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Il Volontariato in Italia: come funziona questa attività?

Barbara Dardi

Fare volontariato è prendersi un impegno, una responsabilità; decidere se nella propria quotidianità si possono ritagliare  alcune ore per dedicarle agli altri. E’ consapevolezza delle proprie emozioni e sentimenti verso gesti semplici ma determinanti per il benessere di alcune persone a cui  è stato tolta l’opportunità di una vita serena e spensierata, ma non per questo necessariamente meno gratificante e soddisfacente.

Avere una visione chiara di cosa è il volontariato oggi, non è semplice. Se consideriamo il significato etimologico ed etico della parola, la realtà si discosta dalla definizione originaria. Per volontariato si intendono un insieme di attività a favore della collettività che mantengono 3 caratteristiche peculiari: la libera scelta della decisione di svolgere queste attività,  la gratuità, ovvero il fatto di non essere retribuiti e il prodotto finale che rappresenta il beneficio ottenuto da chi lo riceve (Vitale, 2004).

Il volontariato è un comportamento prosociale, inteso come insieme di azioni volte a proteggere gli altri e favorire e mantenere il  loro benessere fisico e psicologico. Fare volontariato è una decisione personale e intima, scaturita dalle emozioni profonde di aiuto verso coloro che  si trovano in una situazione di disagio e che da soli non riescono a risolvere le proprie problematicità.

Fondamentali quindi risultano alcune caratteristiche personologiche di chi fa volontariato: essere altruista (interessarsi al benessere degli altri), provare empatia per le emozioni di chi ci si trova di fronte, avere una visione positiva del mondo e una propensione a trovare soluzioni alternative per risolvere i problemi, essere comprensivi e pazienti. Il volontariato costruisce dei rapporti sociali tra sconosciuti, puntando solo su una forte motivazione e uno slancio emotivo nell’aiutare gli altri, contrastando  l’individualismo, l’egoismo, l’isolamento, l’antagonismo, il danneggiamento, i comportamenti distruttivi e aggressivi.

Questa forma originaria di solidarietà orizzontale è potuta mantenersi tale fino agli anni ‘90, momento  in cui, grazie alla sua sempre maggiore diffusione, è diventata un settore determinante e di grande impatto, tale per cui è stato necessario varare delle normative specifiche che lo regolamentassero.

L’amministrazione pubblica ha iniziato a finanziare  queste organizzazioni per svolgere servizi che non riusciva ad attivare, lasciandole libere (anche se non fino in fondo) di organizzarsi, gestire personale, tempi e modi di svolgere queste attività. In questo modo le organizzazioni di volontariato sono diventate vere e proprie aziende che fanno impresa, assumono dipendenti e vanno a contribuire in modo importante al capitale sociale dello Stato. La purezza, quindi, legata alla definizione originaria, viene a mancare (Vitale, 2004).

Secondo  la legge quadro su volontariato 266/91 – art. 1 comma 1 ”…per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione  di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”. E poi – art.3 comma 3 “…devono essere espressamente previsti l’assenza di fini di lucro, la democraticità della struttura, l’elettività e la gratuità delle cariche associative nonché la gratuità delle prestazioni fornite dagli aderenti… i loro obblighi e diritti”. Art. 3 comma 4: “ …possono assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo esclusivamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento oppure occorrenti a qualificare o specializzare l’attività da esse svolte”.

Nel grande gruppo del settore del volontariato italiano sono quindi presenti organizzazioni diversificate, dalle piccole associazioni presso comuni, ospedali e altri enti, fino alle grandi istituzioni con strutture organizzative complesse. Le organizzazioni composte da soli volontari sono in diminuzione, mentre aumentano quelle dotate di personale remunerato (www.istat.it). Spesso le piccole associazioni sono composte da familiari di persone che hanno subìto un incidente o soffrono di una qualche malattia, assumendo un profilo di gruppo di auto-mutuo-aiuto in cui supportarsi reciprocamente perché nella stessa situazione.

A Padova esiste un’associazione onlus che si chiama “Marcellino Vais”. E’ un centro diurno per disabili fisici e psichici fondato nel 1992; svolge attività pomeridiana con laboratori di vario genere (arte, falegnameria, teatro, musica, ecc.). Vengono organizzati eventi di intrattenimento, spettacoli teatrali, pranzi di solidarietà e gite a tema.

Il nome prende spunto da un ragazzo affetto da poliomelite, Marcellino Vais,  che negli anni ’80 ha rivolto il suo impegno nello sport gareggiando in carrozzina, diventando più volte campione italiano di atletica leggera e creando una squadra di pallacanestro arrivata fino in categoria A1. Sulla base di questi principi di tenacia, coraggio, solidarietà ed entusiasmo, l’associazione vive solamente grazie all’impegno costante di volontari non retribuiti, che si sono succeduti nel tempo. Portare avanti l’associazione però è complicato, perché le spese fisse sono tante e le entrate sono poche.

L’associazione non è convenzionata col SSN e si appoggia solo sul contributo delle famiglie dei disabili e sulle varie donazioni.  Il centro è diventato però una “seconda famiglia” per gli ospiti, perché accogliente, intimo e sempre con un’atmosfera positiva e speranzosa, nonostante la drammaticità che possa portare con sè una disabilità.

Alcuni ospiti e alcuni volontari sono presenti da tanti anni proprio per questa forma di affetto e dedizione che caratterizza il gruppo, testimoniando l’importanza della presenza non solo fisica di queste strutture sul territorio, ma la fondamentale essenza emotiva, spirituale ed empatica di chi dedica il proprio tempo e le proprie energie verso queste persone. I volontari sono persone esterne alla famiglia degli ospiti,  accentuandone ancora di più il carattere di gratuità e solidarietà pura, spontaneità e  sincerità di affetti.

Come bene testimoniano i dati istat rispetto ad un decennio fa dove i settori in cui si svolgeva volontariato erano prettamente quello sanitario e sociale, adesso le persone sono più impegnate nelle organizzazioni con finalità ricreative e culturali. Il volontariato si sta dirigendo verso settori più “facili”, allontanandosi da situazioni problematiche  che richiedono un maggior impegno emotivo. Per il Marcellino Vais risulta quindi difficile reperire i volontari. Ma anche gli ospiti.

Anche se i dati confermano un incremento di chi fa volontariato anche in modo personale tramite donazioni o attività singole (non appoggiandosi ad associazioni) tante sono le condizioni esterne che possono intralciare la presa di decisione. E’ difficile per un giovane disoccupato, appena uscito dalla scuola o dall’università, impiegare il  tempo in un’attività che non dà stipendio. Alcuni giovani lo fanno per una questione di esperienza e formazione, con la speranza che poi l’associazione decida di assumerlo. Inoltre non riescono a dare la continuità nel tempo perché appena capita un’occasione lavorativa devono necessariamente abbondonare . Ma dall’altra parte ci troviamo anche degli over 60enni che sono in pensione, ma che spesso hanno l’impegno di aiutare i figli e i nipoti nella gestione familiare, economica e pratica.  Quindi spesso capita che una persona voglia fare volontariato ma non può per questioni personali.

Inoltre, spesso la famiglia del disabile che non può usufruire del servizio pubblico (per varie motivazioni),  non  sceglie nemmeno una struttura privata, tenendo il parente a casa. Questo significa privare il disabile di determinati stimoli educativi e sociali che un’organizzazione appositamente strutturata potrebbe dare, ma soprattutto  enfatizza le problematiche di gestione della persona in casa, aumentando la probabilità di intaccare l’equilibrio tra i membri della famiglia. Soprattutto se la disabilità è medio grave  o grave, i genitori o i familiari che hanno a carico il disabile si trovano a dover far fronte a problematiche di cura e accudimento totale, 24/24 ore, sacrificando la propria vita. Il sostegno e l’appoggio domiciliare pubblico è molto limitato e le famiglie si ritrovano intrappolate in casa senza alternative.

Rispetto agli anni ’90 in cui la struttura conteneva il massimo numero degli ospiti che era consentito e vantava di almeno una trentina di volontari che si turnavano, soprattutto giovani, negli ultimi anni i numeri si sono fortemente abbassati. I volontari sono scesi considerevolmente e l’età media è aumentata ( sopra i 60 anni) e gli ospiti, ognuno con le proprie situazioni familiari, sono diminuiti, rimanendo i pochi affezionati. Dopo aver cambiato diverse sedi, dal 2004 si trovano in quella attuale; le spese sono aumentate, comprese quelle fisse come l’affitto, i consumi e il gasolio per il pulmino privato che ogni giorno fa il giro e passa a prendere a casa gli ospiti e li riporta la sera.  Pulmino regalato da Dario Fo nel 1997 quando ha devoluto in beneficienza il ricavato del premio nobel alla letteratura. Giusto per rendere più difficoltoso il proseguire delle attività l’ente che inizialmente ha concesso l’edificio gratuitamente completamente da ristrutturare a spese dell’associazione, una volta ultimati i lavori e vedendo che era stato trasformato in una struttura accogliente, ha iniziato a chiedere l’affitto.

Dal punto di vista educativo e formativo, gli standard richiesti si sono innalzati per garantire un servizio di qualità elevata; lavorare con i disabili non significa più “far compagnia”, ma si prevede un percorso consapevole, mirato a degli obiettivi di miglioramento e cambiamento, per favorire un benessere fisico, psicologico e sociale, verso una migliore qualità di vita e integrazione nella società. Questo può avvenire solo con personale professionale formato, competente. E’ necessario quindi un intervento di potenziamento di alcuni aspetti salienti per rendere l’associazione completa. Avere la presenza costante di un professionista che svolga il ruolo di gestione e supervisione dell’intera  organizzazione  è impensabile proprio per i costi troppo elevati, anche se i volontari  e le famiglie ne riconoscono la necessità per poter proseguire.

A questo punto l’associazione è arrivata ad un bivio: mantenere le caratteristiche iniziali con cui è sorto il centro, nonostante l’alta concorrenzialità e la variabilità dell’offerta sul territorio, andando a far leva sull’esperienza ventennale e l’essenza pura di ciò che significa fare volontariato,  oppure trasformarsi in un’azienda che eroga servizi sociali e modificare la motivazione di base, ovvero lo spirito caritatevole che muta  in un reddito da percepire.

Fare volontariato è prendersi un impegno, una responsabilità; decidere se nella propria quotidianità si possono ritagliare  alcune ore per dedicarle agli altri. E’ consapevolezza delle proprie emozioni e sentimenti verso gesti semplici ma determinanti per il benessere di alcune persone a cui  è stato tolta l’opportunità di una vita serena e spensierata, ma non per questo necessariamente meno gratificante e soddisfacente.

Tutte le persone hanno il diritto di vivere nel miglior modo possibile ed è un dovere comune, sociale, collettivo, creare le condizioni e le situazioni per offrire questa possibilità. Non tutti hanno una propensione ad entrare in contatto con coloro che mostrano “diversità” rispetto a se stessi e alla norma; la paura della diversità nasce  dalla non conoscenza e dalla percezione della propria incapacità di farci fronte a particolari situazioni che possono capitare. Ma il volontariato ha molte sfaccettature, ci sono molti modi di metterlo in pratica, basta trovare quello più  adatto a sè.

 

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Facebook e il rendimento scolastico: è vero che stare sui social network fa male allo studio?

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Secondo lo studio vi sarebbero correlazioni differenti in funzione dell’età: i piu giovani avrebbero maggiori difficoltà nel regolare e bilanciare l’uso di facebook, mentre per i veterani delle classi successive sarebbe meno un problema; e tutto dipende dal processo di autoregolazione.

