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A proposito del Disturbo Bipolare…

Il Disturbo Bipolare e il raggiungimento degli scopi: il paziente bipolare nei confronti della ricerca di successo e di fronte al fallimento di un obiettivo

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 02 Feb. 2015

Roberto Lorenzini, Valeria Valenti, Marika Ferri

 

Il disinnesco del loop maniacale teoricamente inarrestabile avviene dunque per un fallimento dovuto  nella maggior parte dei casi ad ostacoli posti dall’ambiente  ma potremmo ipotizzare anche la possibilità di un esaurimento delle risorse personali di ogni tipo (stanchezza, esaurimento).

Queste riflessioni partono dall’allarmante constatazione che i disturbi più gravi ed in particolare proprio il disturbo bipolare per la sua indiscutibile componente biologica e genetica,  sono territori che gli psicologi abbandonano  nelle mani esclusive degli psichiatri e del loro armamentario farmacologico.  Ciò ci appare  particolarmente grave in un tempo in cui grazie ai progressi delle neuroscienze cognitive la distinzione tra organico e mentale è ormai desueta e gli psicologi sono spesso più attrezzati dei medici su questi temi. Lo psicologo nel lavoro con gli psicotici deve essere in prima fila anche nelle emergenze  e non può ridursi al ruolo di psicoeducatore col compito di aumentare la compliance farmacologica per la serie.

La rappresentazione di sé

Diciamo (con la voce di Ignazio, fratellone d’Italia) che da un punto di vista cognitivo l’essenza del vissuto depressivo sia un sentimento di impotenza e disvalore condensabile nella frase “non sono stato, non sono, e non sarò in grado di ottenere nulla e ciò prova che non valgo niente”. Al contrario il vissuto euforico ha come essenza un sentimento di onnipotenza e ipervalore di sé “sono stato, sono e sarò in grado di ottenere tutto ciò che voglio e mi merito e questo perché il mio valore è inestimabile”. Ovviamente ciò non esaurisce la sintomatologia che, tuttavia può essere in gran parte ricondotta a tale estrema dicotomia.

Il ruolo evolutivo della tristezza

Abbiamo netta la sensazione clinica che prima di una fase euforica, se si analizza meticolosamente, si trovi sempre un passaggio nella depressione e che quindi, per dirla metaforicamente, la mania sia una sorta di difesa dalla tristezza (pensiamo al maniacale affaccendarsi dei riti funerarii al lavorio che c’è intorno ed alla sua utilità emotiva). Ci hanno insegnato che si prova tristezza a seguito della rappresentazione che uno scopo è definitivamente fallito. Insomma di fronte una perdita.

Con la tristezza avviene il mitico “lavoro del lutto”, consistente in un ritiro interiore con sospensione delle attività esterne finalizzato alla ristrutturazione della gerarchia degli scopi prendendo atto che uno di essi è divenuto definitivamente imperseguibile e che dunque si è resa disponibile una quota di energia da investire altrove. Durante il lutto c’è dunque in stand-by una notevole quantità di energia libera e fluttuante, non più investita sullo scopo perduto e non ancora reinvestita sui nuovi scopi importanti che scaleranno la gerarchia. Possiamo ipotizzare che questa energia venga transitoriamente investita in “scopi buoni per tutte le stagioni” inerenti la sopravvivenza quali l’acquisizione di beni (le folli spese del maniacale) e la diffusione dei propri geni (l’attività sessuale esaltata dei maniacali) entrambi portati avanti in modo “unlimitess”, senza tener conto delle conseguenze,  in nome della onnipotenza sopra descritta.

E’ chiaro che il problema è spiegare proprio quel “unlimitess” senza la tautologia dell’onnipotenza e non so se basti sostenere che l’energia resasi libera per la perdita di uno scopo importante è enorme ed investita su scopi tutto sommato “facili” comporta una attività sfrenata. Penso onestamente si possa fare di meglio.

Il moltiplicatore emotivo

E’ esperienza di tutti noi che si sperimenta gioia nel raggiungimento di uno scopo. Gioia che si attiva ancor prima quando si intravede con certezza tale raggiungimento (l’attesa del piacere non è essa stessa piacere?) ma una gioia ancora maggiore (una metagioia? O la chiamiamo felicità) si sperimenta quando siamo consapevoli di stare gioendo. Un conto è vivere un periodo felice della propria vita, altro è essere consapevoli di star vivendo un periodo felice della propria vita. Normalmente, purtroppo ci accorgiamo di quanto fosse bello solo dopo che è finito confrontandolo con quello attuale che giudichiamo schifoso. Per farla breve e modellistica, credo che oltre a degli scopi esterni descrivibili come: io voglio….A…B…C…..n… (dove le lettere rappresentano oggetti o stati del mondo esterno e relazionale) abbiamo anche scopi interni inerenti principalmente l’identità e gli stati emotivi come: lo scopo di essere un buon perseguitare di scopi, lo scopo di essere felici.

