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Anche i più piccoli sono capaci di resistere alle tentazioni? Il Marshmallow test

Saper resistere alle tentazioni non è affatto roba da adulti. Anche i più piccoli sono stati messi alla prova attraverso il Marshmallow Test, avranno resistito alla tentazione di mangiare una caramella? Ma soprattutto, i bambini capaci di aspettare in vista di una gratificazione, che adulti diventeranno? 

 

VIDEO: I BAMBINI ALLA PROVA DEL MARSHMALLOW TEST

Sapete che resistere alle tentazioni da piccoli, e quindi in un certo senso essere capaci di aspettare per una gratificazione, vuol dire poter diventare degli adulti con più autocontrollo e più inclini al successo?

Resistere alle tentazioni, il Marshmallow testConsigliato dalla Redazione

Forse sarebbe il caso di chiederci se ha più valore una gratificazione immediata e temporanea o la conquista di quella felicità costruita imparando a padroneggiare i nostri pensieri e le nostre azioni in vista di qualcosa di più appagante e soprattutto duraturo (…)

Tratto da: AgrigentoNotizie

 

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La Psicologia a Teatro: l’immigrazione e il gioco d’azzardo in scena

 

Il teatro si fa portavoce dei vissuti psicologici: diverse problematiche e diversi temi vengono portati in scena. L’elemento comune è  il palco che, attraverso il racconto del disagio interiore di chi vive in situazioni più svantaggiate, ha l’intento di far riflettere gli spettatori su quelle realtà che spesso sembrano loro così distanti.   

A tal proposito vanno segnalati gli articoli riguardanti due spettacoli teatrali:

  • ‘All in’, commedia sul gioco d’azzardo patologico:

Due personaggi, due amici alle prese con la vita di tutti i giorni, due punti di vista e due modi di affrontare la vita. Fin dove è disposto ad arrivare un giocatore d’azzardo, completamente perduto nel turbinio delle scommesse?
Atto unico, di sessanta minuti, fatto di dialoghi taglienti, paradossali e irriverenti.

 

Vai alla notizia: All in, commedia amara sulla psicologia del gioco d’azzardo

 Leggi anche:

Gioco d’azzardo patologico – PGD – Gambling

 

 

  • ‘Snow Orchid’, pièce che porta in scena i vissuti delle famiglie italiane emigrate negli Stati Uniti:

Dell’esperienza dell’emigrazione-immigrazione tanto si è detto e scritto ma di quel processo di trasformazione restano tuttora in ombra le conseguenze psicologiche. Eppure il distacco, l’abbandonare ciò che si conosce per l’ignoto, il lasciare le sicurezze per una realtà in cui bisogna reinventarsi e ricostruire una propria identità, è un processo spesso traumatico e comunque denso di implicazioni psicologiche complesse.
Su questo processo apre una finestra uno spettacolo teatrale scritto da Joe Pintauro nel 1982 e riportato ora in scena dalla regista Valentina Fratti: Snow Orchid.

 

Vai alla  notizia:  Pazzi da emigrare: le conseguenze psicologiche della vita da immigrati in uno spettacolo e un dibattito

Leggi anche:

Psicologia Crossculturale

 

 

 


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La Psicologia a Teatro: l’immigrazione e il gioco d’azzardo in scena
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La Fibromialgia: un’esperienza di gruppo – Psicoterapia

La Fibromialgia si caratterizza per una ampia e variegata espressività clinica sia interindividuale che intraindividuale. I suoi effetti possono risultare devastanti e la malattia può innescare un drammatico effetto domino che non risparmia il lavoro, la famiglia, la comunità, la vita di coppia, la percezione del futuro e la nostalgia del passato.

La Fibromialgia (sin.: sindrome fibromialgica) è una malattia cronica complessa definita dall’American College of Rheumatology come “una condizione di dolore cronico diffuso con caratteristici “tender points” all’esame fisico, spesso associata con una varietà di sintomi o disfunzioni quali la fatica, i disturbi del sonno, la cefalea, la sindrome del colon irritabile e i disturbi dell’umore”.

La fibromialgia si caratterizza per una ampia e variegata espressività clinica sia interindividuale che intraindividuale. I suoi effetti possono risultare devastanti e la malattia può innescare un drammatico effetto domino che non risparmia il lavoro, la famiglia, la comunità, la vita di coppia, la percezione del futuro e la nostalgia del passato.

Nella prospettiva del reumatologo, la fibromialgia viene considerata una delle malattie più difficili da trattare. Nel tempo molto limitato di una visita reumatologica convenzionale (20-30 minuti) solo raramente si vengono a creare le condizioni per un rapporto empatico tra specialista e malato. Nella fase narrativa spontanea dei propri problemi, i pazienti risultano essere dei veri e propri “fiumi in piena” e l’elenco dei mille sintomi e dei mille problemi sembra essere infinito.

