dell’ansia

Susanna Martina – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

Il genitore ansioso trasmette al proprio figlio l’ansia? Gli studi in materia di trasmissione intergenerazionale dell’ansia cercano di rispondere a questa e ad altre domande.

Disturbi d’ansia: alto impatto psico-socio-economico

L’idea che i disturbi d’ansia siano tra i più comuni e diffusi disturbi mentali all’interno della popolazione è ormai ampiamente condivisa dalla maggior parte degli studi epidemiologici sul tema. Da quanto emerge, infatti, la loro prevalenza si aggira attorno al 25% nella popolazione normale, si sviluppano precocemente, in media intorno agli 11 anni, sono più frequenti nelle donne, tendono a cronicizzarsi nel tempo e per tutti questi motivi hanno elevati costi socio-economici. Sono infatti causa di difficoltà in svariati ambiti: da quello sociale, a quello familiare, educativo e lavorativo, costituendo essi stessi un fattore di rischio per lo sviluppo di ulteriori disturbi come ad esempio la depressione o l’abuso di sostanze (Creswell & Waite, 2015). È perciò fondamentale che i ricercatori mantengano alto l’interesse nei confronti di questi disturbi, in modo da individuare trattamenti sempre più precoci ed efficaci che possano ridurne l’elevato impatto psico-socio-economico.

I disturbi d’ansia sono solitamente caratterizzati da una grande eterogeneità di sintomi tra cui ad esempio eccessive preoccupazioni, forte paura, nervosismo, insonnia, difficoltà di digestione, tensione muscolare, tachicardia, sensazione di soffocamento, panico; tale sintomatologia ha pertanto diverse implicazioni a livello cardiovascolare, respiratorio, gastrointestinale e nervoso, arrivando a compromettere notevolmente, nei casi più gravi, il funzionamento psicofisico generale dell’individuo. Gli effetti di tale compromissione si ripercuotono inoltre anche in altri ambiti della vita della persona, mettendo a rischio il suo più generale adattamento all’ambiente ed alla società.

Disturbo d’ansia generalizzato, ansia da separazione, disturbo di panico, agorafobia, fobia sociale sono infatti solo alcuni dei disturbi d’ansia più diffusi e riconosciuti come limitanti o comunque interferenti con l’apprendimento, la socializzazione, la vita sentimentale, le performance scolastiche, le ambizioni personali e/o gli scopi di vita dell’individuo. Come può un amministratore delegato soffrire di fobia sociale? O un chirurgo operare se ha la fobia del sangue? Può un operatore ecologico soffrire di agorafobia? Per tutte queste ragioni è fondamentale riuscire ad individuare non solo i fattori scatenanti, ma anche i fattori che contribuiscono al mantenimento ed alla cronicizzazione di questa specifica categoria di disturbi. Essendo un argomento molto vasto e complesso, in quest’articolo ci si focalizzerà prevalentemente sull’approfondimento delle conoscenze e delle implicazioni in materia di trasmissione intergenerazionale dell’ansia. Infatti avere una più chiara idea dei principali meccanismi e fattori coinvolti nello sviluppo e nella trasmissione della sintomatologia ansiosa tra genitori e figli, può aiutare a comprendere meglio le potenzialità di interventi precoci per il trattamento o la prevenzione dei disturbi d’ansia.

Trasmissione intergenerazionale dell’ansia

Una delle più interessanti conquiste della ricerca sul tema è la scoperta che i disturbi d’ansia ricorrono all’interno delle famiglie (Turner et al. 1987; Beidel & Turner, 1997; Merikangas et al. 1999; Eley et al. 2002). Trattandosi però di un fenomeno particolarmente complesso, la comprensione dei meccanismi implicati risulta ancora parziale e a volte contraddittoria: alcuni studi hanno infatti affermato che i bambini dei genitori affetti da disturbi d’ansia hanno sette volte più probabilità di sviluppare a loro volta un disturbo d’ansia rispetto a bambini di genitori non affetti da tale psicopatologia (Turner et al. 1987; Merikangas, et al. 1998), altri studi hanno invece sottolineato che sono i genitori dei bambini ansiosi ad essere a rischio di sviluppare essi stessi un disturbo d’ansia rispetto ai genitori dei bambini sani (Last et al. 1991; Cooper et al. 2006). Pertanto, quanto conta la genetica nel passaggio intergenerazionale di un disturbo d’ansia tra genitore e figlio? E se fosse più una questione ambientale, quali fattori hanno maggior peso? Ma, soprattutto, è il genitore ansioso che trasmette al proprio figlio l’ansia o è il temperamento ansioso del bambino a scatenare l’apprensione del genitore? Gli studi in materia di trasmissione intergenerazionale dell’ansia hanno cercato e cercano tuttora di rispondere a tutte queste domande.

Un recente contributo sul tema è stato dato da Eley e colleghi (2015) sull’American Journal of Psychiatry. Lo studio ha coinvolto 387 famiglie di gemelli monozigoti e 489 famiglie di gemelli eterozigoti insieme ai loro rispettivi partner e ad uno dei loro figli adolescenti. Le famiglie sono state valutate con diversi strumenti tarati specificamente per rilevare i diversi aspetti della sintomatologia ansiosa. I dati ottenuti hanno confermato il contributo della genetica per quanto riguarda la presenza di sintomatologia ansiosa tra gemelli omozigoti, mentre non hanno rilevato un effetto genetico altrettanto significativo rispetto alla trasmissione intergenerazionale dell’ansia tra genitori e figli. Questi risultati hanno perciò avvalorato l’ipotesi che i figli non abbiano tanto ereditato l’ansia dai propri genitori quanto più che l’abbiano sviluppata a partire da altri meccanismi quali ad esempio le esperienze di apprendimento successive. I risultati dell’esperimento sono perciò rimasti in linea con il modello attualmente più condiviso sulla trasmissione intergenerazionale dell’ansia per cui, seppure l’ereditarietà genetica contribuisca a predisporre l’individuo in termini di vulnerabilità alla sintomatologia (Robinson et al. 1992; Stein et al. 2002), il peso dei fattori ambientali sembra essere maggiormente significativo.

Trasmissione intergenerazionale dell’ansia: fattori e meccanismi implicati

Molte ricerche hanno approfondito quali fattori ambientali sono prevalentemente coinvolti nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia e tra questi i più studiati sono il legame di attaccamento genitori-figli, il funzionamento e la struttura familiare, lo stile educativo e comportamentale del genitore ed infine le credenze e le attribuzioni genitoriali. In particolare, riguardo l’attaccamento, è ormai certo che un legame di tipo insicuro nei genitori e nei bambini sia prevalentemente associato all’ansia infantile e che la percezione di controllo, il senso di autonomia ed il senso di competenza personale siano importanti mediatori nell’associazione tra fattori familiari e disturbi d’ansia (Rapee, 2001; Barlow, 2004). Tuttavia restano ancora da chiarire alcuni specifici meccanismi attraverso cui l’attaccamento contribuisce alla trasmissione intergenerazionale dei disturbi ansia, in particolare il diverso contributo dell’attaccamento materno rispetto a quello paterno nello sviluppo di specifiche forme d’ansia infantile. Alcune ricerche suggeriscono infatti l’ipotesi che il legame di attaccamento paterno possa giocare un ruolo prevalente rispetto a quello materno nello sviluppo dell’ansia sociale (Lamb, 1980; Bogels & Phares, 2008).

Per quanto riguarda il funzionamento e la struttura familiare, si può affermare che la qualità del rapporto di coppia tra i genitori ed in particolare la loro capacità di supportarsi a vicenda, influenzano direttamente la qualità del rapporto che ciascun genitore instaura poi con il proprio figlio e che questo si ripercuote sul figlio in termini di maggior senso di sicurezza acquisito; tale senso di sicurezza costituisce uno dei principali fattori protettivi per lo sviluppo di future psicopatologie nel bambino (Lamb, 1980; Amato & Rezac, 1994; Brunelli et. al 1995). Ma quali aspetti del funzionamento e della struttura familiare sono specifici per l’ansia nei bambini? Alcune ricerche hanno effettivamente riscontrato un’associazione specifica tra qualità della relazione di coppia tra i genitori ed ansia nei figli (McHale & Rasmussen, 1998) tuttavia i risultati sono ancora limitati. In relazione all’ansia infantile sono stati inoltre studiati aspetti della struttura familiare come l’ordine di nascita, la numerosità della famiglia ed il rapporto con i fratelli. Purtroppo, anche in questo caso, i risultati ottenuti sono limitati e a tratti discordanti e di conseguenza non permettono una chiara comprensione del fenomeno. In particolare, ad esempio, secondo alcuni studi sarebbero i figli unici ed i primogeniti maggiormente a rischio di sviluppare timidezza ed ansietà (Zimbardo, 1977) per le alte aspettative di successo riposte in loro dai genitori, mentre secondo altri studi sarebbero i fratelli minori quelli più a rischio in quanto potenzialmente più esposti a situazioni di prepotenza e dominanza negativa da parte dei fratelli maggiori (Dunn et al, 1994). Anche l’associazione tra disturbi d’ansia e grandezza della famiglia non è ben definita, infatti in alcuni casi una famiglia numerosa costituisce un fattore protettivo dalle conseguenze negative di relazioni conflittuali tra i genitori, mentre in altri casi costituisce un aggravante a causa dell’atmosfera potenzialmente più caotica e conflittuale (Bogels & Brechman-Toussaint, 2006). Perciò, ad oggi, la specifica associazione tra funzionamento e struttura familiare ed ansia infantile resta ancora da chiarire; tuttavia si può affermare che, in generale, una scarsa qualità del rapporto di coppia tra i genitori, uno scarso supporto reciproco tra i genitori, conflittualità intrafamiliare ed un generale malfunzionamento intrafamiliare sono fattori significativi nello sviluppo e mantenimento dell’ansia.

Per quanto riguarda gli stili educativi ed i comportamenti genitoriali, la letteratura ha ormai fornito sufficienti evidenze per confermare come stili e comportamenti genitoriali ipercontrollanti e rifiutanti siano principalmente responsabili dello sviluppo e del mantenimento dell’ansia nei bambini. Lo stile educativo definito parental over-control è caratterizzato da un’eccessiva regolazione e/o limitazione dell’autonomia del bambino nelle attività e nelle routine quotidiane, con un alto livello di vigilanza ed intrusività. Questo tipo di atteggiamento genitoriale tende a limitare notevolmente lo sviluppo del bambino in termini di autonomia ed indipendenza, e contribuisce ad infondergli uno scarso senso di autoefficacia oltre che a un senso di insicurezza e di incontrollabilità del mondo esterno. Anche uno stile genitoriale caratterizzato da parental negativity, ovvero da mancanza di calore e approvazione, contribuisce a creare nel bambino idee negative e distorte sul mondo, su di sé e sul futuro (Krohne, 1990; Krohne & Hock, 1991). Le ricerche hanno inoltre evidenziato come i genitori affetti da disturbi d’ansia adottino maggiormente stili educativi e comportamenti intrusivi, iperprotettivi e ipercontrollanti rispetto ai genitori sani, contribuendo in larga parte a sviluppare e mantenere l’ansia nei propri figli. Inoltre, come accennato precedentemente riguardo al legame di attaccamento, anche in questo caso madre e padre sembrano giocare ruoli distinti, in particolare sembra che lo stile relazionale ed il comportamento dei padri sia specificamente associato al livello di ansia sociale nei bambini (Bogels & Perotti, 2011).

Ma cosa porta il genitore ad agire in un certo modo? In questo senso fattori cognitivi come credenze ed attribuzioni genitoriali hanno un ruolo fondamentale nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia: da una parte influenzano direttamente il comportamento manifesto del genitore, dall’altra influiscono indirettamente sull’adozione di stili relazionali più o meno efficaci (Bogels & Brechman-Toussaint, 2006). Attraverso un apprendimento di tipo vicario, definito parental modelling, il bambino, osservando direttamente le risposte comportamentali dell’adulto, apprende il suo stesso modello di risposta e tende poi a riutilizzarlo in simili situazioni future. È chiaro quindi come un genitore ansioso, che tende a reagire alle situazioni in modo eccessivamente apprensivo e spaventato, passi al proprio figlio un modello di risposta comportamentale simile, favorendo in quest’ultimo lo sviluppo e/o il rinforzo di tratti ansiosi (Askew et al., 2008).

Altre categorie di credenze e attribuzioni genitoriali condizionano invece indirettamente lo stile educativo adottato dal genitore. In particolare, la percezione che il genitore ha del temperamento o del comportamento del proprio bambino, condiziona fortemente le aspettative del genitore stesso e di conseguenza influenza lo stile relazionale da lui successivamente adottato (Bogels & Brechman-Toussaint, 2006). In questo senso esiste quindi una reciprocità tra temperamento infantile e risposta genitoriale: un bambino con un temperamento caratterizzato da alti livelli di arousal ed emotività contribuisce a creare nel genitore aspettative relazionali che influenzano necessariamente il modo in cui il genitore si comporta; tale comportamento influenza a sua volta la risposta emotiva del bambino e così via in un rapporto di reciproca influenza (Bogels & Brechman-Toussaint, 2006). Sembra che a mediare questa relazione contribuisca anche il senso di controllo e di efficacia percepita del genitore in situazioni di care-giving. Alcune ricerche hanno infatti dimostrato che genitori affetti da disturbi d’ansia, con aspettative negative sulle reazioni del proprio bambino e con scarso senso di autoefficacia in situazioni di care-giving si comportano con maggior intrusività, iperprotezione, ansietà e controllo (Creswell et al. 2010; Creswell et al. 2013) Altre ricerche hanno infine posto l’attenzione su una particolare modalità di pensiero definita negative interpretation bias, ovvero la tendenza ad interpretare negativamente situazioni ambigue, ritenendola anch’essa responsabile dello sviluppo e del mantenimento dei disturbi d’ansia nei figli (Podina et al. 2013).

