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Come si adatta il cervello al recupero della vista?

COMUNICATO STAMPA  – MONTREAL (Canada) e TRENTO (Italia), Gennaio 19, 2015 

 

 

La riorganizzazione cerebrale dovuta a una lunga deprivazione sensoriale non è completamente reversibile

Oggi, grazie ai recenti avanzamenti della ricerca, è possibile un parziale recupero della vista anche in chi è stato cieco dalla nascita. Tuttavia, un gruppo di scienziati dell’Università di Montreal in Canada e del Centro Mente/Cervello dell’Università degli Studi di Trento, ha scoperto che la riorganizzazione funzionale che ha luogo nel cervello di chi per un lungo periodo ha vissuto una deprivazione sensoriale potrebbe impedire un completo recupero della visione.

«Abbiamo avuto la fortuna di studiare un caso raro di una paziente, ipovedente dalla nascita, che in età adulta ha riacquistato la visione in modo repentino in seguito ad un intervento di impianto di una cheratoprotesi, ovvero un trapianto di cornea artificiale, una Keratoprothesis Boston, nell’occhio destro» Da una parte, i nostri risultati indicano che la corteccia visiva mantiene un certo grado di plasticità – la capacità del cervello di modificarsi in funzione dell’esperienza – anche in una persona adulta ipovedente dall’infanzia. Dall’altra, abbiamo scoperto che, anche a distanza di molti mesi dall’intervento, la corteccia visiva non recupera totalmente il suo normale funzionamento» 

ha spiegato Giulia Dormal dell’Università di Montreal, che ha condotto lo studio. Si chiama corteccia visiva quella parte del lobo occipitale del cervello che elabora gli impulsi elettrici provenienti dagli occhi.

E’ noto che in caso di cecità la corteccia occipitale diventa sensibile anche agli stimoli provenienti da altri organi sensoriali, come l’udito e il tatto, compensando così la perdita della vista.

«Questa riorganizzazione cerebrale, pur importantissima, rappresenta tuttavia una sfida al recupero della vista da parte di chi subisce un trapianto, perché la corteccia – dopo essere andata incontro a riorganizzazione – potrebbe non esser più in grado di elaborare gli stimoli visivi».

Per capire l’importanza di questo fenomeno, i ricercatori hanno sottoposto la paziente, una donna canadese di 50 anni, ad un serie di test, comportamentali e neurofisiologici. Prima e dopo l’intervento, hanno monitorato i cambiamenti della vista e dell’anatomia cerebrale, così come la risposta cerebrale a stimoli di natura visiva e sonora. Per questo, i ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale per registrare le attivazioni cerebrali della donna nel corso dell’esecuzione di alcuni compiti visivi e uditivi e le hanno poi confrontate con quelle di individui vedenti e di ciechi dalla nascita, impegnati negli stessi compiti.

«Abbiamo visto che, prima dell’intervento, presentava una riorganizzazione strutturale e funzionale delle aree occipitali tipica di una deprivazione sensoriale di lunga durata. Quindi, abbiamo dimostrato la possibilità di un parziale ripristino delle precedenti funzioni, in seguito all’acquisizione della vista in età adulta. Dati gli importanti avanzamenti recenti nelle soluzioni tecnologiche che consentono il recupero della vista, questi risultati hanno importanti implicazioni cliniche nel predire l’eventuale esito di un impianto nei pazienti candidati all’ intervento» ha spiegato Olivier Collignon, neuroscienziato del CIMeC responsabile della ricerca.

Lo studio suggerisce che la chirurgia oculare possa avere dei risultati positivi, anche negli adulti con severa incapacità visiva dall’infanzia. Con un importante avvertimento:

«Il recupero osservato nella corteccia visiva, in termini di una minor risposta agli stimoli uditivi e un aumento graduale della risposta a quelli visivi e della densità della materia grigia, non è completo. Infatti, a sette mesi di distanza dall’ intervento chirurgico, alcune aree continuano a rispondere debolmente agli stimoli uditivi, pur reagendo simultaneamente a input di natura visiva. E proprio in tale sovrapposizione potrebbe risiedere la ragione del fatto che alcuni aspetti della visione, nonostante i miglioramenti graduali, si mantengano al di sotto della norma anche dopo sette mesi dall’ impianto» spiega Dormal.

Duplici le implicazioni cliniche:

«I risultati del nostro studio aprono la strada ad un uso clinico sistematico della risonanza magnetica prechirurgica come strumento di prognosi dell’efficacia dell’impianto. Inoltre, aprono la strada anche allo sviluppo di programmi di riabilitazione specifici in seguito ad interventi di recupero della vista», ha commentato Collignon.

 

ARGOMENTI CORRELATI:

NEUROSCIENZENEUROPSICOLOGIA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Lo studio “Tracking the evolution of crossmodal plasticity and visual functions before and after sight-restoration” di Giulia Dormal, Olivier Collignon e colleghi   è stato pubblicato sulla rivista Journal of Neurophysiology il 17 dicembre 2014.

La ricerca è stata finanziata da Canada Research Chair Program, Canadian Institutes of Health Research, Saint-Justine Foundation, the European Research Council (lo starting grant MADVIS di Olivier Collignon), Veronneau Troutman Foundation, Fonds de recherche en ophtalmologie de l’Université de Montréal, PAI/UIAP grant PAI/33 e il Belgian National Fund for Scientific Research.

 

Media contact:
William Raillant-Clark
International Press Attaché
University of Montreal (officially Université de Montréal)
Tel: 514-343-7593 | [email protected]

 

Nicla Panciera
Media relations
Center for Mind/Brain Sciences – University of Trento
Tel: 339 8618331 – [email protected]

Intervista con Dacia Maraini: la raccoglitrice di storie

 

Una raccoglitrice di storie, così si è definita una volta Dacia Maraini. A cominciare dalla sua, che ha raccontato con la passione dell’indagatrice in Bagheria. In questa intervista, che ha voluto sottolineare “è molto intima”, la scrittrice va oltre, e accetta di parlare del sé più interiore. Le paure, le ansie, anche i momenti di depressione. E analizza il senso di inadeguatezza con cui devono fare i conti molte donne, anche lei.

 

In un’intervista “a tema” come questa, ha difficoltà a parlare di se stessa, ad aprire il suo mondo interiore?

Ma no, lo faccio continuamente. Sembra un paradosso, per una persona timida come me, ma scrivere vuol dire mettersi a nudo.

 

Nel suo libro Amata scrittura, si legge: “Scrivere è come andare in analisi”. La scrittura per lei è stata terapeutica?

Certo, terapeutica. Ho capito, scrivendo, molte cose di me e dei miei rapporti col mondo. Mi ha tenuta lontana dalle nevrosi che appartengono al nostro tempo, anche se qualche periodo di depressione l’ho patito.

 

Ci può parlare di quei periodi?

Quando ho sofferto di depressione, di panico, non dormivo più. Mi sentivo mancare l’aria e mi girava la testa. Ho consultato un medico che mi ha subito prescritto degli ansiolitici. Li ho presi ma dopo un poco mi sono stancata. Ho una istintiva antipatia per i farmaci. Li prendo per un po’ ma poi smetto. Al massimo mando giù un tranquillante per dormire. Ho sempre sofferto di insonnia. Il che ha giovato alle mie letture, ma non al mio riposo.

 

Ha mai avuto esperienze di psicoterapia?

Ho consultato un medico molto simpatico di Salerno, consigliatomi da una amica. Ma non ho fatto analisi, solo qualche chiacchierata. Lo scrivere in effetti mi aiuta a superare i momenti difficili, che poi sono quelli della vita quotidiana: una sorella morta troppo presto, un uomo amato che muore di leucemia.

 

Le succede di avere crisi d’ansia, addirittura di panico?

Sì, mi è successo qualche anno fa. Lì per lì ho avuto paura. Pensavo che fosse il cuore. Ho fatto tutte le analisi e non è venuto fuori niente. Ho capito che era depressione quando ho cominciato a leggere sui sintomi e sul fatto che è una malattia molto comune . E’ allora che ho parlato con il medico di Salerno. L’ho visto in tutto cinque o sei volte. Per fortuna poi le cose si sono sistemate da sole.

 

Cosa intende quando dice che le cose si sono sistemate da sole?

Vuol dire che non ho più avuto attacchi d’ansia e non ho più preso gli ansiolitici

 

Rabbia, aggressività, sono sentimenti con cui le capita di dovere fare i conti?

Per fortuna ho un carattere tollerante. Non mi arrabbio facilmente e sono quasi sempre disposta a capire l’altro. Anzi, quello è proprio il mio problema. Mi metto troppo nei panni degli altri. Tanto che, come un famoso personaggio di Calvino, tendo a cadere dentro l’altro. Probabilmente è un processo che conoscono gli scrittori, o forse anche gli attori, cercando di raccontare e immedesimarsi nei personaggi.

L’aggressività, credo di averla sublimata, come succede a tante donne. La storia ha insegnato alle donne come sublimare. Era un loro dovere a cui non potevano sottrarsi. La sublimazione è proprio questo: trasformare l’aggressività in attenzione verso l’altro, comprensione, cura. Certo qualche volta questo processo non funziona. E la rabbia diventa rabbia. Ma sinceramente non ho mai sofferto di crisi di aggressività.

La rabbia me la suscitano le ingiustizie. E le donne ne subiscono molte. Ma cerco, scrivendo, di trasformarla in buone forze di denuncia, di comprensione del problema, e cerco il modo di risolvere le cose, soprattutto creando rete, creando solidarietà. L’aggressione è sempre fine a se stessa. E di solito rifiuta il ragionamento e ogni progetto per il futuro.

 

Può dirci che cosa la fa più soffrire? Mi spiego, quasi tutti dobbiamo fare i conti con una parte di noi che ci provoca dolore, per esempio “mi sento orfano”, “non sono all’altezza”, “non sono amato”…

Come tutte le donne – o per lo meno la maggioranza di esse – mi sento spesso inadeguata, incapace, insufficiente.

 

Che cosa le provoca questo senso di inadeguatezza?

Inadeguatezza vuol dire non sentirsi all’altezza del compito che ci siamo prefissi, sia professionalmente che sentimentalmente. Vorrei fare di più ma mi sembra di non riuscirci. Qualche volta vengo smentita dalle reazioni degli altri e allora capisco che avevo esagerato nel buttarmi giù. Ma istintivamente – però forse dovrei dire culturalmente, perché è un atteggiamento storicamente acquisito soprattutto dalle donne che si sono        sempre sentite dire che erano inferiori, erano colpevoli, erano impure, erano pericolose, erano dannose, eccetera – tendo a criticarmi severamente e sentirmi incapace.

 

Quando arriva la sofferenza, mette in atto una reazione difensiva?

Di fronte a qualsiasi sofferenza, penso di scriverne, per capire meglio e forse anche per superarla.

 

Negli anni come si è modificata questa reazione difensiva?

