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Neurobiologia della volontà (2022) di Arnaldo Benini – Recensione

Nel testo 'Neurobiologia della volontà' viene fatta una lunga disamina sulle radici neurobiologiche che ci consentono di scegliere in maniera consapevole

Di Marvin Rosano

Pubblicato il 12 Set. 2022

In questa recensione, mi soffermerò su tematiche esistenziali, accennate dall’autore nel libro “Neurobiologia della volontà” e che, rispetto alla mia lettura e a quello che il testo ha “letto” e “fatto emergere” in me, desidero argomentare e guardare in maniera più approfondita.

 

 L’ultimo testo di Benini, a mio avviso, rappresenta un’importante occasione per dare spazio ad un tema esistenziale fondamentale, ovvero la libera volontà e come la percezione di questa rappresenti una dimensione che dia sicurezza e fondamento all’esperienza umana. Sentirci agenti, con un margine di prevedibilità e contingenza sulla realtà esterna, ci consente di sopravvivere, di coltivare un senso di continuità e di fiducia rispetto a noi stessi e agli altri, di mettere radici nel mondo e di affidarci. Tuttavia, un irrigidimento di questa, un suo bisogno frenetico, per quanto possa rimboccarci l’esistenza e farci sentire “protetti” dalla vulnerabilità, spingendoci in casi estremi al perfezionismo e ad un’illusione di “immunità” rispetto a ciò che non può essere controllato, allontanando o “negando” la paura di sentirci reali ed esposti, soffoca la nostra possibilità di esplorarci, di sperimentare una “pienezza di vita”, che non può prescindere dal confronto con lo sconosciuto, l’estraneo, l’ostile, l’ombra. Il nostro sé può anche andare incontro ad esperienze di vera e propria emorragia, in cui cerca di emergere attraverso una parziale e totale perdita dei confini (per esempio nelle organizzazioni borderline e psicotiche di personalità, in cui in realtà, l’irrigidimento, la contingenza perfetta, l’equivalenza psichica tra sè e il mondo, sono proprio dei fattori centrali e determinanti nella mancanza di integrità di sé). In questo, tengo a sottolineare come da questo testo emerga anche il valore dell’in-certezza, come un viaggio che si intraprende passando di certezze in certezze, non barricandosi all’interno di convinzioni, che non tende ad allontanare l’insicurezza con la forza di volontà, ma piuttosto permette di guardare il nostro mondo interiore come una presenza creativa.

Nel testo di Benini, viene fatta una lunga disamina su quelle che siano le radici neurobiologiche che ci consentano di scegliere in maniera consapevole e quindi di “coltivare un senso di responsabilità nei confronti di noi stessi e degli altri”. Viene fatto cenno ad una “volontà del male”, o a quella che sembra tale. “Fare il male”, che si può manifestare come aggressività reattiva di difesa e quindi come scarica violenta e può anche prendere forma in dimensioni più organizzate, dove alla base vi sono “idee prevalenti”, in cui la realtà della “responsabilità personale” viene meno, all’insegna di un “grande altro” a cui delegare, a cui obbedire e da cui sentirsi legittimati. Benini fa riferimento al nazismo, in cui l’individuo era totalmente sottomesso all’autorità politica e in cui, coloro i quali commettevano crimini atroci, erano anche persone senza alcun tipo di recidiva o pericolosità sociale, che però azionavano una sorta di “pilota automatico”, sacrificandosi nei confronti di dell’autorità e dell’idea prevalente. Nell’uomo si vede anche il piacere nel mettere in atto forme crudeli di tortura, il godimento nella sofferenza dell’altro, a detta di Kerneberg (1999), un’erotizzazione dell’aggressività. In tutto ciò, scrive Benini, si manifesta una particolare “volontà del male”, che spinge l’uomo a sopraffare l’altro. Levi (1975), in “Così fu Auschwitz”, scrive: “ Ci siamo accorti che l’uomo è sopraffattore: è rimasto tale, a dispetto di millenni di codici e di tribunali”. Ciò costituisce uno dei cardini della testimonianza di Levi, che invita a non “mutilare la storia”, a riconoscere la possibilità di una violenza inutile e gratuita in ogni uomo. Una testimonianza contro la “complicità morale” che ha visto nel nazismo, il coinvolgimento di un intero popolo. Questo, a mio avviso, costituisce un invito a riconoscere la propria “ombra” e rapportarsi ad essa, coltivando pertanto quello che Jung (Jung, 1946) definisce un “sentimento di pienezza psichica”, ponendo quindi un limite al rischio di cadere nel circolo vizioso che ha guidato la violenza nazista, una sostanziale “disumanizzazione” che consentisse, considerando lo straniero un oggetto, un pupazzo e non un uomo, di annientarlo con ferocia.  La scienza, scrive Benini, dimostra che nessun processo mentale, quindi neanche la volontà, avviene senza l’attivazione del sistema nervoso. La coscienza della volontà e il meccanismo nervoso che la realizza sono due eventi diversi.