Non è una novità che gli studenti siano delle scuole superiori o dell’universtià passano gran parte del tempo su Facebook. Dunque uno studio della Iowa State University si è chiesto se il tempo trascorso su facebook correla con i voti e con l’andamento scolastico.

Secondo lo studio vi sarebbero correlazioni differenti in funzione dell’età: i piu giovani avrebbero maggiori difficoltà nel regolare e bilanciare l’uso di facebook, mentre per i veterani delle classi successive sarebbe meno un problema; e tutto dipende dal processo di autoregolazione.

La Survey ha ananlizzato i comportamenti su Facebook di 1600 studenti di college focalizzandosi specificamente sul tempo speso su Facebook anche facendo altro nel frattempo (multitasking). Gli studenti più giovani passano mediamente due ore al giorno su Facebook, e per una delle due ore riferiscono di dedicarsi anche allo studio mentre sono connessi al social network. Anche gli studenti più senior riferiscono di studiare mentre sono connesi a Facebook ma qui si rilevano due correlazioni distinte: per i junior stare su facebook mentre studiano correla negativamente con le performances scolastiche mentre per i senior questo multitasking con il social media non avrebbe nessun relazione con il rendimento scolastico .

L’autore però sottolinea di non trarre generalizzazioni dai risultati dello studio, quali per esempio, “no facebook migliori risultati a scuola”: infatti lo stesso gruppo di ricercatori in studi precedenti ha dimostrato che attività specifiche su facebook, come ad esempio creare ed invitare a un evento e ricevere molte risposte positive sarebbe correlato a un successivo maggiore impegno riportato nello studio. Quindi il punto non è tanto se accedere a facebook o meno, e per quanto tempo, ma anche che tipo di utilizzo si fa del social network.

Inoltre secondo Junco, l’autore principale dell’articolo, il problema non si pone per quanto riguarda Facebook di per sé, ma in quanto fonte – come molte altre – di distrazione rispetto alle attività di studio. La questione rimanda dunque alle abilità di autoregolazione e di gestione del proprio tempo nelle routine quotidiane.

 

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Le reti di Berna: prevenire il rischio di suicidio intervenendo sul contesto

Una volta compiuto l’assessment del rischio suicidario si possono pensare, a fianco degli interventi terapeutici appropriati (sicuramente secondo le linee indicate da Mancini), interventi mirati sull’ambiente.

In un recente post su State of Mind, Francesco Mancini argomenta a favore di un approccio al paziente suicidario centrato sulla regolazione degli stati mentali antecedenti al suicidio. Sullo sfondo di una crisi economica drammatica, correlata ad un incremento dei suicidi da disperazione economica, Mancini propone che l’attenzione resti focalizzata sulla persona e di intervenire sui processi cognitivo/affettivi che rischiano di portare una persona a togliersi la vita.

L’articolo mi ha fatto pensare. L’argomento in sé è giusto, i clinici dovrebbero: 

assemblare protocolli psicoterapeutici in grado di modificare stabilmente gli stati mentali prossimi l’ideazione suicidaria

(Mancini, State of Mind, 2 Feb, 2015).

Come non essere d’accordo? Mi sono chiesto a lungo, e non mi sono dato una risposta, chi sia l’interlocutore a cui Mancini si rivolgeva scrivendo questo post. In assenza di risposta però ho riflettuto sulle sue implicazioni. Ripeto, non c’è parola della riflessione di Mancini che non condivida: per quanto siano presenti fattori di rischio, essi agiscono solo su persone precedentemente vulnerabili. Tre sarebbero i fattori predisponenti: non appartenenza, convinzione di essere un peso per gli altri, scarso timore del dolore e della morte. Da psicoterapeuta è logico, sensato e giusto intervenire sulle prime due convinzioni.

Ma mi sembra una risposta parziale, che rischia di portare gli psicoterapeuti a concentrarsi solo sugli interventi che compiono nella propria stanza, trascurando l’ambiente sociale e precludendosi la possibilità di intervenire su di esso.

 Ripenso ad un aneddoto. Sono stato più volte a Berna per lavoro. È una città bellissima, sviluppata su due livelli attorno alle anse del fiume Aar. Fuori città c’è il sinuoso Paul Klee Zentrum, di Renzo Piano. Malgrado le condizioni ambientali e architettoniche – e direi economiche – ottimali, a Berna si suicidano in molti. La prima volta che ci sono stato passeggiavo con dei colleghi, psicoterapeuti e ricercatori esperti. Attraversando uno dei ponti che concedono una vista splendida sul fiume e sulla parte inferiore della città, il collega commentò tra sé e sé, con tono severo: Non va bene, in questo punto non ci sono le reti. Le reti servirebbero a raccogliere chi si gettasse dal ponte, attività evidentemente diffusa in quella città, in modo da evitarne la morte per suicidio. Reagii internamente pensando: Questi sono fuori di testa. Le reti? Ma dai, se uno vuole uccidersi figurati se sarà una rete a dissuaderlo. L’unico effetto delle reti è che disturbano la bellezza architettonica della città.

BERN - SUICIDE BARRIER
Suicide barriers, Bern

Ci ripenso oggi e mi sento vagamente stupido. Anni dopo torno a Berna e passeggiando con un altro collega, di pari valore del primo, ci troviamo a osservare il campanile della Cattedrale, luogo storicamente prediletto da chi voleva togliersi la vita. Oggi ci sono le protezioni. Il collega mi spiega che l’effetto in termini di riduzione dei suicidi è stato significativo. Una persona va lì nel momento in cui l’impulso è forte e si sente pronto ad uccidersi. Trova la rete. Perde l’attimo. Gli passa la voglia. E spesso non ritrova le condizioni giuste. La sua vita è salva.

L’esempio viene ora seguito a San Francisco. (Si vedano i due link: link1 link2). L’effetto benefico non è solo la riduzione dei suicidi in sé, ma anche la riduzione di disturbi post-traumatici da stress in chi si trova passeggiando un cadavere o assiste in diretta all’evento tragico.

DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS (PTSD)

Dove voglio arrivare? Che intervenire sui fattori contestuali che rischiano di portare al punto di rottura un individuo vulnerabile è necessario e sembra efficace (manca qui una mia review della letteratura per dare corpo all’argomento). Una volta compiuto l’assessment del rischio suicidario si possono pensare, a fianco degli interventi terapeutici appropriati (sicuramente secondo le linee indicate da Mancini), interventi mirati sull’ambiente. Potenziamento della rete sociale per migliorare il senso di appartenenza alla comunità. Interventi familiari in modo da facilitare la percezione che gli altri non sentano un’eventuale situazione economica difficile come un peso dovuto al paziente. Sarebbe sensato per determinati individui immaginare anche condizioni di prestiti agevolati? Ovviamente solo su persone selezionatissime che realmente ne beneficerebbero.

Alla fine si tratta di applicare anche a questa categoria di atti impulsivi o premeditati quello che già si fa con le dipendenze. Tra psicoterapia, dodici passi, alcolisti anonimi e via dicendo, voi suggerireste ad un ex-alcolista di festeggiare il compleanno in un lounge bar? Direi di no. Ad un ex-gambler proporreste un weekend romantico a Las Vegas?

 

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Sergio Mattarella: il punto di forza psicologico del nuovo Presidente della Repubblica

Malgrado la sua trasognata lentezza di vecchio democristiano, Mattarella forse è la persona giusta: non rimugina su occasioni perdute, su rivoluzioni mancate, su errori passati e su passate illusioni, su sogni di essere qualcos’altro o di essere nato altrove.

Quale potrebbe essere il punto di forza psicologico del nuovo presidente della Repubblica, l’onorevole Sergio Mattarella? Per carità, nessuna (psico-)analisi a distanza di una persona che non conosco per nulla, che ho visto solo in fotografia e di cui ho potuto leggere solo qualche dichiarazione politica. Però si può dire qualcosa di psicologico sul retroterra politico di Mattarella, sull’ambiente emotivo in cui è cresciuto. È l’ambiente del cattolicesimo democratico che s’incarnava nella corrente politica della sinistra DC, quella corrente del vecchio partito più attenta a politiche democratiche e perfino progressiste, almeno nel campo dell’economia e dei diritti dei lavoratori.

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L’ambiente emotivo della sinistra democristiana mi sembra diverso da quello di altre tradizioni politiche progressiste. Non ci sono state fratture, non è stato necessario rinnegare il passato. È vero: anche la Democrazia Cristiana cambiò nome, come aveva già fatto il Partito Comunista, e anch’essa infine si estinse quando confluì nel Partito Democratico. Tuttavia i cattolici democratici, i vecchi politici della sinistra DC non mi sembrano in preda a quella eterna crisi di identità che affligge gli ex comunisti e gli ex socialisti. E nemmeno li vedo eternamente agitarsi a vuoto -come succede a destra- su immaginarie svolte ora liberiste ora conservatrici. Anzi, mi paiono guidare con una certa sicurezza il partito democratico, dare il tempo alla musica più e meglio dei progressisti laici.

La forza di Mattarella, come forse anche di Renzi, è di provenire da un ambiente in fondo soddisfatto di se stesso e della sua storia.

La sinistra DC ha guidato la svolta sociale degli anni ’60 e l’apertura ai socialisti. Ha i suoi padri fondatori di cui non si vergogna, da Giorgio La Pira (a cui si richiama anche Matteo Renzi) ad Aldo Moro. Sono sicuramente responsabili delle lentezze di sviluppo dell’Italia, ma vivono questo difetto come un problema che condividono con il resto della società italiana, anch’essa pigra e lenta. Un difetto di cui essere consapevoli, magari da sopportare e cattolicamente, troppo cattolicamente perdonare; non una tara genetica su cui flagellarsi pubblicamente come si fa da sempre a destra e come, purtroppo, anche a sinistra da qualche decennio, magro regalo di Montanelli.

Non hanno un rapporto conflittuale con l’Italia, non sognano svolte rivoluzionarie, liberiste e/o conservatrici come accade alla loro destra o egualitarie come avviene alla loro sinistra. Non hanno bisogno di chiamarsi “Forza Italia” perché sono l’Italia, con tutte le sue lentezze ma –pensateci- senza complessi d’inferiorità. Non riesco a immaginare Moro che dice “se fossimo un paese normale…” Semmai si sarebbe limitato a un triste sorriso di compatimento e auto-compatimento in attesa del treno in ritardo. Al tempo stesso la sinistra democristiana aveva un’aria perbene che mancava al resto della DC: vedi le fotografie di Dossetti, La Pira, Zaccagnini, Moro, Andreatta, Galloni, Prodi e non vedi i machiavellismi di Andreotti o l’aria ambigua dei Gava.

Insomma, non c’è quel rimuginio depressivo sulla propria identità o su se stessi che affligge i depressi cronici, come ci ha insegnato il buon Aaron T. Beck (1978). Quel sentimento di stanchezza di se stessi, di auto-denigrazione o addirittura di vergogna di sé che affligge altre tradizioni politiche e che poi può tracimare in auto-denigrazione personale e nazionale. Se c’è qualcosa che un ex democristiano non fa è desiderare di essere altro da sé. Un liberale alla Montanelli trascorrerebbe la vita a rimpiangere di non essere nato inglese, qualcun altro preferirebbe essere nato francese o tedesco, invidiando ai primi l’illuminismo laico e ai secondi il rigore calvinista.

