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Quando le esperienze traumatiche non colpiscono solo il paziente: il trauma vicario nel terapeuta

Chi lavora con pazienti traumatizzati, e che sente la responsabilità di aiutare queste persone, si mostra più vulnerabile a sviluppare un trauma vicario.

Di Michela Grandori

Pubblicato il 01 Lug. 2015

Aggiornato il 04 Lug. 2019 11:55

Michela Grandori – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi  San Benedetto del Tronto

I professionisti che lavorano con pazienti traumatizzati in maniera aperta, impegnata ed empatica e che sentono la responsabilità o l’impegno di aiutare queste persone, sono più vulnerabili a sviluppare un trauma vicario. Ciò significa che saranno trasformati dalla loro attività dato che lavorare sul trauma può essere sì molto importante e gratificante, ma allo stesso tempo anche molto difficile e doloroso.

Infatti non è facile mantenere un atteggiamento di neutralità terapeutica quando un paziente espone le sue memorie traumatiche. Questi racconti suscitano emozioni molto forti non solo nel paziente ma anche nel terapeuta. Il rapporto empatico con le persone traumatizzate può causare un cambiamento nel modo in cui il terapeuta percepisce sé stesso, gli altri e il mondo. Ascoltando i dettagli delle esperienze traumatiche che vengono riportate dal paziente in seduta, il terapeuta diventa testimone della realtà traumatica del paziente e questa esposizione può portare ad una trasformazione all’interno del suo funzionamento psicologico. Queste modificazioni negli schemi cognitivi del terapeuta possono avere effetti negativi sulla sua vita personale e professionale (Blair et al., 1996; McCann et al., 1990).

Una prima concettualizzazione di questo fenomeno si è avuta con l’introduzione del termine Traumatizzazione Vicaria, intesa come un cambiamento in negativo degli schemi cognitivi e dei sistemi di credenze in colui che svolge una professione d’aiuto, che deriva dal coinvolgimento empatico con le esperienze traumatiche dei pazienti. In tal senso è opportuno ritenere che la traumatizzazione vicaria nel terapeuta non derivi necessariamente dall’evento in sé ma dalla relazione di aiuto con un individuo che sta soffrendo a causa di quell’evento (McCann et al., 1990). Il costrutto è stato successivamente esteso fino a comprendere sintomatologie di tipo post-traumatico ed è stato indicato da Figley come Stress Traumatico Secondario, ovvero l’insieme di reazioni comportamentali ed emotive alla conoscenza di eventi traumatici sperimentati da altri o in seguito all’aiuto o al tentativo di aiuto a persone traumatizzate.

Se si esclude il fatto che in questa particolare condizione l’esposizione all’evento traumatico è indiretta, la tipologia di sintomi che ne consegue è la stessa riscontrabile in un quadro clinico di disturbo da stress post-traumatico: pensieri intrusivi, evitamento, aumento dell’arousal e, più in generale, una compromissione del funzionamento dell’individuo (Figley, 1995; Jenkins et al., 2002). Lo stesso Figley propone successivamente il costrutto di Compassion Fatigue che principalmente descrive i sentimenti di profonda partecipazione e comprensione per qualcuno colpito da sofferenza, accompagnati da un forte desiderio di alleviare la sofferenza stessa o eliminarne la causa (Figley, 1995).


Sebbene ci siano alcune differenze in termini di origine teorica del costrutto, i concetti Traumatizzazione Vicaria, Stress Traumatico Secondario e Compassion Fatigue possono essere considerati largamente sovrapponibili. La Compassion Fatigue può, pertanto, essere considerata un rischio professionale a pieno titolo. In questo senso Figley propone che la risposta all’esposizione a un evento traumatico si inserisca in un continuum che va da un estremo positivo, di soddisfazione lavorativa (Compassion Satisfaction) a un estremo negativo, di logoramento (Compassion Fatigue). L’autore delinea inoltre un modello causale per cui lo sviluppo della Compassion Fatigue è influenzato sia dalle strategie di coping sia da fattori contestuali come un’esposizione prolungata all’evento traumatico (Craig et al., 2010; Figley, 2002; Sprang et al., 2007).

Al quadro finora descritto si affianca il rischio di sviluppare una sindrome da Burnout, intesa come una combinazione di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e senso di ridotta efficienza nello svolgimento della propria professione, caratterizzata da cinismo, distress psicologico, insoddisfazione, difficoltà nel funzionamento interpersonale, ottundimento emotivo e conseguenze fisiologiche (Maslach, 1982). I fattori centrali determinanti il Burnout sembrerebbero essere la percezione del carico di lavoro, la pressione temporale e gli stressor riferiti alla relazione con l’utenza: tra questi si evidenzia, in particolare, il contrasto tra la richiesta di inibire le proprie emozioni sul lavoro (allo scopo di mantenere un buon livello di performance) e quella di mostrare empatia per il fatto di avere un ruolo da caregiver (Craig et al., 2010; Maslach et al., 2001).