Per Hume la volontà rappresenta la sensazione di essere motore e causa di un qualcosa, quindi di poter esercitare un qualche controllo contingente sulla realtà. Per la natura biologica della volontà, del bene e del male, scrive Benini, le neuroscienze forniscono prove convincenti, anche se non si sa nulla della loro natura, al pari di ogni evento della coscienza. Lo sviluppo dei lobi prefrontali, ha consentito lo sviluppo dell’autocoscienza, presente solo nell’uomo, con cui, a seguito, si svilupparono la spinta alla crudeltà e la legge morale del bene e del male. La neurobiologia di mente e autocoscienza postula che ad ogni evento mentale corrisponda un correlato neuronale NCC. In questo, la costante relazione tra il nostro mondo interno e l’esterno, consente la modificazione strutturale del cervello, a seconda del rapporto con l’esterno, e quindi la creazione di nuove connessioni sinaptiche. Si parla quindi di plasticità cerebrale. In questo, risulta fondante l’intenzionalità connessa a uno “stato della mente”, e quindi quanto la nostra percezione della realtà, il nostro comportamento e la nostra volontà siano determinate da sentimenti, emozioni, pensieri, credenze connesse a quel particolare stato mentale. Sempre Benini (2017), nel suo testo, “Neurobiologia del tempo”, fa riferimento al fenomeno della “compressione temporale” come processo fondamentale nella nostra percezione della simultaneità nella coordinazione di stimoli e che ci consente quindi di formare delle rappresentazioni spaziali e temporali dell’esperienza. Questo processo interviene inoltre nel rapporto tra causa ed effetto. È più facile riconoscere un rapporto causale quando gli eventi sono soggettivamente vicini nel tempo e nello spazio. Viene messo in atto un meccanismo di calibraggio delle stimolazioni sensoriali, la compressione fa riferimento ad un tempo perso non del tutto ma comunque sottratto alla coscienza. Il tempo fra uno stimolo visivo e la sua percezione è un temps perdu. Il cervello manipola e distorce il tempo, prima di trasmetterlo alla coscienza. È un’illusione che le percezioni multisensoriali siano sincrone e immediate. Questo ha sicuramente un valore adattivo e funzionale, orientato a formarci rappresentazioni della realtà su coordinate spazio-temporali. In questo c’è da considerare l’influenza dello stato emotivo in cui l’interrelazione tra tempo soggettivo e oggettivo può essere più lunga o più breve, ha sicuramente un valore adattivo orientato per esempio a consentire una maggiore focalizzazione attentiva su possibili minacce. In “Neurobiologia del tempo” viene quindi sottolineato il valore adattivo in merito alla nostra percezione di simultaneità tra stimoli e come questa sia una fondamentalmente un’illusione che permette di coltivare un senso di coerenza e prevedibilità sul reale. In “Neurobiologia del tempo” viene messo in evidenza come il nostro senso del volere “consapevole” sia fondamentalmente illusorio e altrettanto orientato ad una percezione di coerenza sul reale. Rifacendosi agli esperimenti sull’intenzione di movimento, di Kornhuber e di Libet, Benini riporta quello che è stato definito come “potenziale di prontezza”, ovvero un’attività elettrica registrata nell’area corticale motoria, premotoria e motoria supplementare, di circa un secondo e mezzo prima del movimento senza l’attivazione delle aree frontali della coscienza. Cioè prima che la persona si renda conto di volersi muovere. Libet approfondì ulteriormente la questione del “potenziale di prontezza”, chiedendosi quando si diventi coscienti di volersi muovere. Egli dimostrò che l’RP (potenziale di prontezza) è già attivo 550 millisecondi prima dell’attivazione dell’area corticale motoria di entrambi gli emisferi, e che la persona diventa cosciente di voler fare quel movimento 400 millisecondi dopo l’insorgenza dell’RP e 200 millisecondi prima che il movimento inizi. Il cervello quindi inizia i processi preparatori per un atto che ci si illude di fare volontariamente. A questo proposito, Mark Hallet, specialista nei disturbi del movimento, sostiene che il senso della volontà libera, non sia l’origine del movimento ma la presa di coscienza di un evento nervoso già in atto. Ma quale area cerebrale suscita l’intenzione e la consapevolezza di muoversi? Dagli esperimenti condotti, scrive Benini, si è visto il ruolo centrale del lobo parietale che attiva l’intenzione del movimento. La stimolazione elettrica della corteccia parietale destra in sette pazienti che avevano subito anestesia locale, suscitò l’estremo desiderio di muovere la parte opposta del corpo senza effetto motorio. Con una stimolazione più forte di quest’area, i pazienti credevano realmente di aver fatto il movimento, con una coscienza quindi di un movimento illusorio non avvenuto. La stimolazione dell’area premotoria provoca invece un movimento di cui non si è consapevoli. La coscienza della volontà di muoversi e del movimento derivano quindi dalla crescente attività del lobo parietale antecedente l’azione. Rimane tuttavia un mistero, scrive Benini, come un segnale elettrico diventi un contenuto dell’autocoscienza. Libet, continua Benini, in base ai risultati sperimentali ottenuti, non si sentì di eliminare la libera volontà. Infatti, tra la presa di coscienza del movimento e il movimento stesso, vi sono 150 ms, in cui è possibile interrompere volontariamente il movimento. Egli sostenne inoltre che esistono eventi mentali non correlati a eventi neurali, per cui il libero arbitrio esisterebbe come possibilità di bloccare una decisione incosciente. Tuttavia, quello che emerge dalla ricerca di Libet, è che dalla corteccia motoria, attiva nel momento del RP, partano due informazioni: una che va ai centri della coscienza, grazie alla quale, in 400 millisecondi si diventa coscienti del movimento già in atto, e l’altra ai centri motori dei muscoli da attivare. Da ciò, sottolinea Benini, la libera volontà sembrerebbe esclusa e ciò che spinse Libet a convincerlo dell’esistenza del libero arbitrio fu probabilmente una spinta di carattere morale. Nel testo viene anche fatto riferimento a quelle che Benini definisce come “tragedie della volontà”. Viene menzionata la Xenomelia, ovvero una patologia in cui viene sperimentata la “sensazione opprimente” che uno degli arti non appartenga al corpo, con un altrettanto fagocitante desiderio di amputazione dello stesso, tragica conferma, scrive Benini, di come la corteccia sensoriale possa determinare la volontà. Si tratta di un disturbo organico del senso di integrità corporea, mediato dalla corteccia del lobo parietale destro con una conseguente difficoltà nell’integrare l’arto ossessivo nella rappresentazione neuronale. In questo caso, quindi, il difetto della sensibilità corporea alimenta la volontà dello scempio.