 

Il rapporto medico-paziente nei pazienti con fibromialgia

L’atteggiamento dei pazienti nei confronti dei medici e dei farmaci è molto spesso negativo e nel racconto della propria esperienza domina spesso l’elenco degli insuccessi e delle insoddisfazioni. Lo specialista spesso assume un atteggiamento “difensivo” nella consapevolezza della difficoltà di trattamento soprattutto dei pazienti che si sono dimostrati refrattari ad esperienze diverse di terapia. Il risultato di tutto ciò è un rapporto medico-paziente molto fragile ed incerto, con molte barriere di comunicazione.

L’approccio ai pazienti con fibromialgia può risultare anche molto stressante per lo specialista e non è un caso che i pazienti fibromialgici possono finire a volte con l’essere considerati “indesiderabili” o “ladri di tempo”. La presa in carico di questi pazienti e la creazione di un rapporto di fiducia e di reciproca collaborazione costituisce tuttavia un presupposto essenziale per una strategia di trattamento basata sul sano principio della “medicina olistica”.

Dal momento che un approccio corretto ai pazienti con fibromialgia ad espressività clinica conclamata non può prescindere da una approfondita caratterizzazione dei bisogni, delle problematiche, delle reazioni individuali, un’analisi approfondita del profilo psicologico dei pazienti potrebbe costituire un momento fondamentale per la messa a punto di una più incisiva strategia terapeutica, che non si limiti ai soli farmaci.

Il medico da solo non è nelle condizioni di poter garantire tale approccio sia per limiti invalicabili di tempo sia per la mancanza di adeguati skills relazionali e di comunicazione efficace. La figura dello psicologo può affiancarsi utilmente a quella del medico nella messa a punto di un percorso assistenziale multi-professionale finalizzato ad una razionale ed incisiva gestione delle complesse dinamiche dei pazienti con fibromialgia.

 

Terapia dei pazienti con fibromialgia

L’obiettivo principale della terapia dei pazienti con fibromialgia è quella di migliorare la qualità della vita, che può risultare particolarmente compromessa in considerazione del fatto che la fibromialgia presenta spesso un elevato grado di “resistenza” alla terapia farmacologica.

Le esperienze pilota fino ad ora condotte hanno portato a risultati preliminari del tutto incoraggianti anche se, purtroppo, nel nostro paese la collaborazione tra psicologo e reumatologo nell’approccio ai pazienti con fibromialgia risulta ancora limitata.

 

Terapia di gruppo per la fibromialgia

La fibromialgia resta ancora un pianeta inesplorato anche per quanto concerne le applicazioni della terapia di gruppo. La solitudine, la scarsa solidarietà, l’indifferenza, il progressivo isolamento, il bisogno di comprensione, il bisogno di essere ascoltati, la delusione di non essere mai adeguatamente compresi, la paura di non farcela, il timore di essere abbandonati, la sensazione di non essere sopportati sono denominatori comuni dei pazienti con fibromialgia e costituiscono gli elementi che inducono a ritenere che proprio in questa malattia le esperienze di gruppo possano presentare interessanti potenzialità e contribuire in modo significativo al miglioramento della qualità della vita dei pazienti già duramente compromessa dal carattere spesso “implacabile” della fibromialgia.

Nell’intento di recare un contributo alla conoscenza dei lineamenti psicologici dei pazienti con fibromialgia è stato condotto uno studio su un gruppo di dieci soggetti con malattia parzialmente refrattaria al trattamento farmacologico e fisioterapico.

Lo scopo di questo studio è stato quello di effettuare una prima analisi del profilo psicologico di un gruppo rappresentativo di pazienti con fibromialgia ad espressività clinica conclamata risultati refrattari a diversi schemi di trattamento convenzionale e  valutare analogie e differenze del profilo psicologico di questo specifico subset di pazienti.

Per poter eseguire una analisi approfondita delle caratteristiche psicologiche individuali si è attuato un percorso basato sulla valutazione del vissuto di malattia esplorato nel corso di colloqui individuali e sulla analisi dei comportamenti dei pazienti in una serie di incontri di gruppo. Una particolare attenzione si è rivolta all’analisi dei descrittori semantici della malattia.

