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L’alessitimia come disturbo della regolazione affettiva e sua origine

Esistono persone con una profonda difficoltà nel contattare le proprie emozioni, nel riconoscerele e metterle in parole; esse soffrono di Alessitimia.

Di Redazione

Pubblicato il 02 Set. 2015

Giorgia Di Fabio

Esistono persone che hanno una profonda difficoltà nel contattare le proprie emozioni, nel riconoscerele e metterle in parole; non si tratta di persone ‘semplicemente fredde o riservate ma di persone che soffrono di una sindrome detta Alessitimia (dal greco a-:  mancanza, lexis: parola e thymos: emozione; letteralmente non avere le parole per le emozioni).

Il concetto di regolazione affettiva è recentemente entrato in forma compiuta nella ricerca sulle emozioni, tuttavia sin dalla teoria psicoanalitica emerge il concetto dell’esigenza di una struttura matura che sappia dare forma, controllare e regolare il magma emozionale dell’uomo e allo stesso tempo permetta l’espressione di un qualcosa di primitivo e grezzo in origine.

Le emozioni si presentano a tre dimensioni: fisiologica, motorio-comportamentale e cognitivo-esperenziale e si esprimono attraverso una forma di comunicazione interpersonale molto complessa.

Il soggetto alessitimico risulta carente soprattutto nella componente cognitivo-esperenziale e nella comunicazione interpersonale dell’emozione: i livelli fisiologico e motorio-comportamentale rimangono privi di una regolazione cosciente, cognitiva, verbale a livello individuale, inoltre sono deficitari della possibilità di usare i rapporti interpersonali nella regolazione affettiva ed è soprattutto questa carenza di condivisione sociale che impedisce di identificare le emozioni: l’alessitimia viene dunque ad essere concettualizzata come un disturbo della regolazione affettiva (Taylor e al., 1991).

La maggior parte delle teorie di orientamento psicoanalitico più recenti sostengono che la regolazione, il contenimento di esperienze primitive, avvengano nei primissimi anni di vita del bambino all’interno del rapporto con l’accudente primario (Bion 1962, Winnicott, 1965, Kohut, 1976; Bowlby, 1989; Main, & al. 1985).

Il filone dell’Infant Reserch ha poi posto l’accento sulla specificità della regolazione reciproca madre-bambino: non solo il caregiver regola gli stati emotivi primitivi del bambino, ma viceversa i segnali affettivi provenienti dal bambino regolano l’affettività e il comportamento della madre (Stern, 1984,1985; Emde e al. 1991) ponendosi in parallelo col concetto di sintonizzazione.

Bion (1962) evidenziava il bisogno che le protoemozioni, sensazioni primitive prive di elaborazioni significanti (gli elementi β) derivati dall’esperienza, venissero trasformati, attraverso la funzione α, in rappresentazioni mentali di emozioni, sogni, fantasie, pensieri coscienti (elementi α), metabolizzati attraverso il contenimento (la funzione di reverie) della madre perché potessero emergere come rappresentazioni mentali del mondo interno del bambino, altrimenti in qualità di elementi β, indigeriti, non sarebbero pensabili ed evacuate come cose attraverso il corpo e la sensorialità o tramite l’azione.

Il modello bioniano aiuta a comprendere anche perché un soggetto alessitimico possa arrivare a piangere senza capirne il motivo: il pianto può avere due funzioni molto diverse, quella di esprimere un’emozione quindi come tale percepita e vissuta, e quella di evacuare una cosa dolorosa di cui in realtà non si conosce origine e significato (elemento beta).

Nella concettualizzazione di Bion lo sviluppo della funzione alfa nel rapporto di accudimento, che poi verrà gradualmente interiorizzata dal bambino, collega il concetto di regolazione/disregolazione affettiva con quello di un disturbo della relazione con l’oggetto regolatore e in tal senso Bion anticipa, e in parte vi si pone in parallelo, la posizione di Winnicott (1965) sull’origine e sulla natura della capacità di regolazione affettiva del bambino a proposito del concetto di holding e poi di oggetto transizionale come fase intermedia dell’interiorizzazione della regolazione.

In Kohut (1976) la regolazione affettiva si realizza nel rapporto con l’oggetto-sé e la possibilità di acquisire questa regolazione si verifica mediante l’interorizzazione trasmutante pur restando necessario il rispecchiamento con oggetti-sé maturi.

Grotstein & al. (1997) attribuisce alla buona riuscita o meno della regolazione affettiva e fisiologica, realizzata inizialmente nella reciprocità dello scambio tra il soggetto accudente e il bambino e poi in via autonoma, i fondamenti della salute e della patologia di un individuo; i disturbi psicofisici sono considerati, allora, come carenze di tale regolazione dell’organismo e le stesse pulsioni della teoria psicoanalitica vengono così interpretati alla luce del tentativo di ripristinare tale regolazione affettivo-fisiologica ottimale.

Grotstein (1986) sostiene che una carenza di contenimento, di sintonizzazione, un disturbo comunque nelle relazioni primarie, farebbe sì che l’emozione rimanga ad uno stadio estremamente primitivo e pericoloso: per evitare di essere travolto da una valanga di emozioni ingestibili, il soggetto alessitimico metterebbe in atto meccanismi difensivi massicci contro l’affettività. Soggetti con elevati livello di alessitimia possono presentare sia un’espressione emotiva scarsa che un’espressione emotiva esagerata, non calibrata rispetto alle circostanze: questa sarebbe la differenza tra emozione elaborata ed emozione non elaborata come per l’ansia ed il panico, con valore adattivo la prima, immediato e terrificante il secondo.