Dunque alla gioia scaturita dal raggiungimento di “A” si somma la gioia  del raggiungimento degli altri due scopi innescando una spirale di auto rinforzo. Abituati come siamo ad occuparci di emozioni negative sarà più facile esemplificare lo stesso meccanismo nella situazione opposta di tristezza.  Se falisco il mio obiettivo “A”, ad esempio ottenere una cattedra universitaria, sarò triste per la mancanza della cattedra ma, volendo, anche perché sono un pessimo perseguitare di scopi (un fallito nel gergo tecnico dialogo interno) e perché sono triste, altra cosa che non vorrei assolutamente.  

Sono necessarie alcune distinzioni e prendere in considerazione un obiezione fondamentale.  Il perseguimento di obiettivi comporta il contemporaneo soddisfacimento di scopi esterni inerenti stati del mondo desiderati e scopi interni inerenti stati desiderati dell’identità. Questo, da un lato è ovvio, dall’altro vale per tutti e dunque non spiega la peculiarità del disturbo bipolare. A meno di non ipotizzare che nel candidato all’euforia gli effetti interni, che normalmente possono considerarsi collaterali e non rappresentati consapevolmente nel momento che ci si prefigge di raggiungere un obiettivo (è esso infatti ad occupare tutto il campo di coscienza), siano invece in primissimo piano, proprio  a causa del vissuto fallimentare che (ipotizzavo) precede la fase euforica. Infine il delta aggiuntivo di gioia dovuto alla consapevolezza di stare gioendo non riguarda la distinzione tra scopi esterni ed interni ma più in generale la meta cognizione che genera meta-gioia, come in altri casi meta-vergogna o meta-paura   

Per argomentare meglio quanto appena detto ricopiamo riflessioni di Roberto Lorenzini pubblicate sotto il titolo di “tribolazioni” nel libretto “dal malessere al benessere”: “Il perseguimento di uno scopo non è connotato da un punto di vista emotivo solo nel momento del successo pieno (gioia) o nel momento del fallimento totale e irrecuperabile (dolore) che corrispondono entrambi alla disattivazione dello scopo stesso ed alla conseguente ristrutturazione dell’organizzazione gerarchica per scegliere le nuove priorità. Il sistema monitora costantemente i lavori in corso e vive nel presente emozioni generate dalla previsione delle emozioni che si aspetta di provare in futuro. Così la pregustazione di un successo che si valuta probabile fa assaporare con anticipo la gioia che si sperimenterà a successo avvenuto.

Chi non ricorda la magia di quel tempo immediatamente precedente al primo gesto di amore quando si ha però la certezza che il proprio innamoramento sarà ricambiato? Al contrario la previsione di un fallimento probabile fa sperimentare già in parte il dolore della perdita e spesso si mischia all’ansia circa lo stato d’animo doloroso che si sperimenterà quando il fallimento sarà certo ed inequivocabile. Si è spaventati all’idea di quanto si potrebbe poi star male (in genere poi il dolore effettivo si dimostra inferiore alle aspettative, si è quasi stati più male prima che dopo).

Sembra, dunque, che sia sempre attivo un sistema di anticipazione sui propri stati interni presenti e futuri che, a sua volta, genera delle emozioni nel presente. Esse utilizzano quelle future previste e quelle attuali presenti come eventi attivanti: questa emozione secondaria può essere dello stesso tipo o di tipo diverso da quella che la genera. Così si può aver paura di aver paura, si può aver paura di essere tristi o si può essere arrabbiati all’idea che si sarà tristi o aver vergogna di vergognarsi.

Questo sistema di anticipazione sui propri stati emotivi che ne innescano, di conseguenza, a loro volta degli altri ha probabilmente lo scopo di accrescere la prevedibilità su sé stessi. Da un lato si padroneggiano meglio i cambiamenti che non giungono inaspettati. Dall’altro si diluisce nel tempo l’emozione finale. Se mi aspetto un insuccesso inizierò a soffrirci già prima e tanto più, quanto più esso appare certo. Così, al momento in cui effettivamente si verificherà il dolore sarà meno intenso e sconterà gli acconti versati in precedenza.

