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Emergenza Migranti: il peso del guardare, il timore nell’accogliere

Non guardare, è normale, è evitamento di emozioni, di ansia e colpa. Ma poi non ci piace e ci sembra terribile, come un fuggire, come una viltà...

Di Sandra Sassaroli

Pubblicato il 14 Set. 2015

Aggiornato il 25 Set. 2015 16:33

Notizie sconfortanti in questi giorni sulla tragedia dei migranti, questa onda inarrestabile che mette alla prova l’ideologia stessa con la quale l’Europa e Schengen sono nate. (Spinelli 1941)

Una parte del medioriente è in fiamme e vi sono milioni di persone che sono partite, che stanno viaggiando, che stanno per mettersi in viaggio. Le foto di morti sulle spiagge, del bimbo Aylan, delle file di persone che camminano sulle strade d’Europa raccontano la disperazione di chi fugge e sono al centro della nostra attenzione e delle nostre emozioni.

Ne parliamo, ci disperiamo, vorremmo aprire le nostre case ai profughi, poi abbiamo paura, li temiamo, poi ci lasciamo trascinare dalle nostre vite.

Vi sono reazioni forti che davanti alle barriere di filo spinato e a cortei di disperati non possono non ricordarci altri eventi, in cui moltitudini di uomini andavano incontro a destini tremendi. È vero, non si tratta più di migrazioni forzate e deportazioni come quella degli armeni, ma non possono non richiamare ai nostri occhi quelle immagini. (Maciori, 2013, Werfel 1933)

La reazione dell’Europa è stata inzialmente confusa, ma poi grazie al discorso di Angela Merkel sull’accoglienza, che ci orienta tutto sull’accoglienza e grazie alle posizioni di acquisizione di responsabilità da parte di Papa Francesco, ha trovato una chiarezza di linea. O almeno nell’area occidentale.

Non penso affatto che Angela Merkel abbia scelto la sua posizione di fronte all’emozione di qualcosa che ha visto e con una urgenza esclusivamente morale, penso che ciò che ha visto sia stato mediato da una conoscenza profonda delle posizioni morali del suo paese ma anche dalla necessità razionale di trovare una soluzione a un problema sociale e umano di così vaste proporzioni.

 

Accoglienza dunque ma anche timori. E qui dividerei il discorso in due parti: il guardare o non guardare ciò che a volte ci appare come insopportabilmente doloroso e il sapere e decidere come accogliere.

Cominciamo con il guardare. Vi è oggi una enorme facilità di accesso visivo alla violenza e alla sofferenza che ci colpisce con forza dirompente. In psicologia è nozione provata che la visione aumenti l’impatto emotivo degli eventi su chi li osserva. In questo senso la nostra società ci espone come mai prima a questo aumento di visione e di impatto emotivo ogni volta che apriamo un giornale, che scorriamo le pagine di internet, che accendiamo la televisione. Questo è il segno della modernità: guardare la violenza, il dolore e la morte con crudo terrificante realismo e insieme da una siderale e tecnologica distanza.

Non penso che durante i progrom contro gli ebrei o nel medioevo, o semplicemente durante le nostre guerre risorgimentali, si vedesse in assoluto meno violenza. Quando c’era, era spesso l’incontro traumatico con violenza e sangue veri con il rischio di esserne coinvolti e morirne. Ma a questi scoppi di violenza immediati e improvvisi corrispondevano periodi in cui si poteva guardare altrove, concentrarsi sulle cose del quotidiano, l’aratura, la semina, il focolare.

Oggi invece staccare l’attenzione non è concesso. Ora non possiamo guardare altrove e questo accade cento volte ogni giorno.

Una fetta del dibattito delle ultime settimane si è focalizzato su “guardare o non guardare”: mettere o non mettere il piccolino Aylan in prima pagina, farlo vedere o no, parlarne e non farlo vedere.

Come se fosse possibile immaginare che nei giorni passati qualcuno non abbia visto quel piccolo bambino abbandonato. Tutti lo abbiamo visto. Così come tutti vediamo gli affogati in mare e i morti sulle strade o dentro i camion.

La scelta di non guardare, o meglio distogliere gli occhi dopo avere visto, è normale, è evitamento di emozioni, di ansia e colpa. Ma poi non ci piace e ci sembra terribile, come un fuggire, come una viltà.

Mentre guardare e poi guardare troppo a fondo dentro l’orrore rischia di farci scivolare troppo giù nella tristezza della sterile impotenza da un lato ma rischia anche di vaccinarci, di alzare il livello di tolleranza. E ci chiediamo quanto sia utile.