Infine Fonagy e coll. (1991) ritengono che la capacità di regolazione affettiva sia indispensabile allo sviluppo della teoria della mente ovvero il modo in cui ciascuno di rappresenta il funzionamento mentale proprio ed altrui e reciprocamente considera la capacità di rappresentare mentalmente un’emozione come fondamentale per evitare che l’emozione stessa diventi dilagante, annientante. Entrambe le due capacità risultano gravemente danneggiate se il soggetto è stato sottoposto ad esperienze traumatiche, specie se prolungate (Fonagy & Target, 1996).

Per quanto concerne la riflessione sulle cause e sulle origini del disturbo, si pensa che nell’eziologia dell’alessitimia siano in gioco diversi fattori, tra cui: le variabili socioculturali (vedi la maggior prevalenza nei maschi e nei ceti svantaggiati), i deficit neurobiologici, le variazioni nell’organizzazione cerebrale (ad esempio una disfunzione dell’emisfero destro – tradizionalmente connesso alla neurobiologia delle emozioni o un deficit del trasferimento interemisferico). In particolare è stata messa in luce l’influenza critica, estremamente significativa, delle prime esperienze relazionali e di attaccamento.

Studi osservativi condotti su neonati nell’interazione con il loro caregiver principale (solitamente la madre), mostrano che nel bambino è rintracciabile, fin dai suoi primi mesi di vita, un’attività comunicativa centrata sull’espressione delle emozioni (Crugnola & Baioni, 2002). Se è quindi dimostrata la presenza di emozioni innate di base, espresse fin dall’inizio dal punto di vista comportamentale e fisiologico, l’aspetto soggettivo-esperenziale delle emozioni di base e le emozioni più complesse (amore, vergogna, invidia, orgoglio, colpa) si sviluppano durante la prima infanzia.

Quelli che nel neonato sono stati indifferenziati di soddisfazione e disagio, pian piano si differenziano in una complessa gamma di emozioni specifiche e conoscono una progressiva desomatizzazione: le acquisizioni, nel secondo anno di vita, della capacità rappresentativa e del linguaggio hanno un impatto fondamentale nella sviluppo della consapevolezza emotiva soggettiva e nella capacità di identificare e regolare gli affetti, sia a livello intrapersonale che nelle relazioni con gli altri.

La madre ha, secondo la concezione di Bion (1962) un ruolo di contenitore, cioè ha la funzione di assorbire, contenere, elaborare e interpretare gli stati affettivi del suo bambino, soprattutto quelli disturbanti (Taylor & al., 2000); laddove questa funzione di contenitore e regolatore fallisce, il bambino (e poi l’adulto) sviluppa un contenitore interno difettoso, le emozioni non sono trasformate in rappresentazioni mentali e oggetti di pensiero, ma rimangono a livello di percezioni, sensazioni, impulsi all’azione (di qui l’alto rischio di disturbi psicosomatici).

Tutte queste riflessioni hanno una rilevanza particolare per il costrutto di alessitimia, in quanto forniscono una concettualizzazione originale e interessante dell’importanza evolutiva delle primissime relazioni di attaccamento, in cui il soggetto impara a regolare non solo il suo funzionamento interpersonale, ma anche quello mentale ed emotivo. Grazie ad un legame di attaccamento sicuro e ad una buona sensibilità, responsività e sintonizzazione del caregiver, il bambino impara a utilizzare la valutazione cognitiva per modulare gli affetti e gli affetti per arricchire la cognizione.

Secondo la Teoria dell’Attaccamento (Main & al.,1985) i problemi di inibizione o disregolazione affettiva nascono da stili di attaccamento insicuri; questi si associano con schemi interni e modelli di rappresentazione che riflettono un mancato processo di integrazione delle informazioni affettive con quelle cognitive. In particolare, il bambino con attaccamento insicuro-evitante (il cui caregiver risulta rifiutante, emotivamente non disponibile e scarsamente espressiva) tende a sviluppare dei problemi di riconoscimento ed espressione degli affetti e impara a basarsi esclusivamente sulla cognizione; il bambino con attaccamento insicuro-ambivalente (il cui caregiver fornisce risposte affettive incoerenti, fuorvianti, non prevedibili) non sviluppa la capacità di usare la cognizione per modulare gli affetti e funziona sulla base di affetti non regolati.

In conclusione, quello dell’alessitimia e più in generale dei problemi della regolazione affettiva, è un argomento importante in quanto fornisce una nuova chiave di lettura del disagio psichico (come conseguenza di un deficit dello sviluppo affettivo), e mette in luce la necessità di rivedere i classici modelli concettuali psicoanalitici (basati sulla concezione del sintomo come manifestazione di conflitti intrapsichici irrisolti); approfondisce e problematizza l’importante influenza dei legami di attaccamento sul funzionamento della mente nel corso dell’intero ciclo vitale; sottolinea la connessione intima e quasi indissolubile esistente tra affetti e cognizione, e come le emozioni, anche se radicate nella biologia, includano una fondamentale dimensione cognitiva e soggettivo/esperienziale.

 

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