L’autore del libro ”La realtà non è per tutti”
Chi ha voglia di comprendere la storia della psichiatria italiana degli ultimi decenni, a partire da Basaglia per seguire l’evoluzione (per molti purtroppo un’involuzione) dei servizi pubblici nel nostro paese, non può prescindere dalla lettura del bellissimo volume ”La realtà non è per tutti” di Antonello D’Elia.
L’autore è psichiatra, psicoterapeuta, dal 2017 Presidente di Psichiatria Democratica. Docente dell’Accademia di Psicoterapia della Famiglia, vicedirettore della rivista Terapia Familiare. Napoletano, dopo oltre 30 anni trascorsi prevalentemente a Torino e a Roma dove ha anche diretto un’UOC di un DSM cittadino, ha da poco smesso di lavorare nei Servizi Pubblici. Per Cortina ha curato con Maurizio Andolfi il recente volume La famiglia che cura (2024), contenente numerosi contributi di terapeuti familiari di tutto il mondo e, in precedenza, Le perdite e le risorse della famiglia (2007). Da anni si occupa di Psicoterapia Multifamiliare, un approccio clinico per la maggior parte utilizzato in ambito istituzionale con pazienti psicotici.
”La realtà non è per tutti”: la struttura del libro
Il libro ”La realtà non è per tutti” è costituito da ventisei interviste sul tema della salute mentale e da quattro capitoli in cui D’Elia chiarisce il proprio vertice osservativo e la propria posizione teorica. Gli intervistati sono persone che hanno vissuto, quasi sempre direttamente dall’interno, i contesti della salute mentale negli anni successivi al 1978, quando fu approvata la legge di riforma, tra l’altro abolendo i manicomi, a cui si deve un’importante modernizzazione dell’assistenza psichiatrica nazionale. Sono ascoltati psichiatri, psicologi, infermieri, pazienti, familiari, ma anche un magistrato, un direttore generale di Asl, un migrante e pure comuni cittadini tutti provenienti da diverse realtà regionali, nella consapevolezza che la sofferenza mentale e i dispositivi per contenerla o governarla costituiscono una realtà da cui nessuno può sentirsi escluso.
Il quadro d’insieme fornisce una rappresentazione dettagliata di cosa sono stati i servizi pubblici negli anni recenti e, anche se le interviste sono in forma romanzata, non sono affatto frutto di fantasia letteraria, ma sono la ricostruzione di storie personali e collettive che hanno attraversato la nostra società. Le pagine si leggono con interesse e piacevolezza, perché la forma letteraria adottata non ha la pesantezza di un saggio specialistico per addetti ai lavori, non vi sono grafici o meta-analisi, ma vi scorre la vita “vera” di chi la salute mentale l’ha praticata dal di dentro e con passione. Così, non mancano orgoglio per le proprie conquiste e giuste rivendicazioni, ma emergono anche rimpianti, autocritiche, disillusioni, timori, stanchezza e rinunce. Il punto nodale è che se si trasforma la cura psichica in qualcosa che deve seguire le logiche del profitto aziendale, disconoscendo il valore umano, sociale e trasformativo di prassi operative che dal di fuori possono finanche apparire mediocri o scarsamente utili, non c’è scampo per una psichiatria che metta al centro la capacità di fare relazione come principale strumento di efficacia.
”La realtà non è per tutti”: il valore della fiducia nella cura della salute mentale
Nelle pagine iniziali del libro ”La realtà non è per tutti”, D’Elia chiarisce bene la sua posizione, ovvero quella di battersi affinché sia riconosciuta la specificità del lavoro di salute mentale: “quella di fondarsi in parte su operazioni sanitarie, molto raffinate peraltro, e in parte avendo a che fare con la vita dei cittadini, sulla dimensione sociale, sui diritti, sull’esistenza delle persone che non è un affare da specialisti. Lavorare con gli psicotici è come lavorare in sala operatoria di cardiochirurgia”. Per D’Elia, riaffermando il valore politico e sociale dell’impegno nella salute mentale, non può esservi cura non solo evidentemente all’interno di luoghi vessatori come sono stati gli ospedali psichiatrici, ma ovunque in assenza del riconoscimento dell’esistenza, la valorizzazione della dignità e dell’umanità in quanto tale.
Infine, ho molto apprezzato il richiamo che egli fa ad un qualcosa, apparentemente banale e scontato, che reputa centrale e costitutivo di un’autentica relazione di cura, prima ancora di qualsiasi costrutto teorico, ovvero il concetto di fiducia. Non la fiducia generica nel genere umano o nel progresso tecnologico, né la fiducia come fattore aspecifico di efficacia terapeutica o la “fiducia di base” che correttamente serve al bambino per crescere, piuttosto “una fiducia pragmatica nel poter interferire con i meccanismi psichici, relazionali, familiari e sociali che sostengono la sofferenza mentale”. Ed, inoltre, serve il rispetto, inteso non solo come scelta etica ma come fondamento relazionale e sociale radicato anche su solide conoscenze. Rispettare come riconoscere, accettare, accogliere, ascoltare: l’altro diventa così presente come persona e non annullato in una categoria. In tal modo, D’Elia riesce nel difficile compito di attualizzare la lezione dei suoi grandi maestri.