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Fiducia epistemica, resilienza e resistenza al cambiamento – Report dal Congresso Attaccamento e Trauma 2015

Report dal Congresso Attaccamento e Trauma: nella seconda giornata Fonagy, Steele, Arntz, Dimaggio e Liotti si confrontano sulla relazione terapeutica

Di Silvia Dioni

Pubblicato il 05 Ott. 2015

La seconda giornata del congresso è iniziata con l’intervento di Peter Fonagy sulla correlazione tra attaccamento, fiducia epistemica e resilienza nei disturbi di personalità.

 

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Si è partiti da un concetto abbastanza assodato, e cioè che esperienze precoci di trascuratezza e abuso interferiscono con lo sviluppo di un sano legame di attaccamento e costituiscono potenziali precursori di quadri psicopatologici in età adulta. Su questo, ormai, sembrava che in sala ci fosse un consenso piuttosto unanime.

Fonagy ha cercato, partendo da questo assunto, di spiegare come la distruzione della fiducia nei confronti della figura di attaccamento possa generare una sfiducia epistemica generalizzata, che impedisce ai pazienti di fidarsi poi, tra gli altri, anche del terapeuta.
La sfiducia epistemica può essere sintetizzata come l’incapacità (o impossibilità) dei pazienti di credere a quanto viene loro detto, in quanto presuppongono che le intenzioni del parlante siano diverse da quelle dichiarate o comunque maligne e pericolose.
La conseguenza più rilevante, da un punto di vista psicoterapeutico, è che il normale processo di modificazione delle credenze, dato dall’avere informazioni da una fonte ritenuta affidabile, rimane bloccato.

Ecco perché secondo Fonagy il disputing alla Beck rischia di costituire, per quanto effettuato in tono conciliante, un intervento iatrogeno.
I pazienti con disturbo di personalità si trovano spesso in uno stato di equivalenza psichica, in cui la realtà mentale e quella esterna si equivalgono. Il pensiero è dominante, ha tutta la valenza del mondo fisico e non tollera la dimensione del dubbio o dell’alternativa.
Contrastare e discutere le convinzioni (per quanto errate) dei pazienti rischierebbe quindi di aumentare il loro senso di non essere capiti, di essere esclusi dalla comunicazione e di non potersi fidare.

Fonagy aggiunge che questi pazienti non hanno abilità resilienti, sono ipersensibili ai segnali dall’esterno e ipervigilanti, ma allo stesso tempo faticano a considerarli rilevanti e a farli propri. In terapia possono anche riconoscere e apprezzare la gentilezza e gli sforzi del terapeuta, ma ciò non toglie che restino impermeabili alle indicazioni ricevute.
L’obiettivo terapeutico, secondo Fonagy, dovrebbe quindi essere quello di creare una relazione che sia in grado di ribaltare la sfiducia epistemica.
In che modo? Riconoscendo e validando l’agentività dei pazienti e promuovendone continuamente la mentalizzazione (anche esplorando il contesto emotivo in seduta), perché nella relazione terapeutica i pazienti possono acquisire la capacità di interpretare in modo più funzionale l’esperienza sociale e di utilizzarla come modello per un funzionamento mentale più sano ed efficace.

A seguire l’intervento di Kathy Steele incentrato sulla problematica della resistenza al cambiamento, in particolare in pazienti con dissociazione di personalità. Steele riconosce che il concetto di resistenza è spesso utilizzato con una connotazione negativa che qualifica il paziente come refrattario a quel cambiamento che pur sostiene di voler perseguire. La studiosa invita i terapeuti a considerare la resistenza come, in realtà, un evitamento fobico dell’esperienza interiore, e quindi come un fisiologico meccanismo di difesa. Si tratta del cosidetto mindflight, ossia l’incapacità della mente di soffermarsi sui vissuti dolorosi.

