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Cibo per la mente: mangiare più pesce per ridurre il rischio di depressione?

La prevenzione nei confronti della depressione può venire anche dalla dieta: sembra infatti che mangiare molto pesce possa contribuire a ridurre il rischio del disturbo.

La depressione colpisce circa 350 milioni di persone in tutto il mondo, ed è destinata a diventare la seconda causa di malattia entro il 2020. La prevenzione nei confronti di questa patologia può venire anche dalla dieta: sembra infatti che mangiare molto pesce possa contribuire a ridurre il rischio di depressione, almeno in Europa; inoltre la correlazione tra una dieta di pesce e la salute mentale sembra essere ugualmente significativa nei due sessi.

Diversi studi hanno precedentemente esaminato il possibile ruolo di fattori dietetici nel modificare il rischio di depressione, ma i risultati sono stati contraddittori e inconcludenti.

I ricercatori dello studio in questione hanno quindi condotto una meta analisi sui dati di studi pubblicati tra il 2001 e il 2014 per valutare la forza del legame tra il consumo di pesce e rischio di depressione.

Dopo aver setacciato banche di dati di ricerca, hanno trovato 101 articoli adatti, di questi 16 erano idonei per essere inclusi nell’analisi. Questi 16 articoli includono 26 studi, che coinvolgono 150, 278 partecipanti.

Dall’analisi complessiva di tutti i dati è emersa una riduzione del 17% del rischio di depressione negli individui che consumano abbondantemente pesce rispetto a quelli che ne mangiano in minima quantità. Questa correlazione però è significativa solo per gli studi europei. Inoltre negli uomini ad alto rischio per la depressione questo diminuiva del 20%, mentre nelle donne la riduzione del rischio associato è del 16%.

Si tratta di uno studio osservazionale e nessuna conclusione sulla causalità è definitiva, ma una spiegazione biologica plausibile i ricercatori la suggeriscono: gli acidi grassi omega 3 presenti nel pesce potrebbero alterare la microstruttura delle membrane cerebrali e modificare l’attività dei neurotrasmettitori, serotonina e dopamina, entrambi coinvolti nella depressione. Inoltre mangiare molto pesce può essere l’indicatore di una dieta sana e nutriente grazie alla quale le proteine di alta qualità, vitamine e minerali presenti nel pesce possono aiutare ad evitare la depressione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Piemonte: la delibera sulla residenzialità mette a rischio 700 posti di lavoro per gli psicologi

ORDINE DEGLI PSICOLOGI PIEMONTE – COMUNICATO STAMPA DEL 24-09-2015

In seguito  alla Deliberazione della Giunta Regionale 3 giugno 2015, n. 30-1517, Riordino della rete dei servizi residenziali della Psichiatria, Alessandro Lombardo, Presidente dell’Ordine degli Psicologi Piemonte, vuole portare all’attenzione del Presidente della Regione Chiamparino, dell’Assessore alla Sanità Antonio Saitta, della Giunta Regionale, e di tutti i Consiglieri Regionali, le preoccupazioni anche per i riflessi occupazionali che tale delibera pone in essere.

“Il riordino del settore della residenzialità è questione delicata. Ed ho sempre sostenuto che fosse necessario mettervi ordine” dichiara Alessandro Lombardo. “Quel che è certo” specifica il Presidente “è che il rischio che si corre è quello di stravolgere un sistema che, pur con  tutte le pecche dovute ad una normativa ormai vetusta e da rivedere (la DGR 357), si poneva comunque nel pieno del solco segnato dalla riforma Basaglia”.

“Non posso inoltre pensare che – nelle giuste e necessarie azioni di riordino, di governo, di pianificazione di una questione centrale per le politiche socio-sanitarie regionali come la residenzialità psichiatrica – non vi sia, da parte della Giunta e del Consiglio Regionale, una parallela presa in carico anche dei riflessi occupazionali che tale riordino pone in essere.”

Dalle stime in possesso dell’Ordine Psicologi Piemonte, circa 700 psicologi, una volta entrata in vigore la delibera, rischiano di perdere il posto di lavoro.

“In questi giorni ho avuto modo di interloquire con l’Assessore Saitta e con il direttore De Micheli. Con loro abbiamo avviato un percorso di analisi che ci dovrebbe portare a trovare una soluzione per tutti gli psicologi che lavorano in questo settore”.

L’Ordine degli Psicologi, ha deciso di non presentare ricorso per la Delibera 30, pur rimanendo in stretto contatto con i soggetti che al momento hanno presentato ricorso al TAR.

“Quello che auspico, è che prevalga su tutto il senso di responsabilità, e che si sia in grado di trovare una soluzione che tuteli tutti, pazienti in primis” conclude il Presidente Alessandro Lombardo.

 

IL TESTO DELLA DELIBERA:

Regione Piemonte – D.G.R. 3 Giugno 2015, n. 30-1517

Riordino della rete dei servizi residenziali della Psichiatria

 

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I professionisti della salute sono immuni allo stigma sul peso?

Le persone possono dimenticare quanto hai detto e fatto, ma non come le hai fatte sentire.

Spesso, all’ interno di questa rubrica, sono stati ospitati contributi che hanno trattato il tema dello stigma nei confronti dell’obesità e delle persone con obesità (in inglese weight stigma o weight bias). L’obesità non è vista come una malattia ma come una colpa della persona, la quale è ritenuta responsabile della propria condizione di salute, e quindi bersaglio di stereotipi negativi che la dipingono come pigra, senza forza di volontà, golosa, incurante della sua salute ecc…

La letteratura scientifica (si consiglia la lettura delle review di Puhl & Brownell 2001 e Puhl & Huer 2009 e il libro Weight Bias di Puhl, Brownell, Schwartz e Rudd 2005) ha evidenziato come questi atteggiamenti negativi nei confronti dell’obesità possano penalizzare le persone obese nei domini più importanti della vita come, per esempio, lavoro, istruzione, relazioni interpersonali, tempo libero e cure sanitarie. Il fatto che anche l’ambiente sanitario e i professionisti della salute non siano immuni da questa forma di stigma costituisce un’emergenza nella lotta all’obesità poiché i pazienti potrebbero ritardare o cancellare importanti visite mediche e di prevenzione o rifiutare di chiedere un aiuto medico con il rischio di mantenere e/o peggiorare nel tempo la propria condizione di obesità.

La ricerca ha rilevato atteggiamenti negativi in medici, infermiere, psicologi, ginecologi, studenti di medicina, fisioterapisti, dentisti, e infine anche nei professionisti che lavorano nel campo dell’obesità e Disturbi del Comportamento Alimentare. Riassumendo quanto emerso dalla ricerca scientifica, il professionista della salute descrive il paziente con obesità come poco collaborativo, poco intelligente, demotivato, pigro fino ad arrivare a considerarlo una perdita di tempo.

Dopo i famigliari, in uno studio condotto su 2449 donne con obesità, i medici risultano la seconda fonte di stigma dopo i famigliari. Nonostante il tema dello stigma basato sul peso sia conosciuto e, in particolare negli Stati Uniti, è sempre più riconosciuta l’importanza di contrastarlo a 360 gradi, vi sono episodi in cui un atteggiamento stigmatizzante è mosso proprio da persone che lavorano nella sanità. Un esempio recente (che ha ispirato questo contributo) è l’editoriale pubblicato sulla rivista American Journal of Medicine ad opera di un medico cardiologo, Robert Doroghazi, intitolato “A candid discussion of obesity”.

L’autore scrive che negli ultimi anni, nonostante i tanti sforzi, poco è stato fatto per ridurre l’obesità e che il problema, secondo il medico, è che le persone obese mangiano troppo ed è una loro responsabilità mangiare di meno. Inoltre il cardiologo ritiene che sensibilizzare al tema dello stigma basato sul peso sia un incentivo per le persone a non modificare i propri comportamenti. Su questa linea Doroghazi termina l’editoriale suggerendo ai colleghi di rivolgersi ai pazienti con obesità semplicemente dicendo la verità utilizzando queste parole: [blockquote style=”1″]Signore o signora non è bene essere obesi. L’obesità è un male. Lei è sovrappeso perché mangia troppo. Lei ha anche bisogno di muoversi di più. La sua obesità non può essere imputata ai fast food o alle bevande zuccherate o altro. Lei pesa troppo perché mangia troppo. La sua salute e il suo peso sono una sua responsabilità. [/blockquote]

Considerare il peso come qualcosa di controllabile, e sotto la responsabilità individuale, è alla base dello stigma che esiste verso questa condizione e chi ne è affetto. Vedere l’obesità come una scelta, e non una malattia complessa e multifattoriale, è un insulto ed è irrispettoso verso chi sperimenta quotidianamente le conseguenze fisiche, psicologiche e sociali. Le parole di Doroghazi sottolineano l’importanza di sensibilizzare i professionisti della salute al tema dello stigma, e sulla complessità dell’obesità, perché una visione giudicante e colpevolizzante può divenire un potente ostacolo per una cura efficace e duratura.

L’episodio ne richiama un altro accaduto pochi anni fa ad opera del Ministro della Salute inglese Anne Milton che invitò i medici di base a utilizzare il termine “grasso (fat)” per motivare i loro pazienti a perdere peso. È diffusa l’idea che lo stigma possa motivare al cambiamento e che proteggere la dignità della persona obesa possa invece non motivarlo. Gli studi mostrano il contrario, e cioè che l’aumento dello stigma nei confronti dell’obesità e persone obese va a braccetto con l’aumento dei casi. Chi ha ragione? Una risposta la possiamo affidare alle parole di Albert Stunkard, uno dei massimi studiosi dell’obesità, scomparso lo scorso anno.

[blockquote style=”1″]Noi medici abbiamo un’opportunità d’oro. Abbiamo raramente l’opportunità di curare le malattie croniche. Abbiamo però l’opportunità di trattare il paziente con rispetto. Una tale esperienza potrebbe essere il più grande dono che un professionista della salute può dare al paziente con obesità[/blockquote] (pp. 355-356).

Mi auguro che editoriali come “A candid discussion of obesity” siano uno stimolo per parlare e conoscere un aspetto poco conosciuto, ma diffuso e invalidante, dell’obesità.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La gravidanza vista dall’interno (2014) di Joan Raphael-Leff – Recensione

Valentina Messori, Cecilia Tardini, Grazia Martina – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

L’orientamento che ogni singolo genitore porta nella cura dell’altro riflette l’ultimo capitolo della sua cumulativa storia interiore, continuamente scritta e riscritta in collaborazione con le persone che gli sono vicine.

C’era una volta….un guizzo nell’occhio interno

Al centro dell’interesse dell’autrice c’è l’esperienza del genitore, la madre o il padre come persona intera anziché come oggetto di fantasie o desideri infantili. Perciò il consueto rapporto tra figura e sfondo, presentato dalla letteratura psicoanalitica, viene spesso ribaltato: il punto di vista è quello delle madri e dei padri, che a loro volta sono figlie e figli.

Questo libro è stato scritto viaggiando per cinque continenti, fra lezioni e seminari con madri e padri in attesa e con personale sanitario; osservando dei bambini in casa, discutendo casi clinici con allievi, andando in supervisioni di psicoterapie analitiche, leggendo scritti dei maestri, scambiando ipotesi con colleghi, vivendo personali esperienze di gravidanza.

L’autrice si pone diverse domande: Che significato ha la gravidanza nel mondo interno di una donna o di un uomo?; Qual è l’esperienza emotiva del partner durante la gravidanza?; Come diventiamo quelli che siamo in relazione ai nostri figli e al nostro stesso sé infantile?; In che modo le fantasie prenatali influenzano il clima emotivo postnatale?

Nel primo capitolo, il concepimento viene presentato come l’inizio di una storia bizzarra: già prima di questo momento il bambino sconosciuto è accolto nella realtà psichica della donna in attesa, investito di illusioni e collocato in un posto preciso fra le numerose immagini di figure primarie significative che ne popolano il mondo interno. Quando due adulti iniziano una relazione emotiva, ognuno scarica sull’altro aspetti non risolti del suo patrimonio transgenerazionale di fantasie inconsce. I partner spesso si scelgono per realizzare a vicenda certe potenzialità, e il nascituro diventa parte attiva della loro rappresentazione drammatica. Il neonato incorporerà nell’immagine di sé attributi non abbandonati dai genitori.

L’arrivo del bambino suscita evocativi frammenti di memoria, fa rivivere processi latenti relativi alla prima infanzia dei genitori, che influiscono sulla qualità dell’interazione postnatale. Anche il bimbo investe gli adulti con le sue intense emozioni. I progressi tecnologici ci hanno permesso di osservare il feto vivo nell’utero, che ingerisce ed espelle, mastica, lecca , succhia, sbadiglia. La gravidanza comporta una nuova visione del proprio corpo, non ha più il possesso esclusivo del proprio corpo; la donna è letteralmente posseduta da un altro.

Secondo l’autore la gravidanza può essere divisa in tre fasi. Nella fase iniziale la donna è in gran parte impegnata a fare i conti con le nuove sensazioni corporee, i sintomi, lo squilibrio emotivo, e ad adattarsi alle conseguenze pratiche del suo stato alterato. La seconda comincia con i movimenti del feto, si presenta l’idea che un essere separato sta crescendo dentro. La fase finale inizia quando la mamma comincia a considerare il bambino un organismo vitale,capace di sopravvivere fuori di lei. Come per quello di Pandora, l’apertura del vaso materno è associata al risveglio di passioni dormienti e allo scatenarsi dell’ambivalenza interna.

Nel secondo capitolo vengono affrontati temi come il sogno in gravidanza, sogno che presenta temi fondamentali, che ricorrono in culture diverse. Lei che fù contenuta, ora è il contenitore, lei che era piccola, ora è grande e crea un piccolo essere. I dubbi sulla propria capacità di contenere, alimentare e preservare il piccolo essere, che misteriosamente dovrà trasformarsi in un bambino, si mescolano con la rabbia per il senso di assoluta solitudine; la gestante è sospesa fra un mondo interno ed esterno, a un incrocio di passato, presente e futuro, fra sé e l’altro.

E infine, la gestante intesse fantasie circa la creatura che ha in grembo, che può apparire in molte forme, umane e animali. Risonanze dal passato e figure che abitano il mondo interno sono spesso influenti, nella rappresentazione del bambino immaginario: il bambino può rappresentare un aspetto in ombra della realtà della madre, una potenzialità apprezzata o temuta. Immagini interne e fattori storici inconsci costituiscono sostanze nutritive o tossine della placenta emotiva che condiziona la gestazione psichica della gravidanza.

La gravidanza può generare dei cambiamenti anche nella relazione con il partner, in alcuni casi l’attività sessuale viene incentivata, in altri viene interrotta, in quanto si riattivano desideri infantili o si percepisce la propria privacy violata da un terzo. La diade può oscillare fra la sensazione che la gravidanza arricchisca l’intimità e un’idea d’invasione. Per quasi tutti, è stata una donna, fonte di gioia e tormento, a esercitare il potere sulla nostra infanzia. Il cordone ombelicale ha una doppia funzione: convoglia il nutrimento al bambino e rimuove i suoi prodotti di scarto; il cordone che collega la madre e il bambino può essere immaginato come un condotto, una fonte di gioia, o come minaccia persecutoria di ritorsione.

Dal canto suo il padre si trova a dover faticare per affermare il proprio contributo personale. Deve rinunciare al piacere di avvertire una vita interna e può essere geloso dell’intimità che la compagna ha col bambino. Nelle società industrializzate la formazione di sintomi offre al padre il mezzo per ripudiare la propria ostilità subendone al tempi stesso la punizione. I sintomi possono essere un mezzo per ottenere riconoscimento e cure , un modo per deviare sul proprio corpo l’attenzione, oppure una sorta di solidarietà con la compagna, o anche espressioni di invidia, manifestando un eccessivo controllo dell’alimentazione della compagna.

L’ autrice parla del padre in attesa: un uomo che oltre a provare un’insieme di emozioni verso la compagna e il feto, mette in moto in lui un riesame del proprio passato come bambino con i genitori. Il padre vive inoltre un risentimento impotente per il fatto di poter agire cosi poco su un processo di tale importanza. Anche il travaglio scatena nei padri una miriade di sentimenti differenti: può innescare risposte emotive di protezione, paura di essere una parte di ricambio nel mondo femminile, senso di colpa per aver messo la compagna in quella situazione dolorosa, senso di vergogna e di impotenza.