E in alcuni la stanchezza di se stessi e l’auto-denigrazione possono trasformarsi in odio di sé stessi. È un concetto questo più psicoanalitico che cognitivo: che la depressione sia frutto di una vera e propria aggressività verso il proprio sé, fino ad arrivare al desiderio di morte e autodistruzione (Freud, 1917-1980; Klein, 1940-1994; Rado, 1928). È anche un concetto sociologico e antropologico, che storicamente risale alla riflessione del filosofo ebreo Theodor Lessing che nel 1930 pubblicò un libro sull’odio verso se stessi che –a suo parere- nutrivano all’epoca gli ebrei.

Oggi gli italiani sono un po’ stanchi di se stessi. Non credo che odino se stessi come pare facessero gli ebrei tedeschi per tutto l’ottocento fino a Hitler. Non non è necessario essere così drammatici come Melanie Klein o Theodor Lessing. Però gli italiani sono inclini ad auto-denigrarsi in maniera non sempre produttiva.

Malgrado la sua trasognata lentezza di vecchio democristiano, Mattarella forse è la persona giusta: non rimugina su occasioni perdute, su rivoluzioni mancate, su errori passati e su passate illusioni, su sogni di essere qualcos’altro o di essere nato altrove. Insomma, malgrado le apparenze, i democristiani non erano depressi. Erano solo un po’ lenti. In questi ultimi vent’anni, gli altri non si sono dimostrati più veloci.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Beck, A.T. (1978). La depressione. Torino: Boringhieri. ACQUISTA ONLINE
  • Freud, S. (1917-1980). Lutto e Melanconia. Opera completa di Sigmund Freud, Volume VIII. Torino, Boringhieri.
  • Lessing, T. (1930). Der jüdische Selbsthaß, Berlin, Jüdischer Verlag.
  • Klein, M. (1940-1994). Mourning and its relation to manic-depressive state. In R.V. Frankel (a cura di), Essential Papers on Object Loss. Essential Papers in Psychoanalysis, pp. 95-122. New York: State University of New York Press. DOWNLOAD
  • Rado, S. (1928). The Problem of Melancholia. International Journal of Psychoanalysis, 9, 420-438.

Un viaggio alla scoperta delle emozioni: la differenza tra quelle primarie e secondarie

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (01)

 

 

Le emozioni primarie sono emozioni innate e sono riscontrabili in qualsiasi popolazione, per questo sono definite primarie  ovvero universali. Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

Costantemente proviamo tante emozioni, una vasta gamma, che varia da quelle positive a quelle negative. Fondamentalmente, cos’è un’emozione, di cosa si tratta? Proviamo, dunque, a fare un viaggio in questo mondo, esplorando più da vicino queste sconosciute che ci accompagnano per tutta la giornata … e nella vita.

L’emozione consiste in una serie di modificazioni che avvengono nel nostro corpo sia a livello fisiologico, alterazioni respiratorie e cardiache, sia di pensieri, ad esempio: “… che paura… ” o “… non c’è speranza…”, sia reazioni comportamentali, come il fuggire o gridare o alterazioni della mimica facciale, che il soggetto utilizza in risposta a un evento.

Sicuramente, se domani dovesse esserci una interrogazione da affrontare o un compito scritto, un verifica insomma, potrei provare ansia, paura, dovuta al fatto che non so bene come potrebbe andare, di non aver studiato abbastanza, di non sapere esattamente quali domande saranno affrontate e quali potrebbero essere i risultati ottenuti. In questo caso, si possono avvertire una serie di modificazioni a carico del fisico, come le farfalle allo stomaco, la secchezza delle fauci, mal di testa, respiro affannoso e così via. Si tratta di indicatori riguardanti stato di incertezza che si sta affrontando, perché le aspettative che si hanno sono distanti dalla realtà.

SFU CLASSI PICCOLE 2015In tanti hanno studiato le emozioni cercando di definirle e categorizzarle, ma oggi vorrei porre l’accento sul lavoro messo a punto da Ekman nel 2008. Questo psicologo americano racconta di essere stato in un remoto villaggio sulle alture della Papua Nuova Guinea per studiare gli abitati del posto e verificare se fosse possibile riscontrare anche tra loro le stesse emozioni provate da altri popoli. Gli indigeni, i Fore, popolo pre-letterario, alla vista di Ekman che mangiava del cibo a loro sconosciuto rimasero stupiti. In particolare uno di loro rimase a guardare Ekman con una particolare espressione. Lo studioso entusiasta della loro reazione, fotografò l’espressione di disgusto evidenziata sul volto di questo membro della tribù e scrisse: “La fotografia illustra che l’uomo è disgustato dalla vista e dall’odore del cibo che io consideravo appetitoso” (p. 177). Questo è solo uno dei tanti esempi riferiti dallo scienzato.

Fu proprio seguendo questa Tribù che Ekman poté notare come le espressioni di base fossero universali perché riscontrabili in popolazioni diverse, anche in quella dei Fore che è isolata dal resto del mondo. Così decise di stilare una lista di emozioni divise in primarie e secondarie.

Le emozioni primarie o di base sono:

1. rabbia, generata dalla frustrazione che si può manifestare attraverso l’aggressività;

2. paura, emozione dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa;

3. tristezza, si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto;

4. gioia, stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri;

5. sorpresa, si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia;

6. disprezzo, sentimento e atteggiamento di totale mancanza di stima e disdegnato rifiuto verso persone o cose, considerate prive di dignità morale o intellettuale;

7. disgusto, risposta repulsiva caratterizzata da un’espressione facciale specifica.

Queste sono emozioni innate  e sono riscontrabili in qualsiasi popolazione, per questo sono definite primarie  ovvero universali. Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

Esse sono:

– allegria, sentimento di piena e viva soddisfazione dell’animo;

– invidia, stato emozionale in cui un soggetto sente un forte desiderio di avere ciò che l’altro possiede;

– vergogna, reazione emotiva che si prova in conseguenza alla trasgressione di regole sociali;

– ansia, reazione emotiva dovuta al prefigurarsi di un pericolo ipotetico, futuro e distante;

– rassegnazione, disposizione d’animo di chi accetta pazientemente un dolore, una sfortuna;

– gelosia, stato emotivo che deriva dalla paura di perdere qualcosa che appartiene già al soggetto;

– speranza, tendenza a ritenere che fenomeni o eventi siano gestibili e controllabili e quindi indirizzabili verso esiti sperati come migliori;

– perdono, sostituzione delle emozioni negative che seguono un’offesa percepita (es. rabbia, paura) con delle emozioni positive (es. empatia, compassione);

– offesa, danno morale che si arreca a una persona con atti o con parole;

– nostalgia, stato di malessere causato da un acuto desiderio di un luogo lontano, di una cosa o di una persona assente o perduta, di una situazione finita che si vorrebbe rivivere;

– rimorso, stato di pena o turbamento psicologico sperimentato da chi ritiene di aver tenuto comportamenti o azioni contrari al proprio codice morale;

– delusione, stato d’animo di tristezza provocato dalla constatazione che le aspettative, le speranze coltivate non hanno riscontro nella realtà.

Quindi, le seconde sono delle emozioni più complesse e hanno bisogno di più elementi esterni o pensieri eterogenei per essere attivate.

Bene, siamo giusti alla fine di questo piccolo viaggio. Alla prossima avventura nel mondo della psicologia!

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Ekman, P. (2008). Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste. Editore Amrita, collana Scienza e Compassione

Abuso infantile: segni e sintomi – Definizione Psicopedia

Secondo il documento approvato dal CISMAI (semeiotica medica nell’abuso sessuale dei bambini prepuberi) l’abuso sessuale presenta una compagine di segni e sintomi specifici da non essere rilevabili se non in un contesto clinico anche se la rilevazione e la diagnosi costituiscono problemi complessi in cui si intrecciano fattori medici, psicologici, sociali e giuridici che rende indispensabile il coinvolgimento di più figure professionali.

In virtù di questo, la diagnosi di abuso sessuale rappresenta una diagnosi multidisciplinare. Una diagnosi solo medica raramente è possibile: nella letteratura internazionale è riportato che il 50%-90% dei minori vittime di abuso sessuale accertato presenta reperti genitali e/o anali normali o non specifici. Risulta doveroso per tutti i colleghi che operino in tali contesti considerare con preoccupazione alcuni indizi:

Segnali di una sessualizzazione traumatica:

– disegni e/o racconti sessualmente espliciti, inappropriati
all’età;

– interazione a carattere sessuale con altre persone;

– masturbazione coatta o introduzione di oggetti in vagina;

– disagio o rifiuto a spogliarsi per visite mediche o attività
sportive;

– inibizione e preoccupazione relativa ad argomenti sessuali;

– messa in atto di precoci forme di seduzione.

Affermazione spontanea del bambino di aver subito molestie sessuali:

• Disturbi della sfera alimentare;

• Disturbi del controllo sfinterico;

• Disturbi dell’umore;

• Presenza di fobie;

• Esibizionismo;

• Difficoltà relazionali con entrambi i sessi;

• Enuresi;

• Inibizione, assenza di slancio vitale, stanchezza cronica, demotivazione;

• Caduta del rendimento scolastico o frequenti e prolungate assenze.

Negli adolescenti in particolare un aumentato interesse relativo alla sessualità è normale, tuttavia ci sono alcuni segnali che possono indicare un abuso sessuale:

– promiscuità sessuale (partners multipli);

– prostituzione adolescenziale;

– gravidanze precoci;

– tentativi di suicidio;

– insolito allontanamento dalla famiglia;

– abuso di sostanze stupefacenti e alcool.

Indicatori di violenza assistita:

– Più alta incidenza di disturbo post-traumatico da stress complesso ( Herman)

– Instabilità affettiva

– Impulsività

– Difficoltà nella modulazione della rabbia

– Preoccupazioni suicide

– Autolesionismo

– Amnesia

– Ricordi intrusivi degli episodi traumatici

– Impotenza – vergogna-colpa

– Accettazione della violenza quale regola delle relazioni affettive

– Somatizzazione

– Disturbi dell’attaccamento

– Problemi scolastici

– Depressione e ansia

Come si opera in questi casi? Occorre tener presente, previa valutazione interdisciplinare in equipe, considerare un processo d’intervento suddiviso in 4 fasi:

– la rilevazione: individuazione dei segnali di malessere dei minori ed i rischi per la loro crescita, connessi alle condotte pregiudizievoli degli adulti;

– la protezione: intervento volto ad arrestare il comportamento maltrattante/abusante, modulato in relazione alla gravità dello stesso che nei casi più gravi;

– la valutazione: percorso teso a valutare il quadro complessivo della situazione traumatica nei suoi aspetti individuali e relazionali;

– il trattamento: intervento finalizzato a ripristinare sufficiente condizione di benessere per il minore.

 

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PTSD, attivazione genica e abuso infantile

 

BIBLIOGRAFIA:

  • O.M.S.Consultation on Child Abuse and Prevenzion1999  
  • Malacrea M. (2004). Il “buon trattamento”: un’alternativa multiforme al maltrattamento infantile, Cittadini in crescita, 1, 1-17. DOWNLOAD
  • Saunders, B.E., Berliner, L., Hanson, R.F. (2001). Guidelines for the psychosocial treatment of intrafamilial child physical and sexual abuse, Charleston (SC). DOWNLOAD
  • Malacrea, M. (2005). Da: Herman J. L. (1992). Trauma and recovery, Basic Books. Tr. It. (2005). Guarire dal trauma, Edizioni MAGI, Torino. 
  • Malacrea, M. (2007). Esperienze traumatiche infantili e adozione, Minorigiustizia, 2/2007, 185-195. 
  • Malacrea M., & Lorenzini S. (2002). Bambini abusati. Linee guida nel dibattito internazionale, Raffaello Cortina, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • Bianchi, D., Moretti E. (a cura di). Vite in bilico. Indagine retrospettiva su maltrattamenti e abusi in età infantile, Quaderni del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Questioni e documenti 40, Istituto degli Innocenti, Firenze. 
  • Cirillo S., & Di Blasio P. (1989). La famiglia maltrattante, Raffaello Cortina, Milano. ACQUISTA ONLINE

Lesioni cerebrali e problemi degenerativi cronici: nuove prospettive

FLASH NEWS

In un recente articolo alcuni ricercatori dell’Università del Maryland hanno posto l’attenzione su come esattamente una lesione cerebrale dovuta ad un trauma possa causare danni cerebrali permanenti, argomento a proposito del quale c’è una diffusa incomprensione.