Con l’età, credo di avere imparato a prendere le distanze forse meglio di prima. Mi aiuta la curiosità verso l’altro, l’ironia, il giudizio.

 

Il dolore, nelle sue diverse manifestazioni, ansia, depressione, rabbia, se accolto e riconosciuto, può diventare un punto di forza?

Credo che non si possa sfuggire al dolore. Ciascuno si crea delle strategie per superarlo. La cosa più sbagliata è cacciare la testa sotto la sabbia. Le cose vanno affrontate. Con sincerità, per lo meno verso se stessi.

 

Secondo lei le donne riconoscono e affrontano il dolore in maniera diversa dagli uomini?

Sì, ma non per una tendenza naturale. Io credo che gli esseri umani nascano uguali, nel senso della natura, ma poi ci pensa la cultura a modificarli, suggerendo, anzi forzandoli a entrare dentro dei ruoli che a volte stanno stretti, sia agli uomini che alle donne.

Ma i ruoli, sono ancora molto vivi, sotto la crosta dell’emancipazione. Le donne infatti hanno imparato a soffrire con più interiorità e pudore degli uomini. E questo alle volte è una forza. Alle volte invece diventa una debolezza, ovvero si trasforma in incapacità di reagire, di difendere i propri diritti. Nelle forme estreme, diventa puro masochismo.

 

La parola malinconia cosa le suggerisce?

Un quadro di Dürer, con una donna seduta, che appoggia la testa sulla mano, e tiene il gomito appoggiato al ginocchio sollevato. La donna ha due ali piegate ma molto gonfie che si capisce molto adatte per i lunghi voli. Porta una coroncina in testa, e ha l’aria più scocciata che malinconica. Ma Dürer mi piace molto e trovo che quell’angelo imbronciato si adatti bene alla parola malinconia.

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Albrecht Dürer – Melancholia I

 

E la parola felicità?

La parola felicità mi rallegra. Ma so che è rarissima la felicità e di solito ci si accorge di essere stati felici dopo che è passato il momento.

 

Possono convivere questi due sentimenti?

Felicità e malinconia? Direi proprio di no: La felicità è un sentimento in movimento, qualcosa di proiettato verso il futuro. Anzi direi che la felicità viene da un senso di leggerezza verso un presente che vede davanti a sé un futuro aperto. Mentre la malinconia è un sentimento di limite. C’è un muro davanti, come sembra vedere l’angelo di Dürer, e ci si chiede se riusciremo mai ad abbatterlo.

 

 

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INTERVISTELETTERATURA

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Maraini D. (1993). Bagheria. Rizzoli Editore, Milano.
  • Maraini D. (2002). Amata Scrittura. Rizzoli Editore, Collana Bur La Scala, 320 p. 

Strategie e consigli utili per fare coming out in famiglia

Il compito di gestire una relazione omosessuale, in una società prevalentemente eterosessuale, richiede forza e sostegno emotivo, ecco perché è necessario che il coming out sia efficace, perché ciò facilita la piena accettazione di sé e la felicità di coppia.

Il termine coming out è ormai entrato a far parte del linguaggio comune per indicare lo svelamento del proprio orientamento omosessuale. Pochi però sanno che l’etimologia completa del termine è coming out of the closet, dove con closet si indica armadio, ripostiglio, quel posto privato in cui si tengono generalmente le cose riservate, fuori dalla vista degli altri (Westheimer e Lopater, 2004).

Già da questa definizione si comprende come dichiarare apertamente la propria omosessualità non sia un compito facile. Da un lato, infatti, tale dichiarazione arriva di solito alla fine di un lento e complesso processo di costruzione di un’identità sessuale, fatto di scoperte, sperimentazioni e non di rado conflittualità; dall’altro, in una società in cui essere omosessuali è ancora motivo di vergogna, il pregiudizio rende spesso doloroso il momento in cui rivelarsi. C’è poi da considerare che non esiste un momento preciso in cui la consapevolezza della propria omosessualità conduce al desiderio di fare coming out. Tale presa di coscienza può avvenire tanto nell’adolescenza, quanto in età adulta, anche se è più comune che i gay facciano coming out più precocemente delle lesbiche (Butler, 2010).

A prescindere dal momento, è indubbio che le risposte ricevute possano essere determinanti nello sviluppo della scoperta di sé come omosessuale, soprattutto quando ciò implica un cambiamento nelle relazioni con genitori, amici, colleghi di lavoro, o con la propria moglie o compagna.

E’ comune nascondere la propria sessualità per il timore delle conseguenze negative conseguenti alla scoperta da parte dei familiari. E’ da tenere in conto che le loro reazioni possono essere cariche di ostilità, magari perché permeate esse stesse dai pregiudizi della società e dalla preoccupazione della ghettizzazione in cui il/la proprio/a figlio/a sarà esposto/a. Se la società non è ancora pronta ad accettare l’omosessuale, l’omosessuale, da parte sua, non sceglie di diventare tale, semmai si ritrova con il problema di dover giustificare una sessualità che sente semplicemente come parte naturale di sé.

Il compito di gestire una relazione omosessuale, in una società prevalentemente eterosessuale, richiede forza e sostegno emotivo, ecco perché è necessario che il coming out sia efficace, perché ciò facilita la piena accettazione di sé e la felicità di coppia.

Non bisogna sottovalutare il fatto che fare coming out innesca spesso una crisi a livello familiare, imperniata su alcune tipiche risposte, come Stai dicendo questo solo per metterti contro di noi oppure E’ solo una fase: vedrai che poi ti piaceranno le donne o ancora E’ colpa nostra se sei gay.

Dietro a ognuna di queste risposte si nasconde una paura, cui si può controbattere in modi che restituiscano la propria dignità e serenità.

Innanzitutto, è utile rassicurare i propri genitori, dicendo che si vuole solo essere onesti con loro, che la sincerità è espressione di amore e non potrà che migliorare il rapporto.

E’ opportuno sottolineare, con calma, ma fermezza, che non si tratta di un alcun modo di una situazione temporanea. Sempre con calma si deve rispondere a quegli attacchi manipolatori del tipo Mi farai morire dal dispiacere, oppure Che abbiamo fatto di male per meritare questo?. Più facile, a dirsi che a farsi, in molti casi! In generale, però, è sempre un’ottima arma non rispondere agli scoppi emotivi dei tuoi genitori, gridando a propria volta. Se c’è il rischio di essere colpevolizzati e si vive una sensazione di disagio insostenibile, si può prendere una pausa per pensare meglio a mente lucida.

Ancora, se il genitore si sente in colpa se il figlio è gay, è bene assumersi personalmente la responsabilità del proprio orientamento. Una tattica che i genitori apprezzeranno. Potrebbe a tal proposito essere utile leggere testimonianze di altre famiglie di omosessuali, così da diminuire il loro senso di colpa e vergogna.

In ogni caso, è necessario sempre mettere i propri sentimenti al primo posto. Perché si può essere responsabili solo delle proprie emozioni e delle proprie decisioni, non di quelle degli altri. I genitori non devono tanto capire, quanto accettare, e possono sempre scegliere di essere fieri del proprio figlio, non devono per forza sentirsi infastiditi o nascondersi dalla società che non capirebbe.

Anche chiedere aiuto a qualcuno della famiglia di cui ci si fida e a cui si è già fatto coming out è una buona strategia, soprattutto se questi ha un’influenza positiva sulla famiglia e può aiutarla a riconsiderare la sua posizione.

Solo la perseveranza e la dignità nello svelarsi può condurre gli altri all’accettazione della propria sessualità. E anche se, dopo sforzi ripetuti, i genitori si rifiutassero comunque di comprendere, si dovrebbe cercare supporto altrove. Senz’altro sarebbe meglio se in famiglia regnassero mutuo rispetto e tolleranza, ma se questo non fosse possibile, è necessario proseguire la propria strada e non lasciarsi intimorire nel perseguire la propria realizzazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Butler, C., O’ Donovan, A., e Shaw, E. (2010). Sex, Sexuality and Therapeutic Practice. New York: Routledge/Taylor & Francis Group
  • Sanderson, T. (1997). Assertively Gay. How to build gay self-esteem. London: The other Way Press
  • Westheimer, R.H., e Lopater, S. (2004). Human Sexuality. A Psychosocial perspective. Philadelphia: Lippincott Williams & Wilkins

Disturbo Ossessivo-Compulsivo: dipende da scopi e rappresentazioni o da deficit cognitivi?

Nel 4° Meeting del SIG on OCD EABCT tenuto ad Assisi nel 2014 e organizzato da Barbara Barcaccia, si è svolto un confronto tra le due posizioni. I due paper, assieme ad altre presentazioni di grande interesse, sono state pubblicate nel Numero di Dicembre 2014 di Clinical Neuropsychiatry, tutto dedicato al Disturbo Ossessivo-Compulsivo, curato da Barbara Barcaccia e Francesco Mancini.

Il cognitivismo clinico, vale a dire l’approccio cognitivista ai disturbi mentali, include due settori, uno dedicato alla ricerca di terapie efficaci per i diversi disturbi e l’altro, la Experimental Psychopathology, allo studio  sperimentale dei processi che generano e mantengono la psicopatologia.

Nell’ambito della Experimental Psychopathology possiamo distinguere due ulteriori  orientamenti. Il primo intende spiegare genesi e mantenimento dei disturbi, o almeno di alcuni di essi e principalmente dei disturbi d’ansia, dell’umore, del disturbo ossessivo compulsivo e dei disturbi di personalità, utilizzando due categorie concettuali basiche: scopi (desideri, valori, bisogni, timori) e rappresentazioni (rappresentazioni mentali, sensoriali, credenze, intuizioni).

Le emozioni negative, le condotte, gli atteggiamenti e i flussi di pensiero che caratterizzano i pazienti, sono considerati dello stesso genere di quelli che si riscontrano in tutte le persone, le differenze sono quantitative; ad es., tutti soffrono se si rendono conto di aver fatto una brutta figura, cioè di aver compromesso lo scopo di dare una buona immagine di sé agli altri, ma, nel caso dei fobici sociali, la sofferenza appare esagerata e gli evitamenti e le altre soluzioni che il paziente mette in atto risultano anche dannosi e controproducenti. Questo primo orientamento include le cosiddette Appraisal Theories, e dunque riconduce la psicopatologia ai contenuti della mente del paziente.

Il secondo orientamento preferisce spiegazioni che non fanno riferimento al contenuto, agli  scopi del paziente, ai suoi piani, alle sue convinzioni, in una parola, ai suoi significati personali, ma fanno riferimento a distorsioni o deficit di alcune funzioni cognitive o metacognitive. Ad es., nel caso del disturbo ossessivo compulsivo sono stati proposti diversi deficit di alcune funzioni esecutive, come il deficit di inibizione, per cui le compulsioni dipenderebbero da una incapacità del paziente di inibire l’atto compulsivo e le ossessioni sarebbero una conseguenza delle compulsioni o una loro razionalizazzione.