In che modo le fantasie prenatali influenzano il clima emotivo postnatale? E’ una delle tante domande che l’autrice propone in questo libro. La gravidanza e la nascita di un figlio, turning point nello sviluppo dell’identità femminile e nella vita di coppia, comportano una profonda crisi maturativa di rimaneggiamento e riordinamento psichico alla ricerca di nuovi equilibri. La transazione alla genitorialità delinea un processo di profonda trasformazione che riattiva rappresentazioni mentali strettamente legate alla precedente storia relazionale, dalla quale si riaffacciano le passate esperienze di attaccamento con le proprie figure genitoriali ed i vissuti di accudimento esperiti durante l’infanzia. Il tempo della gravidanza è fondamentale per i futuri genitori al fine di creare uno spazio fisico e mentale, che dovrà ospitare le rappresentazioni di sé come madre, del proprio partner come padre e del futuro bambino.

Per la donna è evidente che la realtà biologica e psichica della gravidanza comportino una trasformazione della sua immagine corporea e del sentimento d’identità che si attiva in un processo di duplice individuazione di sé, come figlia di fronte alla propria madre, come madre di fronte al proprio figlio, e nello stesso tempo di accettazione del figlio separato da sé. Tale processo di doppia individuazione avviene anche nell’uomo, che è figlio del proprio padre e nello stesso tempo diviene padre, anche se egli non vive i cambiamenti corporei e psichici e le ansie legate alla trasformazione del corpo e del parto. A lui spetta il compito non facile di sostenere il percorso della gravidanza, poi quello di favorire la relazione madre-bambino e il comportamento esplorativo successivo del bambino, attraverso il sostegno della donna, la collaborazione e l’accudimento, ma ciò è possibile solo se anche il futuro padre avvia il lavoro psichico di profondo rimaneggiamento e ritrascrizione del proprio scenario rappresentazionale.

L’adattamento a questi mutamenti può rappresentare un processo complesso, nel quale possono aprirsi scenari di fragilità psicologica, sia individuali che di coppia. Nella trasformazione psicologica che caratterizza la gravidanza, centrale è la modificazione dell’identità della donna. Muta, infatti, la rappresentazione di sé come persona, moglie, figlia, donna che lavora, amica e ora madre; il suo posto nella società, il suo status, il suo posto nella famiglia d’origine. La donna deve ricostruire il suo ruolo sociale e per fare ciò inconsciamente esplora il suo passato e il suo presente, i suoi vissuti di figlia, il rapporto con il partner. Durante i 9 mesi prima e nel periodo postnatale dopo l’identità femminile presente fino al momento del concepimento non viene abbandonata ma integrata con la nuova identità di madre; cambiano però i valori, le priorità, tutto ruota intorno al suo sentirsi madre.

Gravidanza e parto costituiscono gli eventi di quella peculiare comunicazione fondante la relazione madre-bambino, la quale contiene le premesse per l’attuarsi di relazioni e transazioni interpersonali future: l’esperienza bio-psicologica vissuta in utero trova espressione dopo la nascita, si conserva e si manifesta nel comportamento neonatale. La separazione biologica del parto costituisce poi il passaggio complesso, e a volte traumatico, dalla gravidanza-maternità sognata alla nascita-maternità reale e comporta il difficile confronto fra il bambino immaginato e reale, fra il ruolo di genitore fantastico e quello reale. La discrepanza tra le aspettative genitoriali e la realtà psicosociale dell’esperienza post-natale, la complessità delle cure neonatali, possono far riemergere questioni infantili irrisolte e rendere difficile la transizione alla genitorialità; inoltre vi è anche a volte la mancanza di sostegno psicologico alla donna in gravidanza e nel post-partum.

In questo contesto di solitudine e di difficoltà, durante la transizione biologica e psicologica alla genitorialità si possono manifestare sintomatologie ansiose depressive. Il periodo perinatale, che si estende dalla gravidanza fino al primo anno di vita del bambino, può rappresentare un momento di grande rischio per lo sviluppo o l’esacerbazione di disagi emotivi, con sofferenze in grado di compromettere l’equilibrio psicologico femminile, influenzare negativamente a livello della relazione di coppia, dell’interazione madre-bambino, ostacolando anche il normale sviluppo infantile.

In gravidanza, il benessere, lo stare e il sentirsi bene, sono elementi centrali in grado di influenzare la qualità della vita e dell’esperienza della gravidanza, il benessere e la salute del feto, e la formazione dei sistemi con cui verrà al mondo. La qualità dell’esperienza e dei vissuti nella gestazione ha ripercussioni anche sulle prime esperienze di attaccamento che indirizzeranno le future capacità relazionali e di fronteggiamento degli eventi nel bambino in una catena generazionale a lungo termine.

Ad esempio, la depressione pre-natale, ha delle importanti conseguenze già durante la gravidanza sul feto, che mostrerebbe una minore attività e disregolazioni neuroendocrine. Inoltre i neonati di madri depresse in gravidanza e alla nascita possono presentare rispetto i figli di madri non depresse, un peso più basso e una crescita minore, reazioni scarse alle espressioni facciali, difficile consolabilità, irritabilità, problemi del sonno e un maggior numero di manifestazioni di stress a partire dai primi mesi dopo la nascita. Si osserva come la madre depressa nell’interazione con il figlio sia meno responsiva e sensibile rispetto ai bisogni del figlio, esprima spesso opinioni negative nei confronti del piccolo e sia focalizzata maggiormente sulle proprie preoccupazioni, piuttosto che sul piccolo; a sua volta il neonato può esprimere difficoltà interattive, nell’addormentamento e irritabilità eccessiva. A lungo termine è stato riportato come i figli di madri depresse abbiano nel 25% dei casi difficoltà emozionali e cognitive, con conseguenze negative anche sul rendimento scolastico; una recente ricerca ha analizzato come la depressione materna post-natale possa influenzare i figli fino a 16 anni di vita, mostrando una maggiore vulnerabilità alla depressione rispetto ai figli di donne non depresse. L’isolamento materno e la variabilità delle risposte contingenti, possono compromettere la regolazione dell’attenzione e dell’affetto del neonato, con conseguenze sul suo sviluppo cognitivo e socioemotivo.

La componente ansiosa, come la depressione, potrebbero compromettere lo sviluppo di attaccamento sicuro madre-bambino e mettere a rischio lo sviluppo cognitivo, emotivo e comportamentale del bambino. Un numero crescente di ricerche documenta gli effetti a breve e a lungo termine che la precoce esposizione nel periodo gestazionale ad elevati stati ansiosi materni può indurre sullo sviluppo neonatale e infantile, nonché adolescenziale. Alla base di queste evidenze, ci sono disregolazioni ormonali che contribuiscono all’alterazione dello sviluppo del feto. In un’ottica biopsicosociale, tali elementi di vulnerabilità biologica possono essere rinforzati da specifici pattern relazionali o caratteristiche ambientali. E’ soprattutto nei primi anni di vita che si esplica l’importanza dei fattori socio-relazionali nell’influenzare le traiettorie di sviluppo infantile. I risultati dimostrano l’importante contributo della presenza di disturbi d’ansia prenatali nell’influenzare negativamente sulla transizione alla genitorialità. Minor percezione di sicurezza che le madri avvertono nel prendersi cura del bambino e la maggior instabilità comportamentale percepita nel bambino: tali elementi possono incidere sulle prime esperienze relazionali bambino-caregiver, fondamentali per la costruzione e l’organizzazione del sé infantile nei primi anni di vita. Tutto questo porta una minore regolazione comportamentale, maggiore instabilità attentiva e sviluppo motorio (Dellabatola, 2013).

L’autrice dedica un capitolo alla descrizione dei diversi approcci alla genitorialità, che iniziano già a delinearsi nelle scelte relative al parto. In particolare evidenzia tre orientamenti: Facilitazione, Regolazione e Reciprocità, determinati dell’interazione tra il bambino rievocato che si pensa di essere stato; il bambino immaginato e pensato; il bambino reale. In base a tali modelli ogni genitore ha quindi in mente che tipo di madre/padre vorrebbe essere e quali credenze sono attribuite ai bambini. Tutto ciò contribuisce a determinare nei genitori lo stato emotivo attuale e ne è a sua volta determinato. In particolare per quanto riguarda le madri, chi tra esse presenta un orientamento del tipo Facilitazione considera la maternità come un’esperienza altamente gratificante, tende a non separarsi mai dal bambino dedicandosi a lui completamente, cercando di mantenere intatta la loro bolla di esclusiva intimità.

All’estremo opposto si collocano quelle donne che si attengono all’orientamento delle Regolazione, le quali si separano volentieri dal neonato, ricercano figure di accudimento alternative al fine di ricercare una propria libertà e uno spazio per sé stesse. Nella posizione intermedia si collocano quelle madri caratterizzate dal tipo di genitorialità definito Reciprocità. Quest’ultimo orientamento tende a vedere il neonato come una persona completa con la quale può interagire, perché anch’esso socievole, disponibile e capace di relazionarsi e fare richieste. In quest’ottica sono riconosciuti come importanti sia i bisogni del bambino, che quelli di tutti gli altri componenti della famiglia, per cui si opera un adattamento continuo delle attività quotidiane tenendo conto delle necessità di ognuno.

L’ autrice passa poi anche a delineare diversi modelli che di orientamento e comportamento del futuro padre, in particolare ne descrive tre, il primo è quello del padre partecipe. Il futuro padre che ha questo orientamento desidera partecipare il più possibile alla gestazione, al parto e alla cura del neonato. Dentro di sé ha libero accesso all’ identificazione infantile con la madre gestante e nutrice, ed è capace di essere tenero e affettuoso senza nessun imbarazzo. Il secondo modello descritto è quello del rinunciatario: chi adotta questo orientamento ha anche acuta consapevolezza dello spartiacque che la gravidanza rappresenta tra maschio e femmina. Ma, in tal caso, sentendosi minacciato dal riaffiorare dell’ identificazione femminile con la madre pre-edipica, può accentuare i propri attributi mascolini e l’ identificazione con il padre e col tradizionale ruolo paterno. Gli è difficile comprendere le esperienze interiori della compagna, vede con un certo allarme i suoi sbalzi di umore e la tendenza all’ introspezione, considera i controlli in gravidanza una faccenda da donne.

Ciò nonostante, si preoccupa del benessere della compagna e del feto e, se accetta, di assistere all’ecografia, può scoprire che l’ esperienza di vedere il bambino sullo schermo dà un senso di eccitante realtà al nuovo arrivato. Infine, anche per il futuro padre viene descritta una posizione di reciprocità: costui è ben consapevole di provare sentimenti contraddittori verso la gravidanza della compagna, il parto e il bambino. La gravidanza, per quanto desiderata, è anche fonte di disagio per la donna,e al compagno dispiace lasciare a lei sola questo peso e il dolore del parto. E’ tuttavia consapevole pure delle esperienze piacevoli che la compagna sta vivendo, alle quali può prendere parte solo in maniera vicaria. Cercando di proiettarsi sul passato, riflette su come si sentiva da piccolo e su quello che può provare ora il suo bambino dentro l’ utero materno, e più avanti durante il travaglio e il parto, e una volta venuto al mondo.

Nella parte centrale del libro, l’ autrice passa poi ad esaminare i vari cambiamenti nei rapporti che avvengono quando una donna è in attesa di un bambino. In particolare la Leff si concentra sui mutamenti all’ interno della coppia in attesa, e sul rapporto della futura mamma con il proprio lavoro.

Nella transizione alla genitorialità, la gravidanza altera gli schemi relazionali esistenti, scatenando il cambiamento e offrendo occasioni di rinegoziare le aspettative emotive. Il passaggio dalla diade a triangolo riattiva angosce edipiche e vengono in primo piano problemi di possessività e rivalità. Fitte di gelosia, competitività, ansia di perdere l’ attenzione esclusiva del partner, sono comuni e inevitabili. La reciprocità della coppia risente del fatto che la gravidanza destabilizza l’ equilibrio tra i sessi e inevitabilmente accentua l’ asimmetria. Con il sopravvento delle forze inconsce il substrato della realtà biologica dell’esperienza corporea costringe uomini e donne a riesaminare la propria mascolinità o femminilità con conseguenze imprevedibili. Una donna abituata ad affermare con decisione la sua indipendenza può avere la sorpresa di desiderare le coccole del partner o le cure della madre o delle amiche. Un’ altra che è sempre stata dipendente e sottomessa, può assaporare una nuova libertà con la conquistata gravidanza. All’ inizio della gravidanza una coppia spesso si rinchiude, diventando più casalinga e tutta presa da se stessa, per fare fronte alle esigenze emotive e fisiche. Può esserci un aggiustamento dei rapporti sociali, in quanto i futuri genitori tendono a gravitare verso amici che hanno già esperienza di bambini.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro l’ autrice riconosce che il ritorno al lavoro comporta dilemmi personali nel contemperare il desiderio di autorealizzazione con le esigenze della gravidanza e della maternità a seconda del proprio orientamento. Le donne che corrispondono al modello della Regolazione riprendono appena possibile l’ impiego a tempo pieno, mentre il tipo Facilitazione tende a rimandarlo nei primi due anni dopo il parto; le madri che adottano il modello della Reciprocità scelgono talvolta il lavoro part-time; anche se in questa dinamica entrano in gioco anche i dettami della situazione socioeconomica personale, le aspettative della società e il sistema di credenze culturali.

Nella fase iniziale della gravidanza, quando le nausee sono frequenti e la stanchezza enorme, le mansioni che richiedono sforzo fisico e i lavori ripetitivi, possono risultare logoranti. Le risposte al carico lavorativo sono varie: alcune donne cercano di ottenere congedi per malattia in modo da potersi riposare, mentre altre preferiscono essere occupate in compagnia di altri invece che stare sole. Nel secondo trimestre, la maggior parte delle donne si sente in forma e piena di energia. Alcune aumentano addirittura il livelli di attività; ad altre invece dispiace di doversi occupare del lavoro anziché concentrarsi sul feto, ora cosi vivace, e avere il tempo di godersi la gravidanza. All’ avvicinarsi del termine, alcune donne desiderano l’ arrivo del congedo di maternità lungamente atteso, altre sono piene di panico di fronte alla prospettiva di giornate senza orari al posto della rassicurante routine di lavoro.

Decidere quando smettere di lavorare per molte è un passaggio che viene complicato dal senso di fallimento nel chiedere un trattamento speciale o anche solo dall’ ammissione di stanchezza. Secondo l’autrice quello che conta per ogni singola donna è capire il proprio orientamento dopo la gravidanza: lei sola può conoscere le sue capacità e priorità emotive, o valutare i suoi limiti. Molte donne imparano in gravidanza a trovare il modo di badare a se stesse, invece di farsi guidare da modelli, interni o esterni, irrealisticamente elevati. In modo analogo, anche dopo la nascita del bambino, alcune non possono fare a meno di uno stipendio, oppure non possono permettersi di trascurare gli aggiornamenti professionali o di interrompere il progresso di carriera. Altre potrebbero prendere un congedo, ma decidono di non farlo a causa dell’ impegno professionale o dell’ interesse per il lavoro. Un compromesso possibile è la condivisione delle mansioni o l’ adozione di un orario flessibile, che permetta di godere le gioie della maternità, senza rinunciare alla parte adulta di sè e alla presenza attiva nella vita pubblica.

Negli ultimi capitoli del testo l’autrice delinea i vissuti emotivi e i cambiamenti psicologici, relazionali e sociali a cui non solo le madri, ma le intere famiglie vanno inevitabilmente incontro nel momento in cui nasce il bambino. Si viene, infatti, a determinare una situazione del tutto nuova, che richiede l’investimento di energie in un continuo adattamento.