Conclusioni

L’idea che i disturbi d’ansia siano disturbi ad alta prevalenza e che abbiano un grave impatto psicologico, sociale ed economico è ormai consolidata. Uno degli aspetti più interessanti di questa eterogenea categoria di disturbi è il fatto che ricorrano frequentemente tra le generazioni. Numerosi studi hanno infatti identificato i fattori ed i meccanismi specificamente coinvolti nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia. Attualmente, il modello più condiviso afferma che il contributo maggiore allo sviluppo e mantenimento dell’ansia tra generazioni è dato da fattori di tipo ambientale come il legame di attaccamento, il funzionamento e la struttura familiare, lo stile educativo e comportamentale del genitore e le credenze e le attribuzioni genitoriali.

La complessità dei risultati ottenuti in materia, sembra inoltre suggerire che il rapporto tra ansia genitoriale ed infantile sia biunivoco e di reciproca influenza: come un genitore ansioso, guidato dalle proprie credenze e attribuzioni, influenza le risposte cognitive e comportamentali del proprio figlio trasmettendogli la propria ansia, altrettanto un figlio con un particolare temperamento può influenzare negativamente la risposta comportamentale del genitore, rinforzando un circolo vizioso difficile da interrompere. Tra i meccanisimi chiave identificati nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia, il parental modelling assume un ruolo privilegiato in quanto è responsabile dell’apprendimento vicario delle risposte ansiogene nei bambini attraverso l’osservazione dei genitori.

Giocano inoltre un ruolo chiave anche le cognizioni e le attribuzioni dei genitori, che, se distorte, tendono ad influire negativamente sulle strategie educative da loro adottate. Sembra infine che, avendo padri e madri diversi ruoli nell’educazione dei figli, questi contribuiscano diversamente alla trasmissione dei disturbi d’ansia, e in particolare sembra che il contributo paterno sia predominante nella trasmissione dell’ansia sociale.

 

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Un possibile nuovo metodo per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress

Molte ricerche hanno dimostrato che l’esposizione a fonti di stress rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo del disturbo post traumatico da stress e che gli individui che soffrono di DPTS oltre ai sintomi caratteristici di tale disturbo manifestano un aumentato condizionamento alla paura se sottoposti in laboratorio a protocolli sperimentali.

Ciò sembrerebbe dipendere dalla serotonina, infatti una disregolazione dei sistemi serotoninergici è legata alla comparsa di patologie affettive dovute allo stress come il disturbo post traumatico da stress e livelli elevati di serotonina causano alterazioni nei processi di valutazione delle fonti di minaccia.

Il legame tra l’essere stati esposti a stress o traumi e la reazione eccessiva alla paura condizionata ravvisabile in laboratorio può essere indagato anche attraverso modelli animali, come infatti si è preposto di fare lo studio in questione che ha sottoposto dei topi a delle fonti di stress e ha poi valutato l’impatto che tale esperienza ha sul successivo condizionamento alla paura. In particolare sulla base delle precedenti evidenze la ricerca si è basata sull’ipotesi secondo cui sarebbero i topi esposti a stimoli stressanti a presentare una certa vulnerabilità all’apprendimento della paura in quanto, in seguito al trauma, si attivano dei processi di consolidamento della memoria mediati dalla serotonina; tale vulnerabilità non può essere invece attribuita agli animali non stressati.

Quindi in primo luogo i topi sono stati divisi in due gruppi, quelli che facevano parte del primo gruppo sono stati immobilizzati per due giorni e quindi sottoposti a stress, quelli che invece facevano parte del secondo gruppo sono stati lasciati liberi per due giorni e quindi non sottoposti a stress. A questa prima fase sperimentale è seguito il condizionamento alla paura, in cui dei suoni rappresentavano lo stimolo neutro e un piccolo shock elettrico alle zampe quello incondizionato; lo stimolo neutro e quello incondizionato solo nel 50% dei casi si presentavano simultaneamente, in tal modo è stato possibile aumentare l’impatto dello stress a differenza di quanto accade in un paradigma classico di condizionamento in cui i due stimoli sono sempre abbinati. Il condizionamento alla paura è stato valutato dopo 2 ore o dopo 24 ore dalla fine della fase di condizionamento e l’attività serotoninergica è stata controllata a livello del nucleo del rafe dorsale e a livello del recettore serotoninergico 2C, collocato nell’amigdala basolaterale e particolarmente implicato nella regolazione dei sintomi ansiogeni.

I risultati hanno innanzitutto confermato le ipotesi di ricerca e cioè il fatto che i topi esposti a fonti di stress presentano un aumento dell’espressione del recettore serotoninergico 2C, dimostrando come lo stress possa attivare processi di consolidamento della memoria mediati dalla serotonina.

Questo effetto, come previsto, non è riscontrabile nel caso dei topi che non sono stati immobilizzati ed è ulteriormente confermato dal fatto che lo stress ripetuto aumenta la memoria della paura nel lungo termine (24 ore dopo la fine della fase di condizionamento) ma non nel breve termine (2 ore dopo la fine della fase di condizionamento). In secondo luogo si è osservato che, durante la fase di condizionamento alla paura, è l’attività serotoninergica relativa alla condizione in cui il suono e lo shock elettrico non sono abbinati a regolare la forza della memoria associativa del caso in cui lo stimolo neutro e quello incondizionato sono simultanei.

Questo effetto, attribuibile solo a topi stressati, ha permesso allo studio presente di dimostrare che le regole standard dei processi di condizionamento possono essere influenzate da variabili contingenti come lo stress, aspetto non previsto dalle teorie classiche del condizionamento che per questo sono state a lungo criticate. Quindi la ricerca in questione ha proposto un buon modello, in quanto come i topi sottoposti a stress manifestano un incremento della memoria della paura allo stesso modo le persone che sono state protagoniste di traumi presentano una maggiore vulnerabilità allo sviluppo del disturbo post traumatico da stress. Infine se è vero che l’esposizione a stress aumenta l’espressione del recettore serotoninergico 2C, favorendo in tal modo i processi di consolidamento della memoria, al fine di trattare disturbi come il DPTS, la ricerca suggerisce di ricorrere a molecole antagoniste di tali recettori, pur evidenziando la necessità di ulteriori approfondimenti in merito.

 

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La riformulazione verbale del significato del trauma: un intervento efficace per i pazienti con disturbo post traumatico da stress

BIBLIOGRAFIA:

La ruminazione rabbiosa e il comportamento aggressivo nel disturbo borderline di personalità 

La ricerca mira ad indagare il ruolo della ruminazione rabbiosa nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità.

93 pazienti con DBP sono stati arruolati in diversi centri clinici, ambulatoriali e di ricovero in 3 città (Bologna, Milano e Vicenza). La popolazione clinica è stata testata con una batteria volta ad indagare la diagnosi di DP, la tendenza all’aggressività, alla ruminazione rabbiosa e alla disregolazione emotiva.

I risultati della ricerca dimostrano che il ruolo della ruminazione rabbiosa risulta centrale nella spiegazione della tendenza a compiere azione aggressive. Il dato è in linea con il modello della Cascata Emotiva di E. Selby. In conclusione, in questi pazienti la tendenza a ruminare rabbiosamente su eventi conflittuali sembra spiegare l’incremento dell’impulsività e della disregolazione comportamentale che porta ad azioni aggressive.

La psicoterapia potrebbe focalizzarsi dunque su tale meccanismo problematico (Ruminazione Rabbiosa) al fine di ridurre la tendenza all’aggressività in persone con problematiche di regolazione emotiva.

 

Anger rumination and aggressive behaviour in borderline personality disorder

 

  • Francesca Martino a, b
  • Gabriele Caselli b, c
  • Domenico Berardi a
  • Francesca Fiore b
  • Erika Marino d
  • Marco Menchetti a
  • Elena Prunetti d
  • Giovanni Maria Ruggiero b
  • Anna Sasdelli e
  • Edward Selby f
  • Sandra Sassaroli b

 

[accordion title1=”About the authors” text1=”a Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Bologna, Bologna, Italy; b Studi Cognitivi, Milano, Italy; c Sigmund Freud University, Milano, Italy; d Clinica Privata Villa Margherita, Vicenza, Italy; e Dipartimento di Scienze biomediche e neuromotorie, Università of Bologna, Bologna, Italy;f Dipartimento di Psicologia, Rutgers University, Piscataway, NJ, USA.” ]

 

 

Abstract

Background

Emotional instability and dyscontrolled behaviours are central features in borderline personality disorder (BPD). Recently, some cognitive dysfunctional mechanisms, such as anger rumination, have been found to increase negative emotions and promote dyscontrolled behaviours. Even though rumination has consistently been linked to BPD traits in non-clinical samples, its relationship with problematic behaviour has yet to be established in a clinical population.

Aim

The purpose of the study was to explore the relationships between emotional dysregulation, anger rumination and aggression proneness in a clinical sample of patients with BPD.

Methods

Enrolled patients with personality disorders (93 with BPD) completed a comprehensive assessment for personality disorder symptoms, anger rumination, emotional dysregulation and aggression proneness.

Results

Anger rumination was found to significantly predict aggression proneness, over and above emotional dysregulation. Furthermore, both BPD diagnosis and anger rumination were significant predictors of aggression proneness.

Conclusion

Future research should examine whether clinical techniques aimed at reducing rumination are helpful for reducing aggressive and other dyscontrolled behaviours in treating patients with BPD. Copyright © 2015 John Wiley & Sons, Ltd.

 

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Master Online in Mediatore Familiare

Separazioni e divorzi: la fine di un matrimonio purtroppo è un evento molto frequente nella nostra società e spesso ad essere coinvolti in una situazione così conflittuale non sono solo le due parti in causa ma anche i figli e le persone che ruotano attorno al nucleo familiare.

La crisi di una coppia ha ripercussioni molto forti sulla sfera emotiva e psicologica: qualsiasi sia il motivo che ha scatenato la separazione, subentrano sentimenti ed emozioni che possono destabilizzare la persona se essa stessa non è in grado di gestirli, rischiando di esserne sopraffatta.

Rabbia, rancore, disorientamento, delusione, perdita di fiducia in se stessi, senso di colpa, desiderio di vendetta per i torti subiti: queste emozioni nella quasi totalità dei casi impediscono alle parti di affrontare i problemi lucidamente e di instaurare un dialogo costruttivo per raggiugere un diverso equilibrio rispetto a quello perduto. Durante la crisi i componenti della coppia si rimpallano l’un l’altro la responsabilità della situazione conflittuale, ciascuno crede di avere la ragione dalla propria parte e tenta di dimostrare come la causa del fallimento del matrimonio sia imputabile solo all’altro partner.

In tutto ciò i figli si trovano ad essere spettatori impotenti, spesso chiamati in causa dalle parti come giustificazione per ottenere la soddisfazione di egoistiche pretese, con forti ripercussioni a livello psicologico.

Per comporre i conflitti ed evitare il trascinarsi per tempo indefinito di una situazione di sofferenza e di tensione, è consigliabile che le parti si affidino a professionisti competenti che sappiano guidare le volontà contrastanti verso una soluzione comune: psicologi di coppia e mediatori familiari.

In particolare il Mediatore Familiare è una figura terza ed imparziale che ha il compito di supportare la coppia in crisi durante le fasi della separazione e del divorzio per raggiungere una posizione condivisa in merito alle diverse problematiche sollevate dalle parti. L’obiettivo principale è quello di raggiungere la cogenitorialità, ovvero la salvaguardia delle responsabilità genitoriali individuali verso i figli, ma anche di gestire le richieste materiali dei partners (divisione dei beni, determinazione dell’assegno di mantenimento, assegnazione della casa coniugale, ecc.). Il ricorso al Mediatore Familiare è un’opzione alternativa da considerare prima di iniziare un procedimento attraverso il sistema giudiziario.

 

Mediazione familiare - ICOTEALa Mediazione Familiare, per la delicatezza dei temi che deve affrontare (aspetti sia emotivi che materiali), è una disciplina trasversale tra psicologia, sociologia e giurisprudenza e necessita la padronanza di competenze specifiche.

In Italia il Mediatore Familiare non è una figura professionale regolamentata, non esiste un albo dedicato. Tuttavia vi sono centri di formazione specializzati che erogano corsi ad hoc riconosciuti a livello nazionale. I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l è una di queste realtà: essa offre un Master di Primo Livello per Mediatore familiare di 1500 ore da seguire online e finanziato dalla Comunità Europea tramite un Voucher Formativo che copre parzialmente il costo, oltre alla possibilità di ricorrere ad una rateizzazione del pagamento.

 

Il percorso di studio si sviluppa in 12 mesi ed affronta le seguenti tematiche:

  • Modulo 1°: La coppia e la famiglia – l’individuo, formazione, ciclo vitale, la collusione, l’età di latenza, il contratto, la rottura, il divorzio psichico, effetti separazione, lavoro con i minori, analisi transazionale, teoria attaccamento
  • Modulo 2°: Il Conflitto – modello Sistemico-Relazionale, Analisi e la fenomenologia, epistemologia, le cause, Tema Relazionale Conflittuale Centrale, modalità di gestione, coinvolgimento dei figli
  • Modulo 3°: La Mediazione – abilità, formazione del setting, mediazione nel giudizio, accesso volontario e invio coatto in mediazione, interruzione, le difficoltà, modelli teorici, promozione professionale
  • Modulo 4°: Il Diritto – matrimonio civile e concordatario, diritti, doveri, separazione, divorzio, giudizio di separazione, figli e affidamento condiviso.

 

Essendo I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l un Istituto Universitario, l’attestato che sarà rilasciato ““Master primo livello Mediatore Familiare” ha valore legale sia in Italia che all’estero, utile per:

  • concorsi pubblici
  • istituzione pubbliche: Tribunale – ASL (Azienda Sanitaria) – Scuole – Comuni
  • libera professione
  • graduatorie scolastiche
  • cooperative sociali
  • avanzamento di carriera

Ai professionisti nel settore sanitario verrà rilasciato un Certificato di 50 Crediti Formativi / ECM (Educazione Continua in Medicina), in quanto, I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l. è stata accreditata presso il Ministero della Salute in qualità di Provider n. 4182 per la formazione ECM – Educazione Continua in Medicina.

