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Dungeons and Dragons tra empatia e assorbimento

In Dungeons and Dragons la creazione di personaggi che agiscono e pensano in modo differente stimola la capacità di comprendere il punto di vista altrui

Di Nicola Piccardi, Alessandro Campolmi

Pubblicato il 06 Lug. 2020

Che abilità sono implicate mentre si gioca a Dungeons and Dragons? Come mai e in che misura si è soliti giocare un primo personaggio molto simile a noi stessi? Perché col passare del tempo si diventa più bravi a fare del roleplay? Quanto questa attività è impegnativa dal punto di vista cognitivo?

 

Nell’esperienza degli autori di questo articolo alcuni fenomeni legati alle partite di Dungeons and Dragons sono piuttosto ricorrenti e, dato anche le nostre competenze come dottori in scienze psicologiche, ci è sembrato opportuno affrontare in maniera più scientifica certi aspetti su cui abbiamo avuto modo di confrontarci fra di noi in primo luogo. Ad esempio: come mai e in che misura si è soliti giocare un primo personaggio molto simile a noi stessi? Perché e in che misura col passare del tempo si diventa più bravi a fare del roleplay? Quanto questa attività è impegnativa dal punto di vista cognitivo? Che abilità sono implicate mentre si gioca a D&D? Perché alcune persone sembrano avere più difficoltà ad “entrare nel meccanismo” rispetto ad altre? Che cosa implica un ribaltamento (o anche solo un cambiamento) delle dinamiche fra i giocatori dentro e fuori una partita di D&D?

Questi, e molti altri dubbi ci hanno spinto a condurre una piccola ricerca nella letteratura anche solo per soddisfare la nostra curiosità e guardare al gioco che tanto amiamo con occhio anche critico oltre che benevolo. Tuttavia, prima di addentrarci nel focus di questo articolo, conviene chiarire qualche termine e porsi altre domande…

Ma cos’è questo D&D?

Dungeons & Dragons (D&D) è un Role-Playing Game (RPG), ovvero un gioco cooperativo, di improvvisazione, strutturato e una forma libera di “storie interattive” (Phillips) che hanno luogo nell’immaginazione dei partecipanti, generalmente radunati ad un tavolo mentre usano carta e penna per tenere traccia di eventi e fare annotazioni personali.

I giocatori si trovano dunque in un ambiente immaginario condiviso in cui possono interpretare un personaggio-protagonista che può essere anche molto diverso da loro (un po’ come se diventassero degli attori per certi versi), di questo personaggio scelgono quindi aspirazioni, caratteristiche di personalità, storia pregressa e ne plasmano il destino attraverso le scelte che compiono durante la storia esposta dal Dungeon Master (o game-master).

Il Dungeon-Master (DM) è solitamente una sorta di narratore che descrive l’ambiente che circonda gli altri giocatori, spesso è chiamato a descrivere l’esito delle azioni o degli eventi scatenati dai giocatori così come ad interpretare tutti i Personaggi Non Giocanti (NPC) con cui il gruppo di giocatori ha a che fare.

Ma cosa c’entra tutto ciò con la psicologia?

Negli ultimi 30 anni c’è stata una crescita enorme per quanto riguarda l’industria dei giochi (Global Games Market Report, 2015), sia quelli da tavolo, sia quelli che coinvolgono mezzi tecnologici che permettono la comunicazione a distanza (ovvero internet). Si può dire che essi hanno avuto e continuano ad avere un forte impatto sulle persone ed è quindi interessante interrogarsi su come sia questo “impatto” e se ci sia qualcosa da cui imparare da questo fenomeno.

In merito a D&D e ai giochi RPG (o MMORPG quando si tratta di parlare di quelli che avvengono online, tramite computer o console), la psicologia si è affacciata ad essi con numerose domande sugli effetti che possono avere sui giocatori. Prima di passare al tema principale di questo articolo è opportuno quindi dare una sbirciata ad altri temi importanti che lo riguardano e che toccano molto da vicino la psicologia.