Più in particolare viene esaminato il momento del parto, sottolineando come questo importante ed emozionante evento sia vissuto in modo del tutto diverso e personale. La priorità è la sicurezza e il benessere della donna: a questo fine è consigliabile che lei stessa effettui le scelte relative al parto in precedenza, ragionando sulle priorità e formulando il suo personale progetto con lucidità e calma, così che l’evento si concretizzi nelle modalità che rispecchiano il più possibile i suoi desideri. Questo stato affermativo aumenta la fiducia in sé stessa e, al contempo, riduce lo shock e il senso di fallimento. Il percorso risulta agevolato se la partoriente ha la possibilità di esprimere le proprie paure e sentimenti di incertezza e confusione alle persone che la assistono nel parto, ricercando in esse un sostegno emotivo, durante la gravidanza e il parto. Anche nelle delicate settimane che seguono la nascita del bambino, caratterizzate da intense e inattese reazioni psicologiche, sarebbe importante che gli operatori che hanno assistito al parto siano disponibili, al fine di rassicurare e aiutare la donna nella gestione e nel superamento di tali emozioni.

Emerge come l’esperienza delle prime settimane dopo la nascita, oltre a differire per ogni madre, sia soggetta a cambiamenti anche nell’organizzazione pratica di gestione familiare, nonché psicologica in primis delle madri, le quali possono andare incontro allo sviluppo di problemi psichici, che se non riconosciuti e trattati adeguatamente, possono sfociare in disturbi specifici. I più diffusi sono la disforia puerperale o maternity blues (o baby blues) e la depressione post-parto. Soprattutto in questi casi è necessario che una madre si senta accudita e supportata dal coniuge, ma anche da professionisti che possano fornire una psicoterapia adeguata per assistere la donna nel rintracciare risorse per aiutare sé stessa.

Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati alla spiegazione del trattamento di tali problematiche psicologiche mediante una psicoterapia sia pre-natale che perinatale che può essere d’aiuto in questo momento delicato della vita. L’autrice sottolinea l’importanza della psicoterapia prenatale, sia individuale che di gruppo, come strumento di accompagnamento dei genitori e soprattutto delle madri lungo questo impegnativo percorso che spesso vede lo sconvolgimento e la ridefinizione di rapporti di coppia, l’elaborazione di nuovi vissuti e l’integrazione di nuove emozioni con quelle passate. Il supporto psicologico svolge un ruolo protettivo nella riduzione del rischio di complicazioni ostetriche, delle interazioni patologiche future tra madre e bambino, quali carenze emotive e maltrattamenti, e nel prevenire disturbi psichiatrici precedentemente accennati. Ulteriori risultati positivi potrebbero essere raggiunti anche dalla partecipazione ai corsi di preparazione al parto, se comprendessero anche un primo sostegno emotivo e psicologico delle gestanti, una modalità che al momento è ancora poco utilizzata, a favore di una preparazione solo pratica dei genitori rispetto alla cura del neonato in arrivo.

Nei casi in cui le problematiche si protendano anche nelle settimane successive alla nascita del bambino potrebbe essere utile una psicoterapia postnatale che aiuti ad uscire dalla confusione emozionale che la nuova situazione provoca e ad elaborare i potenti sentimenti suscitati dal contatto con il neonato. L’intervento psicologico si rende necessario soprattutto nei casi in cui la donna manifesti sintomi riconducibili ad una disforia puerperale (maternity blues) o alla depressione post-parto.

Sebbene questi ultimi capitoli relativi alla psicoterapia sembrino essere rivolti soprattutto agli operatori del settore, come studenti di psicologia, psicologi, psichiatri e psicoterapeuti, in generale la lettura del libro può essere adatta anche per le coppie in attesa e per i neo-genitori. In particolare potrebbe essere una buona lettura per le mamme che desiderano conoscere meglio gli aspetti psicologici della gravidanza e i cambiamenti affettivi, relazionali e sociali che la caratterizzano.

La gravidanza, la nascita e i primi periodi con il neonato sono generalmente ricordati dalle mamme come un’esperienza positiva, ma a volte può capitare che non tutto sia andato come ci si aspettava e in quest’ultimo caso potrebbe essere difficile per la donna adattarsi alle inaspettate difficoltà che la nuova convivenza comporta.

Il processo di adattamento ai cambiamenti fisici, emotivi e sociali, e al nuovo arrivato può richiedere giorni o anche molte settimane, un periodo in cui la neo-mamma si trova in balia di reazioni iniziali intense anche molto differenti tra loro e disforiche di diversa entità che, per difesa, possono anche essere intorpidite. I nuovi vissuti si mescolano con le esperienze passate e le aspettative future, condizionandosi a vicenda. La maternità è quindi un’esperienza allo stesso tempo esaltante e terribile, gratificante e frustrante.

È molto frequente dopo il parto la presenza di una sindrome definita disforia puerperale o baby blues, un leggero stato depressivo che si presenta nei giorni immediatamente successivi al parto, con un picco dei sintomi tra il 3-5° giorno, che si risolve nel giro di circa due settimane, senza lasciare conseguenze significative. La baby blues è caratterizzata da tristezza immotivata, irritabilità, oscillazione dell’umore, crisi di pianto e senso di inadeguatezza nei confronti dei nuovi compiti che si presenteranno. Tali sintomi sembrano essere causati principalmente dai grandi cambiamenti ormonali che seguono il parto e dalla stanchezza che ne deriva.

È anche molto diffusa nei Paesi occidentali (circa il 10/15% delle mamme) la depressione post-parto, che si sviluppa durante i 3 mesi successivi al parto, dura più a lungo ed è più disabilitante rispetto agli episodi depressivi maggiori che possono insorgere in altri periodi della vita. Dal punto di vista clinico la depressione post-parto non differisce molto dalla depressione maggiore ed è quindi caratterizzata dalla presenza di alcuni dei seguenti sintomi: tristezza, abbattimento, umore basso, perdita di interesse e di piacere verso quelle attività che prima rappresentavano fonte di piacere, senso di fallimento e di inutilità, eccessivi sensi di colpa, difficoltà di concentrazione e nel prendere decisioni, difficoltà a pensare lucidamente, a ricordare e a programmare, disturbi del sonno con insonnia o ipersonnia, cambiamenti nell’appetito, agitazione e irrequietezza o rallentamento psicomotorio, riduzione dell’energia con faticabilità e spossatezza, pensieri ricorrenti che non vale la pena di vivere o, nei casi peggiori, pensieri di morte o di suicidio. I casi più gravi di depressione post-parto devono essere differenziati dalla psicosi post-parto, un disturbo più raro e più grave nelle sue manifestazioni che colpisce circa una donna su mille. La psicosi puerperale insorge in genere entro le prime 6 settimane dal parto e le donne colpite presentano grave confusione e agitazione, gravi alterazioni dell’umore e del comportamento, deliri e allucinazioni.

A questi sintomi possono aggiungersi anche preoccupazioni eccessive per la propria salute e quella del bambino che possono sfociare in stati ansiosi o in disturbi di panico. L’ampia costellazione sintomatologica di questo disturbo ha come conseguenza immediata la difficoltà per la madre di riprendersi fisicamente in tempi rapidi e soprattutto di occuparsi della cura del neonato, con conseguente sensazione di essere una madre fallimentare. In generale le cause della depressione sono multiple e possono essere riconosciute in un intreccio di:

  • fattori biologici (cambiamenti nella regolazione dei livelli dei neurotrasmettitori, nella concentrazione di alcuni ormoni e nel sistema immunitario);
  • trasmissione genetica della vulnerabilità a sviluppare più facilmente questo disturbo;
  • fattori psicosociali precipitanti, come eventi di vita particolarmente stressanti e significativi per la persona che possono portare all’effettiva manifestazione del disturbo. Tali eventi non sono necessariamente negativi, ma rappresentano realtà nei confronti delle quali la persona fatica ad adattarsi, come può essere appunto il divenire madre. Questi avvenimenti danno origine o aggravano lo stato depressivo determinando un peggioramento dell’adattamento nella misura in cui la persona non possiede le abilità necessarie per farvi fronte, rinuncia a reagire, si chiude in sé stessa e si lascia andare.

Più in particolare per quanto riguarda la depressione post-parto ulteriori fattori di rischio che ne aumentano la vulnerabilità possono essere rappresentati da:

  • eventi specifici che riguardano la gravidanza e il rapporto con il figlio: gravidanza inattesa o indesiderata, complicanze durante la gravidanza o dopo il parto per la madre o per il bambino, nascita prematura, problemi di salute del bambino, bambino di sesso diverso da quello desiderato, separazione forzata dal figlio o l’avere a che fare con un bambino difficile per quanto riguarda il sonno, il carattere…;
  • fattori legati al ruolo materno: fatica ad adattarsi al nuovo ruolo di madre e a rinunciare, seppur solo per un periodo, al proprio lavoro, personalità rigida caratterizzata da bisogno di controllo, ordine e perfezionismo, idee sulla maternità e idee di sé come madri poco rispondenti alla realtà e per questo maggiormente soggette a delusione, ambivalenza verso la gravidanza;
  • eventi relativi all’ambiente familiare, sociale e culturale: precedenti episodi di depressione, infanzia infelice o difficile, carenze emotive, abuso fisico o sessuale, basso livello socio-economico, mancanza del partner o relazione di coppia insoddisfacente o problematica, mancanza di sostegno sociale e aumento della quantità di lavoro da svolgere;
  • scarso sostegno sociale, problemi coniugali, disoccupazione.

Se la condizione di depressione post-parto non viene riconosciuta tempestivamente e non viene trattata in modo adeguato può determinare ripercussioni a lungo termine sulla salute mentale della donna, in termini di auto-mantenimento ed aggravamento che determinano un quadro via via sempre più invalidante. Ad aggravare ulteriormente la situazione spesso vi è un sentimento di vergogna per il fatto di provare emozioni e sentimenti negativi in risposta ad un evento che nel senso comune dovrebbe essere come il più bel momento che una donna possa vivere. Spesso la donna tenta allora di minimizzare o negare anche a sé stessa questo malessere evitando di parlarne con qualcuno per paura di non riuscire ad uscirne fuori, ritardando così il supporto psicologico necessario in questo momento delicato.

Essendo un disturbo così pervasivo la depressione post-parto inevitabilmente si ripercuote negativamente anche sugli altri componenti della famiglia: per quanto riguarda il neonato si riscontrano meno contatti con lui, meno responsività alle richieste di accudimento e scarsità di risposte a stimoli affettivi e pratici con dirette conseguenze sul bambino in termini di sviluppo cognitivo e sociale, fino ad arrivare a possibili disturbi del comportamento o dell’attaccamento. Anche la relazione con il partner risente del malessere della neomamma, la quale fatica a gestirla in modo adeguato arrivando a percepire una forte insoddisfazione, carenza di sostegno e aumento dei conflitti e della tensione. D’altra parte anche la reazione del coniuge e degli altri familiari, a volte ambivalente, alla depressione della donna, contribuisce a determinare e ad esacerbare lo stato della situazione. I familiari spesso esprimono preoccupazione e dispiacere nel constatare questo malessere, ma d’altra parte si sentono impotenti e possono esprimere sentimenti di colpa per il fatto di non sapere che tipo di aiuto dare. Possono inoltre sentirsi irritati di fronte alle continue lamentele della neomamma, al suo pessimismo e alla sua totale mancanza di forze e di motivazione.

Per quanto riguarda l’intervento terapeutico, spesso nella fase iniziale più acuta e comunque nei casi più severi, è necessario il consulto di uno psichiatra per considerare l’opportunità di impostare un trattamento di tipo farmacologico con antidepressivi, farmaci che hanno mostrato una buona efficacia nella riduzione dei sintomi. Dopo il superamento della fase acuta o nei casi di una sintomatologia lieve o moderata è buona prassi affiancare un intervento psicoterapeutico al fine non solo di avere un supporto, ma anche di imparare a riconoscere e prevenire i meccanismi che possono innescare una futura ricaduta. Da questo punto di vista le linee guida evidenziano una buona e provata efficacia della terapia cognitivo-comportamentale, il cui protocollo prevede in genere 15/20 sedute a cadenza settimanale: in una prima fase si esegue una valutazione sintomatologica, della personalità generale della persona; nella seconda fase il terapeuta presenta e insegna tecniche comportamentali e cognitive che dovranno essere applicate anche a casa tra una seduta e l’altra (compiti a casa); l’ultima fase, di 4/6 sedute a cadenza mensile prevede il monitoraggio della capacità della persona di mettere in pratica autonomamente quanto appreso. La stessa tipologia di trattamento può anche essere proposta sottoforma di terapia di gruppo. Questo protocollo è relativo al trattamento di sindromi post-parto depressive strutturate e ben definite, ma sarebbe importante anche introdurre misure preventive sfruttando i servizi medici prenatali, in modo da poter segnalare al più presto le donne che più sono in difficoltà e che rischiano quindi di sviluppare più facilmente un disturbo. Dato che questi interventi di tipo preventivo non sono ancora ben organizzati e comunque sono proposti raramente, risulta a maggior ragione importante la percezione della donna di ricevere un adeguato sostegno emotivo da parte del coniuge, dei familiari e degli amici, i quali costituiscono la più grande risorsa e la prima fonte di aiuto, oltre alla rete sociale più ampia su cui la donna ha la possibilità di contare.

La transizione alla genitorialità, i cambiamenti nel rapporto di coppia e la loro relazione con il conflitto coniugale

L’arrivo di un bambino, o anche semplicemente la sua attesa, introduce un elemento nuovo nella relazione di una coppia con l’effetto di provocare una ristrutturazione della relazione mentre l’assunzione da parte dei coniugi della funzione genitoriale comporta spesso anche un riassetto della personalità di ciascuno di essi. Questa transizione presenta alcune singolarità:

  • in genere si conosce il momento del suo inizio;
  • è un evento pianificato che implica una sequenza predeterminata di stadi e di esperienze attraverso i quali le persone devono passare;
  • per molte coppie il fatto di avere un bambino è associato con un peggioramento della qualità del rapporto coniugale;

Come effetto della transizione la varianza della qualità del rapporto coniugale aumenta, e ciò fa pensare che mentre alcune coppie sperimentano una diminuzione del benessere coniugale, altre possono sperimentare un miglioramento. La nascita del primo bambino dà l’avvio a cambiamenti significativi nel rapporto coniugale della coppia. Dopo la nascita, i coniugi di solito passano meno tempo insieme, si impegnano in un minor numero di attività congiunte, hanno più conflitti tra di loro e riferiscono di avere una minore attività sessuale. Questi cambiamenti si aggiungono alla natura già di per sé stressante e gravosa del doversi prendere cura del bambino. Studi longitudinali (che valutano i matrimoni prima e dopo la nascita del bambino) hanno documentato un modesto, ma significativo, peggioramento della soddisfazione coniugale in molti neo-genitori e ciò è vero in particolar modo per le mogli. Il peggioramento della soddisfazione coniugale tende ad essere correlato con un incremento della conflittualità nel rapporto tra i coniugi, con un aumento della divaricazione sul modo di concepire il loro matrimonio,con una diminuzione del coinvolgimento paterno (od un aumento del coinvolgimento materno) nella cura del bambino con la violazione delle aspettative che i coniugi avevano prima del parto, con comportamenti affiliativi e di cura inadeguati nella vita matrimoniale dopo il parto, ed infine con un supporto sociale insufficiente. Il peggioramento del benessere coniugale nel periodo di transizione non è un comportamento generalizzato, anzi è un dato di fatto che alcune coppie mostrano un significativo miglioramento della soddisfazione e del buon funzionamento coniugale dopo la nascita del primo bambino. Cowan e Cowan, per esempio (citati in Simpson et al., 2002), riferiscono casi di aumento dell’attività sessuale, un aumento del grado di intimità e una migliorata capacità di problem solving, almeno per certi coniugi all’interno di certi matrimoni.