Oppure l’oscillazione drammatica tra stati mentali opposti e incompatibili e la difficoltà a conciliarli, tipica del paziente Borderline, sarebbe dovuta, secondo alcuni, a un deficit della capacità di integrare stati mentali opposti. Oppure la depressione si mantiene e si aggrava per un eccesso di ruminazione su temi depressivi.

Questo secondo approccio è in risonanza con un più generale trend della psichiatria verso una interpretazione neurologica delle cause dei disturbi mentali. Infatti e ad esempio, la tesi che il DOC dipenda da un deficit di inibizione, o di altre funzioni esecutive, o della memoria, si concilia con l’idea che il DOC sia una malattia neurologica molto di più della tesi che il DOC dipenda dallo scopo assoluto di prevenire una colpa.

Nel cognitivismo clinico e più in generale nella Experimental Psychopathology  troviamo dunque due approcci fondamentali: Appraisal Theories (AT) e Deficit Theories (DT). Questi due approcci sono ben presenti nello studio del DOC.

Nel 4° Meeting del SIG on OCD EABCT tenuto ad Assisi nel 2014 e organizzato da Barbara Barcaccia, si è svolto un confronto tra le due posizioni. I due paper, assieme ad altre presentazioni di grande interesse, sono state pubblicate nel Numero di Dicembre 2014 di Clinical Neuropsychiatry, tutto dedicato al Disturbo Ossessivo-Compulsivo, curato da Barbara Barcaccia e Francesco Mancini: Advances in the understanding and treatment of Obsessive-Compulsive Disorder (SCARICA TUTTI GLI ARTICOLI).

Anholt e Kalanthroff hanno presentato una relazione (“Do we need a cognitive theory for Obsessive-compulsive disorder?”) in cui hanno argomentato contro le spiegazioni del DOC in termini di scopi e rappresentazioni, cioè di contenuti della mente del paziente, e a favore della teoria del deficit, in particolare del deficit di inibizione.

L’argomento principe contrario alle spiegazioni contenutistiche del DOC è che, da ricerche correlazionali svolte con questionari,  risulta che alcuni pazienti ossessivi hanno una propensione ai cosiddetti obsessional beliefs maggiore di altri tipi di pazienti, o addirittura di non pazienti, e che alcuni non ossessivi hanno una siffatta propensione maggiore dei pazienti ossessivi. A favore del deficit di inibizione hanno portato alcuni dati sperimentali, sostanzialmente in compiti di tipo go-no go i pazienti ossessivi tendono a commettere più errori quando si tratta di inibire la risposta.

Al contrario, Mancini e Barcaccia (“Do we need a cognitive theory of obsessive-compulsive disorder? Yes, we do”), in conformità a dati rigorosamente sperimentali, contestano le argomentazioni contrarie alle Appraisal Theories,. Innanzitutto, contrariamente a quanto sostenuto da Anholt e Kalanthroff , le AT  non prevedono che nei pazienti ossessivi vi sia una maggiore propensione ai cosiddetti obsessional beliefs. Infatti, non è raro il caso di pazienti, ossessionati dalla contaminazione di specifiche sostanze, ad esempio, lo zucchero o alcuni insetti come i pidocchi, ma che  non provano disgusto per altri tipi di contatto che sono però citati nei questionari che misurano la propensione al disgusto. In questi casi non stupisce che la propensione al disgusto possa essere bassa pur essendo il timore di contaminazione il contenuto delle ossessioni e la ragione delle compulsioni.

Non solo, ma diversi esperimenti dimostrano, ad esempio, che lo scopo di prevenire una colpa è una condizione necessaria e sufficiente per avere sintomi ossessivi. Ciò rende superfluo il ricorso a eventuali deficit come spiegazione del DOC. Inoltre, le ricerche sui deficit nel DOC hanno portato a risultati contraddittori, senza contare che spesso ciò che potrebbe apparire come conseguenza di un deficit in realtà è conseguenza degli stati mentali del paziente, ad esempio le funzioni esecutive possono essere disturbate dallo scopo, tipicamente ossessivo, di evitare errori, infatti, la performance dei pazienti scade se si mette loro fretta.

Altro esempio ben noto riguarda il presunto deficit di memoria. Un numero consistente di esperimenti ha dimostrato che nei pazienti ossessivi, ma anche in soggetti non clinici, se si attiva una forte motivazione a prevenire colpe connesse a mancati controlli o a performance scadenti, ne consegue una tendenza alla ripetizione che a sua volta implica sfiducia nel proprio ricordo, pur essendo il ricordo valido. È più corretto, quindi, parlare di valutazione della propria memoria che di deficit di memoria. Abbiamo un esempio quindi di come performance che possono apparire conseguenza di un deficit siano, a volte, conseguenza di scopi e rappresentazioni del paziente.

Il fatto che nel DOC le AT appaiano, allo stato attuale delle conoscenze, più euristiche delle Deficit Theories, non implica che per altri disturbi debba essere lo stesso. Ad esempio per spiegare l’autismo, sembra necessaria e sufficiente una teoria del deficit.  Nemmeno va sottovalutata la possibilità che, in alcuni disturbi, siano necessarie entrambe le spiegazioni e che nessuna delle due, da sola, sia sufficiente. Ma in questo caso, è indispensabile mostrare come deficit e contenuti interagiscono,  mentre sarebbe ingenuo contentarsi di identificare qualche correlazione e qualche mediazione statistica lasciando oscuri i processi psicologici della interazione fra deficit e contenuti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Anholt, G.E., & Kalanthroff, E. (2014). Do we need a cognitive theory for obsessive-compulsive disorder? Clinical Neuropsychiatry, 11 (6), 194-196. DOWNLOAD
  • Mancini, F., & Barcaccia, B. (2014). Do we need a cognitive theory of obsessive-compulsive disorder? Yes, we do. Clinical Neuropsychiatry, 11(6), 197-203. DOWNLOAD

Perchè gli estroversi sono più felici?

FLASH NEWS

Gli estroversi riportano più felicità rispetto agli introversi durante attività faticose ma gratificanti (ad esempio esercizio fisico e sport). Invece non vi sarebbero differenze significative tra introversi ed estroversi riguardo la felicità esperita durante attività piacevoli ma a basso sforzo.

Gli estroversi sono più felici? E perché? Una delle ipotesi – testate da una recente ricerca – è che gli estroversi si godono meglio le attività piacevoli nella quotidianità. Ma di quali attività si tratta?

Lo studio ha confrontato individui introversi ed estroversi nell’esperire felicità in diverse attività durante la giornata. Circa mille soggetti hanno costituito il campione ed è stato loro chiesto di completare un diario retrospettivo dei giorni precedenti: in particolare è stato utilizzato il “Day Reconstruction Method” che richiede ai partecipanti di ricordarsi delle attività effettuate nella giornata precedente in ordine cronologico descrivendo aspetti spazio-temporali (dove, con chi, quando,etc) ed emotivi (quali emozioni provavano durante ciascuna attività descritta).

Dai dati è risultato che gli estroversi riportano più felicità rispetto agli introversi durante attività faticose ma gratificanti (ad esempio esercizio fisico e sport). Invece non vi sarebbero differenze significative tra introversi ed estroversi riguardo la felicità esperita durante attività piacevoli ma a basso sforzo (guardare la TV oppure fare shopping).

Un dato controintuitivo e differente riguarda la lettura: non sarebbero gli introversi a provare più piacere leggendo un libro ma appunto gli estroversi.

Il pattern che si delinea per gli estroversi è dunque non una maggiore edonia di per sé, ma una propensione a provare in misura maggiore emozioni positive – rispetto agli introversi- nelle attività gratificanti ma anche faticose. Di conseguenza, sono gli estroversi che impiegano più tempo in tali attività rispetto agli introversi, indipendentemente dal fatto che siano in compagnia o da soli. E’ pur vero però, secondo lo studio, che gli estroversi hanno picchi di piacere molto alti quando a faticare per poi sentirsi ricompensati non sono da soli ma in compagnia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia al Telefono: un trial clinico randomizzato per Adolescenti con OCD

Il numero di dicembre della rivista scientifica Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry ha pubblicato i risultati di un trial clinico randomizzato che confronta la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) erogata tradizionalmente, con la stessa psicoterapia erogata attraverso il telefono, in bambini e adolescenti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo (OCD).

 

ABSTRACT:

Objective: Many adolescents with obsessive-compulsive disorder (OCD) do not have access to evidence-based treatment. A randomized controlled non-inferiority trial was conducted in a specialist OCD clinic to evaluate the effectiveness of telephone cognitive-behavioral therapy (TCBT) for adolescents with OCD compared to standard clinic-based, face-to-face CBT. Method: Seventy-two adolescents, aged 11 through 18 years with primary OCD, and their parents were randomized to receive specialist TCBT or CBT. The intervention provided differed only in the method of treatment delivery. All participants received up to 14 sessions of CBT, incorporating exposure with response prevention (E/RP), provided by experienced therapists. The primary outcome measure was the Children’s Yale–Brown Obsessive- Compulsive Scale (CY-BOCS). Blind assessor ratings were obtained at midtreatment, post- treatment, 3-month, 6-month, and 12-month follow-up. Results: Intent-to-treat analyses indicated that TCBT was not inferior to face-to-face CBT at posttreatment, 3-month, and 6-month follow-up. At 12-month follow-up, there were no significant between-group differ- ences on the CY-BOCS, but the confidence intervals exceeded the non-inferiority threshold. All secondary measures confirmed non-inferiority at all assessment points. Improvements made during treatment were maintained through to 12-month follow-up. Participants in each condition reported high levels of satisfaction with the intervention received. Conclusion: TCBT is an effective treatment and is not inferior to standard clinic-based CBT, at least in the midterm. This approach provides a means of making a specialized treatment more accessible to many adolescents with OCD. Clinical trial registration information–Evaluation of telephone-administered cognitive-behaviour therapy (CBT) for young people with obsessive-compulsive disorder (OCD); http://www.controlled-trials.com; ISRCTN27070832. J. Am. Acad. Child Adolesc. Psychiatry, 2014;53(12):1298–1307. Key Words: OCD, psy- chotherapy, CBT, telehealth

 

Psicoterapia al telefono? Sì, ma a breve termineConsigliato dalla Redazione

L’evoluzione della cosiddetta telemedicina, ossia dell’erogazione di servizi sanitari a distanza, attraverso mezzi tecnologici che possono andare dalla telefonata alla videoconferenza, fino ad arrivare alla gestione di interventi chirurgici attraverso robots teleguidati, non si arresta neanche in campo psichiatrico/psicologico (…)

Tratto da: Medicitalia.it

 

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Che grande questo piccolo Hans! di Lorenzo Recanatini – Recensione del libro

Innovativo e leggero, Recanatini nel libro è stato in grado di parlare di psicoanalisi con un linguaggio semplice e lineare senza usare, se non in casi specifici, termini e costrutti psicoanalitici.