 Nel penultimo capitolo viene approfondito il tema dell’illusione della libera volontà, come dimensione esistenziale fondante dell’esperienza umana. Il senso di agentività e di contingenza dato dalla volontà rappresentano una modalità di sopravvivenza volta a trasmettere un senso di sicurezza nei confronti dell’imprevisto della vita, della vulnerabilità e della morte. E, in questo, anche le religioni hanno avuto un ruolo di fondamentale importanza. Sentirsi la causa di qualcosa permette di avere un senso di controllo, un’energia del fare per affrontare le sventure della vita. Tutto ciò, a mio avviso, ha a che fare con una dimensione egoica che richiede dei confini, un’identità ben strutturata, un fondamento nella quotidianità che dia un senso e che permetta di riconoscersi in un ruolo. Recalcati, nel suo testo “Esiste il rapporto sessuale”, fa riferimento al tema della perdita dei confini come esperienza di disarmo e nuova apertura. Uno sconfinamento che, se accolto, porta un ampliamento, uno svuotamento, un decentramento. Questa esperienza di decentramento, scrive Recalcati (2021), si manifesta nel “fare l’amore”. L’erotismo, non è un prendere ma un accogliere, non è un fare ma un lasciarsi fare, un fare per disfare. Non rappresenta pertanto un attivismo diretto ad un obiettivo, quale invece dimensione fondante della volontà, o per meglio dire, della sua illusione.