Sono stati sviluppati molti modelli per spiegare come la transizione alla genitorialità influisca sulla qualità della relazione coniugale e sul funzionamento della coppia nel tempo, due sono quelli fondamentali: i modelli ecologico/ambientali che si preoccupano di mettere a fuoco le modalità con le quali le condizioni ambientali attuali influenzano i matrimoni; e i modelli disposizionali che rivolgono la loro attenzione alle modalità con le quali le esperienze passate influenzano il funzionamento coniugale attuale. Secondo i modelli ecologico/ambientali che hanno radice nella teoria socio-cognitiva dell’apprendimento, durante il periodo di transizione alla genitorialità cambia il bilancio tra esperienze percepite come positive ed esperienze percepite come negative e ciò provoca oscillazioni e cambiamenti di lungo termine nella qualità della relazione coniugale. I giudizi di soddisfazione o di insoddisfazione coniugale dipendono dal livello cui giungono i coniugi nello sperimentare stati d’animo negativi e nel biasimarsi a vicenda. Questi modelli sono molto attenti agli eventi attuali, ambientali e di relazione, ma non prendono in considerazione il fatto che la capacità di ciascun coniuge di valutare la qualità della relazione coniugale possa essere sistematicamente filtrata e polarizzata dalle precedenti esperienze di relazione vissute nella fanciullezza o nell’adolescenza.

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Levy-Shiff (1994) ha sviluppato un modello ecologico a cinque fattori nel quale si postula che i cambiamenti nella relazione coniugale che si verificano durante la transizione alla genitorialità siano dovuti a mutamenti nelle caratteristiche psicologiche dei genitori, nelle caratteristiche del bambino, nelle variabili della famiglia, nel tessuto sociale di sostegno e nelle norme culturali e sociali. Per esempio, variabili sociali come l’importanza attribuita al lavoro e alla carriera possono essere correlate con il peggioramento della capacità di adattamento nelle relazioni coniugali, in particolar modo quando i coniugi non sono d’accordo sulle responsabilità nella gestione del ménage familiare o sulla divisione dei compiti. Recentemente Levy-Shiff, Dimitrovsky, Shulman e Har-Even (1998) hanno ipotizzato che il modo in cui le persone valutano la genitorialità (in termini di entità della sfida, della minaccia, dello stress e della controllabilità), il grado in cui esse usano le diverse strategie di coping e la disponibilità del supporto sociale possano, se analizzate congiuntamente, predire i cambiamenti nel benessere familiare durante il periodo di transizione.

Altri ricercatori hanno cercato di spiegare gli effetti della transizione alla genitorialità specificando come le variabili disposizionali, modellate da esperienze di relazione precedenti, possano avere influenza sul buon funzionamento della relazione coniugale.

A differenza dei modelli ecologico/ambientali, molti modelli disposizionali cercano di delineare come e perché le esperienze avute nelle precedenti relazioni (per esempio con i genitori) possano influenzare l’interazione coniugale ed avere conseguenze che si evidenziano dopo che il bambino è stato partorito.

Cowan e Cowan (1988), ad esempio, hanno sviluppato un modello che si basa sugli effetti dovuti alla famiglia di origine. Questo modello postula che le persone che hanno sperimentato delle relazioni positive con il genitore del sesso opposto durante la fanciullezza e che avevano anche dei genitori i cui matrimoni erano felici, siano
destinate a sperimentare una maggiore soddisfazione nelle loro proprie relazioni coniugali, dopo la nascita del loro bambino. In effetti, la percezione di un conflitto intenso nelle famiglie di origine di uno o di entrambi i coniugi sembra predire davvero un peggioramento post parto della soddisfazione coniugale.

Simpson et al. (2002) fanno riferimento alla teoria dell’attaccamento di Bowlby per spiegare il comportamento dei coniugi nella transizione alla genitorialità:

  • Le persone sicure sono tipicamente meno chiuse in difesa, valutano i loro partner in modo più benevolo ed usano correntemente modalità costruttive di fronteggiare gli eventi, mirate al problema ed aperte al supporto degli altri, soprattutto quando sono sotto stress. Se il loro partner offre livelli di sostegno inferiori al desiderato, formulano, a tal proposito delle attribuzioni causali costruttive. Queste loro caratteristiche di resilienza permettono alle persone sicure di rimanere ottimiste e capaci sia di ricevere che di dare supporto. Il risultato è la capacità di fronteggiare in modo efficace gli eventi stressanti e di risolvere le difficoltà emergenti con i loro partner, con un effetto che rinforza la loro relazione. Se poi le persone sicure hanno anche dei partner capaci di dare loro effettivo sostegno, le esperienze stressanti anziché provocare un peggioramento diventano l’occasione per un miglioramento della qualità della relazione coniugale e del suo modo di funzionare (Simpson e Rholes, 1994).
  • Le persone evitanti, che hanno sperimentato persistenti situazioni di rifiuto nelle relazioni del passato, per sopprimere la sofferenza e la rabbia associate con il rifiuto cronico, hanno anche imparato ad essere compulsivamente autosufficienti specialmente quando sono angosciate da eventi stressanti (Bowlby, 1979).
    Bartolomew e Horovitz (1991) hanno identificato due tipi di adulti evitanti,gli evitanti-impauriti (che hanno delle opinioni negative di se stessi) e gli evitanti-scostanti (che hanno di sé delle opinioni positive), ma hanno anche visto che gli adulti di entrambi i tipi nutrono dentro di sé, opinioni sugli altri negative e piene di diffidenza. Per evitare che i loro sistemi di attaccamento siano cronicamente attivati, queste persone utilizzano difese cognitive, emotive e comportamentali che li aiutino ad evitare le situazioni che potrebbero attivare i loro sistemi di attaccamento, a smorzare l’attivazione, a sminuire l’importanza dei bisogni legati all’attaccamento e a mettere in atto strategie di coping basate sul distanziamento e il ritiro. Usando queste difese le persone evitanti diminuiscono la probabilità di sperimentare ulteriori rifiuti da parte delle figure di attaccamento attuali, assicurandosi così che il loro sistema di attaccamento rimanga disattivato. Poiché nelle relazioni passate si sono abituate a ricevere un supporto scarso, queste persone non sono infastidite dal fatto di ricevere, dai loro attuali partner, un supporto di livello molto basso (specialmente nel caso di supporto emotivo). È poco probabile quindi che tali persone cerchino supporto dai loro part partner durante gli eventi stressanti.
  • Le persone ambivalenti hanno ricevuto nelle relazioni passate un insieme di sostegno e di cure incoerente o imprevedibile. Come risultato, queste persone, di solito, sono piene di risentimento verso le figure di attaccamento e mettono continuamente in discussione il proprio valore. Talvolta,le persone con un alto grado di ambivalenza sviluppano opinioni negative di se stessi e positive degli altri significativi, verso i quali hanno aspettative piene di speranza (anche se accompagnate da sospetto e incertezza). Date le opinioni negative che hanno di se stessi, queste persone sono sempre vigili e attente ai segni e agli indizi di possibili abbandoni (specialmente nei confronti delle percezioni di peggioramento della disponibilità e del supporto del loro partner). Come risultato, sono combattute tra il desiderio di cercare supporto dai loro partners e quello di reagire con rabbia. Esse sono convinte di non aver ricevuto nel passato un sostegno sufficiente dalle loro figure di attaccamento nei momenti di reale bisogno e, come conseguenza, anche nelle relazioni attuali hanno spesso la percezione di ricevere un supporto insufficiente, a meno che non capiti loro di avere dei partners particolarmente capaci di offrire un supporto valido ed esplicito. Tutte queste percezioni negative hanno effetti perniciosi sulla qualità e sul funzionamento delle loro relazioni, particolarmente nel corso di evento stressanti.

Il ruolo dell’ ecografia nello sviluppo della cogenitorialità

Durante la gravidanza, nella fase di transizione alla genitorialità, un ruolo importante viene assunto dal bambino che sta per nascere; la letteratura sulle dinamiche psicologiche in gravidanza evidenzia come durante il corso della gravidanza vi sia un graduale cambiamento nella percezione che i genitori hanno del bambino che viene percepito ad un livello più immaginario all’inizio della gravidanza per poi diventare sempre più concreto con il passare del tempo e soprattutto con i primi movimenti fetali. L’ecografia ostetrica è una procedura diagnostica che, effettuata di routine durante la gravidanza, si inserisce nel processo psicologico dell’attesa, determinando un cambiamento nel processo immaginario dei genitori che si devono confrontare con un’immagine visiva del figlio.

Missonnier (1999) definisce l’ecografia come un rituale di iniziazione alla genitorialità e come una via di accesso privilegiata per accedere alla relazione precoce tra i genitori ed il figlio, infatti l’ecografia può diventare un importante momento di incontro con il bambino, permettendo ai genitori di sviluppare quel legame speciale con il figlio, che da fagiolino o chicco di caffè della prima ecografia, diventerà piano piano bambino e figlio, con un volto ed un’identità propria.

A livello psicologico l’ecografia viene percepita generalmente come un’esperienza positiva, in particolare dalle madri, che oltre ad essere rassicurate sul benessere del bambino ed avere una conferma visiva della realtà della gravidanza, possono condividere il bambino con il marito e con gli altri membri familiari Garcia; inoltre già a partire dal secondo trimestre di gravidanza, dopo avere visto l’ecografia entrambi i genitori iniziano a pensare al feto come al proprio bambino e ad immaginare se stessi come madre e padre.

Attualmente è riconosciuto che le ecografie ostetriche del secondo trimestre di gravidanza sono i principali fattori coinvolti nella formazione del legame materno-fetale (bonding); nell’ultimo trimestre di gravidanza, l’ecografia contribuisce a rinforzare la relazione con il figlio permettendo ai genitori di riconoscere aspetti più specifici del bambino: i movimenti delle braccia e delle gambe, i movimenti che il bambino fa con la bocca e soprattutto i lineamenti del volto (Campbell, 2006).

Le particolari caratteristiche fisiche e morfologiche del volto del bambino -una grande testa sproporzionata rispetto al corpo, una fronte molto ampia e sporgente rispetto al resto del volto, occhi molto grandi rispetto all’ampiezza del viso e guance paffute e sporgenti- costituiscono infattiquello che Lorenz ha definito il prototipo infantile (babyness), un elemento universale che distingue i piccoli della specie e che attrae irresistibilmente gli adulti, assolvendo la funzione di meccanismo innato per indurre i genitori ad occuparsi dei piccoli. Inoltre l’ecografia è condivisibile con il partner, permettendo anche ai padri di accedere al bambino in modo più diretto rispetto alla mediazione del corpo materno e di condividere all’interno della coppia le fantasie coscienti sul figlio. A livello psicologico, l’ecografia ostetrica può essere quindi considerata come un fattore che contribuisce alla transizione alla cogenitorialità, impegnando la coppia in una riorganizzazione delle rappresentazioni mentali del figlio, di se stessi e del partner come genitori, attraverso l’integrazione dell’immagine visiva del bambino.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Zaccagnini, C., Zavattini, G.C. (2005). Transizione alla genitorialità, conflitto coniugale e adattamento del bambino: le relazioni, i processi e le conseguenze. Psicologia clinica dello sviluppo, a. IX, vol.1.
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  • Leveni, D., Morosini, P., Piacentini D. (a cura di). (2009). Mamme tristi. Vincere la depressione post parto. Trento: Erickson.
  • Dellabatola, (2013). Il contributo della psicopatologia ansiosa materna prenatale sul temperamento infantile e la relazione precoce madre-bambino. Tesi di Dottorato.

Representations, attitudes and beliefs of Italian and French undergraduates about University: an empirical study

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Representations, attitudes and beliefs of Italian and French undergraduates about University: an empirical study

Autore: Giorgio Giuseppe Maggiacomo (Alma mater studiorum Università di Bologna)

Abstract

Il presente lavoro si propone di esplorare i contenuti delle rappresentazioni sociali, le credenze e l’atteggiamento associati all’università. Tenendo a riferimento le direttive della Commissione Europea degli ultimi anni per le riforme dei sistemi universitari, abbiamo condotto uno studio comparativo su due sistemi europei, quello italiano e quello francese. Per farlo, abbiamo chiamato a rispondere gli studenti, che sono tra i diretti interessati dei cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi anni. Questo perché la Commissione Europea ha deciso di fondare una nuova forma di economia, che possa rendere l’Europa la potenza economica più grande, un’economia dunque basata sulla conoscenza. In questo contesto, l’università sembra avere un ruolo chiave, essendo il cuore della ricerca scientifica e della formazione permanente. Ancora di più se, come previsto dal modello della Triplice Elica (Etzkowitz, 1983), instaura un legame stretto di scambio con le aziende per produrre quell’innovazione che serve allo sviluppo del territorio. Seguendo l’approccio strutturale di Abric (1993) allo studio delle rappresentazioni sociali, e il modello di Osgood, Suci e Tannenbaum (1957) sulla misura degli atteggiamenti (1975), l’analisi dei dati raccolti ha rivelato che sussistono differenze significative tra studenti italiani e francesi alle dimensioni indagate. Le informazioni qui ottenute aggiungono quindi un tassello importante all’indagine della Commissione Europea (2011) sulle percezioni degli studenti delle riforme dei sistemi universitari.

 

Abstract (English)

This paper aims to explore the contents of social representations, beliefs and attitudes associated to university. Keeping in reference the guidelines of the European Commission of recent years on the reforms of higher education systems, we conducted a comparative study on two European systems, the Italian and the French one. To do this, we called to respond the students who are among the stakeholders of the changes that have occurred in recent years. This is because the European Commission decided to establish a new form of economy that can make Europe the biggest economic power, that is a knowledge-based economy. In this context, university seems to play a key role, being the heart of the scientific research and training. Even more so if, as required by the Triple Helix Model (Etzkowitz, 1983), university establishes a close connection with businesses to produce innovations that need to territory development. Following the Abric’s structural approach (1993) to the study of social representations, and the model of Osgood, Suci and Tannenbaum on the measurement of attitudes (1957), data analyses revealed that there are significant differences between Italian and French students to the dimensions investigated. Information achieved added a dowel to the survey on youth, education and culture, provided by the European Commission (2011), on the students’ perception of the higher education reforms.

Key words: attitudes, beliefs, innovation, social representations, university.

 

 

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Stress: in coppia le donne sono più supportive degli uomini

Gli uomini sarebbero maggiormente sensibili allo stress, il loro e quello della partner, che faticherebbero a gestire diventando più critici, meno supportivi e confortanti.

In coppia le donne sono più supportive degli uomini: è quanto emerge da uno studio condotto a Zurigo grazie al supporto della Swiss National Science Foundation Research Grants.

In particolare gli uomini sarebbero maggiormente sensibili allo stress, il loro e quello della partner, che faticherebbero a gestire diventando più critici, meno supportivi e confortanti, sopratutto quando la partner esprime i suoi sentimenti in termini maggiormente emotivi.

Il team condotto dal dr. Bradbury ha studiato 189 coppie, eterosessuali e soddisfatte delle loro relazioni, che duravano da più di 4 anni. Le coppie sono state divise in tre gruppi sperimentali in cui o l’uomo, o la donna, o entrambi i partners venivano sottoposti a stress.

Ciascuna coppia si trovava in una stanza e veniva filmata dai ricercatori per 8 minuti. Lo stress veniva indotto con dei finti colloqui di lavoro e chiedendo ai soggetti di contare alla rovescia da 2.043 il più velocemente possibile, dicendo loro di ricominciare da capo a ogni errore. Per misurare i livelli di stress, sono stati prelevati campioni di saliva e testati i livelli di cortisolo: i risultati delle rilevazioni hanno mostrato che il test è stato molto stressante per entrambi i partners.

L’analisi delle registrazioni invece ha permesso di verificare le risposte verbali, comportamentali ed emotive allo stress: è stato possibile osservare la presenza o l’assenza di sostegno positivo o negativo di ciascuno nei confronti del partner e la qualità delle interazioni non verbali (ad esempio tenersi per mano o abbracciarsi, o evitare il contatto visivo distraendosi con altri oggetti)

I risultati indicano che in condizioni di non stress sia uomini che donne sono stati in grado di sostenere positivamente il/la partner; ma sotto stress le cose sono cambiate: mentre le donne si sono dimostrate supportive nei confronti dei partner che mostravano ansia e stress, gli uomini hanno prodotto un maggior numero di commenti negativi, mostrandosi quindi meno capaci di interazioni positive supportive con le compagne.