Soffre di più chi vive un lutto improvviso e inaspettato o chi attende a lungo una morte pietosa? Certamente i primi, ritengo.  Molte persone che presentano una tribolazione, soffrono non solo per il fallimento di scopi ma anche per la previsione di possibili future sofferenze. Fino a qui abbiamo argomentato circa il fatto che le emozioni sulle emozioni previste o presenti costituiscano una sorta di air-bag sulle stesse emozioni successive, ma il problema non si  esaurisce  qui. La valutazione del grado di raggiungimento o meno di un obiettivo consente soprattutto di dosare l’investimento di risorse in ossequio allo pseudo-scopo dell’ “ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”.

Per esemplificare cosa sia opportuno fare in ossequio a tale pseudoscopo possiamo dire che:

•    L’impegno deve essere massimo quando l’obiettivo è probabile e non soggetto a fattori esterni non controllabili per cui tutto dipende dal soggetto (situazione maniacale).

•    L’impegno deve progressivamente ridursi quando il risultato diventa altamente probabile  indipendentemente dall’impegno stesso (situazione eutimica).

•    L’impegno deve cessare quando il risultato è certamente irraggiungibile e ogni ulteriore tentativo costituirebbe solamente uno spreco di risorse (situazione depressiva).

La linea di demarcazione tra l’impegno e la rinuncia, in nome del principio di ottimizzazione del rapporto costi/benefici  è determinata da due fattori:
– da un lato dalla stima della probabilità del successo in cui gli estremi opposti (successo sicuro o fallimento certo) inducono ad un disimpegno mentre l’area intermedia della probabilità spinge all’impegno.

– dall’altro dalla stima di quanto il risultato dipenda dal soggetto stesso o da circostanze esterne non modificabili (il concetto cognitivista di locus of control) (Ellis 1962; Liotti, Guidano 1983; De Silvestri 1981, 1999; Bara 1996).

L’impegno è giustificato da situazioni ad esito incerto e con locus interno. Il disimpegno è conveniente comunque in situazione di locus esterno o di esito certo.mFin qui il funzionamento efficiente di un sistema che ottimizzi l’utilizzo delle limitate risorse e che preveda, anticipi e gestisca le emozioni cui andrà incontro.

Come è possibile che questo sistema di sicurezza e di risparmio in alcune persone non funzioni generando tribolazioni? Dobbiamo probabilmente scomodare di nuovo degli scopi tutti interni che riguardano l’identità. Soprattutto su questioni importanti collegate agli scopi terminali non si ha soltanto lo scopo del perseguimento  ma anche lo scopo di ritenersi uno che non lascia nulla di intentato pur di ottenere il risultato. Sarebbe certamente terribile fallire l’obiettivo esterno ma lo sarebbe ancora di più fallire anche l’obiettivo interno e considerarsi uno che non ha voluto (colpa) o non ha saputo (incapacità) fare di tutto al fine di……….

Questo scopo interno sull’identità prevale transitoriamente sullo pseudo-scopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi” e produce le seguenti conseguenze:

– i successi parziali non vengono presi in considerazioni e ci si priva dunque delle connesse emozioni positive in quanto si teme che possa comportare un colpevole accontentarsi e una riduzione dell’impegno

– gli insuccessi parziali, considerati premonitori di un dolore intollerabile vengono ignorati temendo che producano uno scoraggiamento e dunque non concorrono alla modulazione dell’impegno e al riaggiustamento della mira.

– Anche di fronte ad un fallimento inevitabile o del tutto indipendente dall’attività del soggetto si continua a profondere il massimo dell’impegno. Inutile completamente per il raggiungimento dello scopo esterno ma utile per il raggiungimento dello scopo interno relativo all’identità.

Tuttavia lo pseudo-scopo transitoriamente accantonato tornerà a valutare la situazione non appena l’emergenza si sarà in qualche modo conclusa e lo farà in modo severamente negativo con una sequela di autosvalutazioni per come si sono gestite le risorse.

L’orgoglio dell’investire risorse in imprese disperate e assolute non è uguale in tutti gli individui. Alcuni sembrano talebani fanatici in ogni cosa che facciano. Prendono tutto maledettamente sul serio. Non conoscono le mezze misure. Fanno sempre le cose fino in fondo e spesso oltre, ci credono veramente. Sono tutti d’un pezzo, non scherzano con le cose serie che per loro sono tutte. Se sono di sinistra faranno i brigatisti. Se cattolici si accoppiano secondo le indicazioni vaticane. Se hanno un vizietto diventano drogati all’ultimo stadio e poi  convertitisi operatori delle comunità per tossici più intransigenti e severe. Sono sempre in buona fede ed in nome di ciò possono commettere i crimini più orrendi a posto con la coscienza. Geneticamente estremisti e un intolleranti. Applicano ciò anche ad aspetti marginali come l’alimentazione. Fanno parte di gruppuscoli estremisti con vaste categorie di cibi vietati. Il rigore è essenziale sempre. Spesso sviluppano disturbi del comportamento alimentare.