Che grande questo piccolo Hans! (2014) L. Recanatini
Che grande questo piccolo Hans! (2014) L. Recanatini

Per gli addetti ai lavori la storia del piccolo Hans risulta essere un ritorno del rimosso, usando il gergo psicoanalitico, poiché studiato più e più volte per diversi esami universitari e molto citato come caso clinico in diversi ambiti.
Il libro di cui parleremo oggi, dunque, propone uno degli antesignani dei casi clinici, in ambito psicoanalitico e non solo, attraverso uno stile narrativo differente: il fumetto. E così comincia l’avventura: Che grande questo piccolo Hans! Proprio questo è il titolo di uno degli ultimi libri di Lorenzo Recanatini edito da Alpes. Si tratta di una grande opera, un’impresa nuova e di particolare coinvolgimento rispetto alle numerosi pubblicazioni che trattano questo caso. Innovativo e leggero, Recanatini nel libro è stato in grado di parlare di psicoanalisi con un linguaggio semplice e lineare senza usare, se non in casi specifici, termini e costrutti psicoanalitici.

 Ha presentato il piccolo Hans con umorismo e spensieratezza, sempre rispettando il rigore clinico, attraverso domande e quesiti formulati in maniera semplice e leggera che permettono anche ad un pubblico non espero di carpire il significato più intrinseco, inconscio, del complesso di Edipo. Si tratta, sostanzialmente, di una estrema sintesi fumettistica del complesso di Edipo, narrandolo per concetti essenziali che portano ad evidenziare, oltre alla risoluzione dell’Edipo, il processo che determina la formazione della fobia specifica di cui era affetto il piccolo Hans. Chiaramente, il complesso di Edipo funge da spiegazione al formarsi della fobia, e diventa, dunque, lo snodo che determinerà e segnerà le scelte di vita future dell’individuo, non solo sessuali ma anche relazionali.

La peculiarità della narrazione consiste nel riuscire a far evincere in maniera netta il passaggio dal simbolo alla parola, conoscenza esplicita, che traduce in fatti i comportamenti paterni e materni vissuti dal protagonista.

Recanatini parte dalla tragedia di Sofocle, usata per spigare l’Edipo inteso come fase cruciale dello sviluppo della vita di Hans, e arriva a esplicitare il ruolo delle fantasie e degli interrogativi che riguardano la sessualità, focus dell’elaborazione freudiana, usata per spiegare la fobia specifica presentata da Hans. Attraverso la funzione svolta dal padre, presupposto del mito di Edipo, si dimostra come questo complesso sia importante nel percorso di sviluppo della propria soggettività. Se non risolto, l’Edipo diventa il centro da cui si originano e si generano i così detti sintomi nevrotici, esattamente come succede per il piccolo Hans.

Recanatini presenta molto bene attraverso il fumetto, sia con le parole che con le espressioni, quanto avviene in questa vicenda e come si risolve la stessa.

La lettura di questo libro è molto divertente e accattivante, è stato un piacevole ritorno del rimosso!

 

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Discalculia – Definizione Psicopedia

 Articolo a cura dell’ Equipe DSA di Studi Cognitivi

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

 La discalculia riguarda l’abilità di calcolo, sia nella componente dell’organizzazione della cognizione numerica (intelligenza numerica basale), sia in quella delle procedure esecutive e del calcolo.

Nel primo ambito, la discalculia interviene sugli elementi basali dell’abilita numerica: il riconoscimento immediato di piccole quantità, i meccanismi di quantificazione, la seriazione, la comparazione, le strategie di composizione e scomposizione di quantità, le strategie di calcolo a mente. Nell’ambito procedurale, invece, la discalculia rende difficoltose le procedure esecutive per lo più implicate nel calcolo scritto: la lettura e scrittura dei numeri, l’incolonnamento, il recupero dei fatti numerici e gli algoritmi del calcolo scritto vero e proprio. 

 

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La nostra memoria: molto più di un semplice magazzino

Dedichiamo un momento di riflessione alla memoria: accantoniamo le ben conosciute teorie che la catalogano come magazzini a breve e lungo termine, stazioni di lavoro al servizio di altre funzioni psicologiche, e con l’aiuto dell’articolo pubblicato da Jens Brockmeier, superiamo l’idea riduttiva di memoria come archivio.

La memoria è una delle funzioni psicologiche più affascinanti essendo l’essenza della nostra identità e dell’esistenza di ciascuno. Quanto terrore all’idea delle patologie che colpendo la memoria vanno al cuore del nostro essere in quanto individui non puramente biologici ma anche culturali.

Dunque dedichiamo un momento di riflessione alla memoria: accantoniamo le ben conosciute teorie che la catalogano come magazzini a breve e lungo termine, stazioni di lavoro al servizio di altre funzioni psicologiche e con l’aiuto dell’articolo pubblicato da Jens Brockmeier, superiamo l’idea riduttiva di memoria come archivio.

La crisi della memoria come archivio e magazzino passa da studi che ne evidenziano la scarsa stabilità e l’ incoerenza (Young, 2008) a ricerche cliniche sulla False Memory Syndrome (Conway, 1997) sottolineando la malleabilità, la plasticità e il carattere interattivo-dialogico dei nostri ricordi.

La memoria è qualcosa di più, memoria sono le pratiche sociali e culturali della nostra quotidianità, ricordare e dimenticare significa non replicare ma ricostruire e ricostruire di nuovo le nostre esperienze. Inoltre la memoria non è solo affare psicologico.

Nell’articolo si evidenziano altri campi di studio che ne mettono in crisi la semplicistica nozione di archivio: dalle scienze storiche alla tecnologia fino alle scienze neurobiologiche. Nell’ambito storico si osserva lo studio di nuovi generi di memorie narrative collettive e politiche (Andrews, 2007) che portano il concetto di memoria strettamente interdipendente con le pratiche sociali e culturali di un certo momento storico. La tecnologia e i nuovi media: il fenomeno globale della rivoluzione digitale è di fatto  una rivoluzione della memoria e della comunicazione umana che presenta una serie di conseguenze e implicazioni psicosociali sul processo mnestico in sé, sulle pratiche e sulle azioni del ricordare e dimenticare nonché sulla modificazione delle nostre funzioni cognitive (Dijck, 2007).

Da non trascurare l’influenza degli studi di psicologia cross-culturale: se la memoria è dialogica e narrativa (Nelson, 2007), se la conversazione e il narrare seguono le convenzioni e le pratiche culturali, allora le memorie avranno aspetti di variazione culturale: nelle culture ad alta contestualizzazione – come ad esempio il Giappone-la temporalità nella memoria autobiografica è concepita in modo ciclico, a differenza dei paesi occidentali a bassa contestualizzazione in cui il tempo nelle nostre menti e  nelle narrazioni è tipicamente lineare (Yamada e Kato, 2006).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Andrews, M. (2007). Shaping history: Narratives of political change. Cambridge: Cambridge University Press.
  • Brockmeier, J. (2011). After the Archive: Remapping Memory. Culture and Psychology, vol.16-1, 5-35
  • Bartlett, F.C. (1932). Remembering. Cambridge: Cambridge University Press.
  • Conway, M.A. (1997). Recovered memories and false memories. Oxford: Oxford University Press
  • Dijck, J.V. (2007). Mediated memories in the digital age. Stanford, CA: Stanford University Press.
  • Nelson, K. (2007). Developing past and future selves for time travel narratives. Behavioral and Brain Sciences, 30, 327–328.
  • Yamada, Y., & Kato, Y. (2006). Images of circular time and spiral repetition: The generative life cycle model. Culture & Psychology, 12, 143–160.
  • Young, M. (2008). The texture of memory: Holocaust memorials in history. In A. Erll & A. Nünning (Eds.), Cultural memory studies: An international and interdisciplinary handbook (pp. 357–365). Berlin & New York: de Gruyter.

 

Bando ricerca: Clinical Neuropsychiatry Award 2015

Bando per la Ricerca:

Clinical Neuropsychiatry Award 2015

Clinical Neuropsichiatry Award 2015

Giovanni Fioriti Editore is pleased to announce the first Clinical Neuropsychiatry Award. The prize –2000 Euros – is to be awarded to the author (-s) of a paper submitted to the journal in the period Nov 1, 2014 – May 31, 2015, who has made an outstanding contribution to psychiatric clinical practice.

Rules

Aims

The winner (-s) will be selected amongst the research articles submitted for publication in CN with the highest impact on clinical psychiatry.

Procedure

Submitting a research paper for the Clinical Neuropsychiatry award.

Everybody can participate in the award competition by simply submitting original, not previously published research articles for publication; send the paper to http://www.fioriti.it/autori/loadArticle.php

Send articles as usual and in agreement with CN instructions for authors in the period Nov 1, 2014 – May 31, 2015.
Within July 2015, the award committee will complete the evaluation procedure and announce the winner. The prize will be awarded in September 2015.

Evaluation

The evaluation committee is composed of the president Donatella Marazziti (editor-in-chief),  Alessandro Grispini, Alessandro Serretti, Laura Mandelli, Michele Poletti, Adriano Schimmenti, Giuseppe Craparo, Leandro Malloy-Diniz, Alfonso Troisi.
During the evaluation procedure even the referees could recommend an article for the award.
Each member of the evaluation committee will choose articles suitable for the competition and discard those unsuitable articles (e. g.: review articles, editorial, research articles not related to clinical procedure etc.), as all articles submitted to CN are judged by referees, but not all have the characteristics to participate in our award.
A work judged acceptable only by one member of the evaluation committee will be excluded.
A work judged acceptable by two members of the evaluation committee will be discussed.

After this initial stage all works suitable for the award will be assigned a score from 1 to 10 by each evaluator while keeping in mind the aims of the competition.

Importance of the clinical impact of a research paper conducted with a stringent, scientific method and being original.

Each evaluator will assign a score according to his/her own personal knowledge and fields of interest.

The decisions made by the evaluating committee are final and can not be contested at all.

 

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PSICHIATRIANEUROSCIENZE

Le difficoltà degli psicoanalisti

In ambito SITCC c’è un po’ la preoccupazione che la psicoanalisi sia alle porte, impegnata in una battaglia culturale e mediatica che ci possa sottrarre allievi, influenza, rilevanza scientifica e pazienti. L’impressione è che le cose non siano proprio così. In realtà, gli psicoanalisti se la passano piuttosto male, molto peggio di quello che pensiamo… almeno negli USA.