Il Burnout e la Compassion Fatigue si distinguono su alcune dimensioni principali:

  • Il Burnout viene descritto come il risultato di uno stress psicologico generale dovuto al lavoro con pazienti difficili; il professionista ha la sensazione di essere sovraccaricato dal lavoro e le eventuali problematiche del paziente sono secondarie a tale sovraccarico. Invece la Compassion Fatigue è vista come una reazione specifica e diretta dovuta all’esposizione al materiale traumatico presentato dal paziente.
  • La Compassion Fatigue è improvvisa ed acuta e può emergere anche come il risultato di una singola esposizione ad un incidente critico. La sindrome da Burnout, invece, corrisponde ad un graduale e progressivo consumarsi del professionista che si sente sopraffatto dal proprio lavoro e incapace di promuovere un cambiamento positivo.
  • La Compassion Fatigue si verifica solamente tra coloro che lavorano con persone che hanno vissuto eventi traumatici, mentre il Burnout può presentarsi in persone che svolgono qualunque tipo di professione.

Nonostante queste differenze, il Burnout e la Compassion Fatigue condividono caratteristiche simili. Entrambi possono provocare sintomi fisici, emotivi e comportamentali, problemi lavorativi ed interpersonali. Inoltre, entrambi sono responsabili di una diminuzione di preoccupazione e di stima per il paziente, fattore che può determinare un calo nella qualità della cura del paziente stesso (Craig et al., 2010; Sprang et al., 2007).

E’ utile distinguere tre circostanze diverse in cui un terapeuta che lavora con pazienti traumatizzati può sviluppare un trauma vicario ed entrare in uno stato di stress e paralisi:

  • I terapeuti che non hanno mai vissuto personalmente un evento traumatico possono farsi sconvolgere da ciò che emerge nel corso del trattamento di persone con PTSD. Possono sviluppare, quindi, sintomi traumatici secondari sotto forma di incubi, senso di colpa, senso di impotenza, fantasie di salvezza o comportamento evitante/ottundimento. Ciò può creare un circolo vizioso in cui più il terapeuta diventa sintomatico, disadattivo e inefficace, più si immerge a fondo nel suo lavoro. Quando ciò avviene, il terapeuta tenderà a non rendersi conto della gravità del suo problema e a non cercare la supervisione e l’aiuto dei colleghi.
  • Il terapeuta può sviluppare un’autentica reazione di controtransfert in cui il materiale del paziente risveglia ricordi intrusivi di esperienze traumatiche vissute in passato dal terapeuta. Poiché l’esposizione a un evento traumatico non è un evento raro, e di certo gli psicoterapeuti non ne sono più esenti di altri, terapeuti e supervisori dovrebbero essere pronti a riconoscere ed affrontare queste reazioni di controtransfert.
  • Anche i terapeuti sono esposti alle esperienze traumatiche per cui cercano di aiutare gli altri. Per esempio, possono aver vissuto lo stesso disastro naturale (come un terremoto o un’alluvione) di un loro paziente. In queste circostanze, il terapeuta deve fare un debriefing o una terapia per i suoi sintomi post-traumatici prima di poter pensare di aiutare altre persone (Blair et al., 1996).

Il concetto di Traumatizzazione Vicaria è stato concettualizzato da McCann e Pearlman nell’ambito della Teoria Costruttivista dello Sviluppo del Sé (Constructivist Self Development Theory – CSDT). La CSDT cerca di integrare le teorie psicoanalitiche (della Psicologia del Sé e delle Relazioni Oggettuali) con le teorie cognitive della Social Cognition, allo scopo di creare una cornice dinamica per comprendere le esperienze dei sopravvissuti ad eventi traumatici e di chi si prende cura di loro (McCann et al., 1990; Pearlman & Saakvitne, 1995; Trippany et al., 2004).

La premessa di questa teoria riguarda il fatto che ciascun individuo costruisce la propria realtà mediante percezioni e schemi cognitivi che facilitano la comprensione delle esperienze che accadono nella propria vita. La teoria sostiene che, nel momento in cui il terapeuta prende in carico pazienti traumatizzati e si espone alle loro memorie traumatiche, avvengono dei cambiamenti nei suoi schemi cognitivi e nei sistemi di credenze e questo può essere considerato il risultato di un adattamento cognitivo. Gli stili di adattamento individuali sono considerati come l’esito dell’interazione tra la personalità del terapeuta e gli aspetti salienti dell’evento traumatico, tutto ciò nel contesto delle variabili sociali e culturali che fanno da sfondo alle risposte e alle azioni psicologiche (Saakvitne et al., 1996; Smith et al., 2007).