Dalle osservazioni emerse nei due diversi momenti dello studio si sono tracciate delle sintetiche schede individuali nelle quali sono stati riportati i principali descrittori semantici ed i comportamenti dei pazienti nelle fasi di confronto con i componenti del gruppo. Si è eseguita infine una analisi comparativa dei descrittori semantici e dei profili psicologici dei pazienti allo scopo di valutarne analogie e differenze. L’utilizzo di un programma per la creazione di “tag clouds”  è risultato utile per una immediata rappresentazione gerarchica dei descrittori semantici utilizzati dai pazienti. Ciò ha consentito di visualizzare in modo rapido ed efficace le problematiche dominanti che hanno esercitato il maggiore impatto sui pazienti.

Lo studio si è articolato in due fasi:

I Fase: Incontri individuali della durata di un’ora volti a definire la storia clinica, le problematiche connesse con la malattia, i bisogni, le aspettative, i timori e le barriere dei pazienti. Nel corso del colloquio si è valutata la disponibilità da parte del paziente a partecipare all’esperienza di gruppo.

II Fase: Incontri di gruppo della durata di due ore volti a favorire il massimo livello di interazione tra i pazienti e di confronto di esperienze.

L’esperienza è stata condotta con un gruppo chiuso, omogeneo e a termine. Gli incontri di gruppo hanno avuto una durata di 3 mesi. Ogni incontro, della durata di un’ora e mezza, si è svolto ogni 15 giorni (2 incontri al mese). Gli incontri si sono svolti  sempre il mercoledì, a cadenza bi-mensile, per un totale di otto incontri.  Ciascun incontro, si è articolato secondo lo schema riportato:

– 30 minuti riservati alla trattazione di argomenti trasversali, utili a tutti i pazienti;

– 90 minuti dedicati alla discussione dell’argomento trattato all’ordine del giorno. Il confronto prosegue attraverso le libere associazioni dei pazienti, sotto la regia attenta dello psicoterapeuta che facilita il flusso della parola da un paziente all’altro.

I dieci pazienti sono stati identificati sulla base di una valutazione clinica volta ad individuare una ristretta popolazione di pazienti con diagnosi conclamata di fibromialgia refrattaria ai vari schemi di trattamento convenzionali.

Ad ogni incontro è stato affrontato un diverso tema, sulla base delle problematiche maggiormente richieste dai pazienti. I temi trattati sono stati: il dolore cronico, l’esercizio fisico, la dieta, la terapia farmacologica, le terapie complementari e alternative, l’effetto placebo del farmaco, come migliorare la qualità del sonno, leggi e regolamenti.

Durante gli incontri di gruppo con i pazienti con fibromialgia ho focalizzato l’attenzione su cinque elementi fondamentali: i partecipanti al gruppo, le loro relazioni interpersonali, l’interazione tra individui e gruppo, i fenomeni transpersonali e la storia del gruppo.

Nei colloqui individuali tutti i pazienti hanno mostrato una buona inclinazione al dialogo, pur nell’ambito di una intuibile variabilità legata alle differenze temperamentali ed al livello socio-culturale. Da parte di tutti i pazienti è emersa l’esigenza di rappresentare in maniera molto forte l’intensità della sintomatologia e la gravità delle ripercussioni della malattia sulla vita quotidiana lavorativa e sui rapporti interpersonali. Queste descrizioni hanno spesso assunto un carattere iterativo come se vi fosse da parte dei pazienti la sensazione o il timore di non essere creduti o adeguatamente compresi. Le diverse storie di vita dimostrano in effetti che proprio questo aspetto costituisce uno dei risvolti più drammatici della malattia.

L’evidente isolamento dei pazienti con fibromialgia anche all’interno del proprio nucleo familiare può considerarsi certamente alla base di un forte impulso alla narrazione ampia ed articolata che ha contraddistinto pressoché tutti i pazienti. La gradita sorpresa di trovarsi di fronte a qualcuno disposto ad ascoltare il racconto della propria sofferenza ha generato un forte senso di gratitudine più volte rappresentata nel corso del colloquio.

Per alcuni pazienti è emersa in maniera particolarmente netta la forte esigenza di una condivisione liberatoria della propria drammatica esperienza di malattia. Il solo fatto di avere di fronte qualcuno capace di credere nella drammaticità della sofferenza narrata ha rappresentato per questi pazienti una sorta di liberazione da una condizione insopportabile: quella di non essere creduti da nessuno.