Questo è lo scritto di un tipo che da anni si porta la meritata nomea del più psicoanalista tra i cognitivisti. Mi trovo spesso a difendere le terapie psicodinamiche da attacchi ingiusti e fuorvianti e soprattutto dalla tendenza a trascurare il molto di buono che abbiamo appreso e apprendiamo da questa disciplina. Però di questi tempi ci sono altre riflessioni da fare. In ambito SITCC c’è un po’ la preoccupazione che la psicoanalisi sia alle porte, impegnata in una battaglia culturale e mediatica che ci possa sottrarre allievi, influenza, rilevanza scientifica e pazienti. L’impressione è che le cose non siano proprio così. In realtà, gli psicoanalisti se la passano piuttosto male, molto peggio di quello che pensiamo… almeno negli USA.
 
Che succede? Leggo l’articolo di Barber e Sharpless, On the future of psychodynamic therapy research, early online su Psychotherapy Research.

 Gli autori fanno una disanima di quello che accade nel mondo americano. La situazione appare loro drammatica. Drammatica innanzitutto per la ricerca in psicoterapia in generale. In tempi grami economicamente la nostra ricerca è sempre meno finanziata, al contrario, ahimé, di quella sulle terapie farmacologiche (forse il vero avversario è lì, o almeno nella tendenza a dirigere i finanziamenti in tutto quello che abbia un sapore di neurobiologico). E questo è un guaio per tutti.

Il quadro per le psicoterapie dinamiche appare invece decisamente disastroso. I programmi di specializzazione in psicologica clinica completamente CBT crescono e quelli in cui l’insegnamento di teorie psicodinamiche è inesistente… crescono pure! Negli USA tra gli istituti di formazione in psicoanalisi più di un terzo è sull’orlo del fallimento.
 
Gli autori poi espongono le loro riflessioni su come potrebbero fare i ricercatori psicodinamici (almeno negli states) a fare le nozze con i fichi secchi, ovvero ricerca su processo ed efficacia con pochi fondi. Questo ci interessa meno, ad eccetto di un punto: notano l’importanza della collaborazione tra avversari, ovvero ricercatori di orientamenti opposti che fanno un trial insieme, in modo da evitare il cosiddetto allegiance effect (in parole povere: uno fa il tifo per il proprio orientamento e… ops… i risultati vengono proprio bene). Nel contesto del loro lavoro suona un po’ come un grido disperato, una richiesta di soccorso proprio a chi è in questo momento in posizione (percepita da loro) dominante, ovvero la CBT. Siamo nelle sabbie mobili, ci date una mano? Difficile che l’aiuto venga proprio da chi ha interesse ad affondarli, però scientificamente hanno ragione.
 
Ho trovato divertente che invece si lamentino dell’esposizione della psicoanalisi nei media (mi ricorda un po’ quello che scriviamo noi cognitivisti nei nostri dialoghi all’interno della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva). Sostanzialmente dicono che l’immagine della psicoanalisi è quella dei film di Woody Allen e dei Sopranos e si potrebbe fare di meglio. In verità peccano di ignoranza mediatica, perché lo spettatore moderno è scafato e si è visto In treatment e quello è uno psicoanalista moderno, che fa parecchi errori ma non è proprio scemo.
 
In parallelo, cosa che non facevo da tempo, mi sono spulciato le ultime uscite dell’International Journal of Psychoanalysis. E qui c’è da rabbrividire e i ricercatori psicoanalitici seri dovrebbero un po’ preoccuparsi di essere affiancati a certe teorie. Però, se non sei psicoanalista praticante (appunto, come chi scrive), più che da rabbrividire viene da sorridere.

Un breve florilegio di letteratura scientifica (per modo di dire) recentissimamente apparsa su questa rivista.

Tale Juan Francisco Artalotyia, spagnolo, propone una metapsicologia per la schizofrenia. Per fortuna leggo l’abstract da seduto, altrimenti il mio laptop, affettuosamente poggiato sulle ginocchia, avrebbe fatto una brutta fine! Ma come, ancora la metapsicologia? Non dicevano tutti che non esisteva più? Parla di un  paziente che sente le voci e si sente osservato e quindi, come Freud sosteneva, si delinea un circuito per la parola e uno per l’immagine, entrambi bloccati. Che vuol dire??? Però il paziente migliora. Meno male.
 
Bruce Reis parla di attaccamento e psicoanalisi. Qui possiamo tirare un sospiro di sollievo, l’argomento è sensato.
 
Gli italiani non ci deludono. A proposito, fateci caso, ci sono tanti psicoanalisti italiani che pubblicano su riviste internazionali. Colleghi: svegliatevi! Sono più attivi di noi!

De Masi (mi pare uno influente) e colleghi parlano di allucinazioni negli stati psicotici (a quanto pare non hanno mollato sulle spiegazioni psicoanalitiche della schizofrenia). Oh, questa è gente che non scherza. Gli autori postulano (ma si può dire postulano sulle riviste scientifiche?) che i fenomeni allucinatori rappresentino l’esito di un uso psicotico distorto della mente per lungo tempo. Nello stato allucinatorio la parte psicotica della personalità (sì, la chiamano così) usa la mente per generare sensazioni autoindotte e per raggiungere una particolare sorta di piacere regressivo. Qui mi viene da urlare: nooo! Ma come, un povero disgraziato che ha allucinazioni persecutorie se le fabbrica per provare piacere. E dai!

Poi il colpo gobbo: le allucinazioni visive si può dire che originino dal vedere con gli occhi della mente, le allucinazioni uditive dal sentire con le orecchie della mente. Io non ci sarei mai arrivato, troppo intelligenti per me. La conclusione dell’abstract è un’opera d’arte: Con il processo psicotico allucinatorio la mente può modificare il lavoro di un organo somatico come il cervello. Cartesio, ti fischiano le orecchie? Ci fai sapere?
 
Florent Poupart – che nome, già di suo meritava la pubblicazione – di Tolosa, ci parla dell’organizzazione isterica. Fa sempre interesse, diciamolo. La novità teorica sconvolgente è che l’essenza dell’isteria è l’ambivalenza verso la penetrazione nella sua forma passiva (desiderio vaginale). Una fantasia di penetrazione incorporea (sic) porta all’orgasmo e salva dall’ansia della distruzione dello spazio interno e dall’ansia di colpa che segue al climax desiderato. Sessuologi cognitivisti: vi volete svegliare!? La conclusione dell’abstract è deliziosa: il teatro privato nella nevrosi, così come l’occupazione e il condizionamento della mente nella psicosi (delirio di controllo) fungono da figurazioni psichiche della vagina. Propongo un premio erogato dalla SITCC a chi riesce a spiegarne il significato.
 
Sebastian José Kohon – non sembra ma è di Londra – scrive di Bion. Questo non riesco neanche a riassumerlo. Parla di barriera di contatto (conscio inconscio), elementi beta e pulsioni. Semplicemente incomprensibile.
 
Ora, sperando di avere mosso qualche sorriso, non mi sembra che da quelle parti siano messi bene.

C’è un mondo psicoanalitico di teorici, ricercatori e clinici svegli e intelligenti – mai fatto mistero del fatto che ne condivido molti punti e per me sono fonte di continua ispirazione, che in questo momento sono al verde.

Le istituzioni si indeboliscono. Nel mainstream si alternano lavori teorici interessanti – ho saltato in modo del tutto intellettualmente disonesto molti articoli pubblicati nell’International Journal of Psychoanalysis che sono interessanti e sensati. Alcuni scritti da gente che fa pure buona ricerca, tipo quelli che testano i modelli psicodinamici per la cura dei disturbi alimentari – dicevo, si alternano lavori interessanti a delle robe fuori dal tempo che in certi momenti pensavo non esistessero più.
 
La domanda che mi faccio è: abbiamo davvero un, chiamiamolo così, avversario politico-culturale-economico, così potente minaccioso e influente, come lo poteva essere vent’anni fa. Oppure siamo un po’ nel clima del Deserto dei tartari di Buzzati, ci aspettiamo un assedio che non avverrà mai?
 
O forse il problema è che si danno pacchi di soldi per finanziare tutto quello che includa studi di neuroimmagini (che costano un botto) e ne basterebbe un decimo per finanziare studi di ricerca in psicoterapia che ai nostri pazienti servirebbero molto di più?

In ogni caso, a me sembra più interessante continuare a diffondere un paradigma cognitivista aperto, intelligente, scientificamente fondato sulla ricerca in psicoterapia, sulla conoscenza della psicopatologia sperimentale e della psicopatologia generale, mantenere le orecchie aperte al mondo esterno imparando da quello che le altre scuole ci possono insegnare – certo se stavamo a sentire Salkovskis, Wells, Clarke e non so chi altro l’importanza della relazione terapeutica e dei processi intersoggettivi ce la potevamo bellamente scordare – e fare ricerca attivamente, con minor timore che i ladri ci rubino in casa.
 
Poi da colleghi come Bateman, Fonagy, Kernberg, Barber, Leichsenring, Lingiardi, Colli, Gazzillo, Stern, Safran, Muran, abbiamo tanto da imparare.

 

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La Crisi della Psicoanalisi – Monografia

Sindrome da separazione da iPhone: quando lasciare lo smartphone causa ansia e prostrazione psicologica

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

L’importanza sempre maggiore dell’utilizzo degli Smartphone nella vita di noi tutti sarebbe confermata da un nuovo studio dell’ Università del Missouri. Secondo tale ricerca, separarsi dall’ iPhone avrebbe effetti negativi sul nostro benessere psicologico, primi tra tutti ansia e difficoltà di concentrazione. 

 

 

This study uniquely examined the effects on self, cognition, anxiety, and physiology when iPhone users are unable to answer their iPhone while performing cognitive tasks. A 2 x 2 within-subjects experiment was conducted. Participants (N = 40 iPhone users) completed 2 word search puzzles. Among the key findings from this study were that when iPhone users were unable to answer their ringing iPhone during a word search puzzle, heart rate and blood pressure increased, self-reported feelings of anxiety and unpleasantness increased, and self-reported extended self and cognition decreased. These findings suggest that negative psychological and physiological outcomes are associated with iPhone separation and the inability to answer one’s ringing iPhone during cognitive tasks. Implications of these findings are discussed.

The Extended iSelf: The Impact of iPhone Separation on Cognition, Emotion, and Physiology Consigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Negative psychological and physiological outcomes are associated with iPhone separation and the inability to answer one’s ringing iPhone during cognitive tasks. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


SLA ed Emozioni: Impairment dell’espressività o deficit di capacità?

Domenico Mauro

La pratica clinica quotidiana, da quattro anni, in contesto degenziale per disturbi neuromuscolari ha indotto l’autore a ipotizzare una possibile correlazione tra la compromissione del funzionamento della muscolatura coinvolta nell’espressione mimica delle emozioni e la ridotta capacità di provare le stesse da parte degli ammalati in fase avanzata di S.L.A

Introduzione

Il presente lavoro nasce dall’esperienza maturata dall’autore in ambiente clinico-riabilitativo per soggetti affetti da disturbi neuromuscolari, in particolare dal lavoro con persone affette da S.L.A. che, nel corso di circa quattro anni, si sono avvicendate nel ricovero in contesto residenziale, raggiungendo il numero di 43 unità. L’osservazione longitudinale di tali pazienti, tutti collocabili in stadi avanzati di malattia, rivela un particolare dato clinico: una peculiare compromissione della attivazione dei muscoli facciali coinvolti nelle espressioni emotive.