Ai Liberi Professionisti, Dipendenti Pubblici o Privati iscritti presso Ordini/Albi/Collegi verranno riconosciuti Crediti Formativi Professionali.

Per maggiori informazioni visita il sito www.icotea.it o scrivere a [email protected]

Vittorio Gallese Visiting Fellow a Berlino condurrà un gruppo di ricerca sulle neuroscienze sociali

Vittorio Gallese è stato da poco nominato Visiting Fellow (2016-2018) alla Berlin School of Mind and Brain e condurrà un gruppo di ricerca sulle neuroscienze sociali. Ecco la press release:

Berlin School of Mind and Brain – COMUNICATO STAMPA – 11 Settembre 2015

Vittorio Gallese next Einstein Visiting Fellow 2016–2018

Funded by Einstein Foundation Berlin

Vittorio Gallese of Università di Parma is one of the leading experts in social neuroscience. As a visiting scholar of the Berlin School of Mind and Brain he will set up his own group and conduct research into the development of socio-cultural identity.

Vittorio Gallese von der Università di Parma gilt als einer der weltweit führenden Experten im Bereich der sozialen Neurowissenschaften. An der Berlin School of Mind and Brain will er die Entwicklung der sozio-kulturellen Identität erforschen.

 

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Relazione terapeutica, alleanza e outcome: il ruolo del terapeuta alla luce della teoria dell’attaccamento e dei sistemi motivazionali interpersonali

Valentina Carnevali, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

I dati di ricerca hanno ripetutamente dimostrato come l’alleanza terapeutica sia un potente fattore predittivo dell’esito del trattamento psicoterapeutico (per una recente meta-analisi, si veda Horvath, Del Re, Flückiger et al., 2011).

Essa rappresenta infatti il fattore terapeutico aspecifico (non correlato all’uso di tecniche proprie di specifici orientamenti e modelli psicoterapeutici) con maggiore capacità di predire il buon esito del trattamento, configurandosi così come un nucleo concettuale e clinico di estrema rilevanza.

Secondo Bordin (1979) l’alleanza terapeutica è costituita da tre componenti: (1) l’esplicita condivisione di obiettivi da parte di paziente e terapeuta, (2) la chiara definizione di compiti reciproci all’inizio del trattamento (la negoziazione di obiettivi e compiti tra paziente e terapeuta è un momento cruciale nella costruzione dell’alleanza) e (3) il tipo di legame affettivo che si costituisce fra i due, caratterizzato da fiducia e rispetto. Da tale definizione è possibile evincere che l’alleanza e, conseguentemente, la psicoterapia in senso lato, si delineano come un lavoro collaborativo tra due soggetti interagenti ed entrambi attivi, ciascuno nel proprio ruolo. In particolare, il legame affettivo tra paziente e terapeuta, terzo elemento costitutivo dell’alleanza nonché fattore aspecifico di grande efficacia clinica, emerge dall’interazione tra due variabili principali: da una parte i comportamenti, le emozioni e i pensieri del terapeuta, dall’altra le proiezioni transferali che nascono dalle esperienze passate del paziente. Ecco che dunque entrambi gli elementi della diade clinica, paziente e terapeuta, ciascuno dotato di una propria storia evolutiva e di un proprio mondo interno, divengono di estrema importanza nella costruzione dell’alleanza e nella conduzione di una terapia avente buon esito.

La teoria dell’Attaccamento di Bowlby (1988) offre un’interessante cornice all’interno della quale esplorare il concetto di “alleanza terapeutica”, in quanto la sua costruzione e il suo mantenimento non possono prescindere dall’attivazione dei sistemi motivazionali (tra cui quello dell’attaccamento) di paziente e terapeuta, all’interno del dialogo clinico.

Tale teoria postula l’esistenza nell’uomo di una tendenza innata a ricercare per tutto l’arco di vita la vicinanza protettiva di una figura ben conosciuta ogni volta che si costituiscano situazioni di pericolo, dolore, fatica, solitudine, offrendo così all’individuo un notevole vantaggio in termini di sopravvivenza e adattamento all’ambiente.

L’ Attaccamento è dunque ascrivibile al concetto di “Sistema Motivazionale Interpersonale (SMI)”, definibile come una tendenza innata a base evolutiva capace di regolare comportamenti ed emozioni in vista di specifiche mete, plasmata, nella sua espressione, dalle memorie di quanto è precedentemente accaduto durante il suo esercizio. Tale SMI regola la richiesta di cura e si coordina con lo speculare sistema dell’Accudimento, adibito all’offerta di cura. Gli altri sistemi motivazionali dell’uomo sono il sistema agonistico (competizione per il rango), quello cooperativo (cooperazione tra pari, cruciale nella costruzione di una buona alleanza terapeutica) e quello sessuale: molti di essi entrano in gioco proprio durante lo scambio clinico tra terapeuta e paziente.

Bowlby propone inoltre che, come risultato dell’interazione con il caregiver durante l’infanzia, gli individui sviluppino specifiche rappresentazioni mentali relative al sé, all’altro e alla relazione. Tali Modelli Operativi Interni (MOI), memorie implicite e non verbalizzabili, guidano il comportamento di attaccamento successivo del bambino e, soprattutto, controllano il modo in cui i membri di una diade, anche in età adulta, anticipano, interpretano e dirigono le relazioni con i partner quando diviene attivo il sistema motivazionale dell’attaccamento.

A partire dalla teorizzazione di Bowlby e da studi osservazionali di interazioni madre-bambino, Ainsworth e colleghi (1978) hanno identificato tre diversi pattern di attaccamento (successivamente ampliati a quattro da Main e Solomon (1986) con l’introduzione del pattern disorganizzato), relativi a diversi MOI e correlati a specifiche modalità di gestione dell’angoscia nelle relazioni col caregiver: sicuro (B), insicuro evitante (A) e insicuro ansioso-ambivalente (C). Un caregiver sensibile e rispondente alle esigenze del bambino consentirà lo sviluppo di un attaccamento sicuro, caratterizzato da piena fiducia in sé, nell’altro e nelle relazioni. Caregivers insensibili o non rispondenti, al contrario, comporteranno un’insoddisfazione del bisogno innato di accudimento e determineranno da un lato l’evitamento della relazione (pattern A, le richieste di cura non sono mai soddisfatte) e dall’altro il desiderio ambivalente di vicinanza ed evitamento del contatto (pattern C, il caregiver è incostante e imprevedibile).

In un contesto terapeutico, ogni volta che nel dialogo clinico affiorino memorie e aspettative di difficoltà e dolore mentale, l’attivazione del sistema di attaccamento diviene praticamente inevitabile. Il rapporto clinico tra psicoterapeuta e paziente si presenta dunque frequentemente come un vero e proprio legame di attaccamento, e in esso si possono rintracciare alcune delle caratteristiche specifiche di tale relazione, quali la ricerca di vicinanza, la protesta nei confronti della separazione e la ricerca di una base sicura (Weiss, 1982). Il paziente, in almeno alcuni momenti del dialogo clinico, racconta la propria sofferenza, paura o angoscia e lo stato mentale che accompagna questa narrazione implica pressoché sempre l’attivazione del sistema motivazionale di attaccamento. Il paziente tenderà quindi ad applicare alla relazione con il terapeuta le memorie, le aspettative e i significati costruiti nella relazione con i genitori (MOI degli attaccamenti precoci) e gli stati mentali relativi all’attaccamento adulto.

Da un lato ciò comporta una minaccia all’alleanza terapeutica, perché sposta la relazione dal sistema cooperativo (il migliore per il mantenimento di buoni livelli di alleanza, in cui paziente e terapeuta lavorano insieme sullo stesso piano per il conseguimento di obiettivi condivisi) a un altro sistema, per di più gravato da MOI insicuri o disorganizzati. Dall’altro, proprio la comparsa di strutture e dinamiche mentali relative all’attaccamento nel dialogo clinico, è condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014). Lo stesso Bowlby (1988) ha sottolineato che la relazione psicoterapeutica può costituire un importante fattore di cambiamento dello stile di attaccamento, consentendo al paziente di passare da uno stile insicuro a uno stile sicuro. In questo processo, il ruolo del terapeuta è anche quello di agire come una figura di attaccamento, creando una base sicura che consenta al paziente di procedere nell’esplorazione delle proprie esperienze e dei propri vissuti di attaccamento, favorendo esperienze emozionali correttive capaci di disconfermare i MOI insicuri: i vissuti di attaccamento del clinico andranno quindi ad agire specularmente già in questa fase.

Specularmente, come sottolinea Baldoni (2008), la relazione terapeutica può configurarsi come una potenziale condizione di minaccia anche per il clinico, esposto a possibili frustrazioni narcisistiche, incapacità o difficoltà diagnostica, eventuali fallimenti terapeutici o anche a disorientamento e sofferenza emotiva conseguenti all’entrare in contatto con gli stati mentali del paziente. Anche nel terapeuta possono così attivarsi comportamenti di attaccamento e MOI specifici, correlati alle esperienze passate e capaci di influire in modo significativo all’interno della relazione clinica e nella costruzione/ mantenimento/ riparazione dell’alleanza.

Lavoro terapeutico e alleanza non possono così non risultare profondamente influenzati anche dal terapeuta e dai suoi attributi personali e professionali. Le caratteristiche personali e le capacità individuali del terapeuta che favoriscono l’alleanza o che, al contrario, ne rendono più probabile la compromissione, sono state oggetto di numerose indagini (Backeland, Lundwall, 1975; Bein, Anderson, Strupp et al., 2000; Dunkle, Friendlander, 1996; Kvilinghan, Patton, Foote, 1998; Safran, Muran, 2000). Un’ampia rassegna (Ackerman, Hilsenroth, 2001, 2003) ha evidenziato numerosi attributi favorenti l’alleanza, tra i quali: capacità di esplorare temi interpersonali, elevato livello di metacognizione, tendenza a favorire l’espressione di emozioni in un’atmosfera di sostegno e attivo incoraggiamento, capacità di assumere un ruolo collaborativo nel dialogo col paziente al fine di perseguire insieme obiettivi specifici, genuinità dell’interesse per l’esperienza del paziente, accuratezza e parsimonia nelle interpretazioni. Sull’altro versante, sono stati individuati anche i fattori ostacolanti l’alleanza, tra cui: autoreferenzialità del terapeuta, tendenza a distrarsi quando il paziente parla, scarso coinvolgimento emotivo nello scambio clinico, sfiducia nelle proprie capacità di aiutare il paziente, tendenza a criticarlo e a colpevolizzarlo, uso inappropriato dell’autosvelamento e del silenzio, uso eccessivo di interpretazioni di transfert. Inoltre, i risultati di una prolungata ricerca curata da Norcross (2011) hanno messo in luce, quale “fattore di efficacia terapeutica promettente ma ancora non sufficientemente supportato da dati di ricerca”, proprio lo stile di attaccamento, capace di influenzare alleanza terapeutica e outcome.

Nonostante questo campo sia stato per ora solo parzialmente esplorato, è possibile individuare, tra le altre, alcune prospettive cliniche che hanno cercato di approfondire le correlazioni tra lo stile di attaccamento del terapeuta e alcuni aspetti della relazione terapeutica, quali la costruzione dell’alleanza, il suo mantenimento nel corso della terapia e i possibili esiti dell’intervento.

Secondo Wilkinson (2003), medici e psicologi con stile di attaccamento insicuro si rivelano meno efficaci nella relazione clinica e sono maggiormente esposti al burn-out. Il distanziamento della rabbia e il diniego della vulnerabilità e della paura limitano l’espressione autentica della sofferenza e favoriscono lo spostamento sugli aspetti somatici, tecnici e specialistici (esami, test, farmaci…). I clinici con stile di attaccamento sicuro, invece, si adattano meglio alle diverse condizioni terapeutiche e riescono ad avvicinarsi ai bisogni specifici del paziente, integrando le proprie capacità riflessive con le informazioni cognitive e la comunicazione emotiva. Ne consegue una migliore qualità della relazione clinica e una maggiore soddisfazione personale del lavoro svolto (Dozier, Cue, Barnett, 1994).

Secondo Baldoni (2008), poichè un colloquio clinico è da considerarsi una relazione complessa in un contesto di relativa minaccia, in una situazione terapeutica i comportamenti e le reazioni emotive dei due partecipanti saranno significativamente influenzate dalle rappresentazioni relative alle esperienze di pericolo attivate nei reciproci modelli operativi interni. A partire da tale premessa, Baldoni ha delineato come i diversi stili di attaccamento del terapeuta possano influenzare la relazione clinica. Un clinico con uno stile insicuro distanziante (tipo A), si potrebbe caratterizzare per i tratti tipici di tale pattern: distanziamento dai propri bisogni e dagli affetti vissuti come negativi e pericolosi per il sé; tendenza ad assumere in modo compiacente il punto di vista degli altri, senza però riuscire a comprenderne a pieno i bisogni psicologici (scarsa funzione riflessiva e scarsa empatia); propensione a svolgere compiti tecnici privi di coinvolgimento emotivo (privilegiando la cognizione rispetto all’affettività); possibilità di intrusioni improvvise di emozioni distanziate e acting out.

Quando un clinico insicuro distanziante incontra un paziente con le stesse caratteristiche, i loro stili di attaccamento con ogni probabilità colluderanno e la relazione tenderà ad essere caratterizzata da un approccio rigidamente tecnico-cognitivo (spiegazioni razionali, ma superficiali, dei vari disturbi, visti soprattutto da un punto di vista biologico), con conseguente evitamento delle aree problematiche e distanziamento delle emozioni negative e tendenza a falsificare gli affetti pericolosi per il Sé.