Secondo i ricercatori conoscere il ruolo giocato dallo stress all’interno di questi scenari può essere di aiuto alla coppia: è importante sapere che lo stress può aumentare l’esigenza di essere oggetto di cura di entrambi i membri di una coppia e rendere meno probabile il fatto che uno dei due riceverà il supporto di cui necessita da parte del partner perché lo stress interferisce con la capacità di essere in contatto con le esigenze dell’altro. Alla luce di questo alcune coppie potrebbero addirittura raccogliere la sfida e decidere di cercare attivamente una maggiore vicinanza proprio nei momenti di stress per contrastarne gli effetti negativi sulla relazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

Inside Out & la valenza positiva della tristezza

Non un elogio, ma un’apologia della tristezza che esamina in profondità il suo significato più autentico, ossia l’elaborazione di un evento spiacevole. Se riconosciuta ed accolta, infatti, da segnale critico e negativo questa emozione può rivelare anche la sua azione riparatoria e innovatrice trasformandosi in un potenziale stimolo al cambiamento.

Innumerevoli sono le recensioni sul nuovo capolavoro targato Pixar, ognuna delle quali volta a valorizzare un aspetto peculiare della vicenda narrata dalla pellicola.

La storia della protagonista, l’adolescente Riley che si trova ad affrontare un trasferimento indesiderato in un’altra città a causa del lavoro del padre, diventa il paradigma del funzionamento dei nostri moti interiori e della loro modalità di condizionare i nostri comportamenti.

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out, successivamente di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni mentre la scorsa settimana ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out (NdR).

Tutte le emozioni (Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia), personificate da cinque coloratissimi personaggi che governano la console emotiva di Riley, vengono rappresentate con pari dignità, tutte con una specifica e fondamentale funzione.

Ciò che a parer mio è più apprezzabile di questo lavoro di animazione è però il coraggio con il quale è stata nobilitata la funzione della tristezza. In due momenti precisi l’intervento di Tristezza, tanto osteggiato dalle altre emozioni protagoniste, è l’unico in grado di ristabilire un equilibrio all’interno della situazione determinando un momento decisivo di svolta. Ciò è evidente sia nel momento in cui riesce a validare il vissuto di tristezza dell’amico immaginario Bing Bong accogliendolo senza resistenze e riuscendo così a consolarlo, sia quando riesce, con un crescendo di intensità, a stimolare la reazione di pianto della ragazzina tra le braccia dei genitori, aiutandola così ad esprimere finalmente i suoi sentimenti e i suoi pensieri di preoccupazione. La sua azione catartica è davvero commovente e sorprendente.

 

INTRODUZIONE DELL’EMOZIONE DELLA TRISTEZZA:

  Non un elogio, ma un’apologia della tristezza che esamina in profondità il suo significato più autentico, ossia l’elaborazione di un evento spiacevole. Se riconosciuta ed accolta, infatti, da segnale critico e negativo questa emozione può rivelare anche la sua azione riparatoria e innovatrice trasformandosi in un potenziale stimolo al cambiamento.

Così, dopo qualche fatica, succede a Riley di riuscire, con l’appoggio e il sostegno della famiglia, ad accettare una nuova situazione e ad adattarsi alla nuova vita a San Francisco costruendosi una nuova rete di amicizie e continuando a coltivare i suoi interessi e le sue passioni.

Un film diretto forse più agli adulti che ai bambini per il livello di complessità della rappresentazione dei processi emotivi e cognitivi.

Un edificante monito a desistere dal tentativo di negare le emozioni “negative” necessarie, e talvolta propedeutiche, allo sviluppo di nuovi vissuti e prospettive positive visibili al di là dell’ostacolo.

Amy – The girl behind the name (2015): il documentario sulla vita di Amy Winehouse

Ciò che mi è rimasto maggiormente impresso nella mente dopo la visione di questo bellissimo documentario è la voce di Amy Winehouse. Una voce stridula e vitale, emozionante e simpatica, che nel film, insieme alle tanti immagini non ufficiali, risuona in continuazione contribuendo a definire il profilo umano di Amy.

Dirò forse qualcosa di prevedibile, ma ciò che mi è rimasto maggiormente impresso nella mente dopo la visione di questo bellissimo documentario è la voce di Amy Winehouse. Non solo la voce unica di una cantante dal talento pazzesco (una cantante jazz di 65 anni nel corpo di una ventenne come la definì il mitologico crooner Tony Bennet), ma anche la voce stridula di una ragazzina adolescente che lascia messaggi rabbiosi alla segreteria telefonica del fidanzato, la voce spensierata nei video amatoriali ai party con le amiche, la voce ironica nelle interviste con quell’accento da ragazza ebrea di Camden, resistente ai corsi di dizione. Una voce stridula e vitale, emozionante e simpatica, che nel film, insieme alle tanti immagini non ufficiali, risuona in continuazione contribuendo a definire il profilo umano di Amy.

 

CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO:

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L’altro elemento fondamentale del documentario sono i testi delle canzoni, che la cantante scriveva di suo pugno, e che la proiezione in sovrimpressione rende più apprezzabili rispetto al solo ascolto, quando la bellezza dell’interpretazione dell’artista ti distrae un po’ dai contenuti. I testi delle canzoni, oltre a essere freschi e poetici, sono straordinariamente veri e autentici, pieni di tutte le fragilità, le paure e i desideri affettivi di Amy. Ricorre spesso il tema dell’abbandono (I died a hundred times, you go back to her canta ad esempio in Back to black) e della disillusione (Love is a losing game…), che nella storia di Amy inizia nell’infanzia quando il padre esce di casa e si ripropone da adulta nelle difficili relazioni di coppia.

La scrittura acquisisce per l’artista senza dubbio una funzione catartica e non è un caso che i momenti in cui Amy appaia più serena e in cui non prenda il sopravvento la parte distruttiva, siano quelli in cui si impegna nel lavoro compositivo (in realtà purtroppo ci ha lasciato solo due dischi).

Il documentario mette in luce diversi elementi di rilevanza psichiatrica: l’esordio della bulimia in adolescenza ignorata dai genitori, la prescrizione inefficace di paroxetina all’età di soli tredici anni, la precoce iniziazione alle sostanze con l’abuso di alcol e cannabinoidi, il rapporto distruttivo con il marito e la scoperta di cocaina ed eroina, gli inefficaci percorsi di cure e rehab. Tra le altre cose, certi racconti del primo manager e amico d’infanzia Nick Shymansky (Riesce a farti sentire importante e poi un attimo dopo ti tratta male) rimandano chiaramente ad alcuni aspetti tipici del disturbo di personalità borderline.

 

CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO (Sottotitoli in italiano):

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In un’intervista degli inizi Amy ammette profetica Se dovessi diventare famosa impazzirei, sottolineando come anche il fattore successo abbia avuto un peso sulla sua parabola esistenziale. Le scene in cui Amy viene accerchiata dai fotografi all’uscita di casa o di un locale sono angoscianti e sembra che ogni scatto di flash sia come l’ennesimo colpo a un corpo già traballante. Il successo ha anche contribuito a riavvicinare le due figure maschili più importanti e controverse della vita dell’artista, il padre e il marito, i cui atteggiamenti paiono in tante occasioni più dettati dall’opportunismo che dall’amore. Lascia parecchie perplessità, ad esempio, la scena in cui il padre Mitch si porta dietro una troupe televisiva durante una vacanza nell’isola di Santa Lucia, dove Amy cercava un po’ di quiete dai demoni londinesi.

Credo che il regista sia riuscito pienamente a ritrarre la persona Amy dietro la maschera dell’artista e sono uscito dalla sala provando tanta tenerezza e compassione per la perdita di un grandissimo talento artistico e di una ragazza troppo fragile per sopravvivere al successo nel difficile mondo dello spettacolo.

 

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AMY (2015) TRAILER UFFICIALE #2:

Trattare il dolore cronico: dalla CBT Standard ai nuovi approcci di Terza Ondata

Elena Lo Sterzo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Nota le sensazioni, le emozioni, i pensieri via via che sorgono: ascoltali come ascolti la radio.
Fa attenzione alla qualità della sensazione dolorosa, a come pulsa, alla sua temperatura, a come si modifica,
osservandola attentamente e in profondità attimo per attimo nel suo manifestarsi cosicché forse è possibile
sperimentare che non è un qualcosa di enorme, fisso e spaventoso, ma un
processo in continua trasformazione. Togli l’etichetta «dolore», limitati a
sentirlo profondamente, senza attaccarti ad esso.
nota la rabbia, la paura che sorge e fai esperienza di queste, di come esse si
manifestano nella mente e nel corpo, non come la “mia rabbia/paura” che
porterebbe automaticamente a giudicarsi, a negarla, reprimerla o agirla
contro sé o gli altri, ma come fenomeni che sorgono, occupano uno spazio
temporale e svaniscono. Puoi dire: «questo sono io che ho paura»

J. Kabat-Zinn

A differenza della CBT standard, gli approcci di Terza Ondata si basano sulla promozione dell’accettazione del dolore cronico, piuttosto che sulle strategie per controllare il dolore, così migliorano il benessere emotivo e il coinvolgimento in obiettivi personali non legati al dolore.

Il dolore ricopre la funzione biologica essenziale di segnalare una disfunzione o un danno nel corpo, proteggendoci dai danni che potrebbero conseguire dall’uso eccessivo delle aree colpite, e di promuovere l’omeostasi fisiologica. Quando il dolore, per diversi motivi, diventa cronico, perde le sue funzioni adattive.

Gli interventi psicologici attualmente utilizzati nel trattamento del dolore cronico sono idealmente concepiti come trattamento complementare a quello medico, e si pongono diversi obiettivi: il funzionamento fisico, la gestione dell’assunzione di farmaci antidolorifici, l’umore, gli schemi cognitivi, e la qualità della vita. Il cambiamento nell’intensità del dolore percepito invece, è un obbiettivo secondario.

Per capire le modalità di azione delle terapie psicologiche, è importante mettere a fuoco in quali modi il dolore può influenzare il funzionamento psicologico. Il dolore persistente può contribuire allo sviluppo di pensieri disfunzionali e di comportamenti controproducenti, che peggiorano il funzionamento quotidiano e che a loro volta possono prolungare l’esperienza del dolore. Le persone che soffrono di dolore cronico tendono ad avere una maggiore vulnerabilità a diversi disturbi psichiatrici, tra cui la depressione, l’ansia e il disturbo post-traumatico da stress. Tuttavia, la relazione tra dolore e depressione è bidimensionale: la presenza di un disturbo depressivo maggiore è stata identificata come un fattore di rischio chiave nella transizione da dolore acuto a dolore cronico.

Quali sono i meccanismi psicologici associati allo stress dolore-correlato che sono risultati essere adeguati target di trattamento?

  • La catastrofizzazione del dolore: uno schema mentale cognitivo ed affettivo negativo caratterizzato dall’amplificazione degli effetti negativi del dolore, dalla ruminazione e dal rimuginio sul dolore, e da sentimenti di impotenza nell’affrontarlo. Coloro che tendono a catastrofizzare il dolore risultano avere una minore percezione di controllo del dolore, un funzionamento sociale ed emotivo peggiore, e una peggiore risposta ai trattamenti medici. Trattare i pensieri catastrofici legati al dolore migliora il funzionamento fisico e psicologico nel breve termine ed aumenta la probabilità di ritornare a lavoro nonostante la presenza di dolore persistente.
  • La paura del dolore: riflette un timore di procurarsi una lesione o il peggioramento della condizione fisica, svolgendo attività che possono scatenare dolore. La paura del dolore è associata ad una maggiore intensità del dolore percepito e ad una maggiore disabilità. La paura del dolore contribuisce alla disabilità favorendo dei comportamenti passivi o di evitamento che contribuiscono al decondizionamento fisico e al dolore. Se non viene trattata, può rallentare o bloccare il recupero conseguente alla riabilitazione fisica. La paura del dolore, oltre ad essere un importante target di trattamento, sembra essere un buon predittore della risposta al trattamento stesso: i soggetti che lo temono maggiormente, all’inizio di un trattamento multidisciplinare del dolore, mostrano maggiore responsività alla tecnica dell’esposizione in vivo.
  • Molta attenzione viene data recentemente al modello della flessibilità psicologica, che va oltre il modello paura-evitamento del dolore cronico, ponendo l’accento sull’ accettazione del dolore. La flessibilità psicologica è stata definita come un abilità di impegnarsi nel momento presente, a livello emotivo, cognitivo e comportamentale, nel modo che è più in linea con i propri valori e scopi. Come l’accettazione psicologica, che favorisce un atteggiamento non giudicante verso i propri pensieri e le emozioni stressanti, l’accettazione del dolore è definita come un processo di riconoscimento non giudicante del dolore, di interruzione dei tentativi disfunzionali di controllo del dolore, e di apprendimento a vivere la vita con pienezza, nonostante il dolore. L’accettazione del dolore influenza il funzionamento psicologico attraverso due distinti meccanismi: una disponibilità a provare dolore, che riduce le reazioni emotive negative al dolore, e un continuo impegno in attività importanti per la persona, nonostante la presenza del dolore, che sostiene le emozioni positive. L’accettazione del dolore disgiunge la presenza dei pensieri catastrofici relativi al dolore dalla seguente sofferenza emotiva, e riduce il ricorso a strategie di fronteggiamento basate sul controllo o sull’evitamento, così liberando le risorse cognitive ed emotive per il perseguimento di obbiettivi più gratificanti per la persona. L’accettazione del dolore ha dimostrato di avere associazioni positive con il funzionamento cognitivo, emotivo, sociale ed occupazionale nelle persone che soffrono di dolore cronico. Inoltre, predice livelli inferiori di catastrofizzazione del dolore e una maggiore presenza di emozioni positive, le quali a loro volta riducono l’associazione tra l’intensità del dolore e le emozioni negative.

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) per il dolore cronico ha come target le risposte disfunzionali comportamentali e cognitive al dolore e le contingenze sociali e ambientali che possono modificare la reazione al dolore. La CBT per il dolore sviluppa le abilità di fronteggiamento utili a gestire il dolore e migliorare il funzionamento psicologico, come il rilassamento strutturato, l’attivazione comportamentale e la programmazione di attività piacevoli, la comunicazione assertiva, e la regolazione del comportamento allo scopo di evitare il prolungamento o il peggioramento degli attacchi di dolore. A differenza degli approcci esclusivamente comportamentali, la CBT tratta anche i pensieri disfunzionali riguardo al dolore e la catastrofizzazione del dolore attraverso l’uso formale della ristrutturazione cognitiva: l’identificazione e la sostituzione dei pensieri irrealistici o non utili riguardo al dolore, con pensieri orientati ad un comportamento adattivo e ad un funzionamento positivo.

Secondo una recente metanalisi (Hoffmann et al., 2012) la dimensione dell’effetto della CBT per il dolore cronico è da lieve a moderata in diversi ambiti: ha effetti sul dolore percepito e sul funzionamento nella vita quotidiana comparabili a quelli dei trattamenti medici standard, ma si dimostra superiore nel ridurre la tendenza alla catastrofizzazione del dolore, con miglioramenti a lungo termine della disabilità. I cambiamenti conseguenti al trattamento CBT nel senso di impotenza e nella catastrofizzazione sono gli unici predittori dei successivi cambiamenti nell’intensità del dolore percepito e nell’interferenza del dolore sul funzionamento quotidiano.

Il modello cognitivo-comportamentale è stato recentemente ampliato grazie a due nuove modalità di trattamento: la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR, Kabat-Zinn, 1990) e l’ Acceptance and Committment therapy (ACT, Hayes et al., 1999). A differenza della CBT, questi approcci si basano sulla promozione dell’accettazione del dolore cronico, piuttosto che enfatizzare le strategie per controllare il dolore, così migliorando il benessere emotivo e il coinvolgimento in obiettivi personali non legati al dolore. Anche se questi interventi agiscono entrambi sull’accettazione del dolore, differiscono nella loro implementazione e nell’approccio alla meditazione e alla pratica quotidiana.