L’ipotesi del presente lavoro, supportata dall’indagine anamnestica diretta condotta sui pazienti osservati, è che esista una correlazione tra la perdita della suddetta funzionalità ed una diminuita capacità di provare emozioni. A sostegno di quanto supposto si fa riferimento al complesso teorico relativo all’attività dei neuroni specchio, ed in particolare ai concetti di “consonanza intenzionale” e “simulazione incarnata” (Gallese, V., 2003). Gli effetti conseguenti alla drastica riduzione dell’espressione mimica coinvolgono ed influenzano attivamente l’interlocutore, nella misura in cui, come è stato possibile osservare, determina in quest’ultimo una diminuzione dell’espressione e della comunicazione empatica di ritorno verso l’emittente.

Dal punto di vista psicologico, del resto, diversi studi, tra i quali quello di Lule D. et al. (2005), hanno rilevato un cambiamento nella risposta emotiva dei pazienti, da una maggiore verso una minore reattività a stimoli emozionali intensi con l’avanzare della malattia, fenomeno che è stato ipotizzato correlare con l’attivazione di sistemi di compensazione cognitiva intercorsi ovvero, in un’ottica più neurobiologica, con vere e proprie modifiche neuroplastiche (Ferullo C.M. et al., 2009).

Metodi

Il metodo utilizzato fa riferimento fondamentalmente all’osservazione ed ai colloqui psicologici con 43 soggetti, aventi età media di 59,74 anni, tutti affetti da SLA già pervenuta alle fasi di compromissione delle funzioni respiratoria e fonatoria.  La ricerca attuale rimanda ad eventuali steps di approfondimento, successivi e multidisciplinari, per gli intuibili aspetti non indagabili con metodo empirico, aspetti extra-osservazionali. Occorre precisare che gli interventi e le stesse interlocuzioni con gli interessati sono stati resi attuabili grazie all’ausilio dello strumento comunicatore a puntatore ottico in loro dotazione.

I contenuti del trattamento clinico

Nel corso dei colloqui periodici effettuati dall’autore con i soggetti affetti da SLA, tutti ricoverati in contesto degenziale full-time, sono emersi importanti dati in linea con l’ipotesi per cui la severa condizione di impairment della funzionalità muscolare, oltre ad inibire l’espressione della espressività mimica (minus ampiamente atteso in virtù della centralità dell’impatto della sclerosi sulla funzionalità dell’apparato muscolare nella sua globalità), possa compromettere la capacità di provare emozioni: in particolare il dato che sembra emergere con chiarezza è che, se non la capacità di provare in toto le emozioni, si verificherebbe una riduzione dell’autopercezione in ordine alla quali/quantità della risonanza della sfera emozionale in risposta a stimoli emotigeni esterni. Frequenti sono state in tal senso le asserzioni raccolte nel corso delle interlocuzione con i pazienti esaminati; una fra tante: “è come se badassi meno a certe emozioni”; “riesco a sentirne solo alcune … quelle più forti”; “certi stimoli non mi fanno più lo stesso effetto di prima…”

La dimensione inconscia

Il malato affetto da S.L.A. si trova a dover elaborare diversi e ripetuti “lutti” legati alla progressiva perdita di fondamentali funzioni e dimensioni esistenziali. Esiste un gamma riconoscibile di reazioni cui vanno incontro, mano mano che si instaurano e si consolidano le diverse inabilitazioni multiapparato e prende forma la prospettiva di un’aspettativa di vita limitata, reazioni che possono essere osservate in successione nello stesso individuo, in stretta relazione alla progressione del processo di consapevolizzazione che, dal rifiuto (non sono io), la rabbia (perché proprio io), il compromesso (si, io però vorrei), la depressione (sono disperato), conduce all’accettazione (riposo finale) (S.I.A.A.R.T.I., 2011).

Coerentemente con la teoria di Elisabeth Kübler-Ross (1969), si rilevano in sostanza i cinque stadi di reazione alla prognosi mortale:

1.    diniego

2.    rabbia

3.    negoziazione

4.    depressione

5.    accettazione.

L’utilizzo massiccio di difese quali la negazione e l’isolamento, attutirebbe, in questi pazienti, l’impatto emotivo devastante e destrutturante della malattia (Averill, A., J., et al., 2007). La riduzione della percezione delle emozioni, qualora fosse dimostrata, sarebbe coerente con la messa in campo di istanze difensive inconsce presenti, in particolare, nelle fasi di maggiore consapevolezza.

Il modello psicofisiologico di Ruggieri

Secondo Vezio Ruggeri (1988), autore dell’apprezzato omonimo modello psicofisiologico delle emozioni, l’individuo percepisce uno stimolo esterno o interno (ricordi, immagini, rappresentazioni mentali etc.) che, agendo su alcuni particolari centri nervosi (ipotalamo e sistema limbico) determina un’attività che impegna contemporaneamente il sistema muscolare ed il sistema neurovegetativo. Il sistema nervoso centrale, dunque, in risposta allo stimolo emotigeno, invia impulsi ai muscoli ed al sistema viscerale. Muscoli e visceri, a loro volta, segnalano al sistema nervoso centrale, mediante informazioni di ritorno, la presenza dell’attività prodotta dal sistema nervoso medesimo. Esso ordina tali informazioni di attività mettendo in atto un processo di “sintesi”.

In altri termini, la raccolta dell’informazione proveniente dalla periferia del corpo (muscoli e visceri), in questo caso, non rappresenta la base per operazioni percettive di tipo analitico ma per una sintesi unificante, globale, dell’esperienza sensoriale. Quando si parla di informazioni sensoriali ci si riferisce, oltre che alle informazioni sensoriali cutanee, visive o uditive, anche alle c. d. informazioni propriocettive, cioè alle informazioni provenienti dai muscoli e dai tendini.

Quando l’informazione di ritorno proveniente dall’attività di diverse aree corporee (diversi distretti muscolari) è stata sintetizzata, si produce quel particolare vissuto coincidente con il sentimento. Il sentimento è l’elemento essenziale del processo di risposta emotiva: esso rappresenta la fase terminale dell’intera sequenza ed ha il ruolo di auto segnale (Ruggieri, 2002).  In questo caso non è importante per il soggetto riconoscere la provenienza corporea delle informazioni sensoriali che generano il sentimento ma vivere un’esperienza unitaria di piacere o di dolore da collegare con lo stimolo o la situazione stimolo che l’ha provocata. In virtù dei meccanismi fisiologici dell’emozione, uno stimolo esterno è stato in qualche modo “trasformato” in un complesso di eventi corporei che assumono il significato di segnale. In altri termini il soggetto “legge” ciò che lo stimolo ha provocato realmente in lui.

Tali costrutti teorici sembrano proprio la giusta cornice per l’ipotesi, al momento sospettabile sul piano osservazionale, secondo cui, in soggetti con S.L.A. avanzata, il coinvolgimento della funzionalità muscolare appare in stretta relazione con quantità e qualità delle emozioni.

Cenni sulla Teoria dei Neuroni Specchio

I neuroni specchio sono, come è ormai noto, una particolare popolazione di neuroni la cui esistenza è stata documentata per la prima volta verso la metà degli anni ’90, ad opera del gruppo di lavoro del Prof. Giacomo Rizzolatti, presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Parma. Scoperti nei macachi, i ricercatori osservarono che alcuni gruppi di neuroni si attivavano non solo quando gli animali compivano una determinata azione, ma anche quando osservavano un altro soggetto compiere la medesima azione.

Studi successivi, effettuati nell’uomo con tecniche non invasive, hanno dimostrato la presenza di sistemi simili: sembra che essi interessino diverse aree cerebrali, comprese quelle del linguaggio, e costituiscano una componente fondamentale della complessa ed articolata base anatomo-funzionale della capacità dell’uomo di porsi in relazione con altri individui. Nel nostro cervello, nel momento in cui viene osservata una determinata azione, si attivano gli stessi neuroni che entrano in gioco quando si è in prima persona a compierla; in questo l’individuo può comprendere con facilità le azioni dei suoi simili (meccanismo comparativo con analoghe azioni compiute in passato).

Lo stesso riconoscimento delle emozioni si basa su questo “meccanismo a specchio”: è stato dimostrato sperimentalmente, infatti, che quando osserviamo negli altri una manifestazione di dolore si attiva il medesimo substrato neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione (percepiamo quindi la stessa emozione di chi la sperimenta in prima persona). Ormai è certo dunque che questo sistema ha tutto il potenziale necessario per fornire un meccanismo di comprensione delle azioni e per l’apprendimento attraverso l’imitazione e la simulazione del comportamento altrui.

Come afferma Gallese (2006b) l’individuo non è estraneo al significato delle azioni, emozioni, o sensazioni esperite dal proprio simile, in quanto gode di – come viene definita dall’autore – una “consonanza intenzionale” col mondo altrui. Ciò è reso possibile, continua l’autore, non solo dal fatto che con gli altri condividiamo le modalità di azioni, sensazioni o emozioni, ma anche perché, condividiamo alcuni dei meccanismi nervosi che presiedono a quelle stesse azioni, emozioni e sensazioni; grazie ai meccanismi di rispecchiamento e simulazione, l’altro è vissuto come un “altro se”. È stato evidenziato da studi del gruppo di Rizzolatti (Gallese, Keysers e Rizzolatti 2004; Gallese 2006) che le stesse strutture nervose coinvolte nell’analisi delle sensazioni ed emozioni, esperite in prima persona, sono attive anche quando tali emozioni e sensazioni vengono riconosciute negli altri.

Il meccanismo di simulazione appare essere, quindi, una modalità di funzionamento di base del nostro cervello quando siamo impegnati in una qualsivoglia relazione interpersonale. La psicologia sociale ha descritto e studiato il cosiddetto “effetto camaleonte” (Chartrand e Bargh 1997): mimiamo inconsapevolmente il comportamento non verbale altrui, e il mimarsi reciproco aumenta quanto più stretta è la relazione con l’altro, ciò a conferma dell’ipotesi che l’empatia è generata dal sistema dei neuroni specchio (come afferma ancora Gallese, da un certo punto di vista la simulazione incarnata può essere considerata come il correlato funzionale dell’empatia), il cui compito sarebbe quello di interpretare le emozioni altrui, facendo provare, di conseguenza, quelle stesse emozioni o sensazioni al soggetto in relazione.

