Un terzo tipo di colloquio psicologico, esempio di un approccio intermedio ai lavori di Rogers e Carkhuff: Il colloquio di motivazione.
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Esiste un terzo tipo di colloquio psicologico che verrà presentato brevemente in queste pagine come esempio di un approccio intermedio rispetto ai lavori di Rogers e Carkhuff, un approccio che cerca con successo di raccogliere gli aspetti positivi di entrambi.
Il colloquio di motivazione è definito come un metodo direttivo centrato-sul-cliente, per aumentare la motivazione intrinseca al cambiamento attraverso l’esplorazione e la risoluzione dell’ambivalenza [Miller e Rollnick 1991, 2002; Leoni 2003]. Questa definizione, così com’è, mostra una certa ambiguità dal momento che affianca il concetto di “centrato-sul-cliente” all’idea di un “metodo direttivo”.
Solitamente il colloquio centrato-sul-cliente di Rogers si fondava su un approccio prettamente non-direttivo. Gli autori del colloquio di motivazione ritengono altresì che lo psicologo non possa che essere direttivo in qualsiasi situazione (rifacendosi così alla pragmatica della condizione umana di Pearce).
La neutralità del terapeuta è una pura utopia. Vengono distinti, però, due tipi di direttività.
La prima è la direttività di coercizione, fondata sulle caratteristiche di confronto, di educazione e di autorità. Per confronto si intende l’operazione di controllo delle prospettive disfunzionali del cliente imponendo l’accettazione di un punto di vista che normalmente il soggetto non ammetterebbe. Per educazione si intende il processo di trasmissione delle informazioni opportune perché il cliente possa sviluppare un esperienza di insight e le capacità necessarie al cambiamento, capacità che non possiede all’inizio del colloquio psicologico. Infine per autorità si intende lo sviluppo di un rapporto terapeutico in cui lo psicologo si limita a dire al cliente cosa deve fare.
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A questa forma di direttività di coercizione si oppone una direttività che si adegua a ciò che emerge nel colloquio. Quest’ultima oppone la collaborazione al confronto, l’evocazione all’educazione e l’autonomia all’autorità.
Attraverso la collaborazione il colloquio psicologico sviluppa un rapporto psicologo-cliente che privilegia la prospettiva di quest’ultimo, lo psicologo conduce ma non costringe al cambiamento. Attraverso l’evocazione si tenta di stimolare la motivazione intrinseca del soggetto al cambiamento, una motivazione che appartiene già al cliente e che viene potenziata agendo sulle sue percezioni, i suoi obiettivi e i suoi valori. Con il concetto di autonomia lo psicologo sostiene il diritto del cliente a prendere le proprie decisioni sostenendo e garantendo la possibilità di una scelta informata.
Il guerriero della luce contempla le due colonne che fiancheggiano la porta che intende aprire. Una si chiama <Paura>, l’altra <Desiderio>. Il guerriero guarda la colonna della Paura sulla quale è scritto:<Entrerai in un mondo sconosciuto e pericoloso, dove tutto ciò che hai appreso finora non servirà a niente.> Poi osserva la colonna del Desiderio, sopra la quale legge: <Uscirai da un mondo conosciuto, dove sono custodite le cose che hai sempre voluto, e per le quali hai lottato duramente.> Il guerriero sorride, perché non esiste nulla che lo spaventi o né lo leghi. Con la sicurezza di chi sa ciò che vuole, apre la porta.
[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997, p.116]
Queste caratteristiche possono essere realizzate se lo psicologo, nel corso del colloquio, pone la dovuta attenzione a quattro principi fondamentali che sono [Miller e Rollnick, 2002]: 1) Espressione empatica: in cui lo psicologo facilita il cambiamento manifestando un’accettazione incondizionata e facendo uso della comunicazione riflessiva dei sentimenti manifestati dal cliente. 2) Amplificazione della contraddizione: che si fonda sull’ipotesi che alla base di ogni problema comportamentale esista un ambivalenza, una contraddizione tra il comportamento e i valori della persona. lo psicologo deve essere in grado di fornire quelle informazioni che permettano al cliente di attuare un processo di esplorazione, che è proprio e non dello psicologo, di tale ambivalenza che porti alla netta demarcazione dei confini dei due percorsi di cui è composta. 3) “Rotolarsi” con la resistenza: è importante che lo psicologo non combatta direttamente la resistenza mostrata dal cliente, deve essere aggirata e, se possibile, sfruttata per comprendere la necessità di provare altre strade, di provare diversi tipi di risposte per mostrare diverse prospettive al cliente, piuttosto che insistere ed imporne una a discrezione del psicologo. 4) Sostenere il senso di autoefficacia: raggiunta la consapevolezza che il responsabile del cambiamento è prima di tutto il cliente e non lo psicologo, è necessario che quest’ultimo sostenga le possibilità di cambiamento che il soggetto ritiene di avere.