I clinici con attaccamento insicuro preoccupato (tipo C) potrebbero manifestare invece uno stile opposto: drammatizzazione dei problemi ed enfatizzazione degli affetti, con conseguente ricerca di aiuto e comprensione da parte dei colleghi; rischio di fronteggiare le situazioni con aggressività o, al contrario, mostrando dipendenza e fuga dalle responsabilità; difficoltà nella costruzione di relazioni stabili e soddisfacenti; scarsa funzione riflessiva; difficoltà a tollerare frustrazioni e ambiguità, con tendenza a imporre le proprie idee ai pazienti.

Quando un terapeuta preoccupato incontra un paziente avente caratteristiche distanzianti, o viceversa, potrà verificarsi una parziale compensazione delle tendenze di entrambi, ma più frequentemente si manifesteranno incomprensioni riguardanti le aree trascurate dai reciproci stili di attaccamento (l’affettività per i soggetti distanzianti e la cognizione per quelli preoccupati), con il risultato di una difficoltà di comprensione reciproca e di condivisione dei risultati. Una delle conseguenze potrà essere la scarsa compliance terapeutica o l’interruzione improvvisa della terapia.
Inoltre, la scarsa capacità di mentalizzazione dei clinici con stile di attaccamento insicuro potrebbe portarli a svolgere con difficoltà un’adeguata funzione riflessiva all’interno della relazione. I terapeuti distanzianti rischierebbero di non riuscire a tenere debitamente conto delle proprie risposte emotive e a confrontarle con la percezione degli stati mentali dei pazienti, mentre quelli preoccupati potrebbero risultare concentrati sui propri stati mentali e avere difficoltà a rappresentarsi quelli degli altri.

In queste condizioni si verificherebbero con facilità fallimenti nella percezione del Sé e dell’altro (in termini di emozioni, desideri, aspettative e credenze), con conseguenze negative sul processo diagnostico, sulla qualità della relazione e sul buon esito della terapia. E’ così possibile che il terapeuta faccia un uso non adeguato o addirittura difensivo della diagnosi, attui interventi o interpretazioni inappropriati o troppo precoci, fatichi a riconoscere i propri stati emotivi e quelli del paziente e agisca comportamenti inappropriati.

Al contrario, un clinico con attaccamento sicuro (tipo B), essendo in grado di integrare informazioni cognitive (logiche) con l’affettività e presentando una buona capacità riflessiva ed empatica, potrà affrontare la relazione terapeutica in modo più consapevole, manifestando capacità di mentalizzazione, di comprensione empatica, di comunicazione e di analisi razionale del problemi, collaborando col paziente e adattandosi al meglio, in modo duttile ed equilibrato, alle sue specifiche caratteristiche e necessità (indipendentemente dal suo stile di attaccamento).
Tali considerazioni, sottolinea Baldoni, si riferiscono a tendenze e rischi dei quali il clinico dovrebbe essere il più possibile consapevole, ma in realtà la formazione terapeutica è spesso in grado di compensare in buona parte le caratteristiche di attaccamento meno funzionali al buon esito della relazione col paziente.

Per quanto riguarda invece le indagini sperimentali in tale campo, a fianco di una già forte consapevolezza circa le relazioni esistenti tra attaccamento sicuro del paziente e buoni esiti nella costruzione dell’alleanza terapeutica e nel percorso di trattamento (Diener e Monroe, 2011; Smith, Msetfi e Golding, 2010), vi è oggi anche una parallela tendenza a studiare l’effetto dell’attaccamento del terapeuta su alleanza e outcome, anche attraverso ricerche empiriche.

Rubino, Barker, Roth e collaboratori (2000), ad esempio, hanno studiato, in un campione di 77 psicoterapeuti in formazione, la correlazione tra stile di attaccamento (valutato con il Relationship Scales Questionnaire, RSQ), empatia e livello di profondità dei commenti a filmati di pazienti che attraversavano una fase di rottura dell’alleanza terapeutica e dei quali era noto lo stile di attaccamento (sicuro, distanziante, invischiato o spaventato). I terapeuti con attaccamenti insicuri hanno fornito un numero di risposte empatiche significativamente inferiore rispetto a terapeuti con attaccamenti sicuri, e la differenza risultava particolarmente rilevante quando il commento riguardava i filmati di pazienti sicuri e spaventati. Questo dato è spiegabile con l’eccessivo coinvolgimento evocato dalla sofferenza o dall’ostilità del paziente, che potrebbe portare il terapeuta a rispondere in maniera angosciata o ostile, o anche con atteggiamenti iper-accudenti che lo inducono a trovare soluzioni immediate pregiudicando in tal modo l’atteggiamento di collaborazione in vista di uno scopo congiunto alla base di una buona alleanza terapeutica.

In generale, rispetto all’intero campione di psicoterapeuti, i commenti empatici più frequenti riguardavano i filmati dei pazienti con attaccamenti spaventati, erano un po’ meno frequenti con i filmati dei sicuri e degli invischiati ed erano minimi con quelli degli evitanti. Ciò è spiegabile con la particolare intensità e conflittualità delle richieste di aiuto dei pazienti spaventati, che da un lato suscita l’interesse del clinico e, dall’altro, data la forte conflittualità, lo costringe alla riflessione.
Rispetto alla profondità dei commenti, infine, questi risultavano più convenzionali e di profilo qualitativo inferiore più con i pazienti evitanti che con quelli invischiati e spaventati. Questa minore profondità delle risposte con pazienti distanzianti può essere spiegata in quanto, tali pazienti, hanno un atteggiamento che spesso minimizza da un lato l’espressione dei propri bisogni di ricevere aiuto e cura e dall’altro l’importanza della relazione con il terapeuta, provocando nel clinico una certa lontananza emotiva e quindi una maggiore difficoltà nell’empatizzare con i bisogni profondi, ma non espressi, del paziente.

La letteratura scientifica inizia così a connotarsi anche per la presenza di ricerche empiriche volte ad indagare le relazioni esistenti tra lo stile di attaccamento del terapeuta e alcuni aspetti della relazione clinica (Sauer, Lopez e Gormley, 2003; Black et al., 2005; Dinger e Strack, 2009; Bucci et al., 2015); tuttavia i risultati ottenuti non sempre sono in linea tra loro e non è semplice trarre conclusioni definitive sull’argomento.
Per quanto riguarda le revisioni della letteratura, queste si sono concentrate maggiormente sul ruolo del paziente (Daniel, 2006; Diener e Monroe, 2011; Smith et al., 2010), trascurando così la figura del terapeuta, tanto che ad oggi non esistono molte review che analizzino in modo sistematico gli studi compiuti in merito alle relazioni che intercorrono tra stile di attaccamento del clinico, alleanza e risultati della terapia.

Una recente rassegna (Degnan et al., 2014) ha però cercato di colmare tale vuoto, analizzando e comparando i risultati di 11 studi (a partire da 2258 lavori totali) volti ad indagare la relazione tra stile di attaccamento del terapeuta e alleanza terapeutica e/o outcome, compiuti tra il 1980 e il 2014, includendo nelle analisi solo quelli che si fossero avvalsi di misure validate per la valutazione dell’alleanza/outcome e dell’attaccamento. Nello specifico, l’alleanza è stata misurata principalmente attraverso il Working Alliance Inventory, WAI (in 6 degli studi considerati), mentre l’outcome è stato valutato soprattutto con la Symptom Check List-90 (SCL-90-R). Per la misura dell’attaccamento si è fatto ricorso a vari strumenti, alcuni etero-somministrati, altri ad auto-somministrazione: Adult Attachment Interview, AAI; Experiences in Close Relationship Scale, ECRS; Relationship Questionnaire, RS; Relationship Scale Questionnaire, RSQ; Attachment Styles Questionnaire, ASQ; Adult Attachment Scale, AAS.

L’utilizzo di misurazioni non omogenee, sia per quanto riguarda l’attaccamento che per quanto concerne l’alleanza terapeutica e l’outcome, costituisce però un’importante criticità dello studio, poiché non consente un corretto confronto dei risultati ottenuti.
E’ comunque possibile evidenziare qualche risultato interessante, anche se non sempre le conclusioni ottenute sono coerenti tra i diversi studi presi in esame.

Dei sette studi che hanno valutato l’impatto di un attaccamento sicuro, solo tre hanno dimostrato un’effettiva associazione positiva tra la sicurezza del terapeuta e l’alleanza terapeutica (Black et al., 2005; Bruck et al., 2006; Dunkle e Friendlander, 1996).
Dieci degli undici studi esaminati hanno misurato invece l’impatto di un terapeuta con attaccamento insicuro sull’alleanza. Tre studi (Black et al., 2005; Dinger et al., 2009; Sauer et al., 2003) suggeriscono che i clinici con uno stile di attaccamento ansioso stabiliscono alleanze di lavoro più povere con i loro clienti. Un ulteriore studio (Sauer et al., 2003) ha dimostrato che l’attaccamento ansioso del terapeuta è correlato positivamente a buoni livelli di alleanza all’inizio della terapia, ma ha un effetto negativo sulla alleanza stessa nel corso del tempo.
Su quattro studi, solo uno ha riscontrato un impatto diretto dello stile di attaccamento del terapeuta sui risultati del trattamento (Bruck et al., 2006): un attaccamento sicuro nel terapeuta porterebbe a esiti terapeutici più favorevoli rispetto a quelli ottenuti da un terapeuta con attaccamento ansioso o evitante.

Tuttavia, i risultati preliminari suggeriscono che questi rapporti potrebbero non essere così lineari e che stili di attaccamento del terapeuta e caratteristiche del paziente interagiscono tra loro nei processi di influenza dell’alleanza e degli esiti del trattamento. Altri studi hanno dimostrato che lo stile di attaccamento del terapeuta ha una maggiore influenza sull’alleanza e sull’outcome quando i pazienti presentano un quadro clinico grave. In particolare, uno studio (Schauenburg et al., 2010) ha messo in luce che lo stile di attaccamento sicuro del terapeuta ha avuto un migliore impatto su alleanza e outcome quando i pazienti presentavano una maggiore compromissione psicopatologica. Specularmente, è stato anche mostrato che l’attaccamento ansioso del terapeuta influenza negativamente la costruzione dell’alleanza con pazienti che riportano una maggiore compromissione a livello del funzionamento interpersonale.
Infine, i risultati di tre studi (Tyrell et al., 1999;Bruck et al., 2006; Petrowsi et al., 2011) suggeriscono che stili di attaccamento dissimili in paziente e terapeuta possono risultare vantaggiosi in termini di alleanza terapeutica e outcome: una mancanza di sovrapposizione tra stile di attaccamento di terapeuta e paziente renderebbe quest’ultimo più in grado di esplorare tali differenze e disconfermare così le strategie interpersonali ed emotive usualmente utilizzate, divenendo più in grado di adottare nuovi e più funzionali comportamenti, al servizio della terapia e dei suoi esiti positivi. Tuttavia, questo dato non è confermato da tutti gli studi che hanno indagato tale combinazione, tanto che un lavoro più recente (Wiseman e Tishby, 2014) ha dimostrato un impatto positivo su alleanza terapeutica e outcome qualora terapeuta e paziente presentino analoghi pattern di attaccamento (almeno in caso di attaccamento evitante a basso indice).

Nonostante l’indubbia necessità di procedere alla definizione di studi più rigorosi che valutino le associazioni tra stile di attaccamento del terapeuta e alleanza, la rassegna presa in esame mette in luce l’esistenza di alcune prove preliminari circa l’impatto positivo che un attaccamento sicuro nel terapeuta può avere sulla costruzione e sulla qualità dell’alleanza. La maggiore capacità di adattare il proprio stile interpersonale a seconda delle caratteristiche del paziente potrebbe essere un importante fattore favorente il buon esito della terapia.

Vi è inoltre qualche evidenza del fatto che un attaccamento insicuro può comportare conseguenze più rilevanti quando si lavora con pazienti complessi, maggiormente compromessi da un punto di vista clinico.
Alcune ricerche hanno poi evidenziato che lavorare con le emozioni potrebbe risultare più difficile per i terapeuti con attaccamento insicuro, in quanto gli evitanti potrebbero avvertire un certo disagio ad entrare in contatto con vissuti emotivi negativi, mentre gli ansiosi potrebbero percepire un eccessivo e disorganizzante coinvolgimento.

Poiché per ora non vi sono evidenze definitive e unanimi che emergano da ricerche empiriche circa le associazioni tra stile di attaccamento e alleanza terapeutica, è bene che i clinici prestino particolare attenzione alle proprie esperienze di attaccamento e a come queste possano entrare in gioco durante la terapia. Migliorare la conoscenza del proprio stile di attaccamento potrebbe aiutare i terapeuti a comprendere meglio alcune dinamiche interpersonali all’interno della relazione terapeutica, orientando così l’intervento e disponendo di maggiori strumenti clinici in caso sia necessario riparare alcune rotture dell’alleanza (Wallin, 2009).

Per quanto riguarda la “combinazione” tra stile di attaccamento del paziente e stile del terapeuta, al momento non è chiaro se la corrispondenza (o mismatching) sia benefica. Mallinckrodt (2010) afferma che i terapeuti dovrebbero inizialmente assecondare lo stile interpersonale del paziente per incrementarne la motivazione e l’aderenza alla terapia e successivamente, con il progredire del lavoro clinico, creare uno scarto tra il proprio stile e quello del paziente al fine di favorirne l’esplorazione e la messa in discussione, utile al cambiamento atteso.
Una via feconda per la ricerca in psicoterapia potrebbe essere costituita dall’indagare come i terapeuti dovrebbero utilizzare le maggiori conoscenze circa il proprio stile di attaccamento individuale ai fini di una migliore alleanza col paziente.