I meccanismi di simulazione (che, nel caso in cui riguarda funzioni condivise con l’altro – una condivisione, cioè, di azioni, sensazioni o emozioni tra individui che interagiscono tra di loro – viene denominata simulazione incarnata), quindi, rappresentano lo “strumento” atto alla condivisione, a livello esperienziale, degli stati mentali altrui. Il concetto di consonanza intenzionale generata dai processi di simulazione incarnata sarebbe funzionale all’ipotesi, formulata nel presente lavoro, per la quale, venendo meno la capacità del soggetto con S.L.A. avanzata di operare adeguati livelli di simulazione dell’espressioni emotive (a causa della mancata funzionalità muscolare per la riproduzione della mimica), possa ridursi anche l’attitudine a sperimentare le stesse emozioni.

Il coinvolgimento dell’interlocutore

Gli effetti della mancata risonanza intenzionale si ripercuotono anche nella dinamica con l’interlocutore coinvolto nella relazione col paziente ammalato di S.L.A.: sovente è emerso, all’osservazione delle dinamiche relazionali nel contesto residenziale, una rilevante difficoltà a sostenere gli scambi conversazionali con tali soggetti oltre che per le intuibili “barriere” fonatorie, anche in relazione a componenti extrafonatorie.

Tale difficoltà si genera nell’interlocutore in parte in ragione della necessità di adattamento, non sempre agevole, a forme di comunicazione alternativa, per altri versi, conseguenza di alterati giochi di feedback con il paziente. Si osserva, infatti, un atteggiamento apparentemente disponibile da parte del collocutore che, tuttavia, è di fatto “distante” emotivamente, presente com’è la difficoltà a mettersi in “sintonia” con l’altro, a comprenderne, cioè, lo stato d’animo e a condividerne, quindi, gli stati emotivi. Interagire con una persona che non presenta espressioni mimiche, equivale, a livello della percezione istintiva, ad interfacciarsi con una persona che è senza emozioni: seppur la razionalizzazione subentri in tempi brevi, inevitabilmente la risposta empatica ne resta condizionata in senso negativo.

Conclusioni

Nel presente lavoro è stato approfondito, secondo una metodologia di indagine osservazionale e perciò adatta ad un primissimo livello di ricerca, il delicato tema delle emozioni in un campione di pazienti degenti ammalati di SLA in fase avanzata.

La pratica clinica quotidiana, da quattro anni, in contesto degenziale per disturbi neuromuscolari ha indotto l’autore a ipotizzare una possibile correlazione tra la compromissione del funzionamento della muscolatura coinvolta nell’espressione mimica delle emozioni e la ridotta capacità di provare le stesse da parte degli ammalati in fase avanzata di S.L.A. A supporto dell’ipotesi citata, si è fatto riferimento alla teoria dei neuroni specchio – con i concetti di “consonanza intenzionale” e “simulazione incarnata” – per mettere in evidenza il coinvolgimento della capacità di imitazione della mimica emotiva nel processo di sperimentazione intrapsichica delle emozioni. È stato illustrato, inoltre, il modello psicofisiologico delle emozioni di Ruggieri, al fine di sottolineare  l’implicazione della funzionalità muscolare nei processi emozionali. Nell’ultima parte del lavoro è stato posto l’accento sugli “effetti” della amimia dei pazienti con SLA sull’interlocutore, frequentemente esitanti in una riduzione della risposta empatica in quest’ultimo.

L’auspicio è che le parzialissime conclusioni su tali ipotesi sensibilizzino verso un maggiore approfondimento dell’inquadramento della relazione tra impairment muscolare ed impairment emotivo in corso di S.L.A., ai fini delle intuibili ricadute nella conoscenza del grave disturbo, nonché della maggiore finalizzazione dei programmi e degli interventi terapeutico-riabilitativi in questa popolazione di utenti, con particolare riguardo agli aspetti inerenti la qualità di vita di persone che devono convivere con uno dei maggiori “drammi” in sanità.

“Le emozioni sono il colore della vita” recita Giampaolo Perna nel suo libro “Le emozioni della mente” (Perna, 2010); in una vita dove prevale il “grigio” della sofferenza in tutte le sue possibili declinazioni, è doveroso tentare di reinfondere un po’ di “colore”.

Un ringraziamento speciale al dott. Valerio Lamberti, quale fondamentale collaboratore in termini di suggerimenti, pareri e riflessioni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Averill, A.J., Kasarskis, E.J., Segerstrom, S.C. (2007). Psychological health in patients with amyotrophic lateral sclerosis. Amyotrophic Lateral Sclerosis. 8(4): 243-254
  • Chartrand T.L. and Bargh J.A. (1999).The chameleon effect: The perception-behavior link and social interaction. Journal of Personality and Social Psychology, 76: 893-910
  • Ferullo C.M., Mascolo M., Ferrandes G., Caponnetto C. (2009). Sclerosi Laterale Amiotrofica: rilevazione dei bisogni in un gruppo di pazienti e di caregiver della regione Liguria. Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia. Pavia. PI-ME.
  • Gallese, V. (2006b). La molteplicità condivisa. Dai neuroni mirror all’intersoggettività. In: Autismo. L’Umanità nascosta (a cura di S.Mistura). Torino. Einaudi Ed.
  • Gallese, V., Keysers, C. and Rizzolatti, G. (2004). A unifying view of the basis of social cognition. Trends in Cognitive Sciences, 8: 396-403.
  • Lulè D, Kurt A, Jurgens R, Kassubek J, Diekmann V, Kraft E, Neumann N, Ludolph AC, Birbaumer N, Anders S. (2005). Emotional responding in amyotrophic lateral sclerosis. J Neurol,  252(12): 1517-24.
  • Kübler-Ross, E., (1969). On death and dying. New York. Macmillan.
  • Rizzolatti G., Sinigaglia C., (2006). So quel che fai, il cervello che agisce e i neuroni specchio. Milano. Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA ONLINE
  • Ruggieri, V., (1988). Mente corpo malattia. Roma. Il pensiero Scientifico Editore.
  • Ruggieri, V., (2002). L’esperienza estetica. Fondamenti psicofisiologici per un’educazione estetica. Roma. Armando Editore. ACQUISTA ONLINE
  • Perna, G., (2010). Le emozioni della Mente. Biologia del cervello emotivo. Milano. Edizioni San Paolo.
  • Societa Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva Gruppo di Studio di Bioetica (2011). Cure palliative dei pazienti con patologie respiratorie croniche avanzate non oncologiche. Documento approvato dal Consiglio Direttivo S.I.A.A.R.T.I. Todi, 5 marzo 2011

Disgrafia e Disortografia – Definizione Psicopedia

Articolo a cura dell’ Equipe DSA di Studi Cognitivi 

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

 Il disturbo specifico di scrittura si definisce disgrafia o disortografia, a seconda che interessi rispettivamente la grafia o l’ortografia. La disgrafia fa riferimento al controllo degli aspetti grafici, formali, della scrittura manuale, ed è collegata al momento motorio-esecutivo della prestazione.

Essa si manifesta in una minore fluenza e qualità dell’aspetto grafico della scrittura.
La disortografia riguarda invece l’utilizzo, in fase di scrittura, del codice linguistico in quanto tale ed è all’origine di una minore correttezza del testo scritto. Entrambe, naturalmente, sono definite in rapporto alle prestazioni attese per l’età anagrafica dell’alunno.
In particolare, la disortografia si può definire come un disordine di codifica del testo scritto, che viene fatto risalire ad un deficit di funzionamento delle componenti centrali del processo di scrittura, responsabili della transcodifica del linguaggio orale nel linguaggio scritto.

 

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Le persone che rimuginano sono più intelligenti?

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Una ricerca pubblicata su Personality and Individual Differences sottolinea che vi sarebbe una correlazione statisticamente significativa positiva tra la tendenza a preoccuparsi e i livelli di intelligenza.

Generalmente vediamo e- proviamo sulla nostra pelle- la preoccupazione e l’ansia, spesso confondendole come sinonimi, come qualcosa di negativo e di spiacevole, giudicandole negativamente.

Non dimentichiamo però che ciascuna emozione – anche la preoccupazione- può avere una sua funzione evolutiva, tra cui anticipare e prepararsi ad affrontare le minacce e i pericoli.

Una ricerca pubblicata su Personality and Individual Differences sottolinea che vi sarebbe una correlazione statisticamente significativa positiva tra la tendenza a preoccuparsi e i livelli di intelligenza. I soggetti coinvolti hanno compilato una batteria di test self-report riguardanti ansia, rimuginio, ruminazione, depressione, e intelligenza verbale e non verbale.

Il risultato chiave dello studio è che gli individui con una maggiore tendenza al rimuginio ansioso (di solito mi preoccupo sempre di qualcosa) e/o alla ruminazione (cosa ha fatto per meritarmi questo?) presentavano anche punteggi maggiori ai test di intelligenza verbale della WAIS.

Invece, una tenenza a ruminare su eventi sociali già passati è correlata negativamente all’intelligenza non verbale, con punteggi minori nelle prove di quoziente intellettivo non verbale.

La spiegazione di questi due risultati apparentemente contradditori proposta dai ricercatori è che le persone con una maggiore intelligenza verbale sarebbero in grado di considerare eventi passati e futuri con maggiore precisione, mentre gli individui con una maggiore intelligenza non verbale sarebbero più in grado – plausibilmente essendo meno impegnati in rimuginio e ruminazione- di processare e affrontare meglio le esperienze e le performance nel momento presente. E’ d’obbligo ricordare cautela nell’interpretare e generalizzare questi risultati che sono ad oggi ancora preliminari, facendo riferimento a un campione limitato e non clinico.

 

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Genetica del comportamento: Quanto e come geni ed ambiente influenzano il nostro comportamento?

Il testo, aggiornato con le ultime ricerche pubblicate in letteratura e con ben 85 pagine di bibliografia, nella prima parte descrive i concetti base della genetica (dalle leggi sull’ereditarietà al DNA all’identificazione dei geni) ed illustra i differenti approcci utilizzati nello studio delle influenze genetiche ed ambientali sul comportamento.

Ogni volta che sento discutere di politica, da che ho memoria, una delle frasi più ricorrenti che viene strillata con grande incazzatura e malcelato disprezzo è: “E QUALCUNO L’HO HA PURE VOTATO, MA COME SI FA?!!” Come se votare per un candidato fosse una scelta razionalmente calcolata al 100%, determinata dall’educazione e dal contesto in cui siamo cresciuti. Invece il nostro orientamento politico, così come il nostro atteggiamento per esempio verso la religione, è in parte influenzato anche dal nostro assetto genetico (Funk et Al., 2013), il che, ammettiamolo, è sorprendente!

Ormai nessuno si stupisce più che i geni giochino un ruolo rilevante nello sviluppo di disturbi come la schizofrenia o la depressione o l’autismo, ma che lo stesso discorso valga anche per alcuni nostri atteggiamenti non è per nulla banale.