Si sostiene che i problemi che insorgono dopo il trauma siano ampiamente dovuti alla prolungata infiammazione cerebrale. Secondo la loro visione, infatti, l’infiammazione spiegherebbe meglio numerosi sintomi che erano prima ricondotti al trauma tra cui atrofia, depressione e deterioramento cognitivo.

Gli autori, Faden e Loane, ritengono sia stata messa troppa enfasi sulla diagnosi di Encefalopatite traumatica cronica allontanando l’attenzione da altri meccanismi che potrebbero essere più importanti e meglio trattabili. Alcuni studi indicano che una persistente infiammazione seguente a un danno moderato o ripetuti traumi leggeri è molto comune e può contribuire ai problemi cognitivi. Infiammazioni di questo tipo infatti possono perdurare per diversi mesi, a volte anche anni, in soggetti con traumi cerebrali causando dunque danni a lungo termine.

L’infiammazione cerebrale e la perdita di cellule cerebrali sembrano considerevolmente simili motivo per cui riuscire a capire meglio il meccanismo dietro il danno può aiutare a sviluppare strategie per prevenire o minimizzare i problemi che ne conseguono. L’accento di questo articolo infatti è soprattutto sul fatto che, a differenza di altre patologie, l’infiammazione potrebbe essere trattabile.

Le lesioni cerebrali dovuti a traumi sono uno dei maggiori problemi sociali: sportivi e militari sono i soggetti più a rischio ma anche infortuni e incidenti possono esserne causa; riuscire a fare maggiore chiarezza sul processo e sui diversi aspetti è importante per migliorare i trattamenti e limitare i danni a lungo termine.

 

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Lesioni cerebrali: quali conseguenze sulle relazioni sociali?

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Ansia: siamo geneticamente predisposti allo stato d’allarme?

Un nuovo studio pubblicato su Biological Psychiatry indica che l’ansia di tratto potrebbe essere legata ad una minore presenza, nei soggetti costantemente ansiosi, dei recettori 1 e 5 del neuropeptide Y. Tale neuropeptide svolge la sua azione nell’amigdala, area cerebrale coinvolta anche nella regolazione dell’ansia. Potremmo dunque definirci automuniti di ansiolitici?

 

Se si riuscissero a creare nuovi farmaci capaci di mimare l’azione del neuropeptide Y sui recettori Y1 e Y5, si potrebbe controllare l’ansia cronica in maniera molto più naturale.

 

Ansia: siamo geneticamente predisposti allo stato d'allarme?

Ansia: farmaci o psicoterapia? Consigli per chi è sempre in allarmeConsigliato dalla Redazione

Lo studio di persone geneticamente meno predisposte all’ €™ansia, dotate in modo maggiore dei recettori Y1 e Y5, potrebbe rivoluzionare l’ €™approccio farmacologico. (…)

 

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Clash-Back: un videogame per lavorare sul rapporto tra genitori e figli

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

I rapporti stanno diventando sempre più tecnologici, questo è vero anche per le relazioni più intime, quali quella tra genitori e figli. A tal proposito dalla Francia arriva una novità: Clash- Back, un videogioco ideato da un’ équipe di psicologi guidati dal Prof. Xavier Pommereau, per cercare di migliorare il rapporto tra i ragazzi e i loro genitori. 

 

Clash Back est une série interactive animée, réalisée par la société Interactive Situations et le Dr Xavier Pommereau, qui met en situation les moments de crise entre les adolescents et leur entourage.

 

Un videogioco Consigliato dalla Redazione

Un videogioco per migliorare il rapporto tra genitori e figli – Tra genitori e figli c’è sempre più di mezzo la tecnologia. Un’equipe di psicologi francesi ha ideato… (…)

Tratto da: Affaritaliani.it

 

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Il segno come sintomo: dal corpo significante al significato del corpo – Recensione

Nonostante l’autrice dedichi ampio e prezioso spazio all’eziologia dei disturbi alimentari, fondamentale è l’attenzione che viene prestata a quello che potremmo definire il filo conduttore di tutto il libro: la considerazione del corpo come universo di significati mutevoli nel corso del tempo.

Gli ultimi anni sono stati testimoni di una forte crescita dei casi di disturbi del comportamento alimentare, tra cui l’anoressia nervosa. Parallelamente si è sempre più diffusa, tra i meno esperti, l’idea che tale esplosione di casi sia dovuta al bombardamento mediatico che sempre più trasmette l’idea che magrezza e bellezza siano sinonimi e soprattutto valori da raggiungere se ci si vuole affermare nella vita.

Ne “Il segno come sintomo”, l’autrice Francesca Pierotti porta il lettore, a mio avviso, a una grande delucidazione in merito alle cause dell’anoressia: seppur non si possa negare il peso dei mass media, vi sono altri fattori che possono predisporre una persona all’insorgenza di un disturbo della condotta alimentare, tra cui la famiglia, la cultura e le amicizie. Non vanno poi tralasciati altri fattori scatenanti quali eventi di vita ad alto impatto emotivo o traumi.

Nonostante l’autrice dedichi ampio e prezioso spazio all’eziologia dei disturbi alimentari, fondamentale è l’attenzione che viene prestata a quello che potremmo definire il filo conduttore di tutto il libro: la considerazione del corpo come universo di significati mutevoli nel corso del tempo.

Dunque, suggerisce l’autrice, è lecito chiedersi: la malattia può ritenersi separabile dal soggetto che la manifesta? In realtà la malattia esprime un dolore non proprio solo del corpo, ma di tutta la persona. Attraverso la malattia il soggetto si esprime, lancia un messaggio e comunica. Uno dei meriti dell’autrice sta nel rendere particolarmente chiaro questo punto nel suo libro. Nel caso dei disturbi del comportamento alimentare, tale superamento del primato biologico si rende ancor più importante da tenere a mente.

Fondamentale è, dunque, a detta dell’autrice, uno sguardo clinico di complementarità tra segni e sintomi. I segni sono manifestazioni patologiche visibili e oggettive, i sintomi invece rappresentano disturbi a carattere soggettivo e, in quanto tali, da decodificare. Per fronteggiare il malessere si deve ricostruire il percorso della malattia, attraverso l’ascolto della narrazione del soggetto e attraverso l’indagine scientifica dovuta alla competenza tecnica. In quanto l’individuo è essere sociale, non si può non concepire il sintomo come svincolato anche dal contesto culturale proprio dell’individuo.

Grazie a questo sguardo teorico iniziale, l’autrice espone un contributo empirico di notevole importanza: vista l’eziologia multifattoriale dell’anoressia, gli autori della ricerca (Francesca Pierrotti e Eduardo Cinosi, medico specializzando in psichiatria) hanno deciso di prendere in considerazione l’unico elemento che accomuna tutti coloro che ne soffrono: la ricaduta della patologia sul corpo e, nello specifico, la dispercezione corporea (il modo in cui il soggetto rappresenta il suo corpo nella mente). In particolare hanno voluto studiare come tale dispercezione corporea venga manifestata attraverso modalità segniche ben specifiche: il disegno e la fiaba.

Perché i ricercatori utilizzano proprio questi due metodi?

Attraverso il disegno della propria figura umana, l’individuo produce una rappresentazione di Sé che può essere sia positiva che negativa e che consente di cogliere i diversi aspetti della propria personalità. Soprattutto, attraverso l’analisi del disegno dell’adulto, si possono evidenziare battute d’arresto della crescita e della corretta integrazione delle parti del proprio corpo con la mente. La fiaba invece attribuisce un senso alle situazioni di vita, consente di dare ordine a se stessi e al mondo, trovando delle soluzioni ai propri problemi interiori e non solo.

I risultati di tale contributo empirico sono molto interessanti, non privo chiunque voglia leggere il libro del piacere di scoprire quel che è emerso dall’analisi dei disegni e delle fiabe di pazienti anoressici.

Consiglio la lettura de “Il segno come sintomo” agli operatori che lavorano nell’ambito dei Disturbi del Comportamento Alimentare e agli studenti interessati all’argomento: il lavoro ha il merito di riportare all’attenzione dei tanti una visione più complessa e meno riduzionista della malattia e dell’anoressia nello specifico. Il contributo empirico offre, inoltre, spunti interessanti per uno sguardo clinico più completo sul mondo interno del paziente anoressico.

 

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Anoressia e rappresentazione senso-motoria inconsapevole del corpo

BIBLIOGRAFIA: 

  • Pierotti, F. (2013). Il segno come sintomo: dal corpo significante al significato del corpo. Ali&No: Perugia.  ACQUISTA ONLINE

Perché accelerando la scomparsa delle parole migliorano le abilità di lettura nei bambini con dislessia? Il ruolo dell’attenzione spaziale

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Autrice: Matteoli Maria Diletta (Università degli Studi di Padova)

Perché accelerando la scomparsa delle parole migliorano le abilità di lettura nei bambini con dislessia? il ruolo dell’attenzione spaziale.

Why to accelerate the disappearance of words, improves the reading abilities of children affected by dyslexia? the role of spatial attention.

 

Abstract

In un lavoro del 2013 Zvia Brezitz ha dimostrato che il trattamento RAP (Reading Acceleration Program), da lei ideato, porta a un miglioramento in velocità e in accuratezza in un gruppo di adulti con dislessia madrelingua ebraico. Il presente lavoro si ricerca ha lo scopo principale di verificare se un trattamento simile a quello di Breznitz, sviluppato per un gruppo italiano di bambini con dislessia, possa portare a risultati comparabili. Il trattamento creato in questa ricerca è stato da noi chiamato “Rapid Sequential Processing Training”. Un secondo obiettivo della ricerca è quello di indagare i meccanismi sottostanti il miglioramento nella lettura, in particolare attenzione spaziale e abilità visuopercettive (via magnocellulare/dorsale). Lo studio, condotto con un disegno di ricerca entro soggetti, su un gruppo di 13 bambini ha mostrato che un trattamento con vincolo temporale imposto porta a un miglioramento generale nella velocità di lettura e una leggera diminuzione dell’accuratezza durante il trattamento. Attraverso delle valutazioni pre e post-test, (nello specifico, test di Navon con quadrati cerchi e triangoli) è stato inoltre dimostrato il ruolo cruciale dell’attenzione spaziale e della via magnocellulare/dorsale nella dislessia, abilità che migliorano a seguito del trattamento. A seguito della presente ricerca e delle precedenti possiamo affermare che la lettura rapida migliora la velocità di lettura anche nei bambini italiani. In futuro, altri studi saranno necessari per valutare se è possibile migliorare anche l’accuratezza.