Altri invece, hanno l’atteggiamento opposto che è quello che caratterizza, nell’immaginario comune, i romani. Il romano se ne frega, non prende niente sul serio. E’ incapace di indignazione e di slanci. Sa che prima o poi tutto  cambia e dunque basta aspettare senza scaldarsi troppo. Il romano ne ha viste troppo, ha una saggezza da sampietrino e  lascia che tutto gli passi sopra. Raramente interviene sulla realtà per modificarla, aspetta che si assesti da sè. L’emozione di base è l’indifferenza come per il talebano era l’orgoglio e l’indignazione. Il romano misura le sue scelte operative nei termini della fatica che comportano e la regola decisionale è il risparmio energetico. Non ama le persone che lo sollecitano ma in compenso non lo fa con gli altri. “vive e lascia vivere”. Si badi che il romano non è un abitante di Roma ma una categoria dello spirito. Tuttavia è innegabile che sia per la presenza dell’amministrazione pubblica con i suoi ministeri sia per il suo meraviglioso habitat naturale innumerevoli esemplari vengono a riprodursi nella capitale. Tra i suoi sogni proibiti c’è fare il bidello in una scuola elementare o l’usciere al ministero”.

Dopo aver perso il filo appresso alle sciocchezze, torniamo di corsa al nostro disturbo bipolare che avevamo lasciato al loop in cui un successo in uno scopo esterno si riverbera nel successo di molti altri scopi interni (meccanismo a cascata o a valanga) e altrettanto succede in negativo nel caso di fallimento.

Alcune osservazioni comportamentali banali:

La fortuna aiuta gli audaci e dunque è facile immaginare che la sicurezza nel successo, la sfrontatezza, la determinazione con cui il maniacale si getta nel perseguimento degli scopi favoriscano almeno nelle imprese di tutti i giorni il successo che a sua volta rinforza proprio tali atteggiamenti che lo hanno determinato.

– A tirar troppo la corda si spezza. Il maniacale però confortato dai successi alza continuamente l’asticella. Si spinge in territori meno conosciuti e più difficili e prima o poi arriva il fallimento e siccome “chi troppo in alto sale… cade sovente precipitevolissimevolmente” il circolo onnipotenza>>>>>successo>>>>>>onnipotenza si inverte e diventa nel depresso: fallimento>>>> rinuncia, ritiro>>>>>impotenza>>>>>ritiro.    E’ osservazione clinica costante che il depresso fallisce nel perseguimento dei suoi scopi principalmente per mancanza di impegno e rinuncia, da un lato. E dall’altro che uno dei motivi di auto denigrazione è proprio il suo essere depresso e inattivo.

In breve il maniacale ad un certo punto fallisce nel raggiungimento degli scopi esterni, spesso per il frapporsi tra lui ed essi di familiari e curanti verso i quali si dirige la sua aggressività tutt’altro che malevole da spazzaneve. Allora si arresta il processo o addirittura si inverte. Il disinnesco del loop maniacale teoricamente inarrestabile avviene dunque per un fallimento dovuto  nella maggior parte dei casi ad ostacoli posti dall’ambiente  ma potremmo ipotizzare anche la possibilità di un esaurimento delle risorse personali di ogni tipo (stanchezza, esaurimento).

– Toccato il fondo si rimbalza. Ci resta da fare ipotesi su come la depressione cessi e qui le grida per i capelli tirati diventano agghiaccianti! Il depresso riduce progressivamente le aspettative sui risultati ottenibili negli scopi esterni e progressivamente anche sulle proprie performance. In quest’ultimo punto molto aiutato dalla frequente definizione assolutamente biologica della malattia e persino dal ricovero che, positivamente, lo deresponsabilizzano. Succede dunque che ad un certo punto ottenga risultati superiori alle ridottissime aspettative. Il ciclo si arresta o addirittura si inverte. In altre parole come un fallimento porrebbe fine all’escalation maniacale, un successo, seppur minuto porrebbe fine alla caduta depressiva.

Evoluzionisticamente?

Stante che nessuna malattia, proprio per la sua natura disfunzionale può essere il frutto diretto dell’evoluzione, al massimo possono esserlo i meccanismi che ne stanno alla base. Proviamo a chiederci se il fisiologico oscillare del tono dell’umore con il conseguente covariare delle coppie impotenza-onnipotenza e ancora rinuncia-impegno possa avere un valore adattivo. In effetti è possibile che sia sensato in caso di successi continuare ad investire sfruttando la situazione favorevole. Mentre in caso di insuccesso rinunciare per risparmiare risorse e limitare le perdite.

 

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