Alcuni costrutti psicologici su cui modelliamo le nostre percezioni, preferenze e scelte affondano, infatti, le proprie radici non solo nelle influenze ambientali, ma anche nei geni; in altre parole, se è vero che “Differenti istituzioni culturali – famiglia, chiesa, libri, televisione – offrono proposte differenti, le scelte che una persona compie riflettono sia quello che le viene offerto sia le sue inclinazioni ” (Loehlin, 1997). Diventa pertanto scontato che chi si occupa di comprendere il comportamento (psicologi, psichiatri, ricercatori…) debba considerare non solo gli aspetti ambientali, ma anche quelli genetici, mandando definitivamente in pensione la diatriba tra natura e cultura.

La sesta edizione del volume Genetica del comportamento di Plomin e DeFries, edito da Raffaello Cortina (2014), si pone proprio l’obiettivo di introdurre alla genetica del comportamento gli studenti di scienze biologiche, sociali e comportamentali.

Il testo, aggiornato con le ultime ricerche pubblicate in letteratura e con ben 85 pagine di bibliografia, nella prima parte descrive i concetti base della genetica (dalle leggi sull’ereditarietà al DNA all’identificazione dei geni) ed illustra i differenti approcci utilizzati nello studio delle influenze genetiche ed ambientali sul comportamento (dagli studi sulle adozioni e sui gemelli ai più recenti approcci combinati di analisi dei figli di gemelli o di coppie di fratelli non gemelli); inoltre, spiega le strategie di cui si avvalgono le ricerche sui modelli animali e umani, le tecniche utilizzate per quantificare quanto geni e ambiente influenzano il comportamento e come geni e ambiente interagiscono tra di loro.

Nella seconda parte invece il testo presenta lo stato della ricerca attuale su temi quali la capacità e la disabilità cognitiva, la schizofrenia, i disturbi dell’umore e dell’ansia, i disturbi da uso di sostanze e la psicopatologia dell’età evolutiva (ADHD, Autismo, etc.).

Particolarmente interessante è il capitolo “Personalità e disturbi di personalità” in cui, oltre ad affrontare i disturbi che sono stati studiati sistematicamente a livello genetico (Disturbo Schizotipico, Disturbo Ossessivo-Compulsivo e Disturbo Antisociale), vengono prese in esame le ricerche genetiche nell’ambito della psicologia sociale che si sono occupate di stimare il contributo di geni e ambiente nelle relazioni interpersonali (relazione genitore-figlio, tra pari, relazioni amorose e orientamento sessuale), nell’autostima, nell’economia comportamentale e nelle attitudini.

“Genetica del comportamento” rappresenta la sintesi di più di trent’anni di ricerca nel campo delle scienze del comportamento, nonché il punto di partenza per chiunque voglia dedicarsi allo studio del comportamento umano in quanto, come sottolineano gli autori, in ambito psicologico e psichiatrico sempre più ricercatori hanno incorporato strategie tipiche della genetica nei loro studi e sempre più ricerche di genetica del comportamento verranno condotte da studiosi che non sono in primo luogo dei genetisti.

Poiché il riconoscimento dell’importanza delle influenze genetiche è in continua crescita, ora più che mai è necessario ribadire con forza che sì, “i geni svolgono un ruolo sorprendentemente importante in molti tratti comportamentali”, ma “le differenze individuai nei tratti comportamentali complessi sono dovute a influenze ambientali almeno tanto quanto a influenze genetiche”.

I geni non sono il nostro destino, bensì predisposizioni probabilistiche. Essere portatori di un particolare assetto genetico ad alto rischio per una data malattia non significa quindi che automaticamente ci si ammalerà di tale malattia, e conoscere i fattori genetici in gioco permette di sviluppare misure preventive o interventi ambientali efficaci. Allo stesso modo non è detto che se siamo particolarmente tradizionalisti, automaticamente alle prossime elezioni il nostro sarà un voto conservatore, in quanto anche l’influenza dei determinanti ambientali farà la sua parte: vota Antonio vota Antonio Vota Antonio…

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Funk, C. L., Smith, K. B., Alford, J. R., Hibbing, M. V., Eaton, N. R., Krueger, R. F., Eaves, L. J., et al. (2013). Genetic and Environmental Transmission of Political Orientations. Political Psychology, 34(6), 805-819.
  • Lohelin, J.C. (1997). Genes and environment. In Magnusson, D. (a cura di), The Lifespan Development of Individuals: Behavioral, Neurobiological, and Psychological Perspectives: A synthesis. Cambridge University Press, New York
  • Plomin et Al. Genetica del comportamento (2014).  Raffaello Cortina Editore, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • Battaglia M. (2002.) Genetica del comportamento e sviluppo: cause, occasioni, rischi e casualità lungo i processi di adattamento. Tratto da Personalità, sviluppo e psicopatologia di Maffei C., Battagia M. e Fossati A. (2002) Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Dislessia – Definizione Psicopedia

Articolo a cura dell’ Equipe DSA di Studi Cognitivi

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

 Da un punto di vista clinico, la dislessia si manifesta attraverso una minore correttezza e rapidità della lettura ad alta voce rispetto a quanto atteso per età anagrafica, classe frequentata, istruzione ricevuta.

Risultano più o meno deficitarie la lettura di lettere, di parole e non-parole, di brani.
In generale, l’aspetto evolutivo della dislessia può ricordare un semplice rallentamento del processo di sviluppo. Tale considerazione è utile per l’individuazione di eventuali segnali anticipatori, fin dalla scuola dell’infanzia.

 

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E’ mancato il Professor Luigi Boscolo (1932-2015)

Luigi Boscolo - Psichiatra e Psicoterapeuta
LUIGI BOSCOLO (1932 -2015)

 

Il Centro Milanese di Terapia della Famiglia ha annunciato con grande tristezza la scomparsa del professor Luigi Boscolo avvenuta il giorno 12 gennaio 2015.

 

CURRICULUM E PUBBLICAZIONI

1960: Termina gli studi di Medicina e Pediatria all’Università di Padova

1961-1967: Negli Stati Uniti si specializza in Psichiatria e Psicoanalisi presso il New York Medical College e Metropolitan Hospital di New-York.

1967: Ritorna in Italia stabilendosi a Milano, dove apre uno studio per esercitare l’attività di psicoanalista. Nello stesso tempo collabora con Mara Selvini Palazzoli alla fondazione del Centro Per lo Studio della Famiglia.

1967-1970: Periodo Psicoanalitico.
Membro di una équipe di psicoanalisti diretta da Mara Selvini svolge attività di ricerca e terapia con famiglie e coppie, utilizzando il modello psicoanalitico.

1971-1975: Periodo Strategico-Sistemico.
Una nuova équipe formata da Selvini, Boscolo, Cecchin, Prata addotta un nuovo modello di terapia familiare, di terapia breve ispirato al modello di Terapia Strategico-Sistemica di Palo Alto. Le modalità di lavoro e i risultati di questo periodo sono descritti nel libro “Paradosso e Controparadosso”.

1975-1980: Periodo Sistemico.
Tale periodo è caratterizzato dallo studio approfondito delle idee e delle esperienze di G.Bateson, in particolare dell’applicazione della sua epistemologia cibernetica al nostro lavoro con le famiglie. Il testo più significativo di questo periodo è, senza dubbio, “Ipotizzazione, Circolarità, Neutralità: Tre Principi per la Conduzione della seduta” che da molti è stato considerato il più importante contributo del Gruppo di Milano.

1980: L’equipe del Centro viene Sciolta. Boscolo e Cecchin fondano un nuovo Centro, denominato Centro Milanese di Terapia della Famiglia, e ne diventano i Co-direttori.

Dal 1980: Il Centro Milanese, oltre all’attività clinica e di ricerca, cominciò a svolgere una intensa attività formativa rivolta specialmente agli operatori dei servizi sanitari e sociali pubblici. In seguito l’attività formativa si estese anche all’estero, dall’Europa alla America, all’Australia. Venne anche condotto da Boscolo e Cecchin un corso estivo annuale di formazione al modello sistemico di Milano. Boscolo in tutti questi anni svolge attività di didatta e supervisore non solo al Centro ma anche altrove. Diventa socio fondatore della S.I.P.R. di Roma e della S.I.R.T.S. di Milano. E’ stato membro della A.F.T.A. (American Family Therapy Association) e della A.A.M.F.T.(American Association for Mariage and Family Therapy), nonché del’ E.F.T.A. (Associazione Europea di Terapia della Famiglia).

 

Principali pubblicazioni scientifiche

LIBRI:

  • Palazzoli, M.S., Boscolo, L., Cecchin, G.F., and Prata, G. (1975), “Paradosso e Controparadosso”, Feltrinelli, Milano.
  • Boscolo, L., Cecchin G.F., Hoffmann, L., Papp, P.(1987), “Milan Systemic Family Therapy” – Basic Books, New-York.
  • Boscolo, L., Bertrando, P., “I Tempi del Tempo. Una Nuova prospettiva per la Consulenza e la Terapia Sistemica”, Bollati Boringhieri – Torino, 1993.
  • Boscolo, L., Bertrando, P. “Terapia Sistemica Individuale” Cortina – Milano 1995.

 

ARTICOLI PRINCIPALI:

  • Boscolo, L., Cecchin, G.F., (1982) “Training in Systemic Therapy at the Milan Center”, in “Family Therapy Supervision: recent developments in practice”, London, Academy Press.
  • Boscolo, L., Bertrando, P., Fiocco, P.M., Palvarini R.M., e Pereira, J., ” Linguaggio e Cambiamento. L’uso di parole chiave in terapia”, Vol.37, 41-53 (1991).
  • Boscolo, L., “The Systemic Approach to the Therapy of Schizophrenia” in C. Eggers (Ed.). “Schizophrenia and Youth” Springer-Verlag, Berlin Heidelberg 1991.
  • Palazzoli, M.S., Boscolo, L., Cecchin, G.F. and Prata, G. (1974) “The Treatment of Children Through the Brief Therapy of their Parents” – Family Process, Vol.13, N4.
  • Palazzoli, M.S., Boscolo, L., Cecchin, G.F. and Prata, G. (1977) “Family Rituals: A Powerful Tool in Family Therapy” Family Process, Vol. 4 N3.
  • Palazzoli, M.S., Boscolo, L., Cecchin, G.F. and Prata, G. (1978) “A Ritulaized Presription in Family Therapy: odd days and even days”, Journal of Marriage and Family Conseling, Vol.4 N3.
  • Palazzoli, M.S., Boscolo, L., Cecchin, G.F.,and Prata, G. (1980) “The Problem of the Referring person”, Journal of Marital and Family Therapy, Vol. 6, N1.
  • Palazzoli, M.S., Boscolo L.,Cecchin, G.F., and Prata,G. (1980) “Hypothesizing – Circularity – Neutrality: Three Guidelines for The Conduction of the Session”, Family Process, Vol.19 – N1.
  • Boscolo, L., Bertrando, P., “Terapia Sistemica e Linguaggio” – Connessioni – N1 (13-25) 1997.
  • Boscolo L., Terapia Familiare e Mediazione Familiare: Una Conversazione – Connessioni – N4 (145-155), 1998.
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