Per concludere, questa rassegna (a fianco di altri studi) evidenzia l’esistenza di alcune iniziali conferme dell’assunto secondo il quale lo stile di attaccamento del terapeuta e le interazioni tra l’attaccamento del clinico e quello del paziente impattano sull’alleanza e sui risultati della terapia. Tuttavia, alcune debolezze metodologiche e la grande eterogeneità delle caratteristiche e dei risultati degli studi considerati sottolineano la necessità di procedere nella definizione di nuovi e più rigorosi disegni di ricerca in quest’area, senza dubbio di grande interesse e rilevanza clinica. Alla luce di quanto fin qui riscontrato, è comunque bene che i terapeuti prestino particolare attenzione al proprio stile di attaccamento, a quello del paziente e alle conseguenze che questi potrebbero avere all’interno della relazione clinica: una buona conoscenza di tali aspetti, unitamente a quanto si ricava dalla Teoria dell’Attaccamento e dei Sistemi Motivazionali Interpersonali, costituisce senza dubbio un valido strumento per procedere con maggiore consapevolezza all’interno della pratica clinica.

 

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Genitori positivi, figli forti. Come trasformare l’amore in educazione efficace (2003) – Recensione

Agevolmente fruibile dai genitori, questa guida pratica e scorrevole traccia semplici e chiare linee guida utili a rendere il ruolo educativo un’esperienza anche piacevole e positiva, oltre che impegnativa e faticosa. 

L’attenzione empatica e la sensibilità genitoriale alla prospettiva del bambino, avvicinandolo al suo mondo e al suo modo di sentire, permette di creare una maggior sintonizzazione con i suoi vissuti emotivi e bisogni e, dunque, anche una più facile comunione di intenti nel rapporto educativo.
Se i modelli pedagogici tradizionali sono stati per lo più centrati sulla definizione del limite e sull’enfatizzazione dell’errore, questa metodica educativa ridimensiona la tendenza classica per dare maggiore rilievo allo spazio di libertà entro il limite e alla valorizzazione della qualità della relazione tra minore e adulto.

L’ “accettazione incondizionata”, ben diversa dal permissivismo, e le aspettative genitoriali, proporzionate al livello evolutivo del figlio, già di per sé favoriscono nel bambino lo sviluppo di un atteggiamento di fiducia che lo porterà ad affrontare le situazioni quotidiane in modo costruttivo e senza particolare timore per gli elementi di novità.

Tra i principi educativi più importanti vengono sottolineati:

– la trasmissione di regole chiare, sintetiche, concrete, espresse al positivo e comunicate in momenti non conflittuali in modo tale da evidenziare il comportamento adeguato atteso, evitando di comunicare aspettative negative facilmente associabili anche alla possibilità di trasgressione e di conseguente rimprovero; ciò promuove non solo pensieri e azioni funzionali, ma anche una maggiore autoefficacia personale;

– la coerenza educativa tra i genitori che favorisce l’interiorizzazione di norme univoche e costanti che rendono la regola un’abitudine sicura e condivisa;

– la valorizzazione delle condotte adeguate manifestate dal bambino che gratifica i suoi sforzi e li sostiene con puntuali rinforzi sociali (sorrisi, coccole), dinamici (attività piacevoli) o simbolici (punteggi); ciò incoraggia nel tempo l’evoluzione da una motivazione di tipo estrinseco ad una più intrinseca e autonoma che sta alla base della capacità di autocontrollo e di autoregolazione;

– il contenimento dei comportamenti provocatori e fastidiosi tramite l’estinzione: ignorare questi tipi di azione ne incoraggia infatti gradualmente la scomparsa;

– la punizione dei comportamenti problematici e dannosi attraverso l’applicazione di conseguenze negative (assegnazione di un compito non gradito o sospensione di attività piacevoli) e, nei casi più estremi, tramite il contenimento fisico o il time-out (allontanamento temporaneo del bambino da una situazione gradevole dopo l’emissione di una condotta inadeguata); si sconsiglia l’utilizzo della delega e della minaccia: la prima risulta una strategia tanto facile nell’applicazione quanto inefficace nell’effetto, poiché comporta nel futuro un minor potere di autorevolezza; la seconda contribuisce solo ad aumentare l’ansia e la tensione nel bambino per ciò che avverrà;

– l’”ascolto pulito”, uno spazio di “disponibilità affettiva, benevolenza, comprensione e vicinanza emotiva”, all’interno del quale poter esprimere quotidianamente contenuti emotivi positivi o negativi al fine di elaborarli in modo costruttivo.

I brevi questionari di autovalutazione che corredano il manuale rendono la lettura più coinvolgente ed interattiva, consentendo un’efficace auto-osservazione da parte del genitore che è invitato ad aprire margini di riflessione su metodi alternativi a quelli abituali e a verificare gli apprendimenti acquisiti.

Se educare (dal latino e-ducere) significa “trarre fuori”, liberare, far emergere ciò che è latente, è fondamentale creare un ambiente positivo che stimoli questo processo di crescita.

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Danza e benessere psicologico: quale relazione?

Marika Ferri

 

Ballare non è solo attività fisica. Non è solo espressione artistica o un sistema di comunicazione fondato sull’uso del linguaggio non verbale. La danza rappresenta un raffinato strumento di benessere psicologico che include elementi diversi e interviene su vari livelli contemporaneamente – una componente individuale, relazionale, sociale-.

[blockquote style=”1″]Se fossi in grado di dire a parole ciò che rappresento con la danza non avrei mai danzato. [/blockquote](Isadora Duncan)

Generalmente, quando ci dedichiamo ad attività piacevoli durante il nostro tempo libero (lettura, cinema, arte, uscite con amici, sport, ecc.) diventiamo consapevoli di quanto esse possano influire positivamente sul nostro vissuto psicologico: siamo meno stressati, riusciamo a distogliere l’attenzione da pensieri negativi e nel complesso siamo più felici. Tra le tante attività da poter praticare, la danza rappresenta sicuramente un’attività psicofisica che ha maggiori potenzialità rigeneratrici al fine di promuovere salute, benessere e consapevolezza di sé (Bellia V., 2007). Perché? La danza può essere definita come un modo di espressione transitoria, eseguita in una certa forma e stile dal corpo umano che si muove nello spazio. Si presenta attraverso movimenti ritmici appositamente selezionati e controllati. Il fenomeno che ne risulta è riconosciuto come danza sia da coloro che la eseguono sia dagli osservatori stessi di un gruppo (Kealiinohomoku J., 1965).

La danza è prima di tutto un’esperienza multisensoriale e la musica fornisce input diversi dal materiale verbale/scritto. Il ritmo della danza è solitamente controllato da stimoli uditivi, visivi e tattili che il più delle volte vengono combinati. Lindauer (Cipolletta, 2004) descrive il linguaggio della danza attraverso uno studio effettuato sulle api. Egli osserva, infatti, che queste, si trasmettono a vicenda le informazioni per mezzo di figure accuratamente descritte o “danze”, dimostrando che le api prendano la decisione di sciamare verso un determinato posto e stabilirsi proprio attraverso un processo-dibattito svolto sotto forma di notizie danzate, finché non viene raggiunta l’unanimità. La danza è un’attività psicofisica che rappresenta un raffinato strumento di benessere psicologico in quanto agisce contemporaneamente su diverse componenti: individuale, relazionale, sociale (Bonaviri, 1984).

La componente individuale è a sua volta costituita da più livelli (fisico, neurologico e processi cognitivi, psicologico) che prenderò in considerazione di seguito:

– Livello fisico. Ballare si traduce nel fare movimento e quindi tutto ciò di salutare che questo comporta. Praticandolo ci si sente meglio nel proprio corpo, perché lo si sente meglio: aumenta la consapevolezza delle varie parti di sé, che altrimenti restano dimenticate e “addormentate” (Krampe J., 2013); viene stimolata una sensorialità maggiore ovvero la possibilità di trarre piacere dal movimento (Brown S.,Martinez J.M.,Parsons L.M.,2006); migliora la coordinazione, la tonicità muscolare e la postura; viene potenziato il funzionamento dell’apparato cardiovascolare e polmonare; migliora l’integrazione tra mente e corpo (Aprato C., 1991).

– Livello neurologico e processi cognitivi. Diversi studi ( Verghese J., Lipton R.B., Mindy J. K., Hall C.B., Derby C.A., Kuslansky G., Ambrose A.F., Sliwinski M. Buschke H., 2003; Krampe, J., Rantz, M. J., Dowell, L., Schamp, R., Skubic, M., & Abbott, C., 2010) evidenziano che ballare determina un incremento delle capacità cognitive nel complesso: l’apprendimento delle sequenze dei passi favorirebbe lo sviluppo delle capacità di memoria, attenzione e concentrazione. Inoltre la pratica della danza favorirebbe la protezione del cervello da demenza e da malattie degenerative del sistema nervoso. In particolar modo il tango argentino, per le sue caratteristiche (differenti velocità di esecuzione, i continui arresti ed accelerazioni, i bruschi cambiamenti di direzione, deambulazioni in arretramento, giravolte e stop improvvisi) rappresenta un efficace supporto terapeutico per il recupero di automatismi motori perduti in casi di malattie motorie (controllo dell’equilibrio statico, dinamico , la risposta cinetica e la consapevolezza nello stare “nel qui ed ora”). In uno studio (Gammon M.E., M. E. Hackney, 2009) di un gruppo di ricercatori della Washington University di Saint Louis è stato reclutato un campione di venti soggetti con morbo di Parkinson: metà del campione ha frequentato venti ore di lezioni di tangoterapia e l’altra metà ha usufruito di venti ore di lezioni di ginnastica. Al termine delle lezioni il gruppo di soggetti che si è dedicato al tango ha manifestato una maggiore reattività nei movimenti e un migliore equilibrio rispetto al gruppo che ha praticato ginnastica, con evidente diminuzione di sintomi legati a tremore e rigidità.

– Livello psicologico. Tramite il ballo è possibile coniugare i processi mentali con l’azione motoria. Il ballo diviene il mezzo attraverso cui comunicare, esprimere, rappresentare emozioni e sensazioni attraverso il corpo (Macaluso, Zerbeloni, 1999; Bellia 2001). Da questo punto di vista la danza si delinea come una forma di azione, in termini costruttivisti come processo conoscitivo, dettato da una continua costruzione e ri-costruzione di significato che parte dall’interno per essere poi esternalizzato. Come afferma Alexander Lowen (Lowen A., 2003), padre della bioenergetica, nelle posture e nell’atteggiamento che assume in ogni suo gesto, il corpo parla un linguaggio che anticipa e trascende l’espressione verbale. All’interno di questa concezione, l’uomo viene visto come espressione dell’individuo nella sua unità (al contrario di una separazione mente-corpo).  Dunque la danza è in grado di coinvolgere pensieri, emozioni e comportamenti. In maniera ancor più globale va a influire sugli schemi di pensiero e sulla strutturazione di personalità (Cipolletta, 2004). Infatti la danza può rappresentare un vero e proprio percorso di crescita personale e di realizzazione di sé, i cui principali strumenti sono il corpo, il movimento, l’espressione creativa, la relazione. Basti pensare al ruolo determinante giocato dalla valorizzazione degli aspetti di femminilità/mascolinità che si esprime nei balli di coppia, con conseguente definizione del ruolo sessuale nella rappresentazione di sé. Ballare incrementa la nostra autostima (Polettini, 2012): attraverso il movimento possiamo esprimere ed incontrare altri aspetti di noi, accoglierli e integrarli, esercitando in questo modo un atteggiamento di accettazione e amore per noi stessi.

La danza aiuta a combattere lo stress e a diminuire l’ansia: siamo tutti molto abituati ad usare le parole e quindi anche ad esercitare un controllo mentale su quello che diciamo. Attraverso il movimento diamo la possibilità ad altre parti di noi di esprimersi. I gesti ripetitivi della danza e la concentrazione necessaria per eseguirli possono aiutare una mente riempita dallo stress giornaliero a “lasciarsi andare” per un momento e rilassarsi: è difficile preoccuparsi di scadenze sul lavoro mentre stiamo pensando a fare il movimento giusto, o mentre cerchiamo di concentrarci per essere sul tempo della musica. Inoltre, quando balliamo, il nostro cervello produce endorfine, le sostanze che danno benessere ed euforia (Duman, C.H.; Schlesinger L.; Russell D.S. , 2008). Sperimentiamo puro divertimento. La danza, infine, attraverso un allenamento mentale costante, aiuta ad esercitare un maggiore controllo delle emozioni e ad accrescere il grado di controllo percepito sugli eventi (Bellia V., 2007).

– Componente relazionale e sociale . Danzare da soli chiusi in una stanza non è come farlo insieme agli altri. Nel ballo si dà molta importanza alla relazione in quanto occasione di scambio e confronto reciproco. In tal modo vengono potenziate le abilità sociali (Boass F., 1981).

In conclusione, ballare fa bene, perché la danza si rivolge primariamente alla parte ancora sana della natura umana, presente in ogni essere, come manifestazione dell’essere vivi, come trasformazione. Ci permette di sentire il nostro corpo, di “essere” .

 

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L’empatia in pazienti con tratti borderline: i correlati neurali

Vanessa Schmiedt

 

Il disturbo borderline di personalità è una condizione caratterizzata da pattern a lungo termine di instabilità emotiva, interpersonale e comportamentale. Gli individui che presentano questo disturbo spesso manifestano serie difficoltà nelle relazioni interpersonali, il che potrebbe essere dovuto, in parte, a difficoltà della sfera empatica o dei processi della teoria della mente.

L’empatia coinvolge le abilità di riconoscimento degli stati emotivi degli altri, di sentirsi come si sente l’altro e di mettersi nella prospettiva altrui. Pazienti con disturbo borderline manifestano anomalie nei comportamenti empatici. Una nuova ricerca dell’Università della Georgia indica che questo potrebbe collegarsi ad una scarsa attività cerebrale in regioni importanti per l’empatia nei pazienti con questo disturbo.