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Mindfulness-based stress reduction

Questo approccio cerca di separare l’aspetto sensoriale del dolore dai suoi aspetti valutativi ed emotivi, e di promuovere una consapevolezza distaccata delle sensazioni somatiche e psicologiche del corpo. Attraverso la consapevolezza mindful e la meditazione, i pensieri relativi al dolore possono essere visti come eventi discreti piuttosto che come indicatori di un problema sottostante a cui bisogna dare una risposta immediata. Gli interventi MBSR sono tradizionalmente stati strutturati come sessioni settimanali di 2 ore, per 10 settimane, che sviluppano la consapevolezza del corpo e dei segnali propriocettivi, la consapevolezza del respiro e delle sensazioni fisiche e lo sviluppo di attività mindful (come mangiare e camminare). La MBSR promuove la mindfulness attraverso pratiche di meditazione quotidiana, che sono un requisito fondamentale del trattamento: il tasso di aderenza a queste pratiche sembra essere lievemente superiore a quello delle tecniche di gestione comportamentale del dolore. I meccanismi sottostanti agli interventi MBSR efficaci sono simili alla desensibilizzazione del dolore, in quanto le meditazioni prevedono esercizi da seduti, senza movimento, che espongono i partecipanti a sensazioni dolorose, sperimentando l’assenza di conseguenze catastrofiche. Gli interventi MBSR possono quindi funzionare come l’esposizione in vivo ma con l’obiettivo aggiuntivo di aumentare la tolleranza alle emozioni negative, per favorire risposte più adattive al dolore. Una differenza sostanziale con la CBT è che questa lavora al raggiungimento di obiettivi, come ad esempio un maggiore rilassamento o una diversa reazione emotiva o comportamentale, mentre la MBSR non prescrive obiettivi specifici, volendo raggiungere una condizione di osservazione non giudicante.

La MBSR si è dimostrata efficacie nel trattare i sintomi medici e psicologici, l’intensità del dolore, nel migliorare le strategie di fronteggiamento dello stress e del dolore, e tali benefici possono durare fino a 4 anni dopo l’intervento. Questo approccio ha dato buoni risultati in diversi gruppi di pazienti con dolore cronico, come ad esempio soggetti con la sindrome del colon irritabile, con dolore al collo, emicrania, fibromialgia, e dolore muscolo scheletrico cronico. Riduce inoltre i sintomi depressivi in soggetti con fibromialgia, e potenzia l’effetto dei trattamenti multidisciplinari nel ridurre la disabilità, l’ansia, la depressione e la catastrofizzazione. Gli studi di metanalisi evidenziano da lievi a moderati effetti di questo approccio sull’ansia, sulla depressione e sullo stress psicologico in pazienti con dolore cronico.

Acceptance and commitment therapy (ACT)

La ACT adotta un approccio teorico secondo cui i pensieri non devono essere affrontati o cambiati: piuttosto, le risposte ai pensieri possono essere modificate in modo da minimizzare le loro conseguenze negative. Gli interventi ACT migliorano il benessere attraverso la conoscenza ed il riconoscimento sostanziale e non giudicante degli eventi mentali (pensieri ed emozioni), promuovendo l’accettazione di questi eventi, ed aumentando le abilità dell’individuo di rimanere presente e consapevole dei fattori psicologici e ambientali rilevanti per il sé; nel fare ciò, le persone sono capaci di regolare il loro comportamento in modo che esso sia in linea con i loro scopi e valori, piuttosto che focalizzarsi sul sollievo immediato dalle sensazioni fisiche, dai pensieri e dalle emozioni spiacevoli. Nel trattamento del dolore, l’ACT propone il raggiungimento di una consapevolezza ragionata e dell’ accettazione del dolore, riducendo l’attenzione alla diminuzione del dolore o ai contenuti dei pensieri e piuttosto impiegando energie per mettere in atto dei comportamenti funzionali e soddisfacenti. L’ACT condivide molti concetti teorici della MBSR, poiché entrambe hanno l’obiettivo di promuovere una mentalità mindful e l’accettazione del dolore ma la differenza è che l’ACT non utilizza meditazioni quotidiane: si focalizza piuttosto sull’identificazione dei valori e degli scopi della persona, che devono servire per guidare il suo comportamento. I trattamenti basati sull’ACT hanno mostrato dei benefici su diversi fattori psicologici (senso di auto-efficacia, depressione, ansia) in molti gruppi di pazienti con dolore cronico. Alcuni studi di interventi ACT per il dolore cronico hanno riportato una dimensione dell’effetto da moderato a grande nel migliorare l’ansia e lo stress legati al dolore e la performance fisica, e nel ridurre la disabilità e il numero di visite mediche, con minori effetti invece sull’intensità del dolore percepito e sulla depressione.

Un recente ricerca di Akerblom e colleghi (2015), ha indagato se il fattore accettazione del dolore fungesse da mediatore nel determinare l’esito di un trattamento multidisciplinare di approccio CBT per pazienti con dolore cronico. Sono stati valutati anche altri tre importanti mediatori, spesso considerati come variabili di processo nei trattamenti CBT: il senso di controllo sulla propria vita, lo stress emotivo e il supporto sociale. E’ emerso che l’accettazione del dolore non era associata all’intensità del dolore percepito post-trattamento, ma costituiva invece il mediatore più forte dell’esito, misurato come interferenza del dolore e depressione, controllando per i suddetti mediatori valutati. Interessante notare questa importante influenza del fattore accettazione, pur non essendo stato il target esplicito di trattamento.

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Trattare il dolore cronico dalla CBT Standard ai nuovi approcci di Terza Ondata - Vignetta Cavezzali
M. Cavezzali: I dolori del giovane Werther

 

I professionisti coinvolti nel trattamento del dolore cronico devono essere consapevoli della importante eterogeneità dei pazienti con questa problematica, così come dei molti diversi fattori che possono predire la risposta al trattamento. Turk (2005) ha proposto ha individuato 3 sottogruppi di soggetti che presentano diversi pattern di risposta al trattamento: i pazienti ‘disfunzionali’, che riportano alti livelli di interferenza del dolore e dello stress ad esso associato nella vita quotidiana; i pazienti ‘stressati a livello interpersonale’, che riportano una mancanza di supporto dalle persone care nel fronteggiare il dolore; e gli individui che sono ‘funzionali’ nel fronteggiare il dolore, che riportano livelli sensibilmente più alti di funzionamento e supporto sociale percepito e livelli inferiori di disfunzioni legate al dolore. Da studi successivi è emerso che i pazienti ‘disfunzionali’ dimostrano una maggiore risposta al trattamento multidisciplinare che preveda anche un percorso psicologico, rispetto ai soggetti ‘stressati a livello interpersonale’. Può essere quindi utile identificare a quale sottogruppo di pazienti appartiene il soggetto da prendere in carico, utilizzando strumenti come il Multidimensional Pain Inventory (Ferrari et al., 2000) e tramite un assessment dettagliato dell’intensità del dolore percepito e della disabilità ad esso connessa. Inoltre, la disponibilità e prontezza del paziente ad adottare un approccio di auto-gestione del dolore cronico, sembra avere una ricaduta significativa sull’esito del trattamento. I pazienti che sono in ancora in una fase di precontemplazione (facendo riferimento alla Ruota del Cambiamento di Prochaska e Di Clemente, 1984) possono beneficiare maggiormente di terapie basate sull’insight, diversamente da quelli che sono in una fase di azione, che possono ricavare maggior beneficio da tecniche basate sul rilassamento e altre strategie attive di fronteggiamento. Un questionario utile per valutare questa disposizione del paziente è il Pain Stages of Change Questionnaire (Monticone et al., 2014).

La combinazione tra diverse modalità di trattamento psicologico e con altri interventi di tipo medico, può costituire il passo logico successivo nel migliorare gli esiti dei trattamenti per il dolore cronico. La creazione di un approccio flessibile e orientato ad obbiettivi precisi, come ad esempio l’ACT, può incrementare il coinvolgimento e l’aderenza al trattamento nella CBT. Inoltre, la combinazione dell’esposizione graduale in vivo con l’ACT può portare maggiori benefici nel trattare la paura del dolore e i conseguenti sintomi ansiosi (Bailey et al., 2010).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Le prime relazioni del bambino. Dalla nascita a due anni, i legami fondamentali per lo sviluppo (2015) – Recensione

 

In un mare magnum di letteratura (per addetti ai lavori e divulgativa, con differenti livelli di credibilità scientifica) relativa allo sviluppo dei bambini fino ai 5/6 anni, Lynne Murray – Professoressa di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Reading (UK) – propone un prezioso testo con l’obiettivo di fornire una panoramica sullo sviluppo psicologico del bambino nei primi due anni di vita. In questo periodo di sviluppo, infatti, si assiste a una rapida crescita fisica, cognitiva e “interpersonale” del bambino che corrisponde anche a diversi “livelli” di interazione (e difficoltà) con le figure di accudimento.

Il primo capitolo del manuale è dedicato allo sviluppo sociale del bambino. Tale argomento rappresenta un aspetto cruciale del libro e risulta avere molteplici implicazioni sia dal punto di vista del bambino che delle figure di accudimento. Il bambino, infatti, mostra una naturale propensione alle relazioni e, nel corso dei primi due anni di vita, si può osservare una graduale e continua modificazione delle modalità con cui si relaziona ai genitori e agli altri bambini. Tali cambiamenti vengono percepiti dai genitori che, generalmente in maniera del tutto naturale, compiono delle “correzioni sintoniche” che facilitano e promuovono tali mutamenti.

Nel secondo capitolo, invece, l’attenzione dell’autrice si focalizza sulla natura della relazione di attaccamento/accudimento tra genitori e bambino. Tale relazione costituisce l’alveo nel quale il benessere del bambino si sviluppa e rappresenta, quando ben “sintonizzata”, un fattore protettivo che consente la diminuzione del rischio di sviluppare future problematiche comportamentali e affettive. Le difficoltà di “sintonizzazione”, infatti, possono rappresentare delle problematiche complesse da individuare e trattare. A tal proposito, infatti, l’autrice pone l’accento sulla formazione e gli alti standard qualitativi che dovrebbero contraddistinguere le strutture e il personale impegnato nel lavoro con questa delicata fase di crescita (dagli asili nido ai centri di aiuto per genitori in difficoltà).

Altra fase cruciale nello sviluppo psico-fisiologico del bambino è la regolazione emotiva. Il terzo capitolo è dedicato a questo complesso argomento e a come i genitori influiscano su tale processo. Il bambino, infatti, tende a regolare le proprie esperienze emotive in maniera naturale ma, in un ambiente emotivo di sostegno, affetto e prossimità dei genitori (anche attraverso il contatto corporeo), tale processo viene favorito e “guidato”. L’autrice si sofferma anche sulla gestione dei comportamenti “difficili” (i.e., esteriorizzanti e interiorizzanti) e sulla gestione efficace degli stessi attraverso esemplificazioni grafiche dei momenti “critici” (e.g., comportamenti oppositivi, l’addormentamento, i comportamenti di ribellione).

L’ultimo capitolo è focalizzato sullo sviluppo cognitivo del bambino e su tutte le abilità (motorie, attentive, del linguaggio ecc.) che ne facilitano la crescita. Ad esempio, attività come la lettura condivisa – adattata a seconda dell’età – sostiene fortemente tale sviluppo e permette, contemporaneamente, l’implementazione delle abilità di concentrazione e attenzione condivisa. In questo caso, così come sottolineato più volte nel manuale, è la “qualità” più che la “quantità” dell’attività svolta a rendere efficace la pratica e a garantire un miglioramento maggiormente significativo dell’abilità appresa.

La psicopatologia correlata alla crescita non rappresenta il punto focale del libro ma, dopo un’attenta lettura e grazie all’utilizzo di una cospicua mole di immagini, il lettore potrà avere una chiara idea di cosa potrebbe “non funzionare” nel rapporto con il proprio bambino. Questo aspetto risulta essere, a mio avviso, di particolare importanza e rappresenta un’eccezione degna di nota nel panorama dei manuali dedicati a questa fascia di età dello sviluppo. L’autrice, in questo modo, rende possibile una maggiore comprensione delle dinamiche descritte – diadiche e non – a un pubblico non esclusivamente di “addetti ai lavori” che potrà beneficiarne sia per la comprensione degli aspetti psico-biologici sottostanti a determinati comportamenti, sia per implementare il proprio apporto alla crescita cognitivo-affettiva del bambino stesso.

 

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Autore:

Dott. Walter Sapuppo
Psicologo, Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale, AAI Certified Coder. Docente presso le scuole di psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca e docente presso la Sigmund Freud University, Milano. Socio della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e della Society for Psychotherapy Research (SPR).

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Murray L. (2015), Le prime relazioni del bambino. Dalla nascita a due anni, i legami fondamentali per lo sviluppo. Milano: Raffaello Cortina Editore.

 

Un collirio per contrastare le malattie neurodegenerative?

 

Una speciale soluzione oftalmica potrebbe essere impiegata con successo nella cura delle patologie neurodegenerative. Lo studio è stato condotto su modello animale, e se si rivelasse efficace sull’uomo avrebbe delle implicazioni notevoli.

Una speciale soluzione oftalmica potrebbe essere impiegata con successo nella cura delle patologie neurodegenerative. Questa la scoperta di un team di ricercatori dell’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Ibcn-Cnr), coordinato dalla dottoressa Paola Tirassa. Lo studio è stato condotto su modello animale, e se si rivelasse efficace sull’uomo avrebbe delle implicazioni notevoli nel trattamento di patologie quali l’encefalopatia diabetica, l’infiammazione cronica o danni da agenti chimici.

La ricerca, pubblicata sulla rivista European Journal of Neuroscience, dimostra come la somministrazione di gocce oculari, contenenti NGF (acronimo di Nerve growth factor), sia in grado di ridurre gli effetti del danno neuronale, stimolando la produzione di nuovi neuroni da parte delle cellule progenitrici presenti nel cervello. L’ NGF è il fattore responsabile della crescita delle cellule nervose scoperto dal Premio Nobel Rita Levi Montalcini, che ne individuò per prima le capacità riparative e rigenerative.

La terapia oculare risulta efficace in quanto le gocce consentono di superare la barriera retinica e raggiungere le aree cerebrali, contrastando gli effetti degenerativi causati dai danni cerebrali. Lo studio dell’Ibcn-Cnr rappresenta dunque la base per lo sviluppo di terapie non invasive per la cura delle malattie neurodegenerative.

La ricerca ha consentito inoltre di far luce sui meccanismi biologici coinvolti nello sviluppo delle connessioni e delle strutture cerebrali, individuando nella zona subventricolare (SVZ, SubVentricular Zone) dei ventricoli laterali la principale zona d’azione del NGF. Quest’area è considerata infatti la più ricca fonte di cellule progenitrici; queste, se stimolate dal fattore di crescita contenuto nel collirio, generano nuovi neuroni che vanno a rimpiazzare quelli lesionati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dipendenza da sigarette? Colpa dell’insula!

Sabrina Guzzetti

 

Nuove evidenze suggeriscono che la corteccia insulare può giocare un ruolo importante nei processi cognitivi ed emozionali che portano all’uso di droghe e alla dipendenza, specie per quanto riguarda la nicotina.

Questa la scoperta pubblicata sulla rivista Addictive Behaviors da un gruppo di ricerca dell’Università di Rochester, negli Stati Uniti. La nicotina, il principale composto del tabacco, agisce da rinforzo positivo al consumo di sigarette e ne induce la dipendenza, i cui fenomeni, quali assunzione compulsiva e stereotipata, astinenza e tolleranza, sono del tutto assimilabili a quelli provocati da alcol, eroina e cocaina.

Secondo il Dr. Amir Abdolahi, primo autore dello studio e PhD e ricercatore presso il Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica, una regione del cervello chiamata corteccia insulare può essere la chiave per il trattamento di questa forma di dipendenza. L’insula è una porzione della corteccia cerebrale che si trova profondamente all’interno della scissura che separa il lobo temporale da quello frontale e che può essere selettivamente danneggiata dalle lesioni ischemiche che si verificano a seguito di un ictus. I ricercatori, per studiare il suo ruolo nella dipendenza da sigarette, hanno reclutato una coorte di 156 fumatori attivi ricoverati per ictus ischemico presso tre diversi ospedali di Rochester, 38 dei quali con lesione insulare.

Il loro pattern di consumo di sigarette ed i loro sintomi di astinenza sono stati monitorati sia durante il periodo di ospedalizzazione, sia nei tre mesi successivi alla dimissione. Dai risultati è emerso che il tempo medio intercorso tra l’evento ictale e la prima ricaduta è stato decisamente più lungo per il gruppo di pazienti che presentava un interessamento dell’insula rispetto al gruppo di pazienti con ictus in altre regioni cerebrali (17,5 vs 10,4 giorni). Inoltre, tra chi ha smesso diligentemente di fumare, la lesione all’insula è anche associata a minori sintomi di dipendenza, quali irritabilità, ansia, difficoltà di concentrazione, aumento di fame, tristezza, disturbi del sonno e il cosiddetto craving, l’incontrollabile forte desiderio di assumere la sostanza.