Andando molto a ritroso e parlando di evoluzione, oltre che di etologia, è interessante notare come gli esseri umani non siano gli unici a inscenare certi tipi di comportamenti o a prestarsi a giochi di “finzione” dove ci sono ruoli più o meno definiti (Owens and Steen 2001). Senza scomodare leoni adulti che si fingono abbattuti quando morsi dai loro cuccioli, un esempio più prossimo all’esperienza di tutti i giorni riguarda ad esempio la posizione di gioco assunta dai cani (zampe anteriori poggiate al terreno e posteriori molto alzate, come a mostrare il sedere) che invita l’altro a intraprendere una serie di attività solitamente innocue in cui spesso a turni si rincorre o si viene rincorsi. Questa modalità di gioco in realtà darebbe l’opportunità di sperimentarsi e fare pratica di abilità molto importanti legate alla sopravvivenza, così come di stimolare il cervello anche solo attraverso i famosi neuroni specchio (Rizzolatti et al., 1998) che sono delle cellule cerebrali che si attivano involontariamente quando vediamo un’azione compiuta da altri, piuttosto che quando la intraprendiamo noi stessi. Questi stessi neuroni specchio a loro volta sono coinvolti in apparati che non si differenziano per attività legate agli RPG (o MMORPG), alla recita in un film, o all’immaginare le emozioni di un personaggio di D&D (Lieberoth, 2013). Infatti il cervello recluta questi network neurali evoluti per fare (o per fare esperienza di) queste cose nella vita reale, il che potrebbe essere anche una ragione del perché guardare un film o una fiction potrebbe portare ad un incremento di abilità come l’empatia, la comprensione e la capacità di assumere la prospettiva degli altri (Mar et al., 2009; Kaufman and Libby, 2012).

Prendendo in considerazione quanto detto e inserendolo nel contesto della pratica clinica e di alcuni tipi specifici di terapie (se non di scuole di pensiero in merito alla terapia in generale), può diventare centrale la possibilità di mettere in scena (anche solo attraverso l’immaginazione) quelle che possono essere le situazioni dolorose di una persona o le sue paure, specie quando si è in un luogo sicuro in cui affrontarle.

Un esempio concreto di tipi di terapia legate alla “messa in scena” possono essere infatti ritrovate nello Psicodramma (in cui i partecipanti esplorano emozioni e vissuti personali attraverso la drammatizzazione teatrale) o come tecnica tipica di una terapia della Gestalt (in cui vi è la considerazione della persona come un “tutto” e vi è anche una grande considerazione del non-verbale), dove ad esempio ne “la sedia vuota” si invita il paziente ad immaginare un interlocutore a cui parlare e da cui ricevere anche risposte, o addirittura nella tecnica espressiva dell’”esagerazione e sviluppo”, dove si dà il compito di esagerare e ripetere un certo tipo di gesto, suono o azione compiuti dal paziente.

Senza soffermarci troppo su questi aspetti aggiungiamo solo che l’esplorare i propri problemi, senza subire le conseguenze di fare un “errore”, o il riuscire a fermarsi e il non farsi coinvolgere dalle dinamiche/emozioni/reazioni che portano a conseguenze nefaste, ha un valore indubbiamente ampissimo che certamente merita una descrizione che va ben oltre lo scopo di questo articolo.

In base a quanto riassunto finora, appare chiaro dunque quante potenzialità abbia il mondo di Dungeons & Dragons, dove sin già dalla creazione del personaggio il giocatore ha la possibilità di esplorare nuovi modi di essere e mettere l’accento su alcuni aspetti di sé stesso più che altri, o anche interagire con le persone che lo circondano in maniera diversa rispetto al solito, aprendo le porte quindi a possibilità che difficilmente si permetterebbe di darsi.