Abstract

In a research work of 2013, Zvia Breznitz has demontrated that the RAP (Reading Acceleration Program), a treatment that she designed, leads to an improvement in reading rate and accuracy in a group of Hebrew-speaking adults with reading disabilities. The present work has a major aim to verify if a treatment with similar features as Breznitz’s,, developed for a group of  italian-speaking children with dyslexia, can lead to a comparable results.
The tratment developed in this study has been called “Rapid Sequential Processing Training”.  The second purpose of this research is to investigate the mechanism underlyng the improvement in reading, especially spatial attention and visual perceptual abilities (magnocellular/dorsal stream). For the purpose of the study a group of 13 children, with ages ranging from was selected. This within group design study, demonstrates that a training with an imposed time constraint allows a general improvement in reading rate and a mild decrease in accuracy during the training. Trought pre and posttest investigations (in particular, Navon test with squares, rounds and triangles) it was demostrated the crucial role of spatial attention and magnocellular-dorsal stream in dyslexia. This two functions improve after the training. According to  both the presented study and Breznitz’s research, rapid reading improves the reading rate. This was verified in Italian speaking children and in Hebrew speaking adults, the sample groups of the two researches respectively. In future, other studies could be necessary to evaluate if it’s possible to improve also the accuracy. In future other studies could be necessary ti evaluate if it’s possibile to improve also the accuracy.

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

Keywords: Dislessia evolutiva; Riabilitazione; Attenzione spaziale; Via magnocellulare-dorsale; Lettura rapida

Empatia: maggiore quando a provare dolore sono i familiari!

FLASH NEWS

I risultati dello studio hanno così messo in evidenza come, in entrambe le specie, la risposta empatica al dolore fisico provato dall’ altro fosse più forte in presenza di familiari rispetto a quando ci si trova con estranei.

Con il termine empatia ci si riferisce alla capacità di condividere e di sentire le emozioni degli altri. Facendo riferimento alla prospettiva della psicologia umanistica e in modo particolare alla definizione di Carl Rogers, per empatia si intende la capacità di utilizzare gli strumenti della comunicazione verbale e non verbale per mettersi nei panni dell’altro, in un contesto di accettazione autentica e non giudicante. Secondo Rogers, è proprio questa accettazione incondizionata e non giudicante dell’altro che permetterebbe di comprenderne realmente il vissuto, identificandosi, seppur parzialmente, con la prospettiva da cui egli vede il mondo.

Un deficit della capacità empatica è all’ origine, secondo lo stesso Presidente Obama, di molte incomprensioni, divisioni e conflitti all’interno della società. Obiettivo di un recente studio condotto da Mogil, professore di psicologia presso l’Università McGill di Montreal, e pubblicato su Current Biology, è stato proprio quello di indagare come tale capacità si sviluppi tra persone tra loro estranee.
L’empatia, sempre più frequentemente oggetto di studio alla luce del ruolo che svolge in diversi disturbi psicologici, come i disturbi dello spettro autistico, viene spesso indagata utilizzando stimoli dolorosi in quanto l’esperienza di dolore è universalmente comprensibile e facile da misurare. Lo stesso approccio è stato utilizzato anche da Mogil al fine di studiare la risposta empatica negli esseri umani e in mammiferi minori, come i topi. In modo particolare, nel corso dello studio, la risposta empatica al dolore fisico è stata indagata in diversi scenari: quando i soggetti erano soli, in presenza di familiari oppure in presenza di estranei. I risultati dello studio hanno così messo in evidenza come, in entrambe le specie, la risposta empatica al dolore fisico provato dall’ altro fosse più forte in presenza di familiari rispetto a quando ci si trova con estranei.

È emersa, inoltre, una differenza nel livello di stress dei partecipanti allo studio, più alto in situazioni in cui i soggetti si trovano con estranei rispetto a quando si trovano con familiari o sono da soli. Secondo gli autori, questi risultati permetterebbero di ipotizzare che lo stress costituisce un fattore causa della minore risposta empatica nei confronti degli estranei.
Per verificare questa ipotesi è stata valutata la risposta empatica in presenza di estranei in seguito alla somministrazione del metyrapone, un farmaco in grado di bloccare la risposta di stress, e dopo aver giocato per 15 minuti al videogioco Rock Band®, nei soggetti umani. In entrambi i casi, si è osservato un incremento della risposta empatica dei soggetti.
Secondo Mogil

“anche un’esperienza condivisa di tipo superficiale, come giocare a Rock Band® insieme ad un estraneo può portare le persone  ad uscire dalla zona-estraneo e a considerare gli altri come persone familiari, generando significativi livelli di empatia. Questi risultati fanno emergere nuove e interessanti domande sul ruolo di un deficit nell’empatia in diversi disturbi psicologici e anche nei conflitti sociali sia a livello personale che sociale; è, inoltre, piuttosto sorprendente che l’empatia sembra comportarsi esattamente allo stesso modo nei topi e negli uomini”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Cannabis: può essere terapeutica per la prevenzione dell’epilessia

Donata Sandri, Ufficio Stampa Fondazione RI.MED – COMUNICATO STAMPA (30-01-2015)

 

Questo studio, oltre a costituire un importante contributo per fare chiarezza sulle potenzialità terapeutiche dei cannabinoidi nella prevenzione dell’epilessia e di altre patologie neurologiche, potrebbe fornire le basi necessarie allo sviluppo di nuove molecole con target altamente specifici, e pertanto con minori effetti collaterali, nella prevenzione di diversi tipi di disturbo neurologico e neurodegenerativo.

 

Roberto Di Maio è un brillante ricercatore italiano, selezionato per il programma Fellowship Ri.MED attivo presso l’University of Pittsburgh: la Fondazione sta infatti formando capitale umano d’eccellenza per il Centro per le Biotecnologie e la Ricerca Biomedica di prossima realizzazione in provincia di Palermo.

Grazie alla borsa di studio Ri.MED, dal 2008 il dr. Di Maio sta conducendo a Pittsburgh innovative ricerche nel settore delle neuroscienze. L’ultimo lavoro, pubblicato su “Neurobiology of Disease”, definisce il potenziale terapeutico dei cannabinoidi nella prevenzione dell’epilessia del lobo temporale.

L’epilessia del lobo temporale è la forma di disturbo epilettico più frequente, i cui sintomi si manifestano svariati anni dopo un episodio epilettico acuto, quale ad esempio convulsioni febbrili nell’infanzia. A questo stadio della malattia compaiono danni cerebrali irreversibili, spesso refrattari ai trattamenti antiepilettici convenzionali. Sono quindi di fondamentale importanza gli sforzi di medici e ricercatori rivolti a prevenire l’evento epilettico cronico.

L’idea – spiega il dr. Di Maio – nasce dal fatto che i cannabinoidi possono modulare e bilanciare i meccanismi di eccitabilità neuronale ed agire specificamente sulla funzione dei mitocondri (entrambi fenomeni biologici strettamente correlati al danno neuronale da stress ossidativo ed alla malattia epilettica). Questo studio ipotizza che il potenziale anti epilettogenico dei cannabinoidi si espleti attraverso il recupero delle disfunzioni neuronali che portano verso il danno ossidativo.

Alcuni esperimenti preliminari condotti dal dr. Di Maio hanno messo in luce che l’effetto anticonvulsivante delle molecole cannabinoidi è strettamente dipendente dal suo effetto a “campana”, ovvero che esiste uno stretto range di dosaggio efficace, al di sotto o al di sopra del quale questi agonisti del sistema cerebrale sono inefficaci o, peggio, pro-convulsivanti.

Ecco come è stata condotta la sperimentazione: dopo aver indotto un evento epilettico acuto nei ratti con un’iniezione di pilocarpina, gli animali sono stati divisi in due gruppi, uno dei quali ha ricevuto un basso dosaggio quotidiano del cannabinoide sintetico. Dopo 15 giorni è stata sospesa la somministrazione e, dopo 6 mesi di osservazioni, è stato analizzato il cervello degli animali: il gruppo trattato con la molecola cannabinoide mostrava comportamento epilettico quasi assente, laddove gli animali non trattati avevano invece sviluppato una forte sindrome epilettica.

Questo studio, oltre a costituire un importante contributo per fare chiarezza sulle potenzialità terapeutiche dei cannabinoidi nella prevenzione dell’epilessia e di altre patologie neurologiche, potrebbe fornire le basi necessarie allo sviluppo di nuove molecole con target altamente specifici, e pertanto con minori effetti collaterali, nella prevenzione di diversi tipi di disturbo neurologico e neurodegenerativo.

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Come parlare perché i bambini ti ascoltino & come ascoltare perché ti parlino – Recensione

Il cuore del metodo sta nel considerare i propri figli come degli interlocutori affidabili dei loro sentimenti e della loro esperienza interna, che deve essere sempre rispettata e validata.

Quando per la prima volta sentii parlare di questo libro da mia sorella, parigina di adozione e madre di 3 figli, era così entusiasta che mi precipitai a comprarlo nella versione inglese, fino a qualche mese fa l’unica reperibile qui in Italia.

“Non hai idea, io e le mie amiche ci scambiamo consigli su come applicare il metodo, e funziona! Se glielo dici in un certo modo fanno quello che vuoi!”

La bibbia dei genitori, così titola la copertina, è “Come parlare ai bambini perchè ti ascoltino e come ascoltarli perchè ti parlino” di Adele Faber e Elaine Mazlish, laureate in arte drammatica e allieve fedeli dello psicologo infantile Haim Ginott. Da più di 10 anni impegnate nel campo della comunicazione figli/genitori, hanno scritto versioni precedenti di questo testo (Liberated Parents/ Liberated Children) in cui sono raccolte le testimonianze dei genitori che hanno partecipato ai loro seminari in cui insegnano nuove ed efficaci modalità comunicative da utilizzare con i propri figli. Questa ultima versione ha il merito di essere una sintesi delle esperienze di formazione precedenti in cui il lettore/genitore viene guidato passo passo alle esercitazioni pratiche di ascolto, auto-osservazione e comunicazione efficace.

Il cuore del metodo sta nel considerare i propri figli come degli interlocutori affidabili dei loro sentimenti e della loro esperienza interna, che deve essere sempre rispettata e validata. Più facile a dirsi che a farsi. E ce ne accorgiamo subito, non appena le autrici ci invitano a esercitarci all’ascolto di ciò che, in modo abbastanza automatico, rispondiamo ai nostri figli ogni volta che ci parlano di loro, di ciò che provano, pensano, vivono, vogliono. Non appena riusciamo a “sentirci” ci accorgiamo subito che invece che ascoltare ci affanniamo – a fin di bene ovviamente – a dare consigli, a impartire ordini, regole, a ridefinire ciò che loro dicono di provare per indurli a fare, o addirittura a provare, quello che noi pensiamo sia più giusto per loro, meno dannoso o doloroso, in un meccanismo di squalifica dell’altro che inevitabilmente porta ai suoi noti frutti: una comunicazione difficile, fatta di capricci, comportamenti oppositivi, scontento reciproco.

Gli esercizi di immedesimazione, in cui veniamo costretti ad ascoltarci e a immaginarci ricevere la stessa risposta che abbiamo appena dato a nostro figlio, sono il primo passo verso la redenzione! Come mi sarei sentito se…? Come si è sentito lui o lei? Cosa gli sto dicendo e perchè? Impariamo presto a morderci la lingua e a tacere, sostituendo silenzi carichi di interesse – ooh… Mmm.. aaha.. – a consigli e ammonimenti, per scoprire che così facendo lasciamo lo spazio necessario affinché l’esperienza interna dei bambini possa essere definita e accolta e le emozioni penose vissute a fondo e superate. Impariamo a fidarci delle risorse che ciascuno ha, anche un bambino piccolo, per affrontare non solo il proprio mondo interno, fatto di emozioni non sempre piacevoli, ma anche le difficoltà del mondo esterno, i litigi con i compagni, le delusioni, le arrabbiature, la frustrazione imposta dallo scoprire di avere dei limiti e dal dover rispettare dei limiti. Se riusciamo ad esserci, ad ascoltarli silenziosamente, con rispetto ed empatia, troveranno il più delle volte da soli la chiave per superare le difficoltà.