La Traumatizzazione Vicaria causa un cambiamento nel modo in cui il terapeuta percepisce sé stesso, gli altri e il mondo, coinvolgendo le sue relazioni interpersonali e il suo mondo interno. Questo è ritenuto normale, prevedibile e inevitabile ma, se il terapeuta non lavora con la trasformazione che sta prendendo piede, ciò può avere effetti negativi molto seri su di lui, sia come individuo che come professionista (Pearlman & Saakvitne, 1995).
Secondo la CSDT è possibile individuare diverse componenti del Sé che riflettono le aree in cui si verificano i cambiamenti nel sistema di credenze:

  • Quadro di Riferimento: si riferisce alla struttura dell’individuo che comprende la propria identità, visione del mondo e sistema di credenze e che gli consente di visualizzare e comprendere sé e il mondo. Eventuali rotture nel quadro di riferimento possono creare un senso di disorientamento nel terapeuta e possibili difficoltà nella relazione terapeutica. Ad esempio, nel tentativo di comprendere il dolore del paziente, il terapeuta, parlando dell’evento traumatico, può concludere attribuendo la colpa alla vittima. La rottura del quadro di riferimento potrebbe indurre il terapeuta a non accogliere la possibilità di una vittima incolpevole.
  • Capacità del Sè: si tratta delle capacità interne dell’individuo che permettono di mantenere un costante e coerente senso d’identità e una buona autostima. Queste capacità permettono all’individuo di gestire le proprie emozioni, sostengono le sensazioni positive e permettono di mantenere buone relazioni con gli altri. Eventuali rotture in questa componente possono verificarsi nel momento in cui il terapeuta sperimenta un trauma vicario. Egli può vivere la sensazione di perdere la propria identità e possono verificarsi difficoltà interpersonali e nella gestione delle emozioni negative. Ciò può avere implicazioni serie nel lavoro con i pazienti traumatizzati.
  • Risorse dell’Io: queste consentono agli individui di soddisfare le loro esigenze psicologiche personali e relazionali. Le rotture in questa componente possono determinare l’insorgenza del perfezionismo e un’eccessiva attenzione e dedizione nei confronti del proprio lavoro. Inoltre i terapeuti possono anche sperimentare una certa difficoltà ad essere empatici con i loro pazienti.
  • Esigenze Psicologiche e Schemi Cognitivi: tra le esigenze psicologiche troviamo le esigenze di sicurezza, di fiducia, di stima, d’intimità e di controllo. Queste esigenze si riflettono nella formazione degli schemi cognitivi di sé, degli altri e del mondo e nella loro eventuale modificazione qualora le esigenze stesse non venissero soddisfatte.

Esigenze di Sicurezza: possedere il senso di sicurezza è fondamentale per il benessere dell’individuo. Tali esigenze comprendono i bisogni di protezione, dipendenza, libertà dalla paura e un ambiente stabile, sicuro e strutturato.

  • Schemi Cognitivi: i terapeuti che sviluppano un trauma vicario possono sentire che non vi è alcun rifugio sicuro che li protegga dalle minacce alla propria sicurezza personale. Livelli elevati di timore, vulnerabilità e preoccupazioni possono essere i modi in cui si manifesta questa perturbazione nelle esigenze di sicurezza. I terapeuti possono così diventare eccessivamente cauti nei confronti dei loro figli, sentire un forte bisogno di seguire un corso di autodifesa, installare un sistema di allarme in casa, etc…

Esigenze di Fiducia: queste esigenze riflettono la capacità dell’individuo di fidarsi delle proprie percezioni e credenze e di quelle degli altri. Tutti gli individui hanno una naturale propensione a fidarsi di sé e degli altri.

  • Schemi Cognitivi: l’esposizione ripetuta al materiale traumatico del paziente rende il terapeuta vulnerabile al trauma vicario e scuote la fiducia che egli nutre nei confronti degli altri, del mondo e di sé stesso. Così, ad esempio, se il paziente è stato vittima di un attacco terroristico da parte di un gruppo minoritario, il terapeuta potrebbe diventare sospettoso, in generale, nei confronti di tutti i gruppi di minoranza; oppure il terapeuta potrebbe iniziare ad avere una minore fiducia in sé stesso e a mettere in discussione le proprie capacità di giudizio e di intervenire in modo efficace con il paziente.

Esigenze di Stima: si basano sul valore di sé e dell’altro.

  • Schemi Cognitivi: il terapeuta che sperimenta il trauma vicario potrebbe sentirsi inadeguato e mettere in discussione le proprie capacità di aiutare l’altro. La stima per l’altro, invece, potrebbe essere compromessa quando il terapeuta si trova a dover fare i conti con la capacità delle persone di essere crudeli e del mondo di essere ingiusto.