In linea con un crescente interesse per la concettualizzazione e la valutazione dei differenti tratti di personalità che caratterizzano i pazienti con disturbo borderline, Mullins-Sweatt e colleghi (2012) hanno sviluppato il Five-Factor Inventory Borderline (FFBI) basato sul modello dei cinque fattori della personalità (FFM) e progettato per misurare la presenza di diversi tratti nei pazienti borderline.
Per lo studio, i ricercatori hanno reclutato più di 80 partecipanti, hanno chiesto loro di svolgere il questionario e successivamente hanno utilizzato la risonanza magnetica per misurare l’attività cerebrale in ciascuno dei partecipanti. Durante la fMRI, i partecipanti sono stati invitati a svolgere un compito che richiede di cogliere la prospettiva emotiva altrui, specificatamente progettato per dissociare le forme cognitive e quelle affettive dell’empatia.

Infatti da un punto di vista cognitivo l’empatia si basa sulla possibilità di comprendere “il punto di vista” altrui e quindi spiegarsi razionalmente l’altrui esperienza emotiva; da un punto di vista affettivo l’empatia permette di sperimentare in prima persona il vissuto emotivo dell’altro. Il coinvolgimento di entrambi i sistemi (cognitivo ed affettivo) permette in definitiva di condividere l’esperienza interiore dell’altro, pur rimanendo consapevoli della distinzione tra le esperienze proprie e quelle degli altri.

Recenti ricerche (Guttman and Laporte, 2000; Lynch et al., 2006) hanno dimostrato una minore empatia cognitiva e maggiore empatia affettiva nei pazienti BDP rispetto ai controlli, e ciò si rileva in continuità con i risultati di Haas e Miller. Infatti durante il compito empatia cognitiva, i partecipanti con tratti borderline esibivano una ridotta attivazione del solco temporale superiore (STS) e del giro temporale superiore (TPJ) rispetto ai controlli sani, mentre durante il compito di empatia affettiva, i pazienti risultavano avere una maggiore attività dell’insula rispetto ai controlli.

Haas ha dunque trovato un legame tra i partecipanti con tratti di personalità borderline e un minore uso di attività neurale in due regioni cerebrali, la giunzione temporo-parietale e il solco temporale superiore, che risultano essere di fondamentale importanza durante i processi di tipo empatico.
La ricerca fornisce nuovi indizi per studiare il disturbo borderline e soprattutto il modo in cui elaborano le emozioni.

[blockquote style=”1″]Il disturbo di personalità borderline è considerato uno dei disturbi di personalità più gravi e preoccupanti; questo disturbo può rendere difficile avere amicizie di successo e relazioni romantiche. Questi risultati potrebbero contribuire a spiegare perché[/blockquote] riferisce Miller.

 

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Franco Servadei alla presidenza della Federazione Mondiale delle Società di Neurochirurgia

 

 

ROMA – È Franco Servadei (nella foto) il nuovo presidente della Federazione Mondiale delle Società di Neurochirurgia (WFNS). È la prima volta che un italiano assume questa carica prestigiosa. WFNS rappresenta oltre 30.000 neurochirurghi in tutto il mondo e 127 società scientifiche articolate in cinque associazioni continentali.

Franco Servadei è direttore della struttura complessa Neurochirurgia-Neurotraumatologia (Dipartimento Emergenza-Urgenza e Area medica generale e Specialistica) dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma. Nato a Forlì nel 1951, si laurea in Medicina e chirurgia con lode nel 1976 presso l’Università di Bologna, dove consegue nel 1980 la specializzazione in Neurologia. Nel 1985 si specializza, con lode, in Neurochirurgia a Modena.

Un italiano alla presidenza della Federazione Mondiale delle Società di Neurochirurgia | BRAINFACTORConsigliato dalla Redazione

Franco Servadei - Neuroscienze - 1
ROMA – È Franco Servadei (nella foto) il nuovo presidente della Federazione Mondiale delle Società di Neurochirurgia (WFNS). (…)

Tratto da: Brain Factor

 

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Gioco d’azzardo tra cognizioni, emozioni e pseudo strategie: una sfida alla razionalità

Per molti giocatori patologici, il gioco potrebbe essere una strategia di coping disfunzionale per fronteggiare stati emotivi negativi, o all’opposto, una modalità per ricercare stati emotivi desiderati.

[blockquote style=”1″]…io ripresi a puntare, a casaccio e senza fare i calcoli. Non capisco che cosa mi abbia salvato! A volte, però, cominciava ad affiorare nel mio cervello un calcolo. Mi sentivo legato a certe cifre e a certe combinazioni, ma ben presto le abbandonavo e riprendevo a puntare quasi inconsapevolmente. Dovevo essere molto distratto tanto che i croupiers parecchie volte dovettero correggere il mio gioco. Facevo degli sbagli grossolani. Avevo le tempie madide di sudore e le mani che tremavano.[/blockquote]
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Il giocatore

L’idea che la razionalità possa aiutare l’uomo a risolvere i propri problemi è antica almeno quanto la civiltà greca: è con la geometria euclidea che si formalizza la “ragione” come modalità attraverso cui risolvere problemi, partendo da premesse e inferendo delle conclusioni. Con il trascorrere dei secoli, grandi scienzati e pensatori si sono occupati a lungo di definire le modalità più adatte per affrontare i grandi temi dell’umanità, impiegando strategie “razionali” basate per lo più sull’aderenza al metodo scientifico, arrivando a riconoscerlo come la modalità elettiva per qualunque processo decisionale. Anche la psicologia non si è sottratta a queste ambizioni: chi l’ha studiata sui manuali, sicuramente ricorda eminenti psicologi teorizzare l’uomo come un “piccolo scienziato”, o un “elaboratore di informazioni”, tanto per fare un esempio… Di converso, la sofferenza psicologica doveva necessariamente avere a che fare con l’irrazionalità o con errori, talvolta clamorosi, di ragionamento, la cui cura doveva per forza passare con la correzione di questi errori.

Il guaio è che l’essere umano, apparentemente, tanto razionale non è! Sapendo che scateniamo code in autostrada generate dalla curiosità, che preferiamo curare malattie, anche gravi, consultando l’omeopata piuttosto che il medico, la sistematicità con cui ci affidiamo a politici imbecilli che si definiscono machiavellici, la tentazione è di definire l’homo sapiens (o almeno l’homo italicus) come irrimediabilmente cretino (per una rassegna completa, leggi Fruttero & Lucentini, 1985).

Fortunatamente, teorizzazioni psicologiche più recenti ci vengono in aiuto, portando a concettualizzazioni più elastiche delle modalità con cui gli uomini risolvono problemi e interpretano la realtà. Tra queste, (Kahneman et al, 1982; Kahneman & Tversky, 1979), affermano che il ragionamento umano non segue tanto le regole della matematica e della probabilità, bensì fa ampio impiego di euristiche, scorciatoie di pensiero e modalità rapide e intuitive che esulano dal ragionamento logico. Ciò che può rendere questi stili di pensiero disfunzionali non è quindi la loro presenza, ma la loro rigidità e inflessibilità, specialmente se ci conduce ad interpretare gli eventi e noi stessi in chiave poco lusinghiera.

Mi scuso con il lettore per quest’ampia, seppur parziale introduzione, sperando di non averlo annoiato, tuttavia era necessaria per poter parlare di un tema che mi sta a cuore, e che viene spesso collocato nella macro-categoria dei comportamenti “cretini”: il gioco d’azzardo.
Ad oggi, numerose ricerche hanno evidenziato che nel giocare d’azzardo, le decisioni razionali vengono spesso accantonate, anche quando a giocare non sono soggetti con problematiche di dipendenza da gioco.

Generalmente, l’impiego di strategie disfunzionali da parte dei giocatori viene interpretato come esito di distorsioni cognitive, e costituiscono un punto focale nel trattamento del gioco d’azzardo patologico. Queste modalità di ragionamento, come ad esempio la nota euristica della rappresentatività (Tversky & Kahneman, 1973, 1974) conducono a generare credenze e azioni che finiscono con il rinforzare un comportamento di gioco problematico, ostacolandone il controllo. Rispetto al gioco d’azzardo sono state descritte diverse forme di distorsioni cognitive; nel tentativo di fare chiarezza, uno studio recente (Ejova et al., 2015) ne propone una classificazione più semplice e più puntuale.

Gli autori hanno realizzato un questionario di 100 item basato su strumenti esistenti, riguardanti credenze e modalità di ragionamento distorte, e lo hanno somministrato a 329 partecipanti. L’analisi fattoriale ha rilevato che le credenze sul gioco fanno capo a due tipologie, definibili come:
– Illusione di controllo primaria: si tenta di influenzare l’esito del gioco mediante modalità di ragionamento attivo e comportamenti pseudo-strategici;
– Illusione di controllo secondaria: si cerca di influenzare l’esito del gioco adottando mediante condotte superstiziose, appellandosi a forze al di fuori dal proprio controllo quali la fortuna o la religione.

Del primo gruppo fanno parte diverse credenze da tempo descritte (Fortune and Goodie 2012; Griffiths 1994; Toneatto 1999; Toneatto et al. 1997), che troverebbero nella Fallacia del giocatore il minimo comune denominatore, ovvero, nella credenza per cui eventi avvenuti in passato possano influenzare gli esiti di attività dettate dal caso, come per l’appunto il gioco d’azzardo. Questa credenza si traduce in azioni di gioco: un esempio tipico è quello di una partita a “Testa o croce”, in cui per 5 volte la moneta si è appoggiata sul lato della testa. Una persona che utilizza questo stile di ragionamento tenderà a scommettere su croce, convinto che a questo punto, l’esito del gioco debba per forza variare. Un altro esempio è la scommessa sui cosiddetti “numeri ritardatari” del Lotto, la cui probabilità di uscita non dipende assolutamente dal fatto che non amino la puntualità.

Ci sono altri modi in cui questo stile di pensiero conduce a comportamenti disfunzionali, ad esempio favorendo la persistenza nel gioco a dispetto dei risultati, che è stato descritto come chasing (Lesieur, 1977), ovvero la cosiddetta “rincorsa delle perdite”. Il giocatore continua tenacemente a scommettere nonostante abbia già subito intense perdite, nella speranza di arrivare alla vincita riparatoria. Tra il chasing e la fallacia del giocatore non sembrerebbero esserci differenze logiche di fondo, ma il primo rappresenta una modalità di pensiero più rigida e prettamente disfunzionale, tipica di chi ha sviluppato problemi nel controllare il proprio gioco.

Tra le illusioni di controllo secondarie gli autori inseriscono tutte le credenze riguardanti il ruolo della fortuna e di agenti soprannaturali, aventi caratteristiche di onniscienza e di onnipotenza. Ad esempio è tipico invocare il ruolo della fortuna, o di forze divine, quando si è scampati da un evento negativo (es. un incidente), fino a sviluppare la credenza nella fortuna come qualità personale (Wohl and Enzle 2009).
I giocatori adottano spesso comportamenti superstiziosi: giocano il numero fortunato, consultano il libro dei sogni, soffiano sui dadi e non esitano a consultare maghi e cartomanti nella speranza di avere una chance in più.

Può esserci infine in una disposizione più generale a credere che la fortuna abbia per sua natura caratteristiche di ciclicità. Quest’ultima credenza svolge un ruolo di “ponte” tra le due categorie di illusione di controllo: da una parte c’è la credenza nella fortuna come agente sovrannaturale in grado di cambiare ciclicamente le sue intenzioni, dall’ altra vi è la credenza che una serie di eventi negativi possa terminare nel breve termine, portando a pianificare la scommessa.

E’ evidente che l’individuazione di queste credenze rappresenta uno dei target principali nelle prime fasi del trattamento del gioco d’azzardo patologico, in cui il gioco potrebbe non essere stato ancora interrotto, o lo è solo da poco tempo, e queste credenze risultano particolarmente attive (Fortune & Goodie, 2012). È necessario individuare quali e quante di queste credenze fanno parte del bagaglio psicologico del giocatore, ed invitarlo ad analizzarle da una prospettiva più distaccata, appellandosi inevitabilmente alla logica e all’analisi delle conseguenze.

Abbiamo descritto l’impatto dei processi di pensiero sul giocare d’azzardo, e di come questo sia pervaso da una predisposizione generale all’irrazionalità, che non risparmia anche i giocatori più “prudenti”. Siamo tutti un po’ irrazionali di fronte al gioco, così come nella vita ci lasciamo guidare più dall’intuito che dal ragionamento, perlomeno quando non sviluppiamo credenze ossessive.

A complicare le cose, i processi decisionali nel gioco potrebbero essere fortemente condizionati dallo stato emotivo, e quest’ultimo potrebbe a sua volta essere influenzato dagli esiti del gioco. Inoltre, la capacità di prevedere quanto le emozioni possano influenzare le nostre scelte sembrerebbe essere scarsa, non solo nei giocatori, ma spesso anche nelle condotte più quotidiane.

Un esempio di come fatichiamo a predire quanto le emozioni influenzino le decisioni è rappresentato dal hot-cold empathy gap (Loewenstein, 1996): quando ci troviamo in uno stato emotivo “freddo” (o neutrale), tendiamo a sottostimare l’impatto di uno stato emotivo “caldo” (o intenso) sul nostro comportamento. Inoltre, se il nostro stato emotivo ha una valenza negativa, come quando ci sentiamo deprivati di una risorsa che ha una certa importanza per noi, con il nostro comportamento tenderemo a reagire per compensare questi sentimenti negativi e ripristinare una sorta di omeostasi emotiva.

Questa reazione può tuttavia risultare in una sovracompensazione non sempre adattiva. Ad esempio, molte persone quando sono affamate finiscono con il procurarsi più cibo del necessario, rispetto a quanto avevano pianificato (Gilbert et al., 2002); allo stesso modo, chi fa uso di sostanze tende a sottostimare l’impatto del craving (Badger et al., 2007). Questo potrebbe spiegare perché molte persone giurano a se stesse (magari decine di volte) di avere in bocca l’ultima sigaretta, e si ritrovano dopo alcuni giorni a fumare più di prima.