Infine, la lesione insulare è stata associata ad una probabilità doppia (70% vs 37%) di interrompere l’assunzione di qualsiasi prodotto alla nicotina. Questa scoperta propone l’insula come un target potenziale per le terapie anti-fumo, sia in termini dello sviluppo di nuovi farmaci che agiscano specificamente su questa parte del cervello, sia rispetto all’utilizzo di tecniche come la Stimolazione Cerebrale Profonda o altre metodiche non invasive di stimolazione cerebrale, come la Stimolazione Magnetica Transcranica o la Stimolazione Transcranica a Corrente Diretta.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il provocatore Parte Prima – Tracce del Tradimento Nr. 24

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXIV: il provocatore Parte Prima 

 

Lo scopo che muove il provocatore è del tutto opposto a quello che anima il codardo. Entrambi vogliono produrre un cambiamento della situazione ma mentre il codardo vuole un cambiamento da cui il coniuge sia escluso, il provocatore vuole un cambiamento nella relazione con il coniuge.

In fondo vorrebbe limitarsi a testare l’interesse del coniuge nei suoi confronti perché ritiene che sia diminuito con il passare del tempo e a sollecitarlo di nuovo. Notoriamente si può desiderare solo ciò che non si ha o ciò che si teme di poter perdere; anche le cose che più ci sono indispensabili, come l’acqua e l’aria, non sono oggetto di desiderio quando sono disponibili, e perciò non ci rendiamo conto della loro importanza e non passiamo il tempo a tesserne le lodi. Tuttavia è sufficiente che si prospetti una possibile carenza per riaccendere un vivo interesse per loro, per farci sentire uno struggente desiderio e per indirizzare tutte le nostre azioni alla conquista di questi beni indispensabili.

In amore succede pressappoco la stessa cosa. In una fase iniziale, che viene normalmente definita innamoramento, l’altro, la sua presenza, il suo desiderio di stare con noi e di rimanervi sono tutt’altro che scontati; possono scomparire da un momento all’altro così come sono arrivati; non v’è certezza sulla solidità, intensità e durata del rapporto e questo accende il desiderio per qualcosa che si è intuito essere meraviglioso ma che non si sa se lo si potrà davvero avere e per quanto tempo e indirizza tutte le azioni verso il consolidamento del rapporto. Paradossalmente quando il rapporto è consolidato e magari certificato con un contratto matrimoniale il desiderio si attenua, quasi scompare e sia il desiderato che il desiderante non lo avvertono più.

In realtà non si tratta di un paradosso; pur se la percezione dell’altro come qualcosa di meraviglioso permane (il che non sempre accade quando si passa da una fugace e saltuaria frequentazione alla quotidianità della convivenza che trasforma il partner amoroso in un compagno di decisioni sulla quotidianità), quello che viene a mancare è il secondo ingrediente indispensabile per il desiderio: l’incertezza sulla disponibilità dell’oggetto desiderato. La disponibilità illimitata e la facilità all’accesso rendono qualsiasi bene prezioso non psicologicamente desiderabile, anche se costantemente utilizzato e ritenuto indispensabile. Per sentire di nuovo il desiderio occorre immaginare o sperimentare la possibilità di una perdita. Il provocatore è preoccupato e mosso proprio da questa avvertita mancanza di desiderio che erroneamente scambia per mancanza di interesse e dunque di amore.

Il provocatore è preoccupato sia della mancanza di desiderio del partner che della sua e la soluzione che intravede è quella di mettere in forse il rapporto, di rendere incerto e angosciante quello che sembrava certo e scontato. La soluzione sembra essere l’entrata in scena di un amante che tuttavia è elemento utile ma non indispensabile; quello che è indispensabile è il diffondersi tra i due del timore di una possibile perdita. In realtà l’essenziale non è l’amante ma le tracce! Sono le tracce che attivano il processo per cui ognuno sente la probabilità della interruzione del rapporto: da un lato il coniuge si sente minacciato per la possibilità di essere sostituito dall’amante e dall’altra il provocatore sente che potrebbe essere scoperto e lasciato: per entrambi dunque quello che era scontato cessa di esserlo. L’amante è un particolare ininfluente seppure piacevole, è al servizio della coppia perché il provocatore non ha nessuna seria intenzione di costruire con lui una nuova storia, il suo ruolo è, banalmente, quello di far ingelosire il coniuge.

Romano quando raccontava delle sue frequenti avventure extraconiugali aveva la faccia furbetta di un bambino che ha appena rubato la marmellata ed ha la consapevolezza di averla fatta grossa, la paura di essere scoperto e la quasi certezza di essere perdonato. La cosa che colpiva gli amici che lo ascoltavano era che parlava più della moglie che dell’amante di turno. Ogni cosa era in relazione a lei e venivano meticolosamente descritte le sue perplessità, i controlli, le esplosioni di gelosia, le sospettosità e gli stati d’animo di apprensione che tutto ciò creava in lui.

Talvolta l’amante non esiste neppure e le tracce vengono lasciate soprattutto mostrandosi distratti, disattenti, elusivi; certamente avere un amante facilita il compito e rende più reale la partita e dunque più rischiosa e stuzzicante. Tuttavia l’amante è scelto senza troppa attenzione, le caratteristiche che deve avere sono di essere facilmente disponibile senza richiedere un eccessivo impegno per conquistarlo e non avere aspettative troppo forti sulla nascente relazione in modo da poter essere liquidato senza troppe difficoltà.

È l’amante che sta al servizio della coppia, che serve a ravvivarne il desiderio; è lui il vero escluso, quello che uscirà dolorante da tutta la vicenda. In genere il provocatore chiarisce subito, per non avere difficoltà in futuro e per non generare illusioni, quali siano le sue intenzioni a lunga scadenza: “per quanto ti ami non potrò mai lasciare la mia famiglia (meglio se si può mettere in prima linea l’amore per i figli)” detto in altre parole “il nostro rapporto si iscrive all’interno di una relazione stabile e solida che è quella con il mio coniuge e ad essa è sottomesso e strumentale”.

A volte il tradimento è semplicemente una storiella allo stato iniziale o addirittura soltanto una ipotesi possibile ancora non verificata; il nostro provocatore non ha disinvestito dal rapporto originale e dunque non ha tempo da perdere in ulteriori investimenti. Con ciò non vogliamo dire che la vicenda con l’amante non possa essere piacevole e passionale, anzi normalmente lo è e ciò conferma al nostro provocatore che quelle sono le caratteristiche dell’amore che deve ricreare anche nella storia per lui veramente importante, quella con il coniuge. “Tu mi puoi perdere, io ti posso perdere” questo è il messaggio che il provocatore vuole dare e che attiva il reciproco desiderio.

Egli non sa dare valore ad un rapporto stabile e tranquillo dove non essendoci sommovimenti non esistono neppure forti emozioni; egli misura l’importanza dell’altro ed il coinvolgimento dall’intensità delle emozioni suscitate. Spesso queste persone hanno bisogno per tutta l’esistenza di una relazione parallela alla relazione principale per far sentire quest’ultima sempre precaria ed in pericolo e dunque sempre in bilico. E mantenere vivo il legame che altrimenti non saprebbero esplorare. Anche e soprattutto in questo caso il prezzo maggiore lo pagherà l’amante che rischia di restare in una situazione di stand by non vivendo una esistenza propria se non nell’attesa che finalmente il suo partner lasci il coniuge: uno strumento per mantenere precarietà e vivacità al rapporto fondamentale che in fondo non è mai stato in discussione.

Una storiella apparsa in forma di vignetta sul “New Yorker”, ben descrive la marginalità dell’amante in questa situazione. Un uomo e una donna curvi e malinconici inquadrati sotto un lampione nella notte, erano stati amanti per tutta la vita. Lui era rimasto vedovo da poco più di un anno e non si era ancora ripreso dal dolore provato, lei era rimasta paziente ad aspettarlo tutta una vita, la sua unica vita.

D’un tratto lei dice a lui: “Tesoro, perché non ci sposiamo ora?
E lui, meravigliatissimo: “Ma chi? Noi due?
Lei: “Si, noi due perché cosa ci sarebbe di strano?
Lui, sempre più incredulo: “Ma alla nostra età…
Lei incalzante: ”Si alla nostra età, che c’è di male?
Lui, rassegnato: “Ma alla nostra età chi vuoi che ci prenda!”

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Ce la posso fare! La self-determination theory e l’importanza della motivazione

 

Elaborata dagli psicologi Deci e Ryan dell’Università di Rochester (USA), la Self Determination Theory è una teoria della motivazione (Deci e Ryan, 1985) che spiega quanto sia importante, per la crescita personale e l’autostima, non solo svolgere attività nelle quali ci sentiamo bravi e competenti, ma anche e soprattutto scegliere di fare qualcosa che ci piace, sulla base di valori personali e obiettivi da raggiungere. In poche parole, compiere scelte autonome.

Quando le persone sono libere di scegliere, si sentono più motivate.
Questa ipotesi ha trovato riscontro in un esperimento condotto dai due studiosi. Si invitavano alcuni soggetti che si trovavano in una sala d’aspetto, a fare ciò che volevano (gruppo di controllo) e altri a leggere le riviste messe a disposizione sul tavolo (gruppo sperimentale). Gli esiti dell’esperimento hanno dimostrato che i soggetti “forzati” a leggere, senza poter fare altro, hanno reagito con scarsa concentrazione, fastidio e diminuzione di interesse durante l’attesa. Al contrario, i soggetti lasciati liberi di scegliere come passare il tempo, ad esempio parlando tra di loro, o leggendo il giornale per libera scelta, hanno manifestato una concentrazione maggiore nell’attività e più tolleranza all’attesa.

Questo esperimento suggerisce che l’essere pilotati nelle scelte, riduce la motivazione intrinseca intesa come autodeterminazione, in quanto si percepisce un senso di controllo esterno.

L’ambiente sociale (ad es. la famiglia o la scuola) può incoraggiare l’autodeterminazione attraverso il soddisfacimento di tre bisogni psicologici fondamentali: competenza, autonomia e relazione (De Beni, Carretti, Moè e Pazzaglia 2014). Questi tre bisogni sono presenti sin dalla nascita. Il primo riguarda il sentirsi capaci, il secondo le scelte autonome e il terzo la costruzione di legami sociali positivi. Purtroppo non sempre questi bisogni trovano un modo per esprimersi. Si pensi all’adulto che fa credere al bambino di non possedere le qualità adatte per seguire un percorso o di essere “non portato”. Un ulteriore fattore che abbassa la percezione di autodeterminazione è il tempo limite, cioè la scadenza: accresce l’ansia e porta le persone a concentrarsi sul risultato, trascurando il contenuto dell’esperienza (emozioni, obiettivi e così via).
Secondo Deci e Ryan (2000) fornendo sostegno all’autonomia, si raggiungono forme di motivazione intrinseca, il motore di ogni attività svolta con fiducia e passione. Gli studiosi hanno proposto un modello di sviluppo dell’autoregolazione, che pone l’autodeterminazione lungo un continuum:

La self-determination-theory

Il concetto di autoregolazione è molto importante dal punto di vista motivazionale. Essa si riferisce al controllo dei risultati che via via si ottengono durante lo svolgimento di un’attività, gestendo le varie fasi del processo: la pianificazione, il controllo e la valutazione del proprio comportamento rivolto a uno scopo, modificandone il contesto e apportando degli aggiustamenti se necessario.
La regolazione esterna riguarda rinforzi o minacce di punizione: la scelta è strumentale a qualcos’altro (ad es. un premio);
la regolazione introiettata consiste nel fare qualcosa con autocontrollo, senza che ancora venga sentita come parte di Sé;
la regolazione per identificazione richiama valori in cui si crede (ad es. un obiettivo);
la regolazione integrata, per cui l’attività viene svolta come fosse espressione del Sé. A questo punto dello sviluppo il locus è sicuramente interno.

Quando siamo profondamente concentrati in un’attività che ci appassiona, si verifica quella che prende il nome di “esperienza di flusso” (Csikszentmihalyi e Csikszentmihalyi, 2006), non esiste nient’altro che l’attività, si crea una sorta di fusione tra l’attività e il Sé, laddove si possono esplicare le abilità senza tante difficoltà, dimenticandosi del tempo che scorre.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Csikzentmihalyi, M. e Csikzentmihalyi, I.S. (2006), A life worth living: contributions to positive psychology, New York, Oxford University Press
  • De Beni, R., Carretti, B., Moè, A., Pazzaglia, F. (2014). Psicologia della personalità e delle differenze individuali. 2.ed. Bologna: Il Mulino
  • Deci, E. e Ryan, R. (1985). Intrinsic motivation and self-determination in human behaviour. New York, Plenum Press

Gambling e Parkinson: è solo un riflesso della terapia dopaminergica?

Giovanni Mansueto, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Il Disturbo da Gioco d’Azzardo (Gambling Disorder) è un comportamento di gioco problematico persistente e ricorrente caratterizzato da: bisogno di giocare d’azzardo con quantità crescenti di denaro al fine di raggiungere lo stato di eccitazione desiderata, elevati livelli di irritabilità associati a tentativi di interruzione del gioco, incapacità di ridurre o controllare l’attuazione di tale condotta, nonché compromissione clinicamente significativa del funzionamento sociale e lavorativo (APA, 2013).

Il gambling può configurarsi come condizione clinica primaria oppure come quadro clinico secondario a disturbi psichiatrici (Johansson, Grant, Kim, Odlaug & Go¨testam, 2009) o neurologici tra cui la Malattia di Parkinson (MP) (Santangelo, Barone, Trojano, & Vitale, 2013).
Studi prospettici stimano tassi di prevalenza del Disturbo da Gioco d’Azzardo in popolazione di pazienti con MP tra 2-7%, sebbene, si ritiene sia una sottostima della reale portata del fenomeno dovuta alla presenza di bias metodologici nonché ad uno scarso insight di pazienti parkinsoniani rispetto alle conseguenze sociali dei loro comportamenti (Santangelo et al., 2013).

Quali siano i possibili processi alla base dell’associazione “Gambling-Parkinson” è oggetto di uno stimolante e controverso dibattito tra gli esperti del settore.
Uno primo aspetto che accomuna gambling e Parkinson è rappresentato dalla condivisione del medesimo processo patofisiologico, ovvero la presenza, in entrambi i quadri clinici, di un’alterazione nella regolazione della dopamina (Santangelo et al., 2013). In funzione di ciò nella malattia di Parkinson, generalmente, il gambling è considerato un effetto secondario della terapia dopaminergica (Voon et al., 2006; Weintraub et al., 2006; 2010).
Tuttavia, dato che solo una minima parte di pazienti trattati con dopamina agonisti (DA) presentano sintomi legati al gambling o ad altre forme di disturbo di controllo degli impulsi, la terapia dopaminergica potrebbe rappresentare un trigger per l’esacerbazione di sintomi non motori, tra cui il gambling, in pazienti con specifici fattori di vulnerabilità (Santangelo et al.,2013), piuttosto che esserne l’unica determinante. Diverse evidenze sembrano dar forza a questa ipotesi.

Secondo recenti studi, l’insorgenza di comportamenti legati al gioco patologico in pazienti parkinsoniani in trattamento DA è frequentemente associato con fattori di rischio gambling-specifici simili a quelli riportati nella popolazione generale, ovvero, tratti di personalità quali la ricerca di novità (novelity seeking) e l’impulsività (Santangelo et al.,2013).
Ulteriori fattori di vulnerabilità, nei pazienti parkinsoniani, per l’insorgenza di comportamenti di gioco patologico sono rappresentati dal genere (maschi), la giovane età di insorgenza del Parkinson, presenza di storia familiare o personale di problemi di gioco, uso di alcool e abuso di sostanze [Lim, Evans & Miyasaki, 2008; Weintraub, 2009; Gallagher et al., 2007].