Nel capitolo dedicato all’autonomia ci accorgiamo quante cose inutili ci affanniamo a fare al posto dei nostri figli, spesso inseguendo più il nostro bisogno di sentirci indispensabili che il loro bisogno di dipendere da noi. La conquista dell’autonomia, invece, passa attraverso la possibilità di fare un passo indietro e lasciarli fare, piccole scelte e azioni quotidiane che li facciano sentire responsabili di ciò che li riguarda da vicino. Veniamo invitati a cambiare prospettiva: non è l’aiuto costante, il continuo regalargli la nostra esperienza di vita, il fornire consigli e risposte sagge, la protezione, che li farà crescere, ma il lasciare che sperimentino, mostrando rispetto per le loro difficoltà senza però mai privarli della speranza di poter raggiungere i traguardi che sognano. Attenzione, niente di tutto ciò è pura filosofia, ogni sezione prevede degli obiettivi e gli esercizi per raggiungerli ed è arricchita da un’ utilissima parte in cui vengono date risposte a dubbi e perplessità dei genitori che hanno partecipato ai seminari sul metodo.

La parte più gettonata è sicuramente quella relativa alla collaborazione: in poche parole, come far sì che rispettino regole, limiti e sopratutto che facciano ciò che gli chiediamo di fare? E come farlo senza ricorrere alle punizioni? Ancora una volta l’esercizio a poche e “semplici” abilità è la chiave del cambiamento. Descrivere il problema, dare informazioni, essere brevi e concisi, usare dei promemoria scritti e non mistificare ciò che proviamo. Queste le abilità da usare ogni volta che desideriamo cercare la collaborazione con i nostri figli. Anche qui l’apprendimento passa attraverso l’autosservazione di cosa abitualmente facciamo nelle situazioni che ci sembrano più problematiche. Il minimo comune denominatore delle abilità utili alla collaborazione è il riuscire, ancora una volta, a trasmettere la stima che abbiamo nella capacità dell’altro di occuparsi in modo competente di un problema o di un compito, ma anche di essere sensibile ai bisogni degli altri. Descrivere un problema per esempio, invece che accusare l’altro di esserne la causa, aiuta a concentrarsi su ciò che deve essere affrontato e dà ai bambini la possibilità di dire loro stessi cosa è necessario che facciano.
Ma veniamo alle punizioni. Davvero si può farne a meno? E come? Innanzitutto le autrici ci mettono in guardia con le parole di Ginott:

“Le punizioni non possono funzionare perché il bambino invece che sentirsi dispiaciuto per ciò che ha fatto e pensare a come rimediare si perde in fantasie di vendetta”.

In altre parole, punendolo lo portiamo lontano dal problema stesso e dalla elaborazione interiore del comportamento sbagliato. E allora che si fa? Si usa una comunicazione chiara su ciò che ci aspettiamo da lui, ma senza accuse, lo si coinvolge nella soluzione, gli si dà la possibilità di scegliere tra più alternative accettabili, gli si dà la possibilità di riparare e, se necessario, si lascia che sperimenti le conseguenze del suo comportamento…e se il problema persiste? significa che dobbiamo unire le forze, le nostre e quelle di nostro figlio, per comprendere meglio insieme cosa impedisce la collaborazione e impegnarci in un dialogo vero in cui i punti di vista e i bisogni di entrambi possano essere messi nero su bianco nella ricerca di soluzioni accettabili per entrambi.
Questo automaticamente rinforza la loro autostima, invece che mortificarla facendo leva sull’errore commesso e sulla colpa: un bambino che oggi sbaglia e a cui viene data la possibilità di riparare e comprendere l’errore sarà un adulto che non si perderà d’animo di fronte alle difficoltà e agli insuccessi, che penserà “dove ho sbagliato” e non “in cosa sono sbagliato”.

La parte che ho più apprezzato, perché scardina una modalità comunicativa largamente condivisa come positiva, è quella relativa alla lode. Le autrici propongono di sostituire i classici apprezzamenti – ma che bravo!, ma che bello!, per intenderci – con la lode descrittiva. Quando un bambino fa qualcosa che ci piace o di cui sembra contento e soddisfatto abituiamoci a descrivere ciò che vediamo e ciò che proviamo, magari trovando una parola che sintetizzi la qualità che sta esprimendo con quel comportamento e pian piano sarà il bambino stesso a imparare quali sono i suoi punti di forza. La lode descrittiva, cioè, ha il merito di lasciare che sia il bambino a lodare sé stesso e libera l’adulto dal ruolo di giudice superiore che lodando può anche indurre aspettative, dubbi e ansia da prestazione.

Insomma nessuna ricetta magica ma una guida pratica, frutto di anni di esperienza nel campo della formazione con i genitori, che ci porta per mano, se davvero lo desideriamo, a cambiare qualcosa. Il lavoro di autosservazione e di decentramento ci obbliga inoltre, in modo più o meno consapevole, a fare i conti con quelli che sono stati i nostri modelli educativi, con i genitori che siamo diventati, ma anche con i genitori che abbiamo avuto, con il complesso meccanismo di identificazioni proiettive che inevitabilmente ci ritroviamo ad agire nella relazione con i nostri figli (e non solo!). Immedesimarci in nostro figlio significa anche ridiventare il bambino che siamo stati e avere l’occasione di riflettere, con un cuore e una mente finalmente adulti, sull’educazione che abbiamo ricevuto e questo ci permette di scegliere più consapevolmente che tipo di relazione educativa desideriamo oggi costruire con i nostri figli.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Faber, A., Mazlish, E. (2014). Come parlare perché i bambini ti ascoltino & come ascoltare perché ti parlino. Mondadori: Milano.  ACQUISTA ONLINE

Togliersi la vita in periodo di crisi

Ridurre la crisi economica è auspicabile, ma non protegge gli esseri umani dagli effetti delle credenze descritte. Il compito davvero difficile è assemblare protocolli psicoterapeutici in grado di modificare stabilmente gli stati mentali prossimi l’ideazione suicidaria.

Crisi economica, indebitamento, disoccupazione sono gli scenari in cui vediamo crescere il numero di suicidi. Le stime parlano di un incremento dal 2008 (anno dell’inizio della crisi) ad oggi, con un picco registrato tra il 2012 e il 2013.

Tuttavia, possiamo includere il peggioramento delle condizioni economiche tra le cause dirette o considerarle più correttamente come fattori di rischio che facilitano il ricorso a gesti così estremi? In generale, i fattori di rischio sono associati a un incremento della probabilità di occorrenza di un evento, mentre i processi causali ne spiegano gli esiti.

Ad esempio, riguardo al disagio economico, le ricerche che hanno prodotto dati sul fenomeno, sembrano concordare nell’attribuire alla disoccupazione il ruolo di antecedente il suicidio. La perdita del lavoro o l’impossibilità a trovarne uno, tuttavia, sono solo due tra gli elementi di una lista piuttosto lunga che include tra gli altri l’isolamento sociale, i conflitti familiari, le esperienze di abuso, la presenza di psicopatologia, l’impulsività. In altri termini, la perdita del lavoro sarebbe associata a un rischio molto elevato non in tutti, ma soltanto negli individui vulnerabili, individui che sembrano presentare caratteristiche psicologiche costanti.

A questo proposito, la psicologia cognitiva offre una spiegazione dei comportamenti in esame fondata sulla considerazione di queste caratteristiche ed individua i determinanti cognitivi che definiscono la mente della vittima nell’imminenza del suicidio.

Che cos’ha un uomo nella testa, prima di fare l’ultimo passo? Secondo una teoria interpersonale, sarebbero tre le variabili psicologiche che spingono al suicidio: la percezione di non appartenenza senza speranza di cambiamento, la convinzione di essere definitivamente un peso per gli altri, un basso timore della sofferenza fisica e della morte. Le prime due correlano con il desiderio di morire e rappresentano la causa di un’ideazione suicidaria di tipo passivo (“sarebbe meglio se fossi morto”). La mancata soddisfazione del desiderio di appartenenza è accompagnata da un intenso vissuto di solitudine e da un’esperienza di sofferenza riconducibile all’assenza di reciprocità di cura e affetto.

Nel secondo caso, invece, appaiono centrali le credenze relative all’essere un peso per la propria famiglia o la convinzione di essere componente sacrificabile. I conflitti familiari, la mancanza di un impiego e la presenza di malattie sono i principali fattori di rischio che prestano il fianco alla comparsa di simili stati mentali. Quando la disperazione accompagna la mancanza di appartenenza e la percezione di essere un peso, allora il desiderio di suicidarsi diventa più attivo (“Voglio uccidermi”).

Non è tutto. Il desiderio di morire non è sufficiente a produrre un tentativo dagli esiti letali, semplicemente perché togliersi la vita non è cosa facile da fare. Ed è qui che entra in gioco la capacità di suicidarsi, una condizione che include tutte quelle esperienze di sensibilizzazione che producono una diminuzione della paura dei comportamenti suicidari. Si tratta di quei comportamenti non letali che precedono un tentativo vero e proprio e che, grazie alle ripetute esposizioni al dolore, si configurano come una sorta di desensibilizzazione alla paura di morire e alla sofferenza fisica. Una palestra che prepara alla morte.

In definitiva, ridurre la crisi economica è auspicabile, ma non protegge gli esseri umani dagli effetti delle credenze descritte. Il compito davvero difficile è assemblare protocolli psicoterapeutici in grado di modificare stabilmente gli stati mentali prossimi l’ideazione suicidaria.

 

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A proposito del Disturbo Bipolare…

Roberto Lorenzini, Valeria Valenti, Marika Ferri

 

Il disinnesco del loop maniacale teoricamente inarrestabile avviene dunque per un fallimento dovuto  nella maggior parte dei casi ad ostacoli posti dall’ambiente  ma potremmo ipotizzare anche la possibilità di un esaurimento delle risorse personali di ogni tipo (stanchezza, esaurimento).

Queste riflessioni partono dall’allarmante constatazione che i disturbi più gravi ed in particolare proprio il disturbo bipolare per la sua indiscutibile componente biologica e genetica,  sono territori che gli psicologi abbandonano  nelle mani esclusive degli psichiatri e del loro armamentario farmacologico.  Ciò ci appare  particolarmente grave in un tempo in cui grazie ai progressi delle neuroscienze cognitive la distinzione tra organico e mentale è ormai desueta e gli psicologi sono spesso più attrezzati dei medici su questi temi. Lo psicologo nel lavoro con gli psicotici deve essere in prima fila anche nelle emergenze  e non può ridursi al ruolo di psicoeducatore col compito di aumentare la compliance farmacologica per la serie.

La rappresentazione di sé

Diciamo (con la voce di Ignazio, fratellone d’Italia) che da un punto di vista cognitivo l’essenza del vissuto depressivo sia un sentimento di impotenza e disvalore condensabile nella frase “non sono stato, non sono, e non sarò in grado di ottenere nulla e ciò prova che non valgo niente”. Al contrario il vissuto euforico ha come essenza un sentimento di onnipotenza e ipervalore di sé “sono stato, sono e sarò in grado di ottenere tutto ciò che voglio e mi merito e questo perché il mio valore è inestimabile”. Ovviamente ciò non esaurisce la sintomatologia che, tuttavia può essere in gran parte ricondotta a tale estrema dicotomia.