Inoltre, pone l’attenzione sul fatto che la resistenza non è mai un problema esclusivamente del paziente, bensì legato alla relazione: il paziente può ad esempio non sentirsi al sicuro in seduta oppure troppo attivato, e quindi alla ricerca di un’attivazione del sistema di attaccamento nel terapeuta.
Questo aspetto può mettere in difficoltà il clinico, che si ritrova a dover gestire richieste e bisogni estremi, pretese, regressioni, minacce e condotte autolesive.
Occorre quindi riuscire a trovare un equilibrio che tuteli sia il paziente che il clinico, il quale può inizialmente proteggersi esprimendo il proprio dispiacere di fronte alle recriminazioni dei pazienti (riparando l’eventuale rottura) e validandone l’esperienza dolorosa.

Più di ogni cosa, il terapeuta dovrebbe evitare di mettersi sulla difensiva con i pazienti; un atteggiamento difensivo è inevitabile ma, se presente, occorre riconoscerlo, ammetterlo e procedere ad una nuova sintonizzazione e alla riparazione.
Inoltre, sono necessari confini coerenti e fermi, una cornice terapeutica che contenga le esperienze intersoggettive di paziente e terapeuta, entrambi portati prevalentemente ad agire, anziché a riflettere.
L’approccio per gestire la resistenza dovrebbe partire da un atteggiamento curioso del terapeuta (capire le credenze che la rinforzano, in che maniera è di aiuto, i costi che comporta, le emozioni associate).
Allo stesso tempo, occorre mantenere un ritmo che il paziente possa tollerare, concentrarsi sulla collaborazione più che sulla dipendenza, fare continuamente ritorno agli obiettivi prefissati dal paziente, indagare eventuali conflitti e non assumersi come obiettivo personale i cambiamenti del paziente.

Giancarlo Dimaggio ha presentato nel dettaglio i principi base della Terapia Metacognitiva Interpersonale mettendo in evidenza, in linea con il filo conduttore del congresso, il ruolo cruciale della trascuratezza dei genitori nella genesi dei disturbi di personalità e Arnoud Arntz ha proposto una panoramica degli interventi proposti dal filone Schema Therapy riguardo al trattamento di disturbi correlati a traumi, concentrandosi in particolar modo sull’imagery rescripting (tecnica in cui il terapeuta “entra” nel ricordo traumatico e procede alla sua riscrittura rassicurando il paziente-bambino, confortandolo e soddisfacendo i suoi bisogni).

A seguire una dettagliata (forse troppo) analisi degli studi di outcome e dei risultati di efficacia dei trattamenti Schema Therapy, in particolare a confronto con gli altri trattamenti.
Una piccola virata competitiva subito smorzata dal clima assolutamente politically correct della tavola rotonda finale, moderata da Giovanni Liotti, in cui i relatori protagonisti della giornata si sono enfaticamente lodati a vicenda, sottolineando gli aspetti in comune dei vari approcci ed apprezzando le tecniche peculiari degli approcci altrui.

In chiusura, una riflessione collettiva sull’importanza dell’alleanza terapeutica e sul fatto che non debba essere confusa con un semplice atteggiamento compassionevole nei confronti del paziente; Arntz raccomanda di tener sempre presente che la terapia è una collaborazione, Steele invita a muoversi tenendo presenti le difese dei pazienti e Fonagy e Dimaggio riportano l’attenzione sulle responsabilità del clinico e sulla necessità di riparare continuamente eventuali rotture nel rapporto terapeutico.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Fonagy F., Gyorgy G., Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé. Raffaello Cortina Editore,2005.
  • Van Der Hart O., Nijenhius E.R.S., Steele K., Fantasmi nel sé. Raffello Cortina Editore, 2011.
  • Dimaggio G., Montano A., Poppolo R., Salvatore G., Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Raffaello Cortina Editore, 2013.
  • Arntz, A. & van Genderen H. La schema therapy per il disturbo borderline di personalità. Raffaello Cortina Editore, 2011.
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Silvia Dioni
Silvia Dioni

Psicologa Psicoterapeuta laureata presso l’Università degli Studi di Parma e specializzata in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale all’Istituto “Studi Cognitivi” di Modena.

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