Benini, nell’ultimo capitolo del libro, scrive: “Si diventa coscienti non della realtà ma dell’informazione creata da molti meccanismi cerebrali”. Si diventa quindi coscienti di ciò che lo stato mentale ci porta a percepire e da lì derivano la volontà e l’azione. Mark Balaguer, citato da Benini, fa un’interessante ipotesi rispetto ad uno dei temi centrali del libro, ovvero se e quanto l’attività corticale (RP) sia identificabile con la scelta stessa. Egli sostiene che non ci siano dubbi sul fatto che questa attività sia verificabile, tuttavia, allo stesso tempo, non vi è  alcuna certezza che questa attività sia la causa di ciò che la volontà sembri scegliere. Rimane comunque caratterizzante ciò che Libet afferma, ovvero come la volontà possa sospendere un’azione in corso ma mai prendere una decisione, quindi come traccia della coscienza verso il senso morale e la responsabilità. L’esperienza dell’illusione della volontà, per quanto adattiva, può però portare, come accennato prima, ad una certa quota di rigidità, di iperattivismo, di intrappolamento nello stimolo, a detta di Recalcati (2021),  di “frenesia nel prendere”, che può condurre a schemi ripetitivi di pensieri, emozioni e comportamenti senza soluzione di continuità. Ecco che, in questo, assume importanza la possibilità di sospendere “un’azione già in corso”. Qui, a mio avviso, si ritrova l’autentica occasione di coltivare un’esperienza di “testimonianza verso se stessi”, di andare oltre le barriere egoiche, superegoiche e quella che Freud definisce “coazione a ripetere” ciò che non è stato formulato. In ciò, si può quindi cogliere l’esperienza della libertà, dell’amore e della consapevolezza. Carotenuto (1994, p. 230) scrive: “Se l’uomo fosse libero, non avrebbe bisogno di tradire; eppure è anche vero che se l’uomo non fosse libero, non potrebbe tradire”. A questo punto, vorrei concludere la recensione di questo interessante testo, con una citazione di Jung, tratta dal libro “Amare, Tradire” di Carotenuto (Carotenuto, 1994, p.2309): “ Chiunque percorra la strada che porta alla totalità non può sfuggire a quella caratteristica sospensione che è rappresentata dalla crocefissione. Egli finirà infatti per imbattersi in ciò che gli taglia la strada: in primo luogo in ciò che egli non vorrebbe essere, in secondo luogo in ciò che non egli non è, ma l’altro è, e in terzo luogo in ciò che costituisce il suo non-io psichico”.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Benini, A. (2017). Neurobiologia del tempo. Milano: Raffaello Cortina Editore
  •  Benini, A. (2022). Neurobiologia della volontà. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Carotenuto, A. (1991). Amare, tradire. Quasi un’apologia del tradimento. Milano: Casa editrice Bompiani
  • Levi, P, (2015). Così fu Auschwitz. Torino: Giulio Einaudi Editore
  • Recalcati, M. (2021). Esiste il rapporto sessuale. Milano: Raffaello Cortina Editore
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