Il ruolo evolutivo della tristezza

Abbiamo netta la sensazione clinica che prima di una fase euforica, se si analizza meticolosamente, si trovi sempre un passaggio nella depressione e che quindi, per dirla metaforicamente, la mania sia una sorta di difesa dalla tristezza (pensiamo al maniacale affaccendarsi dei riti funerarii al lavorio che c’è intorno ed alla sua utilità emotiva). Ci hanno insegnato che si prova tristezza a seguito della rappresentazione che uno scopo è definitivamente fallito. Insomma di fronte una perdita.

Con la tristezza avviene il mitico “lavoro del lutto”, consistente in un ritiro interiore con sospensione delle attività esterne finalizzato alla ristrutturazione della gerarchia degli scopi prendendo atto che uno di essi è divenuto definitivamente imperseguibile e che dunque si è resa disponibile una quota di energia da investire altrove. Durante il lutto c’è dunque in stand-by una notevole quantità di energia libera e fluttuante, non più investita sullo scopo perduto e non ancora reinvestita sui nuovi scopi importanti che scaleranno la gerarchia. Possiamo ipotizzare che questa energia venga transitoriamente investita in “scopi buoni per tutte le stagioni” inerenti la sopravvivenza quali l’acquisizione di beni (le folli spese del maniacale) e la diffusione dei propri geni (l’attività sessuale esaltata dei maniacali) entrambi portati avanti in modo “unlimitess”, senza tener conto delle conseguenze,  in nome della onnipotenza sopra descritta.

E’ chiaro che il problema è spiegare proprio quel “unlimitess” senza la tautologia dell’onnipotenza e non so se basti sostenere che l’energia resasi libera per la perdita di uno scopo importante è enorme ed investita su scopi tutto sommato “facili” comporta una attività sfrenata. Penso onestamente si possa fare di meglio.

Il moltiplicatore emotivo

E’ esperienza di tutti noi che si sperimenta gioia nel raggiungimento di uno scopo. Gioia che si attiva ancor prima quando si intravede con certezza tale raggiungimento (l’attesa del piacere non è essa stessa piacere?) ma una gioia ancora maggiore (una metagioia? O la chiamiamo felicità) si sperimenta quando siamo consapevoli di stare gioendo. Un conto è vivere un periodo felice della propria vita, altro è essere consapevoli di star vivendo un periodo felice della propria vita. Normalmente, purtroppo ci accorgiamo di quanto fosse bello solo dopo che è finito confrontandolo con quello attuale che giudichiamo schifoso. Per farla breve e modellistica, credo che oltre a degli scopi esterni descrivibili come: io voglio….A…B…C…..n… (dove le lettere rappresentano oggetti o stati del mondo esterno e relazionale) abbiamo anche scopi interni inerenti principalmente l’identità e gli stati emotivi come: lo scopo di essere un buon perseguitare di scopi, lo scopo di essere felici.

Dunque alla gioia scaturita dal raggiungimento di “A” si somma la gioia  del raggiungimento degli altri due scopi innescando una spirale di auto rinforzo. Abituati come siamo ad occuparci di emozioni negative sarà più facile esemplificare lo stesso meccanismo nella situazione opposta di tristezza.  Se falisco il mio obiettivo “A”, ad esempio ottenere una cattedra universitaria, sarò triste per la mancanza della cattedra ma, volendo, anche perché sono un pessimo perseguitare di scopi (un fallito nel gergo tecnico dialogo interno) e perché sono triste, altra cosa che non vorrei assolutamente.  

Sono necessarie alcune distinzioni e prendere in considerazione un obiezione fondamentale.  Il perseguimento di obiettivi comporta il contemporaneo soddisfacimento di scopi esterni inerenti stati del mondo desiderati e scopi interni inerenti stati desiderati dell’identità. Questo, da un lato è ovvio, dall’altro vale per tutti e dunque non spiega la peculiarità del disturbo bipolare. A meno di non ipotizzare che nel candidato all’euforia gli effetti interni, che normalmente possono considerarsi collaterali e non rappresentati consapevolmente nel momento che ci si prefigge di raggiungere un obiettivo (è esso infatti ad occupare tutto il campo di coscienza), siano invece in primissimo piano, proprio  a causa del vissuto fallimentare che (ipotizzavo) precede la fase euforica. Infine il delta aggiuntivo di gioia dovuto alla consapevolezza di stare gioendo non riguarda la distinzione tra scopi esterni ed interni ma più in generale la meta cognizione che genera meta-gioia, come in altri casi meta-vergogna o meta-paura   

Per argomentare meglio quanto appena detto ricopiamo riflessioni di Roberto Lorenzini pubblicate sotto il titolo di “tribolazioni” nel libretto “dal malessere al benessere”: “Il perseguimento di uno scopo non è connotato da un punto di vista emotivo solo nel momento del successo pieno (gioia) o nel momento del fallimento totale e irrecuperabile (dolore) che corrispondono entrambi alla disattivazione dello scopo stesso ed alla conseguente ristrutturazione dell’organizzazione gerarchica per scegliere le nuove priorità. Il sistema monitora costantemente i lavori in corso e vive nel presente emozioni generate dalla previsione delle emozioni che si aspetta di provare in futuro. Così la pregustazione di un successo che si valuta probabile fa assaporare con anticipo la gioia che si sperimenterà a successo avvenuto.

Chi non ricorda la magia di quel tempo immediatamente precedente al primo gesto di amore quando si ha però la certezza che il proprio innamoramento sarà ricambiato? Al contrario la previsione di un fallimento probabile fa sperimentare già in parte il dolore della perdita e spesso si mischia all’ansia circa lo stato d’animo doloroso che si sperimenterà quando il fallimento sarà certo ed inequivocabile. Si è spaventati all’idea di quanto si potrebbe poi star male (in genere poi il dolore effettivo si dimostra inferiore alle aspettative, si è quasi stati più male prima che dopo).

Sembra, dunque, che sia sempre attivo un sistema di anticipazione sui propri stati interni presenti e futuri che, a sua volta, genera delle emozioni nel presente. Esse utilizzano quelle future previste e quelle attuali presenti come eventi attivanti: questa emozione secondaria può essere dello stesso tipo o di tipo diverso da quella che la genera. Così si può aver paura di aver paura, si può aver paura di essere tristi o si può essere arrabbiati all’idea che si sarà tristi o aver vergogna di vergognarsi.

Questo sistema di anticipazione sui propri stati emotivi che ne innescano, di conseguenza, a loro volta degli altri ha probabilmente lo scopo di accrescere la prevedibilità su sé stessi. Da un lato si padroneggiano meglio i cambiamenti che non giungono inaspettati. Dall’altro si diluisce nel tempo l’emozione finale. Se mi aspetto un insuccesso inizierò a soffrirci già prima e tanto più, quanto più esso appare certo. Così, al momento in cui effettivamente si verificherà il dolore sarà meno intenso e sconterà gli acconti versati in precedenza.

Soffre di più chi vive un lutto improvviso e inaspettato o chi attende a lungo una morte pietosa? Certamente i primi, ritengo.  Molte persone che presentano una tribolazione, soffrono non solo per il fallimento di scopi ma anche per la previsione di possibili future sofferenze. Fino a qui abbiamo argomentato circa il fatto che le emozioni sulle emozioni previste o presenti costituiscano una sorta di air-bag sulle stesse emozioni successive, ma il problema non si  esaurisce  qui. La valutazione del grado di raggiungimento o meno di un obiettivo consente soprattutto di dosare l’investimento di risorse in ossequio allo pseudo-scopo dell’ “ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”.

Per esemplificare cosa sia opportuno fare in ossequio a tale pseudoscopo possiamo dire che:

•    L’impegno deve essere massimo quando l’obiettivo è probabile e non soggetto a fattori esterni non controllabili per cui tutto dipende dal soggetto (situazione maniacale).

•    L’impegno deve progressivamente ridursi quando il risultato diventa altamente probabile  indipendentemente dall’impegno stesso (situazione eutimica).

•    L’impegno deve cessare quando il risultato è certamente irraggiungibile e ogni ulteriore tentativo costituirebbe solamente uno spreco di risorse (situazione depressiva).

La linea di demarcazione tra l’impegno e la rinuncia, in nome del principio di ottimizzazione del rapporto costi/benefici  è determinata da due fattori:
– da un lato dalla stima della probabilità del successo in cui gli estremi opposti (successo sicuro o fallimento certo) inducono ad un disimpegno mentre l’area intermedia della probabilità spinge all’impegno.

– dall’altro dalla stima di quanto il risultato dipenda dal soggetto stesso o da circostanze esterne non modificabili (il concetto cognitivista di locus of control) (Ellis 1962; Liotti, Guidano 1983; De Silvestri 1981, 1999; Bara 1996).

L’impegno è giustificato da situazioni ad esito incerto e con locus interno. Il disimpegno è conveniente comunque in situazione di locus esterno o di esito certo.mFin qui il funzionamento efficiente di un sistema che ottimizzi l’utilizzo delle limitate risorse e che preveda, anticipi e gestisca le emozioni cui andrà incontro.

Come è possibile che questo sistema di sicurezza e di risparmio in alcune persone non funzioni generando tribolazioni? Dobbiamo probabilmente scomodare di nuovo degli scopi tutti interni che riguardano l’identità. Soprattutto su questioni importanti collegate agli scopi terminali non si ha soltanto lo scopo del perseguimento  ma anche lo scopo di ritenersi uno che non lascia nulla di intentato pur di ottenere il risultato. Sarebbe certamente terribile fallire l’obiettivo esterno ma lo sarebbe ancora di più fallire anche l’obiettivo interno e considerarsi uno che non ha voluto (colpa) o non ha saputo (incapacità) fare di tutto al fine di……….

Questo scopo interno sull’identità prevale transitoriamente sullo pseudo-scopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi” e produce le seguenti conseguenze:

– i successi parziali non vengono presi in considerazioni e ci si priva dunque delle connesse emozioni positive in quanto si teme che possa comportare un colpevole accontentarsi e una riduzione dell’impegno

– gli insuccessi parziali, considerati premonitori di un dolore intollerabile vengono ignorati temendo che producano uno scoraggiamento e dunque non concorrono alla modulazione dell’impegno e al riaggiustamento della mira.

– Anche di fronte ad un fallimento inevitabile o del tutto indipendente dall’attività del soggetto si continua a profondere il massimo dell’impegno. Inutile completamente per il raggiungimento dello scopo esterno ma utile per il raggiungimento dello scopo interno relativo all’identità.

Tuttavia lo pseudo-scopo transitoriamente accantonato tornerà a valutare la situazione non appena l’emergenza si sarà in qualche modo conclusa e lo farà in modo severamente negativo con una sequela di autosvalutazioni per come si sono gestite le risorse.

L’orgoglio dell’investire risorse in imprese disperate e assolute non è uguale in tutti gli individui. Alcuni sembrano talebani fanatici in ogni cosa che facciano. Prendono tutto maledettamente sul serio. Non conoscono le mezze misure. Fanno sempre le cose fino in fondo e spesso oltre, ci credono veramente. Sono tutti d’un pezzo, non scherzano con le cose serie che per loro sono tutte. Se sono di sinistra faranno i brigatisti. Se cattolici si accoppiano secondo le indicazioni vaticane. Se hanno un vizietto diventano drogati all’ultimo stadio e poi  convertitisi operatori delle comunità per tossici più intransigenti e severe. Sono sempre in buona fede ed in nome di ciò possono commettere i crimini più orrendi a posto con la coscienza. Geneticamente estremisti e un intolleranti. Applicano ciò anche ad aspetti marginali come l’alimentazione. Fanno parte di gruppuscoli estremisti con vaste categorie di cibi vietati. Il rigore è essenziale sempre. Spesso sviluppano disturbi del comportamento alimentare.