Questo senso di autoefficacia già presente deve essere coltivato in quanto può agire come ulteriore elemento motivante e come profezia che si auto-avvera. La realizzazione di questi quattro principi deve attuarsi sin dall’inizio del colloquio psicologico. Per ottenerla Miller e Rolnick [1991] suggeriscono l’uso di particolari strategie di apertura del colloquio. Queste strategie sono: 1) L’uso di domande aperte: domande, cioè, che non elicitino risposte brevi ma che permettano, al contrario, di avere risposte ampie in grado di fornire il maggior numero di informazioni sul problema. 2) Ascolto empatico e riflessivo: che realizza, a livello strategico, il primo principio del colloquio di motivazione attraverso ripetizioni, riformulazioni, parafrasi e riflessione dei sentimenti del cliente. In questo modo permettiamo a quest’ultimo di vedersi riflesso nel psicologo e di cambiare qualcosa nel caso non piaccia. È importante evitare interpretazioni e costruzioni personali del problema del cliente. In questo punto appare quanto mai evidente l’eredità rogersiana che pervade parte della teorizzazione di questo approccio. 3) Affermazioni: ogni affermazione che lo psicologo pone nel corso della terapia deve essere diretta e assertiva. 4) Riassunto: l’uso del riassunto dei progressi e delle riflessioni manifestate fino a quel punto è importante sia per fare chiarezza sui contenuti sia per stimolare la nascita di nuove associazioni tra elementi mai collegati. Queste nuove associazioni possono far emergere nel cliente nuove prospettive e aiutano ad esplorare i diversi percorsi che costituiscono l’ambivalenza. 5) Elicitare il discorso sul cambiamento: esistono anche diverse strategie utili per stimolare ed evocare il problema del cambiamento. Tra queste: usare domande evocative, esplorare i pro e i contro del cambiamento, suggerire l’elaborazione delle informazioni in modo da produrre nuovi punti di vista, fare immaginare al cliente cosa accadrebbe se avvenisse il cambiamento o se non avvenisse, guardare indietro e avanti nel tempo per osservare cosa è cambiato e cosa potrebbe cambiare e valutare quali sono state e sarebbero le conseguenze, esplorare obiettivi e valori del cliente, usare scale di importanza e di priorità.
Attraverso l’attuazione dei principi del colloquio di motivazione attraverso queste strategie il cliente dovrebbe riuscire ad osservare il proprio comportamento ambivalente come somma di due percorsi nettamente separabili ed essere sufficientemente motivato alla realizzazione di un cambiamento.
Miller e Rollnick [2002] riconoscono quattro tipi di conflitti di ambivalenza: approccio-approccio (raggiungere questo o quell’obiettivo), evitamento-evitamento (evitare questa o quella situazione), approccio-evitamento (raggiungere quell’obiettivo o evitare questa situazione), approccio-evitamento doppio.
La scelta verso uno dei due percorsi, che porta all’eliminazione dell’ambivalenza, comporta, di per sé, un cambiamento nelle contingenze di rinforzo che costituiscono l’ambiente in cui vive il soggetto e che indirizzano sempre di più il cambiamento. Questo tipo di cambiamento è del tutto naturale [Miller e Rollnick, 2002], non è una forma unica di evoluzione determinata da particolari tecniche messe in atto dallo psicologo, ma un mutamento naturale influenzato dall’insieme delle interazioni con lo psicologo. Questo avviene nel corso del trattamento e spesso entro le prime sessioni, la quantità del trattamento non sembra determinare una differenza significativa mentre sembra importante sia l’utilizzo di uno stile di colloquio empatico sia le credenze positive dello psicologo sulle probabilità di cambiamento del cliente. Se il cambiamento si interrompe e il cliente ha una ricaduta bisogna affrontare la situazione cercando di capire perché il cambiamento non è stato mantenuto e riprendere ad affrontare il comportamento problematico e ambivalente dall’osservazione delle sue caratteristiche. Nel processo che conduce al cambiamento esistono tuttavia alcuni ostacoli da superare, legati soprattutto alle resistenze mostrate dal soggetto con le quali il terapeuta deve “rotolarsi” evitando il confronto. Miller e Rollnick individuano quattro categorie di resistenze del cliente: 1) Discutere: nella quale il cliente contesta la capacità professionale del psicologo sfidandolo, screditandolo e manifestando aperta ostilità nei suoi confronti. 2) Interrompere: nella quale il cliente cerca di interrompere lo psicologo impedendogli di proseguire le proprie argomentazioni per difendersi da queste. 3) Negare: nella quale il cliente manifesta, in moltissimi modi diversi, la sua intenzione di non accettare i problemi, di non collaborare per un cambiamento e di non ricevere consigli. 4) Ignorare: in cui il cliente manifesta palesemente la sua indifferenza nei confronti del psicologo e delle sue parole rimanendo silente o distratto.