La creazione di personaggi che agiscono e pensano in maniera differente rispetto al proprio (fatto che nell’esperienza degli autori di questo articolo si verifica praticamente tutte le volte che si gioca a D&D, anche solo a causa del fatto di essere inseriti in un contesto diverso dalla propria realtà) contemporaneamente necessita e stimola la capacità di comprendere modi di agire, motivazioni, emozioni, credenze, fino anche ad interpretazioni di cosa ci possa essere nella mente di qualcuno diverso da noi, costrutto che in psicologia può essere assumibile e riassunto nei termini di Teoria della mente, definibile come l’abilità di riflettere sugli stati mentali, sulle credenze, sui desideri e le intenzioni, così come la capacità di comprendere gli stati mentali per spiegarsi e predire il comportamento degli altri (Apperly, 2012). E se ciò è vero per i giocatori-protagonisti della storia, lo è ancora di più per il DM che nel corso di una singola sessione di gioco potrebbe ritrovarsi ad interpretare più di un personaggio (a seconda delle interazioni sociali che i protagonisti vogliono intraprendere durante la partita) moltiplicando quindi il livello di concentrazione (e di difficoltà) per tenere a mente stati mentali di individui diversi non solo dal loro “attore”, ma anche fra loro stessi.

D&D vs Empatia e Assorbimento

Andando nel cuore del tema principale di questo articolo, uno studio che tratta direttamente dei livelli di empatia degli individui che si impegnano nei giochi di ruolo è quello di Rivers et al. (2016), nel quale gli autori ipotizzano come il giocare assiduamente un personaggio possa portare all’incremento delle “perspective taking skills” (abilità di assumere prospettive altrui) da parte dei giocatori, in quanto essi devono alterare il proprio punto di vista rispetto alla realtà per meglio interpretare il personaggio che stanno giocando.

Lo strumento da loro utilizzato per l’analisi delle capacità empatiche dei partecipanti è stato il Davis IRI (1983, 1994); tale questionario richiede di rispondere ad ogni domanda tramite una scala likert a 5 punti con i quali si esprime il grado di accordo o disaccordo su quanto la frase sia rappresentativa della propria persona o esperienza. Il questionario è così suddiviso nelle seguenti sottoscale:

  • Fantasy: la quale indica la tendenza a trasporre se stessi nei sentimenti e nelle azioni di personaggi fittizi di libri, film e spettacoli (con domande del tipo: “Quando leggo una storia o un romanzo interessanti immagino come mi sentirei se gli eventi della storia stessero accadendo a me”);
  • Emphatic concern: la quale indica i sentimenti di simpatia e preoccupazione riguardo gli altri (“Mi descriverei come una persona dal cuore tenero”);
  • Perspective taking: la tendenza ad adottare spontaneamente il punto di vista degli altri (“Quando sono arrabbiato con qualcuno, solitamente cerco di mettermi nei suoi panni per un po’ di tempo”);
  • Personal distress: riguardante i sentimenti di ansia e disagio provati in situazioni interpersonali (“Tendo a perdere il controllo durante le emergenze”).

Come accennato precedentemente, gli autori ipotizzano inoltre come l’interpretare un personaggio per lunghi periodi di tempo possa avere effetto anche sulle capacità del giocatore di essere completamente assorbito della propria esperienza di gioco, supportando questa ipotesi col fatto che chi possiede alti livelli di assorbimento sia anche più incline a fare esperienza di particolari tipi di assorbimento empatico o interpersonale con personaggi presenti in libri, film e spettacoli teatrali.

Gli autori riportano come tale caratteristica sia rintracciabile nelle persone che si perdono nelle esperienze dei personaggi con cui si identificano. Tale tipo di assorbimento interpersonale sembra inoltre legato ad un alto grado di apertura alle esperienze.

Il secondo questionario utilizzato nello studio analizzato di Rivers et al. (2016) è quindi il Tellegen Absorption Scale (TAS), che si prefigge di misurare i livelli di assorbimento nei giochi di ruolo con risposte del tipo vero/falso. Il questionario è stato quindi costruito in modo da indagare l’assorbimento concettualizzato come una disposizione ad andare incontro ad episodi di totale attenzione i quali richiedono l’utilizzo totale delle proprie risorse rappresentazionali (rappresentazioni di percezioni, di idee, di azioni etc.).

Conclusioni

Spesso e volentieri si ha una visione del giocatore medio di D&D come di una persona “isolata nel suo mondo”, lontana da aspetti sociali ed emotivi della vita reale, forse senza nemmeno una grande comprensione delle dinamiche fra persone o della realtà che lo circonda.