Altri invece, hanno l’atteggiamento opposto che è quello che caratterizza, nell’immaginario comune, i romani. Il romano se ne frega, non prende niente sul serio. E’ incapace di indignazione e di slanci. Sa che prima o poi tutto  cambia e dunque basta aspettare senza scaldarsi troppo. Il romano ne ha viste troppo, ha una saggezza da sampietrino e  lascia che tutto gli passi sopra. Raramente interviene sulla realtà per modificarla, aspetta che si assesti da sè. L’emozione di base è l’indifferenza come per il talebano era l’orgoglio e l’indignazione. Il romano misura le sue scelte operative nei termini della fatica che comportano e la regola decisionale è il risparmio energetico. Non ama le persone che lo sollecitano ma in compenso non lo fa con gli altri. “vive e lascia vivere”. Si badi che il romano non è un abitante di Roma ma una categoria dello spirito. Tuttavia è innegabile che sia per la presenza dell’amministrazione pubblica con i suoi ministeri sia per il suo meraviglioso habitat naturale innumerevoli esemplari vengono a riprodursi nella capitale. Tra i suoi sogni proibiti c’è fare il bidello in una scuola elementare o l’usciere al ministero”.

Dopo aver perso il filo appresso alle sciocchezze, torniamo di corsa al nostro disturbo bipolare che avevamo lasciato al loop in cui un successo in uno scopo esterno si riverbera nel successo di molti altri scopi interni (meccanismo a cascata o a valanga) e altrettanto succede in negativo nel caso di fallimento.

Alcune osservazioni comportamentali banali:

La fortuna aiuta gli audaci e dunque è facile immaginare che la sicurezza nel successo, la sfrontatezza, la determinazione con cui il maniacale si getta nel perseguimento degli scopi favoriscano almeno nelle imprese di tutti i giorni il successo che a sua volta rinforza proprio tali atteggiamenti che lo hanno determinato.

– A tirar troppo la corda si spezza. Il maniacale però confortato dai successi alza continuamente l’asticella. Si spinge in territori meno conosciuti e più difficili e prima o poi arriva il fallimento e siccome “chi troppo in alto sale… cade sovente precipitevolissimevolmente” il circolo onnipotenza>>>>>successo>>>>>>onnipotenza si inverte e diventa nel depresso: fallimento>>>> rinuncia, ritiro>>>>>impotenza>>>>>ritiro.    E’ osservazione clinica costante che il depresso fallisce nel perseguimento dei suoi scopi principalmente per mancanza di impegno e rinuncia, da un lato. E dall’altro che uno dei motivi di auto denigrazione è proprio il suo essere depresso e inattivo.

In breve il maniacale ad un certo punto fallisce nel raggiungimento degli scopi esterni, spesso per il frapporsi tra lui ed essi di familiari e curanti verso i quali si dirige la sua aggressività tutt’altro che malevole da spazzaneve. Allora si arresta il processo o addirittura si inverte. Il disinnesco del loop maniacale teoricamente inarrestabile avviene dunque per un fallimento dovuto  nella maggior parte dei casi ad ostacoli posti dall’ambiente  ma potremmo ipotizzare anche la possibilità di un esaurimento delle risorse personali di ogni tipo (stanchezza, esaurimento).

– Toccato il fondo si rimbalza. Ci resta da fare ipotesi su come la depressione cessi e qui le grida per i capelli tirati diventano agghiaccianti! Il depresso riduce progressivamente le aspettative sui risultati ottenibili negli scopi esterni e progressivamente anche sulle proprie performance. In quest’ultimo punto molto aiutato dalla frequente definizione assolutamente biologica della malattia e persino dal ricovero che, positivamente, lo deresponsabilizzano. Succede dunque che ad un certo punto ottenga risultati superiori alle ridottissime aspettative. Il ciclo si arresta o addirittura si inverte. In altre parole come un fallimento porrebbe fine all’escalation maniacale, un successo, seppur minuto porrebbe fine alla caduta depressiva.

Evoluzionisticamente?

Stante che nessuna malattia, proprio per la sua natura disfunzionale può essere il frutto diretto dell’evoluzione, al massimo possono esserlo i meccanismi che ne stanno alla base. Proviamo a chiederci se il fisiologico oscillare del tono dell’umore con il conseguente covariare delle coppie impotenza-onnipotenza e ancora rinuncia-impegno possa avere un valore adattivo. In effetti è possibile che sia sensato in caso di successi continuare ad investire sfruttando la situazione favorevole. Mentre in caso di insuccesso rinunciare per risparmiare risorse e limitare le perdite.

 

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Le cose belle accadono a chi le sa aspettare? Livelli di Serotonina e capacità di attesa

FLASH NEWS

In uno studio pubblicato dal giornale Current Biology, un team di scienziati, guidato da Zachary Mainen del Champalimaud Centre for the Unknown (CCU), ha scoperto un nesso causale tra l’attivazione dei neuroni serotoninergici nei topi e la quantità di tempo che essi investono nell’attesa di una ricompensa, rifiutando al tempo stesso l’ipotesi che l’attivazione di tali neuroni sia essa stessa vissuta come una ricompensa.

La serotonina è un neuromodulatore chimico coinvolto nell’azione di farmaci antidepressivi, come ad esempio il Prozac, i quali sono ampiamente utilizzati per trattare disturbi come la depressione o il dolore cronico. La serotonina è normalmente rilasciata da una piccola quantità di cellule contenute in un’area del cervello chiamata il nucleo di rafe. A dire il vero, la modalità in cui questi neuroni rilasciano naturalmente serotonina e il modo in cui ciò influenza le funzioni cerebrali sono ancora poco chiari agli scienziati.

Per investigare quale sia il ruolo della serotonina nelle capacità di attendere pazientemente una ricompensa, i ricercatori hanno proposto un compito in cui i topi avrebbero dovuto aspettare per una ricompensa che sarebbe stata loro data in quantità di tempo variabili in modo casuale. In alcuni dei trials, i neuroni serotoninergici erano attivati tramite l’utilizzo di una tecnica chiamata optogenetica: Madalena Fonseca, membro del team del CCU dice:

Abbiamo reso questi neuroni sensibili alla luce, in modo tale che, quando li illuminiamo, essi si attivano e rilasciano serotonina.

Gli scienziati hanno osservato che, all’attivazione dei neuroni serotoninergici, i topi diventano più pazienti. Masayoshi Murakami, altro membro del gruppo di ricerca, spiega:

Abbiamo studiato in che modo differenti livelli di attivazione di tali neuroni influenzano l’attesa e abbiamo verificato che una maggiore attivazione implica maggiori capacità di attendere una ricompensa.

Marshmallow Test: resistere alle tenzazioni
Marshmallow Test: resistere alle tenzazioni

Per verificare se l’incremento dei tempi di attesa fosse l’effetto collaterale di un’altra funzione della serotonina, gli scienziati hanno effettuato altri esperimenti per testare se l’attivazione stessa di quel preciso gruppo di neuroni potesse fungere da ricompensa: se l’attivazione fosse stata piacevole per i topi, questo avrebbe potuto spiegare il prolungamento dei tempi di attesa, dice ancora Fonseca. Per verificare ciò, gli studiosi hanno indagato se i topi mettessero effettivamente in atto comportamenti tesi a stimolare il rilascio di serotonina. Tale serie di esperimenti ha dato esito negativo, escludendo che l’incremento nei tempi di attesa fosse direttamente legato all’attivazione dei neuroni come ricompensa.

Questo studio ha implicazioni importanti nella comprensione del coinvolgimento della serotonina nei disturbi depressivi e in altri tipi di problematiche. Come dice Zachary Mainen:

Dal momento che si pensa che gli antidepressivi aumentino il rilascio di serotonina, le persone credono che semplicemente un maggiore rilascio di tale sostanza faccia sentire meglio. Ma i nostri risultati dimostrano che il passaggio non è così diretto e semplice. Il fatto che la serotonina aumenti la nostra capacità di attesa e la nostra pazienza ci dà un importante indizio che potrebbe essere utile a svelare il mistero del funzionamento e degli effetti di tale neuromodulatore.

A questo proposito, il gruppo di Champalimaud continua ad indagare altri aspetti di tale tema, supportata e finanziata dall’European Research Council.

 

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Anche i più piccoli sono capaci di resistere alle tentazioni? Il Marshmallow test

Saper resistere alle tentazioni non è affatto roba da adulti. Anche i più piccoli sono stati messi alla prova attraverso il Marshmallow Test, avranno resistito alla tentazione di mangiare una caramella? Ma soprattutto, i bambini capaci di aspettare in vista di una gratificazione, che adulti diventeranno? 

 

VIDEO: I BAMBINI ALLA PROVA DEL MARSHMALLOW TEST

Sapete che resistere alle tentazioni da piccoli, e quindi in un certo senso essere capaci di aspettare per una gratificazione, vuol dire poter diventare degli adulti con più autocontrollo e più inclini al successo?

Resistere alle tentazioni, il Marshmallow testConsigliato dalla Redazione

Forse sarebbe il caso di chiederci se ha più valore una gratificazione immediata e temporanea o la conquista di quella felicità costruita imparando a padroneggiare i nostri pensieri e le nostre azioni in vista di qualcosa di più appagante e soprattutto duraturo (…)

Tratto da: AgrigentoNotizie

 

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Insonnia cronica cause, sintomi, aspetti cognitivi e comportamentali - featured.jpg
Insonnia cronica: aspetti cognitivi e comportamentali
Le classificazioni internazionali dei disturbi del sonno definiscono l'insonnia cronica come una reiterata difficoltà ad iniziare o a mantenere il sonno associata ad un mal funzionamento diurno (cattivo umore, irritabilità, difficoltà cognitive, eccessiva sonnolenza nelle ore diurne)...
Cognitivismo clinico: evoluzione storica tra funzionalismo e strutturalismo
Breve storia teorica della terapia cognitivo comportamentale tra funzionalismo e strutturalismo
Il cognitivismo clinico è il risultato dell'evoluzione da una posizione iniziale "funzionalista", che fu quella del comportamentismo e del cognitivismo teorico/sperimentale, verso una posizione "strutturalista", raggiunta attraverso un'importante svolta clinica, cognitiva di Beck e costruttivista di Mahoney e Guidano.
Analisi del comportamento e psicologia cognitiva verso una riconciliazione
Riconciliare causazione cognitiva e causazione ambientale: un approccio funzionale alla cognizione
L’ adozione di un approccio funzionale-cognitivo, permetterebbe agli esperti di psicologia cognitiva e a quelli esperti di analisi del comportamento di perseguire obiettivi diversi, ma che convergano nel promuovere la conoscenza circa il funzionamento psicologico degli esseri umani.
Roots and leaves. Radici e sviluppi contestualisti in CBT - Recensione
Roots and Leaves. Radici e sviluppi contestualisti in terapia comportamentale e cognitiva (2016) – Recensione
Il libro Roots and leaves tratta delle radici e degli sviluppi del contestualismo in Italia all'interno della terza ondata del cognitivismo.
Attraverso 50 anni di psicologia italiana di Cesare Cornoldi (2017) - Recensione
Attraverso 50 anni di psicologia italiana di Cesare Cornoldi (2017) – Recensione
In Attraverso 50 anni di psicologia italiana, Cesare Cornoldi racconta del suo percorso nella psicologia e degli incontri con importanti psicologi italiani.
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