E come la risolvono molti di noi? Sbattono come uccellini in gabbia dentro questi muri di emozioni contrastanti, tra consolazione, rabbia, tristezza, colpa, desideri di aiuto e piccole viltà. Tutto troppo autocentrato. A volte sembrano dei selfie psicologici.

Per quanto riguarda la sostanza delle migrazioni dal medio oriente, è evidente che non si può non accogliere chi fugge da guerre, carestie, campi profughi in cerca di qualcosa che si possa chiamare vita normale, anzi vita dove vita vuol dire sopravvivenza, ma anche speranza di avere un futuro, di non morire.

Ma è anche vero che non vanno sottovalutate le difficoltà dell’arrivo, dell’integrazione, dell’avvicinamento di popolazioni che portano diversità, ricordi, tradizioni, timori. Chi arriva porta ricchezza di esperienze umane diverse, e questa ricchezza è certamente una risorsa attuale e potenziale che cambia le cose e arricchisce tutti, ma egli va accolto con la consapevolezza delle difficoltà e diversità che dovrà e dovremmo affrontare insieme perché l’integrazione si avveri (Sartori, 2000).

Al di là delle reazioni di impulso e nell’emergenza che non possono che farci aprire le nostre porte e accogliere chi fugge, affinché questa emergenza divenga progetto di convivenza occorre un posto che accolga e aiuti l’avvicinamento alla cultura locale alle sue tradizioni e costumi e leggi e persone che abbiano curiosità di conoscere, accettare il nuovo, incontrare lo sconosciuto diverso, condividere.

Questo discorso è del tutto indipendente da giudizi di superiorità culturale, anzi deve guardare al bisogno razionale di benessere sociale e buone relazioni in una società in cui per la prima volta si vive insieme.

Quando si parla di migrazione si passa da posizioni di rifiuto sprezzanti e incivili a un’ingenua mitizzazione dell’accoglienza come buona in sé, facile, naturale, esclusivamente come forma di necessità morale. Questa posizione è pericolosa perché eludendo i problemi si rischiano profonde delusioni. Accogliere ed essere accolti è difficile e doloroso e solo nella consapevolezza profonda, colta e sapiente della difficoltà si possono costruire progetti di lunga distanza che abbiano la speranza di avere successo.

A me sembra che la parte eroica consista, per chi ha la forza, nel trasformare le informazioni e le visioni in comportamenti d’aiuto concreto. Per fare questo occorre sapere come sono le cose.

E chi non può proporre comportamenti innovativi, non può accogliere, non può prendere la macchina e partire per l’Ungheria?

Il punto è di nuovo rinunciare a risposte semplici o impulsive su questioni così complesse e piene di sfaccettature. Occorre razionalità. Occorre non smettere di informarsi, a fondo e in modo doloroso e completo su quali siano le cause, le complicità, le connivenze e le incapacità che hanno portano alla situazione attuale. E occorre risolvere in modo umanitario e razionale e utile per tutti ciò che sta avvenendo così vicino a noi. Senza trascurare le nostre responsabilità nella creazione e nel mantenimento di situazioni di guerra ai nostri confini ma senza stracciarci le vesti autoflagellandoci.

Dobbiamo tutti accettare ciò che è complesso e che bisogna cambiare a partire da questo momento storico e da questa complessità. Rinunciare alla pigrizia, alle frasi fatte, alle spiegazioni semplicistiche.

E continuare a guardare. E a volte distogliere gli occhi e poi guardare di nuovo.

 

LEGGI ANCHE: Il bisogno di appartenenza e il difficile rapporto con gli altri

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Sartori, G. (2000). Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica. Milano, Rizzoli.
  • Altiero Spinelli:Manifesto di Ventotène, avente titolo originale Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, è un documento per la promozione dell’unità europea scritto daAltiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Ursula Hirschmann tra il 1941 ed il 1944 durante il periodo di confino presso l’isola di Ventotene, nel mar Tirreno, per poi essere pubblicato daEugenio Colorni, che ne scrisse personalmente la prefazione[1]. (da wikipedia)
  • Macioti, M,I. Il genocidio armeno nella storia e nella memoria, (2011) Edizioni Nuova Cultura, Roma,
  • Werfel, F. “I quaranta giorni del Mussa Dagh” ) (1933)in italiano 2913, ed. il Corbaccio

LEGGI ANCHE: Psicologia delle Migrazioni: Globalizzazione & Nostalgia di Casa

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Sandra Sassaroli
Sandra Sassaroli

Presidente Gruppo Studi Cognitivi, Direttore del Dipartimento di Psicologia e Professore Onorario presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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