Per questi pazienti, la cui capacità di sopportazione è messa così a duramente alla prova da una malattia implacabile, il fatto di non essere creduti e di non ricevere la solidarietà che reclamano amplifica in modo insopportabile la già drammatica sofferenza causata dalla malattia. Alcuni di questi pazienti, specie quelli con fibromialgia primaria, sono considerati come dei veri e propri malati immaginari. Mariti, mogli, figli, amici e colleghi di lavoro non vedono la malattia, spesso nascosta da una esteriorità non intaccata. Ed è proprio l’esteriorità che spesso mette in trappola il paziente: apparire “sani e normali” alimenta ancor di più le perplessità e le incomprensioni da parte del mondo che circonda. I problemi del paziente con fibromialgia divengono così “invisibili” ed il paziente giudicato petulante e “malato immaginario”.

 

Semantica del dolore nei pazienti con fibromialgia

La semantica del dolore ha un rilevante valore diagnostico in medicina. Il dolore è l’elemento comune della maggior parte delle malattie dell’apparato locomotore. I caratteri che lo contraddistinguono possono risultare tuttavia alquanto variegati ed una attenta analisi delle caratteristiche del dolore e delle manifestazioni con le quali esso si associa può contribuire in modo rilevante all’inquadramento clinico e al monitoraggio della malattia. La figura sotto riportata dà invece una rappresentazione grafica riassuntiva degli stessi descrittori rappresentati in modo gerarchico nei dieci casi studiati.

Fibromialgia - Terapia di Gruppo

I colloqui individuali e l’esperienza di gruppo condotta nei dieci pazienti con fibromialgia, anche sulla base dell’analisi della letteratura relativa alle esperienze gruppali, inducono a formulare le seguenti principali riflessioni.

Anche se i profili psicologici del gruppo dei pazienti studiati sono risultati alquanto eterogenei appare chiaro che nel vissuto di malattia hanno rivestito un peso dominante cinque condizioni che sono risultate tanto comuni quanto dominanti in tutti i pazienti:

•    dolore

•    incomprensione

•    solitudine

•    indifferenza

•    incapacità a svolgere le comuni attività di vita quotidiana

Merita di essere sottolineato il fatto che i descrittori riportati hanno caratterizzato in modo dominante il vissuto di malattia di tutti i pazienti che pur presentavano una rilevante eterogeneità dal punto di vista anagrafico, socio-culturale e socio-economico.

Le principali differenze che sono emerse all’interno del gruppo studiato sotto il profilo del vissuto di malattia sembrano essere ricollocabili con la presenza di una affezione concomitante registrata in quattro dei dieci pazienti. In tre pazienti con artrite cronica associata alla fibromialgia pur essendo stati “duramente colpiti” dalla combinazione delle due affezioni, hanno mostrato un atteggiamento decisamente più combattivo ed hanno fin dall’inizio assunto e poi mantenuto una posizione dominante all’interno del gruppo. Al contrario, i pazienti con fibromialgia primaria si sono rivelati nettamente più “passivi” e non hanno mai assunto una posizione di leadership.

Depressione

L’impronta depressiva dei pazienti è risultata evidente sin dai primi incontri e si è mantenuta sostanzialmente agli stessi livelli per l’intero arco dell’esperienza condotta.

Degno di nota il fatto che proprio da parte dei pazienti con fibromialgia primaria e con profilo di personalità ad impronta chiaramente depressiva è stata avanzata una forte richiesta di ulteriori colloqui individuali e di proseguire con altre esperienze di gruppo. Quattro di questi pazienti hanno partecipato ad un ulteriori colloqui individuali dopo la conclusione dell’esperienza di gruppo. In tutti e quattro i pazienti il colloquio ha assunto una impronta del tutto diversa rispetto al colloquio iniziale.

Semantica del dolore nella fibromialgia

Vi sono molti modi di valutare il racconto di una storia di sofferenza e di dolore legati ad una malattia cronica implacabile. I descrittori che esprimono la sofferenza, il dolore, la rabbia, la paura, lo sconforto e le tante altre emozioni che spesso accompagnano chi è affetto da fibromialgia, sono infiniti e variegati. Uno dei modi per valutare il vissuto di malattia dei pazienti è quello di effettuare una analisi semantica basata sulla ricorrenza delle parole utilizzate dal paziente nella fase narrativa del dialogo.

Una espressione grafica della semantica del dolore, capace di rappresentare gerarchicamente i descrittori più frequentemente utilizzati mi è sembrata utile per sintetizzare in una immagine un vissuto complesso ed articolato. Dall’immediato confronto tra le diverse immagini create, emergono immediatamente le analogie e le differenze nelle esperienze di vita e di malattia dei diversi componenti del gruppo.