Inoltre, la Malattia di Parkinson appare caratterizzata dai medesimi correlati cognitivi riscontrati nei giocatori patologici, in particolare bassi livelli di decision making (Santangelo et al., 2013), ossia i pazienti parkinsoniani con gioco patologico sono caratterizzati da una scarsa capacità di decision-making e ridotta flessibilità cognitiva rispetto a pazienti parkinsoniani non gambler. Nonostante l’esigua quantità di studi sui correlati cognitivi legati al gioco nei pazienti parkinsoniani, si ipotizza che deficit cognitivi e alterazioni a livello fronto-striatale e del circuito limbico possano contribuire all’esordio e mantenimento di comportamenti compulsivi e perseveranti tra cui il Gambling (van den Heuvel et al., 2010).

Un’ulteriore difficoltà nel tentativo di chiarire la relazione tra gambling e Parkinson, è rappresentata dalla frequente comorbilità della malattia di Parkinson con disturbi d’ansia e dell’umore (Cosci, Fava & Sonino, 2015) i quali rappresentano, a loro volta, potenti trigger per il disturbo da gioco d’azzardo (Raylu & Oei, 2002; Johansson et al., 2009; Mansueto et al., 2015).

Infine, studi sulla suscettibilità genetica per il gambling nei pazienti con malattia di Parkinson ipotizzano una possibile associazione del gambling con il gene DRD3 (Santangelo et al., 2013). D’altra parte tali studi sono limitati e tendenzialmente eseguiti su campioni con bassa numerosità.
In conclusione, l’ipotesi che il gambling nella Malattia di Parkinson sia unicamente uno dei possibili effetti secondari della terapia dopaminergica rappresenta una posizione semplicistica che offre pochi spazi di intervento clinico. Diversamente è più utile e funzionale alla pratica clinica considerare il gambling, nell’ambito della malattia di Parkison, come il risultato di una complessa interazione tra terapia dopaminergica e specifici fattori di vulnerabilità quali tratti di personalità, comorbilità psichiatrica, uso di sostanze, deficit cognitivi, familiarità, fattori genetici.

Alla luce di ciò, a livello clinico, diventerebbe essenziale in contesti di neurologia prevedere uno scrupoloso screening che tenga conto anche dei suddetti fattori di vulnerabilità al fine di:
(a) favorire un’agile identificazione precoce di pazienti maggiormente vulnerabili all’insorgenza di sintomi gambling-correlati;
(b) adeguata pianificazione della terapia dopaminigerica;
(c) pianificazione di intervento di supporto psicologico.

Alcuni dei suddetti fattori di vulnerabilità, tra cui personalità, disturbi dell’umore/ansia, deficit cognitivi, rappresentano un terreno fertile per interventi di psicoterapia cognitiva nel Parkinson, aprendo lo scenario verso nuove e possibili modalità di gestione della malattia di Parkinson rappresentato da una potenziale sinergia tra terapia dopaminergica e Psicoterapia Cognitiva.
Tuttavia ulteriori studi sono necessari per chiarire la complessa relazione tra Gambling e Malattia di Parkinson, sia in merito ai possibili nessi eziologici nonché per un maggiore approfondimento degli aspetti clinici e comportamentali.

 

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Il rimuginio: quanto danneggia la nostra esistenza – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di 15 Agosto 2015

 

Se volete uno specialista del rimuginio osservate Zio Paperone che camminando scava un solco circolare nel pavimento del deposito, assorbito nel suo mumble mumble.

È colmo di preoccupazioni su come sventare il prossimo colpo dei Bassotti, respingere il maleficio che permetterebbe ad Amelia di impossessarsi della numero 1, annientare le operazioni finanziarie spregiudicate di Rockerduck. Zio Paperone vince sempre, ma si gode poco la vita, eccetto i rari momenti in cui fa il bagno nei soldi. Per il resto è tutta una preoccupazione che ricade sulle spalle di Paperino.

Francis O’Gorman, professore di letteratura vittoriana, Università di Leeds, nel suo saggio Worrying – in italiano rimuginio, ruminazione – parla del processo in cui pensieri preoccupati sul futuro si affastellano nella mente. Chi rimugina apre innumerevoli scenari tentando di ridurre o azzerare rischi, sventare minacce. Per O’Gorman il rimuginio è un prodotto dell’illuminismo con la scoperta della libertà di scelta. Se non è più dio che decide, allora come eviterò di sbagliare domani? L’avvento del capitalismo amplifica il fenomeno: troppe indecisioni su cosa consumare.

Ma quante cose in questo libro, pur divertente, non convincono. Intanto la tesi centrale: il rimuginio non è patologico. O’Gorman si vede circondato da psichiatri e psicologi impazienti di considerare la vita umana come un sintomo. Ha le sue ragioni e, se penso a come si concedano a chi ha perso un caro due settimane prima di considerarne la sofferenza patologica, fremo di rabbia.

Certo, esiste un rimuginio normale, universale. La notte prima degli esami la passate a prevedere ogni domanda possibile. Il giorno del primo appuntamento non è quello in cui per la prima volta fate davvero attenzione al colore dei calzini? Vi mettete davanti allo specchio a provare battute e pose che sembrano tutte ridicole. Non vi viene mai in mente che dall’altra parte la ragazza, innamorata cotta, telefona disperata all’amica perché nessun vestito le cade bene sui fianchi.

Ma il vero rimuginio è attività ripetitiva, dolorosa, che depreda di tempo vitale e, soprattutto, è inutile. O’Gorman obietterebbe, sbagliando, che pensare e ripensare al domani aiuta a prevenire tradimenti, perdite di aerei, sconfitte da parte di avversari astuti. Lo psicologo Adrian Wells definisce tali considerazioni credenze metacognitive positive: rimugino e penso che rimuginare sia utile. Il rimuginio, detto senza mezze misure, non facilita le decisioni, le ostacola! Non si tratta di accuratezza e scrupolosità, è un’attività mentale meccanica e parassitaria. Per prendere l’aereo in tempo servono cinque minuti: check-in online e puntare la sveglia. Fine della storia.

il rimuginio quanto danneggia le nostre esistenze

Altra tesi discutibile: il rimuginio figlio di illuminismo e capitalismo. Non ho avuto occasione di parlare con i contadini del medioevo come con i pazienti che vedo nella mia stanza di psicoterapia, ma l’idea mi pare implausibile. Iago, ben prima della nascita di Voltaire, quando infligge il tormento della gelosia a Otello, sa bene che anticipare il tradimento dell’amata rode l’animo. Otello ne cade preda e la fine è nota. A meno che O’Gorman abbia prove che in epoca pre-illuministica il timore delle corna fosse statisticamente meno diffuso di oggi e Otello una bizzarra eccezione?

Mi distraggo da questo rimuginio domandandomi se i contadini del medioevo, che avevano poco da comprare e poco da scegliere, rimuginassero meno. In risposta, si rileggano Il nome della rosa di Eco e Q di Luther Blissett. Sostengono la stessa tesi: la chiesa imponeva il timore di dio per controllare i fedeli. Vietava riso e leggerezza, per dirla con Eco: [blockquote style=”1″]Sperando di trattenere le anime dal peccato per mezzo della paura.[/blockquote]

Timore di dio e dell’inferno: immaginate l’uomo medievale che nella notte insonne si chiede, sudando freddo, se ha peccato e la sua anima è già dannata? Io me lo raffiguro facilmente. Il funzionamento di quella mente spaventata si chiama rimuginio, lo stesso della mente di O’Gorman quando non riesce a godersi la vista di Venezia perché pensa incessantemente alla sfida con un collega che incontrerà lì. Teme di soccombere intellettualmente, e non vuole; teme di svalutarlo, e se ne affligge. Pensare a come prevalere nel match senza essere scortese gli avvelena il prosecco e le sarde in saor.

Epoche diverse, contenuti differenti, lo stesso tormentoso processo mentale. Per inciso, neanche l’oriente è esente da questi crucci, si pensi ai suicidi da vergogna certo preceduti da pensieri angosciati all’idea del giudizio pubblico.
Gli psicoterapeuti sperimentano strumenti per ridurre la sofferenza, godersi un cocktail in laguna.

Le terapie cognitive più recenti hanno sviluppato tecniche benefiche per il rimuginatore stanco di sé: meditazione – nella sua declinazione della mindfulness –, riconoscimento del rimuginio come tale e allenamento a guidare la propria attenzione altrove.

Per chi si preoccupa di quello che sarà dei propri rapporti sociali, la direzione è scoprire che la preoccupazione sul domani è figlia del ricordo di ieri. Temi l’abbandono perché lo conosci, l’umiliazione perché l’hai vissuta tante volte. Il paziente, come il bambino che scolla la figurina dei calciatori, distingue ora tra un ricordo proiettato nel futuro: “mi umilieranno ancora”, e la realtà in cui nessuno lo deride. Poco alla volta rimugina meno.

Un bagno nello Ionio con il mio amico Luca, ingegnere psicologicamente acuto. Parliamo di rimuginio, il mumble mumble di Zio Paperone viene in mente a lui. Osservando la duna mediterranea mi dice: “A volte vorrei dissolvermi e smettere di pensare”. Nuotiamo, sott’acqua ci sono scogli tra cui si spiegano sentieri come linee della vita della mano di un gigante. Banchi di pesciolini neri hanno code che sembrano i rebbi di un diapason. Prendiamo aria, ricordiamo murene a chiazze gialle e blu che incontrammo l’anno scorso. Il mumble mumble svanisce nelle acque trasparenti.

 

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Rimuginio: ridurlo attraverso l’immaginazione ed il pensiero visivo

BIBLIOGRAFIA:

  • O’Gorman F. (2015). Worrying: A Literary and Cultural History. New York: Bloomsbury.

Differenze di genere nello sviluppo del disturbo autistico

Vanessa  Schmiedt

 

Gli scienziati della Scuola di Medicina dell’Università di Standford si sono interessati a confrontare l’espressione di caratteristiche principali del disturbo tra i sessi, perché l’autismo può presentarsi nelle ragazze con sintomi differenti.

Il comportamento ripetitivo e limitato è forse il più riconosciuto tra le caratteristiche principali dell’autismo. Può apparire come fissazione in interessi altamente ristretti con intensità o attenzione anormale, inflessibilità per quanto riguarda le attività quotidiane o movimenti ripetitivi come il battito di mani. Le altre caratteristiche principali dell’autismo sono deficit a livello sociale e comunicativo. Tra i bambini con diagnosi di autismo ad alto funzionamento, i ragazzi sono più numerosi delle ragazze con un rapporto di 4-1.

Gli scienziati della Scuola di Medicina dell’Università di Standford si sono interessati a confrontare l’espressione di caratteristiche principali del disturbo tra i sessi, perché l’autismo può presentarsi nelle ragazze con sintomi differenti, rischiando di essere sottodiagnosticato o rendendo più difficile per loro ottenere il trattamento più appropriato. Secondo lo studio condotto dai ricercatori le ragazze con autismo mostrano un comportamento meno ripetitivo e limitato rispetto ai ragazzi. Lo studio ha anche riscontrato delle differenze cerebrali tra ragazzi e ragazze con autismo che potrebbero spiegare queste discrepanze. Lo studio dà la migliore prova fino ad oggi che i ragazzi e le ragazze presentano questo disturbo dello sviluppo in modo differente. Supekar e Menon hanno esaminato la gravità dei sintomi dell’ autismo in 128 ragazze e 614 ragazzi iscritti al National Database for Autism Research, i bambini avevano da 7 a 13 anni, un QI superiore a 70 ed erano stati valutati con test standard per il comportamento autistico.

I ragazzi e le ragazze sono stati abbinati per età e per QI medio e sono risultati punteggi simili per comportamento sociale e per comunicazione. Ma le ragazze hanno avuto punteggi più bassi (più vicini ai punteggi normativi) per quanto riguarda i comportamenti ripetitivi e ristretti. I ricercatori hanno quindi esaminato i dati del Autism Brain Imaging Data Exchange che includono MRI strutturali di 25 ragazzi con autismo, 25 ragazze con autismo, 19 ragazzi con sviluppo tipico e 19 ragazze con sviluppo tipico. I ragazzi sono stati abbinati nei gruppi per età e QI. I ricercatori hanno ancora rilevato che le ragazze e i ragazzi non mostravano differenze sulle competenze comportamentali e di comunicazione sociale, ma che le ragazze avevano comportamenti ripetitivi e ristretti meno gravi.

[blockquote style=”1″]Questa replica fornisce la prova più forte fino ad oggi per le differenze di genere in una caratteristica fondamentale fenotipica dello spettro autistico[/blockquote] ha detto Menon.

Anche i ragazzi con sviluppo tipico presentavano delle differenze di genere nella struttura cerebrale, tuttavia, i bambini autistici, hanno avuto un insieme diverso di differenze di genere nel cervello, specificamente, nella corteccia motoria, nell’area motoria supplementare e in una porzione del cervelletto. Queste regioni influenzano la funzione motoria e la pianificazione dell’attività motoria. I ricercatori hanno notato che molti comportamenti ripetitivi, come ad esempio il battito di mani, hanno una componente motoria.

Come affermato da Menon: [blockquote style=”1″]Ragazze e ragazzi con autismo si differenziano per le loro caratteristiche cliniche e neurobiologiche, e i loro cervelli sono modellati in modo che contribuiscano in modo diverso a menomazioni comportamentali. La scoperta di differenze di genere in entrambe le misure comportamentali e nella struttura cerebrale suggerisce che i medici potrebbero voler mettere a fuoco la diagnosi e i trattamenti per le ragazze e per i ragazzi autistici in modo differenziato[/blockquote] ha aggiunto Supekar.

 

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La percezione atipica nell’autismo: vedere il mondo in modo diverso

BIBLIOGRAFIA:

Inside Out: oltre le emozioni l’importanza della memoria

Vi capita mai di guardare qualcuno e chiedervi cosa gli passa per la testa?

Inside Out è un delizioso viaggio nella mente di una bambina di undici anni che sta facendo i conti con la fine della propria magica infanzia.

Le intuizioni psicologiche che caratterizzano i film della Pixar si confermano geniali, così come era stato nei precedenti “Up” (sulla tematica del lutto e della separazione) e “Toy Story”, altro esilarante racconto di formazione.

Avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out tempo fa, e più recentemente di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni.

Riley, la protagonista di quest’ultimo lungometraggio, si ritrova per la prima volta ad affrontare un’esperienza dolorosa, un trasloco non voluto e per di più aggravato da difficoltà economiche. La nuova situazione crea scompiglio e disorganizzazione nel Quartier Generale delle sue Emozioni, che si attivano in maniera chiassosa per aiutarla ad adattarsi alle nuove difficoltà.

Gioia, Paura, Rabbia, Tristezza e Disgusto (non più concetti vagamente astratti ma personaggi dalle personalità coloratissime e ben definite) si contendono di volta in volta manovelle e pulsanti al banco di comando, ognuna nel tentativo di dare la propria coloritura al vissuto di Riley per guidarne al meglio i comportamenti.

Ma non sono solo le emozioni il cuore di questo bignami di psicologia formato cartoon; buona parte della riflessione si concentra sul ruolo cruciale della memoria e sui complessi meccanismi di conservazione e distruzione dei ricordi, impalcatura invisibile delle strutture più profonde di personalità della protagonista (rappresentate graficamente da suggestivi parchi giochi a tema sospesi nello spazio mentale).

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Proprio la consapevolezza dell’importanza della memoria è il motore che spinge Gioia ad affannarsi nella titanica impresa di proteggere i Ricordi Base (alcune preziose biglie contenenti scene da base sicura) dalle insidie di Tristezza, del subconscio e degli operatori ecologici mentali che tengono in ordine gli archivi mnesici eliminando i ricordi superflui con un aspirapolvere.

Belli i momenti in cui la regia si insinua anche nella mente di altri personaggi, a dimostrazione del fatto che per quanto le emozioni siano universali il loro (re)agire sia del tutto individuale, e quindi individuali reazioni e comportamenti (da non perdere le clip ai titoli di coda).

Divertentissimo e commovente, con qualche piccola sbavatura buonista sul tema dell’American-Happy-Family, ma nel complesso un gioiellino da vedere, per ricordare quanto sia stato eccitante, caotico e doloroso diventare grandi.

 

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