Alla luce di queste considerazioni, è evidente che un processo analogo potrebbe riguardare il gioco d’azzardo: vincere o perdere al gioco, è un’esperienza emotiva tutt’altro che neutra. Uno studio recente (Andrade et al., 2014) ha cercato di descrivere il modo in cui le esperienze emotive possono influenzare le decisioni sul gioco. Gli esperimenti condotti consistevano in una sessione di gioco simulata, di soli due round, il primo obbligatorio e il secondo facoltativo. Ai partecipanti veniva consegnato un credito per giocare, di tipo monetario o non-monetario (punti per gli esami), sufficiente per scommettere nei due round. Veniva quindi chiesto loro di pianificare la loro intenzione a scommettere dichiarando se intenzionati a proseguire nel secondo round, sulla base di una vincita o di una perdita. I risultati indicano una contraddizione tra la pianificazione dei partecipanti allo studio e il loro comportamento effettivo: i partecipanti dichiarano di scommettere meno in seguito a una perdita rispetto a quanto si è effettivamente verificato, mentre non si rilevano differenze significative per le vincite. Questo dato si potrebbe interpretare secondo l’ipotesi del gap empatico (Loewenstein, 1996): mentre a “mente fredda”, si è più portati a scegliere una strategia di tipo “conservativo” per fronteggiare la perdita, le emozioni che questa provoca spingono i partecipanti a compensare lo stato emozionale negativo, cercando la vincita riparatoria.

Questi dati potrebbero inoltre spiegare come mai i giocatori patologici persistono nelle scommesse nonostante le perdite ingenti e, nonostante le riflessioni dettate dalla razionalità suggeriscano il contrario. Il cosiddetto chasing (Lesieur, 1977), o rincorsa delle perdite, non è solo uno stile di pensiero, è un agire dettato dalla disperazione. Perdere molti soldi crea un’esperienza emotiva intensa e fortemente spiacevole, va da sé che il giocatore tenterà di compensare questo stato negativo con l’unico mezzo che conosce: continuare a scommettere.

Lo stato emotivo esercita quindi un’influenza sulle decisioni individuali. Fortunatamente, gli autori osservano che questi effetti possono essere mitigati in due modi:
– istruendo i partecipanti a tenere conto dell’impatto delle emozioni sulle loro scelte;
– incrementando il tempo di attesa tra una scommessa e l’altra.

Mentre il primo punto potrebbe suggerire l’utilità di interventi psicoeducativi per mitigare l’impatto emotivo sulle decisioni, sul secondo punto si tira in ballo un fattore che riguarda le caratteristiche strutturali del gioco, sul quale l’industria del gioco fa leva per incrementare i profitti. La velocità del gioco è spesso il fattore che ne determina la maggiore pericolosità: per esempio, nelle slot-machine la durata di una scommessa non supera i 5 secondi, e una nuova scommessa può essere avviata in modo pressoché istantaneo. Ne consegue che non c’è spazio per riflettere, o anche solo per pensare, il gioco assorbe completamente la mente del giocatore. Non a caso, tra i giocatori di slot-machine si registrano livelli di dissociazione più alti rispetto a popolazioni non cliniche (Stewart & Wohl, 2013). Infine, altre ricerche evidenziano una relazione tra stati emotivi, sia positivi (orgoglio), sia negativi (spavento) e frequenza di gioco problematico, che risulta inoltre associato a un maggiore utilizzo della soppressione espressiva come strategia di regolazione emotiva (Canale et al., 2012; Canale et al., 2013).

Questi dati potrebbero suggerire che, per molti giocatori patologici, il gioco potrebbe essere una strategia di coping disfunzionale per fronteggiare stati emotivi negativi, o all’opposto, una modalità per ricercare stati emotivi desiderati. Secondo studi condotti in accordo al modello metacognitivo di Wells (2012), il gioco sarebbe accompagnato da credenze metacognitive, e si configura come una modalità di auto-regolazione dei propri stati interni, emotivi e cognitivi (Spada et al., 2014; Fernie et al., 2014).

Concludendo, il gioco d’azzardo permea la nostra cultura da millenni, sfidando chi vorrebbe nella ragione e nella razionalità gli strumenti necessari per garantire lo sviluppo culturale dell’umanità. Il gioco d’azzardo è calcolo e superstizione, è sudore, mancanza di sonno e appetito, è paura e delirio, è eccitazione, rabbia, gioia o dissociazione. Ma soprattutto è un’attività profondamente e peculiarmente umana, che praticamente tutti abbiamo provato, e in cui abbiamo messo temporaneamente da parte il nostro lato più razionale, abbandonandoci a modalità più istintive ed autentiche, ma che possono rivelarsi molto pericolose. Analizzando il modo in cui giochiamo d’azzardo, possiamo forse rappresentare il nostro pensare ed agire quotidiano in modo molto più realistico di molte teorizzazioni del passato. Siamo ineluttabilmente irrazionali nel pensiero, ed agiamo sulla spinta delle nostre emozioni molto più spesso di quanto vorremmo credere. Ma nonostante questo, non siamo necessariamente cretini: siamo solo più complessi di quanto immaginiamo (o teorizziamo), e magari proprio in virtù della nostra irrazionalità funzioniamo meglio di quanto l’epidemiologia psichiatrica ci induce a credere.

 

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Gioco d’azzardo patologico: quando la mente è convinta che vincere sia un gioco

 

BIBLIOGRAFIA:

La depressione nell’anziano: definizione e trattamento

Francesca Colli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

La depressione è una patologia molto diffusa nella popolazione anziana (>65 anni) con una prevalenza che si identifica tra l’1% e il 35%(Djerneset al., 2006). Questa condizione si presenta in particolar modo tra le persone che risiedono in case di riposo o in istituti di lungodegenza (Covinsky et al., 1997).

Un indice così elevato di prevalenza è riconducibile a un’aumentata vulnerabilità dell’anziano sul piano biologico e psicosociale (lutti e perdite) che si accompagna a un conseguente decremento dell’autostima e del supporto familiare e sociale.

Nel Manuale Statistico e Diagnostico-5 edizione (DSM-5) i disturbi depressivi citati sono: depressione maggiore, disturbo depressivo persistente (distimia), disturbo disforico premestruale, depressione associata a patologie mediche generali o associata all’uso di farmaci e depressione con altra specificazione. In questo manuale non sono presenti criteri diagnostici di patologia depressiva specifici per l’età senile ed è pertanto possibile che la prevalenza di questa patologia nella popolazione anziana sia sottostimata (Lebowitzet al., 1997; Apfelcort et al., 2003). Una stima effettuata sulla base di numerosi studi condotti sulla popolazione anziana individua che circa l’1-4% dei soggetti presenti depressione maggiore, il 4-13% depressione minore e il 2% distimia (Mecocci et al.,2004).

Una parte degli episodi rilevati è riportata da soggetti che hanno sofferto di un disturbo dell’umore a insorgenza precoce che si riacutizzano in età avanzata: in questi casi la sintomatologia si evidenzia essere maggiormente “tipica” della depressione e raramente presenta un andamento cronico. 

L’esordio depressivo può verificarsi, però, anche in età senile. La depressione a insorgenza tardiva mostra un fenotipo differente rispetto alla patologia depressiva a insorgenza precoce. La depressione a insorgenza tardiva ha una maggior tendenza alla cronicizzazione, presenta un lungo periodo di latenza della risposta al trattamento e spesso i suoi sintomi residui sono persistenti (Steffenset al., 2000); inoltre, nonostante gli studi mostrino risultati discordanti, questa condizione clinica sembra essere maggiormente frequente nei maschi (Hegeman et al.,2012).

In questi soggetti la sintomatologia è caratterizzata dalla presenza di episodi di agitazione, da sintomi somatici quali disturbi gastrointestinali e facile affaticamento (Panzaet al., 2010) e da alterazioni cognitive che, in alcuni casi, evolvono in forme dementigene; raramente vengono riferiti, nelle fasi iniziali, sentimenti di tristezza e disforia (O’Brienet al., 2004; Gallo et al., 1997). L’irrequietezza motoria si associa frequentemente a sentimenti d’ansia molto accentuata e spesso somatizzata, a timori ipocondriaci con l’ossessione della paura della morte, a contenuti depressivi relativi alla disabilità e alla perdita di autonomia e a idee deliranti centrate sulla convinzione di essere vittima di furti, tradimenti o maltrattamenti.

L’associazione con stati d’ansia connota la patologia depressiva di un maggior grado di severità e induce una sua più lenta risposta ai trattamenti farmacologici (Beekman et al., 2000; Lenze et al. 2000; Lenze et al., 2001). Sono frequenti i disturbi della percezione quali illusioni e allucinazioni. In molti casi il soggetto con depressione senile lamenta alterazioni cognitive e circa il 20-50% degli individui affetti presenta una compromissione cognitiva superiore rispetto ad altri soggetti di pari età e scolarità (Butters et al., 2004; Sheline et al., 2006).

I deficit neuropsicologici che si riscontrano con maggiore frequenza nella depressione a insorgenza tardiva riguardano differenti domini cognitivi (Lockwoodet al., 2002). In particolare risultano compromesse la memoria episodica (Beats et al.,1996; Story et al., 2008), le abilità visuo-spaziali (Boone et al., 1994; Elderkin-Thompsonet al., 2004), la fluenza verbale (Morimoto et al., 2011) e la velocità psico-motoria (Hart et al., 1987; Butters et al., 2004).

Dai risultati ottenuti in altri studi emerge che le prestazioni dei pazienti anziani depressi nei test neuropsicologici che valutano differenti domini cognitivi sono peggiori rispetto a quelle di soggetti sani di pari età e scolarità e che le capacità maggiormente compromesse sono la velocità di processazione delle informazioni e le abilità visuo-spaziali e esecutive (Butters et al., 2004).

Il termine funzioni esecutive indica differenti abilità cognitive quali le capacità di organizzazione, di pianificazione, di automonitoraggio, d’inibizione della risposta e di individuazione di strategie adeguate che sono necessarie per l’esecuzione di un compito (Lezak, 1976; Benton; 1994).

Numerosi studi riportano che queste capacità risultano alterate in soggetti con depressione senile; in particolar modo si osserva un rallentamento nella velocità di processazione delle informazioni e numerose alterazioni a carico della working memory (Nebes e coll.,2000). La depressione senile si associa anche a un incremento del rischio suicidario (Conwell et al.,2000): i più elevati tassi di suicidio si rilevano in soggetti con età superiore ai 70 anni affetti da forme gravi di depressione e con elevati livelli di disabilità (Conwell et al., 2000). In questo ambito i fattori socio-ambientali risultano essere rilevanti in quanto la maggior parte dei pazienti che commettono atti di suicidio vivono in condizioni di isolamento e di solitudine (Conner et al., 2001). In questi soggetti l’ideazione suicidaria non viene riferita allo specialista e, raramente, viene richiesto un aiuto o un supporto psicologico (Pearson et al., 2000).

La depressione senile ha un forte impatto sulla funzionalità quotidiana, sulla qualità di vita e sull’aumento della richiesta di assistenza qualificata. Questa patologia è associata a un incremento dei costi sanitari e a un recupero lento e difficoltoso del paziente dopo eventi medici acuti quali fratture del bacino o del femore (Tarakci et al., 2015). D’altra parte, data l’ eterogeneità dei sintomi, in molti casi lo stato depressivo non viene correttamente individuato e di conseguenza trattato.

In primo luogo la persona anziana è riluttante a rivolgersi al medico per sintomi di natura psicologica. In molte persone anziane si può rilevare una condizione denominata “depressione mascherata” caratterizzata da differenti sintomi somatici quali perdita dell’appetito, perdita di peso, riduzione della libido, stipsi e disturbi del sonno che non hanno una spiegazione su base organica. Questi soggetti non riportano esplicitamente tono dell’umore depresso, in quanto hanno difficoltà a verbalizzarlo o si vergognano di soffrire di un disturbo psicologico e/o di avere problemi relazionali e comportamentali e utilizzano il sintomo fisico come strumento di “avvicinamento relazionale” al medico (Zuccaro; 2004). Questa patologia presenta oscillazioni diurne del tono dell’umore e non ha andamento cronico. Solitamente il soggetto affetto da questa tipologia di disturbo ha una storia personale di precedenti episodi depressivi tipici o tentativi di suicidio e una storia familiare connotata da disordini affettivi (Nieddu et al., 2007).

Un altro ostacolo alla corretta identificazione del disturbo depressivo è dovuto al fatto che nella persona anziana la sintomatologia depressiva si sovrappone a differenti patologie coesistenti (Cherubini, 2006). Nel soggetto anziano si possono individuare diverse condizioni d’interesse internistico o neurologico che includono nel loro quadro fenomenologico disturbi depressivi (Nieddu et al., 2007). In particolare la depressione senile si associa a malattie del sistema nervoso centrale (M. di Parkinson, ictus, epilessia, M. di Huntington, traumi cranici e emorragia subaracnoidea), a disturbi endocrini (ipotiroidismo, diabete mellito, M. di Addison, M. di Cushing e iperparatiroidismo), a neoplasie cerebrali, polmonari, renali e altre condizioni cliniche (IMA, LES, fibromialgia, artrite reumatoide e infezioni virali) (Alexopouloset al., 2002).

In questi casi sono ritenuti fattori di rischio per la comparsa della patologia depressiva: alcune condizioni indirette (la gravità del disturbo, il dolore e le complicazioni ad esso associate), variabili di vulnerabilità personale (livello di compromissione cognitiva, lutti e la presenza di una storia psichiatrica positiva) e grado di limitazione delle attività della vita quotidiana (Nieddu et al.,2007).