In realtà in base ai risultati dello studio sopra menzionato si evince una tendenza che favorisce la teoria degli autori, i quali hanno trovato come i partecipati abbiano ottenuto una media superiore a quella della popolazione generale per quanto riguarda le sottoscale riguardanti l’empatia, senza che vi fosse alcuna differenza tra uomini e donne partecipanti allo studio. Inoltre è emerso come la variabile “assorbimento” (analizzata dal questionario TAS) sia in correlazione ed associata a livelli di empatia maggiori.

Quindi, al contrario dello stereotipo del ragazzo con la “testa fra le nuvole” o “chiuso nel suo mondo”, un più alto coinvolgimento da parte dei giocatori potrebbe essere ciò che contribuisce o è necessario per sviluppare quelle stesse abilità empatiche discusse finora.

Vogliamo infine ricordare che D&D e terapia sono cose ben distinte, nonostante abbiano punti in comune e affinità (sotto alcuni punti di vista), il loro scopo è assai dissimile. Mentre la terapia si occupa di malessere psichico o difficoltà riscontrate nella vita quotidiana, D&D si prefigge piuttosto come un mezzo di intrattenimento e (aggiungeremmo) ritrovo sociale. Ad ogni modo il partecipare a sessioni di D&D sembra essere un’attività da incoraggiare in quanto sembra mostrare di avere effetti positivi molteplici, tra cui quello che riguarda i livelli di empatia dei partecipanti.

Gli autori di questo articolo vi invitano dunque ad armarvi di D20 (dado a 20 facce per giocare a D&D), lasciandovi con questa citazione:

The use of this game as an adjunct to therapy can allow patients an opportunity to explore their mental dungeons and slay their psychic dragons

L’uso di questo gioco come un’aggiunta alla terapia può dare ai pazienti un’opportunità di esplorare i loro dungeon mentali e uccidere i loro draghi psichici (Blackmon, 1994).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • A. Apperly (2012): What is “theory of mind”? Concepts, cognitive processes and individual differences, The Quarterly Journal of Experimental Psychology, 65:5, 825-839, DOI: 10.1080/17470218.2012.676055
  • Anissa Rivers, Ian E. Wickramasekera II, Ronald J. Pekala & Jennifer A. Rivers (2016) Empathic Features and Absorption in Fantasy Role-Playing, American Journal of Clinical Hypnosis, 58:3, 286-294, DOI: 10.1080/00029157.2015.1103696
  • Blackmon, W. D. Wayne D. Blackmon (1994). Dungeons and Dragons: The Use of a Fantasy Game in the Psychotherapeutic Treatment of a Young Adult. American Journal of Psychotherapy, 48 (4), 624-632
  • Davis, M. H. (1983). Measuring individual differences in empathy: Evidence for a multidimensional approach. Journal of Personality and Social Psychology, 44, 113–126. doi:10.1037/0022-3514.44.1.113
  • Davis, M. H. (1994). Empathy: A social psychological approach. Boulder, CO: Westview Press.
  • Kaufman, G. F., & Libby, L. K. (2012). Changing beliefs and behavior through experience-taking. Journal of Personality and Social Psychology, 103(1), 1–19. https://doi.org/10.1037/a0027525
  • Lieberoth, Andreas. (2013). “Religion and the Emergence of Human Imagination.” In Origins of Religion, Cognition and Culture, edited by Armin W. Geertz, 160–77. London: Acumen Publishing, Ltd.
  • Mar, R. A., Oatley, K., & Peterson, J. B. (2009). Exploring the link between reading fiction and empathy: Ruling out individual differences and examining outcomes. Communications, 34(4), 407-428.
  • Owens, Stephanie A. and Francis F. Steen. (2001). “Evolution’s Pedagogy: An Adaptionist Model of Pretense and Entertainment.” Journal of Cognition and Culture 1 (4): 289-321.
  • Rizzolatti, G. (1998). What happened to Homo habilis?(Language and mirror neurons). Behavioral and Brain Sciences, 21(4), 527-528.
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