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Secondo gli autori [Miller e Rollnick, 2002] esistono modi scorretti e corretti per affrontare queste resistenze. I modi scorretti che devono essere evitati e che possono stimolare le resistenze del cliente anziché eliminarle sono: a) Discutere per il cambiamento: in cui lo psicologo affronta direttamente la resistenza senza “rotolarsi” su di essa dando origine a un contrasto con il cliente e orientandosi ad imporre un cambiamento. b) Assumere il ruolo dell’esperto: in cui lo psicologo assume un atteggiamento tecnicistico mostrandosi come il latore di risposte corrette e di certezze. c) Criticare, Imbarazzare, Incolpare: in cui lo psicologo sembra sfidare il cliente e stimolare emozioni negative, quali il senso di colpa, per ottenere potere su di lui. d) Etichettare: la diagnosi viene effettuata facendo uso di etichette focalizzate più su ciò che il cliente “è” che su ciò che il cliente “fa”. e) Essere in ritardo: in cui lo psicologo, a causa di un senso di urgenza più o meno realistico, si sente in diritto di mettere in atto tattiche chiare e forzate contro le resistenze per poter incedere verso la demolizione della resistenza. f) Pretendere la supremazia: in cui lo psicologo stimola anziché abbattere le resistenze mettendo in rilievo le proprie prospettive e i propri obiettivi come superiori rispetto a quelli del cliente.
“[…] egli non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno. Non lo scalfiscono le argomentazioni aggressive dell’avversario, il quale afferma che Dio è superstizione, che i miracoli sono trucchi, che credere negli angeli significa fuggire dalla realtà”.
[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997, p.106]
I modi corretti di affrontare e gestire le resistenze del cliente si realizzano attraverso la riflessione e risposte strategiche quali: spostare il focus del discorso su argomenti che non incentivino la resistenza, manifestare assenso e comprensione verso le resistenze del cliente e introdurre variazioni che introducano nuovi punti di vista, enfatizzare la scelta personale e il controllo (il diritto all’autonomia), favorire ristrutturazione positiva e l’uso del paradosso terapeutico per mostrare nuove prospettive.
Le resistenze del cliente non sono gli unici ostacoli che il terapeuta deve affrontare. Alcune trappole sono sempre in agguato, pronte ad annullare le possibilità di cambiamento del cliente. Queste trappole possono dipendere dal comportamento stesso dello psicologo e possono realizzarsi anche in modo inconsapevole. Da qui la necessità per lo psicologo di porre estrema attenzione non solo all’altro ma anche a sé stesso. Alcuni degli errori descritti da Miller e Rollnick [2002] in cui può incorrere sono: 1) la trappola della domanda-risposta (in cui si instaura un rapporto comunicativo caratterizzato da sequenze di domande chiuse e di risposte brevi), 2) il confronto-negazione, 3) assunzione del ruolo di esperto, 4) etichettamento, 5) il focus prematuro e 6) incolpare il cliente del suo problema.
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Come appare evidente, questi errori del psicologo, possono anche essere collegati ad un erroneo trattamento della resistenza del cliente come è stato sottolineato in precedenza. Infine, per chiudere quest’argomento, non può mancare una nota essenziale per descrivere l’approccio di Miller e Rollnick al colloquio psicologico. Il colloquio di motivazione non deve essere considerato come una tecnica ma come un modo di essere e di affrontare le dinamiche interazionali in qualsiasi rapporto comunicativo teso alla risoluzione di un problema. È un modo di essere centrato-sul-cliente ma anche direttivo (poiché non può essere altrimenti) anche se fugge gli estremi dell’imposizione e del confronto in favore di un rapporto collaborativo che mira a stimolare la risoluzione dell’ambivalenza (genesi del problema), una risoluzione che potenzialmente è già in possesso del cliente. Si tratta, quindi, di far emergere la soluzione, già esistente, dal problema stesso così che il cliente possa finalmente distinguere i diversi percorsi che, sovrapposti, davano origine all’ambivalenza. Questa nuova chiarezza aumenta la motivazione intrinseca intesa come aumento della probabilità che si verifichi un cambiamento nel comportamento della persona [Miller e Rollnick, 2002].
La scelta del cambiamento spaccherà così il circuito problematico e ambivalente instauratosi per un processo di apprendimento intervenuto a livello dei tre canali comunicativi (viscerale-autonomico, motorio-volontario e verbale-corticale) interdipendenti e indipendenti tra loro.
Questa scelta, attraverso questa spaccatura, darà origine ad un nuovo circuito di interdipendenza tra i canali comunicativi semplicemente modificando le contingenze di rinforzo dell’ambiente interno ed esterno al soggetto.
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