Bisogni d’Intimità: possono essere definiti come la capacità di sentirsi in contatto con sé stessi e con gli altri.

  • Schemi Cognitivi: eventuali rotture in questa componente possono generare sentimenti di vuoto, difficoltà a godere del tempo libero o un intenso bisogno di riempire il tempo libero e un ritiro dalle relazioni con gli altri. Il terapeuta che sperimenta il trauma vicario può allontanarsi o, al contrario, diventare sempre più dipendente dalle proprie figure significative.

Esigenze di Controllo: queste esigenze sono relative all’autogestione.

  • Schemi Cognitivi: quando si creano rotture in quest’area, le credenze e i comportamenti risultanti possono essere di impotenza e/o di maggior controllo in altre aree. Queste credenze generano disagio e il terapeuta che sperimenta il trauma vicario può mettere in discussione la propria capacità di farsi carico della sua vita, di essere l’artefice del suo futuro, esprimere i propri sentimenti e agire liberamente (Pearlman & Mac Ian, 1995; Pearlman & Saakvitne, 1995; Trippany et al., 2004).

Secondo la teoria poc’anzi delineata, il trauma vicario comporta conseguenze nel terapeuta sia a livello personale che professionale. A livello personale il terapeuta può incrementare la propria consapevolezza dei pericoli e della frequenza dei traumi e sentirsi, pertanto, più vulnerabile. Il senso di protezione e quello di sicurezza possono risultare minacciati e il terapeuta può sperimentare un profondo senso di impotenza per non essere riuscito a proteggere il suo paziente dai traumi passati e dalla sofferenza presente. Il terapeuta, inoltre, può essere sopraffatto dalle narrazioni del paziente e provare paura, dolore e sofferenza simili a quelli del suo paziente così come può sentirsi in colpa per non essere stato risparmiato da quegli orrori (Janoff-Bulman, 1992). Questi sentimenti possono suscitare varie reazioni poco appropriate che interferiscono con la terapia. Il terapeuta potrebbe non rispettare i confini terapeutici (ad esempio, dimenticando gli appuntamenti, non rispondendo al telefono o, al contrario, contattando in maniera inopportuna il paziente); potrebbe provare rabbia qualora il paziente non rispondesse alla terapia; potrebbe dubitare delle proprie capacità e conoscenze e smettere di concentrarsi sui punti di forza e sulle risorse del paziente; infine, potrebbe evitare di parlare del trauma o, al contrario, mostrarsi eccessivamente intrusivo nell’esplorazione delle memorie traumatiche del paziente, sondandone ogni specifico dettaglio. Le forti emozioni provate nel corso della terapia potrebbero indurre il terapeuta a compiere tentativi di soccorso e diagnosi errate (Herman, 1992; Trippany et al., 2004).

Va sottolineato che il trauma vicario può avere effetti negativi anche sulle relazioni amicali e familiari del terapeuta il quale può risultare emotivamente meno accessibile. Ciò può portarlo a ritirarsi dalle relazioni amicali, familiari e dalle relazioni con i propri colleghi, oltre a sviluppare un certo cinismo che non apparteneva al proprio carattere. Il terapeuta può andare in burnout e diventare un peso per i colleghi o lasciare il campo di attività prematuramente, sfiduciato e inaridito (Herman, 1992; Saakvitne et al., 1996).

Per affrontare, o meglio, prevenire il trauma vicario la prima cosa da fare può essere limitare il numero di colloqui con pazienti traumatizzati per evitare di sfinirsi a causa del lavoro (Hellman et al., 1987; Trippany et al., 2003).

Inoltre, è essenziale mantenersi in collegamento con i colleghi e avere la disponibilità di una supervisione continua che riduca la sensazione di isolamento e aumenti l’obiettività e l’empatia del terapeuta (Dyregrov et al., 1996; Lyon, 1993; Pearlman et al., 1993). Possedere un’adeguata formazione in psicotraumatologia è di fondamentale importanza in quanto fornisce al terapeuta gli strumenti essenziali per un intervento efficace e può, pertanto, ridurre l’impatto del trauma vicario (Pearlman & Saakvitne, 1995). Importante è anche bilanciare lavoro, svago e riposo, mantenere attiva la propria rete amicale e curare le proprie relazioni familiari, effettuare una dieta adeguata, fare esercizio fisico e dedicarsi ai propri hobby e/o attività creative. Tutto questo, oltre a prevenire il trauma vicario, può aiutare a preservare un solido senso di identità personale (Stamm, 1995; Trippany et al., 2004).

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BIBLIOGRAFIA:

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