Da sottolineare anche la rilevante questione relativa alla corretta diagnosi differenziale tra pseudodemenza e demenza (Nieddu et al., 2007): il deficit cognitivo nell’anziano può essere secondario a un disturbo di natura depressiva e,in questo caso, si utilizza il termine “pseudodemenza”oppure può rappresentare la modalità di esordio di una forma dementigena (Devanand et al., 1996).Nel primo caso si rileva esordio brusco e improvviso della sintomatologia caratterizzata da umore disforico e alterazioni mnesiche: il soggetto è consapevole dei propri deficit cognitivi e li descrive in modo dettagliato enfatizzando la sua disabilità. Il comportamento è adeguato al contesto e il disturbo non presenta oscillazioni diurne. La pseudodemenza presenta numerosi sintomi vegetativi e, solitamente, la storia personale del paziente è contraddistinta dalla presenza di precedenti disturbi psichiatrici (Trabucchi et al. 2000).

L’esordio di una patologia depressiva può, infine,essere associato all’assunzione di particolari terapie farmacologiche quali gli ipotensivi, la clonidina, i calcio-antagonisti, i beta bloccanti, gli antiblastici, gli antistaminici, gli antipsicotici, L-Dopa, l’indometacina,i cortisonici e l’interferone (Nieddu et al., 2007). 

Per la valutazione dei sintomi depressivi nella popolazione anziana sono state create scale apposite che considerano anche l’eventuale compromissione cognitiva che si può riscontrare. La Geriatric depression scale (GDS)(Yasavage et al., 1983) è una batteria che si compone di 30 domande che esaminano differenti dimensioni cliniche quali la presenza di sintomi cognitivi, l’orientamento al passato e al futuro, la valutazione dell’immagine di sé, la presenza di tratti ossessivi e il tono dell’umore, ma che minimizza i sintomi somatici e psicotici. Può essere utilizzata anche in soggetti affetti da demenza lieve-moderata. Un’altra scala molto utilizzata è la Scala Cornell della depressione nella demenza (CSDD) appositamente pensata per rilevare sintomi depressivi nei pazienti affetti da demenza (Alexopouloset al., 1988).

La batteria è costituita da 19 domande che vengono poste a una persona che conosce il paziente, un familiare o un operatore e, successivamente, da un’intervista semi-strutturata con il paziente. Questo test è utilizzato anche per soggetti affetti da demenza medio-grave (Ballard et a., 2001). Per quanto riguarda il trattamento di persone anziane depresse i principali strumenti terapeutici sono la terapia farmacologica e la psicoterapia (Nieddu et al.2007). Prima di impostare una terapia farmacologica antidepressiva è fondamentale stabilire la terapia già in atto e gli eventuali effetti d’interazione tra i farmaci prescritti e quelli già assunti. Per quanto riguarda la tipologia di antidepressivi, numerosi studi confermano che i triciclici, farmaci molto efficaci nella terapia della depressione, sono poco usati nel trattamento del soggetto anziano (Nelson, 2001) in quanto, data la riduzione della trasmissione colinergica connessa all’età, il paziente è maggiormente vulnerabile agli effetti anticolinergici centrali e periferici (disturbi cognitivi, ritenzione urinaria, stipsi, disturbi della visione e tachicardia).

A questi si sommano la comparsa di ipotensione ortostatica con conseguente incremento delle cadute e delle fratture, di tremori e di una riduzione della soglia convulsiva (Scapicchio, 2007). Un altro problema connesso all’utilizzo dei questa tipologia di farmaci è la loro estrema letalità in caso di assunzione di grosse quantità con finalità suicidarie; evento che nella depressione senile si verifica con moderata frequenza e che deve essere, di conseguenza, valutato (Scapicchio, 2007).Una classe di farmaci che si è rivelata essere maggiormente adeguata per la popolazione anziana è costituita dai serotoninergici selettivi (SSRI) (Menting et al.,1996), i cui effetti collaterali (nausea, gastralgia, insonnia e irritabilità) sono maggiormente tollerati.

Per quanto riguarda le modalità di somministrazione è molto importante iniziare da un dosaggio molto basso per poi incrementarlo lentamente. Inoltre è fondamentale accertare la corretta comprensione delle indicazioni terapeutiche da parte del paziente, soprattutto nei casi in cui non sia presente un familiare che ne gestisca l’assunzione (Scapicchio 2007).

Il periodo di somministrazione è di circa 9-12 mesi (Nelson, 2001). Dal punto di vista psicoterapico una delle tecniche maggiormente indicate risulta essere la Terapia del problem solving (PST) (Alexopoulos et al., 2011). Questo approccio sembra essere efficace, nel trattamento di soggetti anziani affetti da depressione con lieve compromissione cognitiva, nel ridurre i sintomi depressivi e la disabilità (Arean et al.,2010; Alexopoulos et al., 2011; Kiossen et al.,2011).

In particolare la terapia del Problem Solving per i deficit esecutivi (PST-ED) trasmette ai soggetti depressi nuove abilità che consentono un miglioramento delle loro abilità di affrontare i problemi quotidiani e gli eventi della vita. Un altro approcio che si è riscontrato essere efficace nel trattamento della depressione senile è la terapia cognitivo-comportamentale (Laidlaw et al., 2008). La terapia cognitivo-comportamentale per la demenza lieve (CBT-Demenza lieve) è orientata, in primo luogo, verso il deficit neuropsicologico e si pone l’obiettivo di trasmettere al soggetto affetto da depressione e da lieve compromissione cognitiva alcune indicazioni pratiche per ridurre l’impatto di essa sulla sua vita quotidiana. In secondo luogo durante i colloqui si cerca di insegnare al paziente nuove strategie cognitive quali l’analisi delle prove e la lista dei pro e dei contro di differenti situazioni. Tutti questi interventi si pongono come obiettivi principali la remissione dei sintomi, la prevenzione degli atti suicidari e il ripristino di buoni livelli di funzionamento sociale e cognitivo (Nieddu et al.2007).

 

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BIBLIOGRAFIA:

La facilitazione ritmica in compiti motori e cognitivi: uno studio sperimentale

Questo articolo ha partecipato al Premio state of Mind 2014 Sezione Junior

La facilitazione ritmica in compiti motori e cognitivi: uno studio sperimentale

Autore: Simone Donati

Università di Bologna

 

ABSTRACT

Ho studiato l’effetto del ritmo su un campione di 27 soggetti, 10 maschi e 17 femmine per indagare una possibile correlazione positiva di questa stimolazione in compiti motori-comportamentali e cognitivi. Tutti i partecipanti dovevano effettuare entrambe le prove. Nella prova motorio-comportamentale avevano l’istruzione di battere un dito su un microfono da me fornito (tapping) con l’istruzione di aumentare progressivamente la velocità dell’esecuzione del compito. Nella prova cognitiva, invece, i partecipanti dovevano contare all’indietro ad alta voce per sette da un
numero casuale a tre cifre. Anche in questo caso l’istruzione era di aumentare progressivamente la velocità del calcolo. Entrambe le prove erano divise in prova di controllo e prova sperimentale, dove nella prova di controllo veniva fornito l’ascolto di un metronomo per i primi dieci secondi, dopodiché l’audio veniva interrotto e il partecipante iniziava con la prova. Per quanto riguarda la prova sperimentale, la traccia del metronomo rimaneva presente per tutta la durata del compito del partecipante. Il risultato principale che questo studio ha ottenuto è stata una correlazione significativa tra la prova cognitiva e la presenza del metronomo, mentre nessuna correlazione è stata trovata nella prova motorio-comportamentale.

Parole chiave: Facilitazione ritmica, Metronomo, Calcolo Mentale, Tapping, Effetto Mozart

 

I have studied the effect of the rhythm on a population of 27 subjects, 10 males and 17 females, in order to investigate a possible positive correlation of that stimulation in motor-behavioral tasks and cognitive tasks. All participants had to perform both tasks.
On motor-behavioral task they had the instruction to perform a finger tap on a microphone. The instruction of that task was to progressively increase the speed of execution. In the cognitive task participants had to count backwards out loud for seven from a three digits random number. In this task participants had the instruction to progressively increase the speed of execution, as in the tapping task. Both tasks included experimental test and control test. In the control test the metronome was heard by participants for the first 10 second, and then the test begun. In the experimental test, the metronome was present for the whole duration of the test. The main result of this study was a significant correlation between cognitive task e metronome presence. No significant correlation was founded on the motor-behavioral task

Keywords: Rhythmic enhancement, Metronome, Mental Calculation, Tapping, Mozart Effect

 

 

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

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La tristezza può compromettere la percezione dei colori?

Daniela Sorzogni

 

Il mondo potrebbe sembrare un po’ più grigio del solito quando siamo giù di morale, in inglese si dice “feeling blue”. Una nuova ricerca suggerisce che le associazioni che facciamo tra emozione e colore vanno oltre la semplice metafora.

I risultati indicano che la sensazione di tristezza può realmente cambiare il modo in cui percepiamo il colore. In particolare, i ricercatori hanno trovato che i partecipanti che sono stati indotti a sentirsi tristi erano meno accurati nell’individuare i colori sull’asse blu-giallo rispetto ai soggetti portati a sentirsi divertiti o emotivamente neutri.

Precedenti studi hanno dimostrato che l’emozione può influenzare i vari processi visivi, e alcuni lavori hanno indicato un legame tra umore depresso e ridotta sensibilità al contrasto visivo. Poiché la sensibilità al contrasto è un processo visivo di base coinvolto nella percezione del colore i ricercatori hanno indagato sulla possibilità di un collegamento specifico tra la tristezza e la capacità di percepire il colore.

In uno studio 127 studenti universitari hanno guardato un film emotivo e in seguito completato un compito di giudizio visivo. I partecipanti sono stati assegnati casualmente al gruppo destinato a guardare un filmato che induceva tristezza o al gruppo destinato a guardare una clip che induceva divertimento.
Gli effetti emotivi dei due clip sono stati convalidati e i ricercatori hanno confermato che i due filmati hanno indotto le emozioni che si erano prefissati di provocare.
Dopo aver visto il video, venivano mostrati ai soggetti 48 campioni di colore consecutivi ed è stato chiesto loro se ogni colore era rosso, giallo, verde o blu.

I risultati mostrano che i partecipanti che hanno guardato il filmato che provocava tristezza erano meno accurati nell’indentificare i colori rispetto ai partecipanti che hanno guardato il video divertente, ma solo per i colori sull’asse giallo-blu. Nessuna differenza invece sulla precisione dei colori di asse rosso-verde.

In un secondo studio con un campione di 300 studenti ha mostrato lo stesso effetto rispetto ad un filmato neutro: i soggetti che vedevano il filmato triste erano meno accurati nell’identificare i colori dello spettro giallo-blu rispetto a coloro che avevano assistito a un filmato neutro. I risultati suggeriscono che la tristezza è specificamente responsabile per le differenze di percezione dei colori.
I risultati non possono essere spiegati da differenze nei livelli di impegno, attenzione in quanto non sono in grado di spiegare come la percezione del colore è stata compromessa solo sull’asse giallo-blu.

Il risultato potrebbe dare un indizio per l’effetto del funzionamento della dopamina, neurotrasmettitore che è stato collegato alla percezione dello spettro dei colori giallo-blu in uno studio precedente. Questo richiede però ulteriori studi di follow-up, essenziali per la piena comprensione del rapporto tra emozione e percezione del colore.

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La relazione tra pensiero desiderante, ricerca di novità e predisposizione alle dipendenze patologiche

Il presente studio ha indagato se e in che misura la tendenza a ricercare la novità e la propensione a pensare in modo desiderante potessero influenzare il craving, un fattore cruciale per il mantenimento delle dipendenze patologiche.

I dati sono stati raccolti somministrando una serie di questionari a 270 persone appartenenti alla popolazione generale e senza alcuna diagnosi psichiatrica.

Le analisi dei dati hanno mostrato come il pensiero desiderante potesse mediare la relazione tra ricerca della novità e craving. In altre parole, uno stile cognitivo incentrato sul desiderio in tutte le sue componenti (immaginativa e verbale) sembrerebbe più “a rischio” per lo sviluppo di craving, rispetto a un temperamento caratterizzato da una forte ricerca della novità.

In questo senso, i risultati hanno sottolineato il ruolo centrale del modo in cui si gestisce il desiderio, per la sua capacità di influenzare la percezione di craving.

 

Desire thinking as a mediator of the relationship between novelty seeking and craving

We examined the relationship between desire thinking, temperament and craving. Findings support a multiple mediational sequence from novelty seeking to craving. Desire thinking mediates the relationship between novelty seeking and craving.

 

  • Gabriele Casellia, b, c, , ,
  • Chiara Manfredib, d,
  • Annalisa Ferrarise,
  • Francesca Vinciulloe,
  • Marcantonio M. Spadac

[accordion title1=”About the authors” text1=”a Studi Cognitivi, Milano, Italy b Sigmund Freud University, Milano, Italy c School of Applied Sciences, London South Bank University, London, UK d Studi Cognitivi, Modena, Italy e University of Pavia, Pavia, Italy” ]

 

 

 

 

Abstract

Background

The construct of craving has been shown to play a crucial role in the development and maintenance of addictive behaviors. Both novelty seeking and desire thinking have been identified, respectively, as important temperamental and cognitive predictors of craving.

Aims

In the present study we aimed to explore the relative contribution of novelty seeking and desire thinking towards craving, hypothesizing a sequence of multiple mediating relationships starting from novelty seeking and moving onto imaginal prefiguration, verbal perseveration and craving in serial fashion.

Method

A convenience sample of 270 individuals completed measures assessing novelty seeking, desire thinking, and craving relating to a chosen activity.

Results

Findings showed that, controlling for age and gender, desire thinking components predicted craving over and above novelty seeking. The indirect effect from novelty seeking to craving, via desire thinking components, was significant thus supporting a multiple-mediational sequence. Finally, the relationship between imaginal prefiguration and craving was found to be partially mediated by verbal perseveration.

Conclusions

The findings provide support for the conceptualization of desire thinking as an independent construct in predicting craving over and above novelty seeking.

Keywords

  • Addiction;
  • Addictive behaviors;
  • Craving;
  • Desire thinking;
  • Temperament

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