Le parole più grandi sono: dolore, male, incomprensione, stanchezza, fatica. Queste parole rappresentano il sentire comune, le esperienze che tutti hanno vissuto. Le parole di media dimensione esprimono esperienze e vissuti comuni ad una quota consistente dei componenti del gruppo. Le parole più piccole esprimono le reazioni individuali e fotografano la peculiare reattività emotiva dei singoli pazienti. Lo psicoterapeuta deve essere ben attento a leggere sia le “grandi parole” che le “piccole parole” per poter adeguatamente distinguere la reattività aspecifica alla malattia rispetto a quella che esprime invece la reazione prevalentemente legata alla struttura dell’io profondo.

Le grandi parole esprimono prevalentemente i sintomi e costituiscono la fotografia delle espressioni cliniche della malattia. Queste parole sono certamente importanti per analizzare la sofferenza fisica della persona, ma forse per lo psicologo, sono le parole piccole a costituire le tessere fondamentali del complesso mosaico della personalità individuale.

Intimità

Tutti i pazienti hanno fatto sistematicamente affiorare aspetti della propria intimità che non erano stati sfiorati in occasione del colloquio preliminare. Il tutto si è svolto in un contesto caratterizzato da una grande serenità e dalla piena fiducia da parte dei pazienti nei confronti dell’esaminatore. E’ emerso in modo chiaro sia dai colloqui che dagli incontri di gruppo che specie per i pazienti con fibromialgia primaria la possibilità di esprimere le proprie emozioni, di raccontare la storia della propria malattia e della propria esperienza di vita e di essere ascoltati determinavano una reazione molto positiva e creavano i presupposti per la creazione di quella alleanza terapeutica indispensabile per poter fronteggiare in modo incisivo i molti problemi legati alla malattia.

Supervisione

Ogni mese l’intero team si è riunito per un incontro di supervisione. Nel corso di tali momenti, abbiamo discusso delle sedute svolte nel corso del mese ed abbiamo affrontato le criticità nel gruppo di pazienti e nel team di operatori. L’aiuto del supervisore, esperto in dinamiche di gruppo, è stato di fondamentale importanza per la comprensione e lo sviluppo di questa esperienza. Il supervisore ha guidato il team:

•    nella scelta degli argomenti da trattare

•    nel tipo di comportamento da adottare nelle situazioni di crisi all’interno del gruppo

•    nel ruolo da assumere all’interno del gruppo

•    nella identificazione ed elaborazione dei conflitti creatisi tra i componenti del team

•    nella osservazione e comprensione di dinamiche attuate dal gruppo nelle varie fasi

•    nel riconoscimento del ruolo assunto dai singoli pazienti nei confronti del gruppo

•    nella decifrazione in chiave analitica della semantica del dolore

Socialità sincretica

Il concetto di socialità sincretica, elaborato da Bleger, valorizza nel gruppo i vissuti sensoriali, propriocettivi e cenestesici. Nel livello sincretico, che può quindi essere considerate come un livello non verbale di una conversazione, rientrano la condivisione di ritmi fisiologici, la comune percezione dello spazio, la regolazione collettiva del tono dell’umore ed anche altri aspetti stabili e conosciuti  nell’analisi di gruppo quali la costanza dell’orario, l’assidua presenza fisica dei membri, l’atteggiamento del terapeuta nei suoi aspetti più ripetitivi,  l’uso della stessa stanza, ecc.

Un attacco ad elementi che mantengono la socialità sincretica ha come conseguenza l’emergere di scontri tra sottogruppi. Nel gruppo con pazienti con fibromialgia ho potuto constatare come il tono dell’umore di un singolo individuo potesse influenzare a macchia d’olio anche quello di molti altri partecipanti. Altro aspetto rilevante nel gruppo è stata l’osservazione della prossemica. Ogni membro sedeva ad ogni incontro mantenendo pressoché la stesso posto nella stanza e, man mano che l’intimità e la confidenza cresceva, gli spazi tra l’uno e l’altro si riducevano.

Hobby

Un ulteriore aspetto di rilievo scaturito dall’osservazione del gruppo è stata l’importanza di avere un hobby, un passatempo, uno svago, una passione, un’occupazione in grado di distogliere la mente dei pazienti dalle problematiche e dalla propria malattia.

I pazienti del gruppo, nel corso degli incontri, hanno parlato dei loro hobby come delle attività fortemente antidepressive e fondamentali per cancellare, almeno momentaneamente, l’angoscia e la tristezza per la propria condizione di vita. Cucinare, fare fotografie, lavorare ai ferri, pitturare, ballare, giocare a burraco o persino “cantare con i propri animali da cortile” rappresentano solo alcune delle “tecniche analgesiche” adottate dai pazienti con fibromialgia per disconnettersi dal mondo reale e ritrovare un proprio spazio intimo di benessere. Anche a proposito degli hobby dei pazienti che hanno partecipato all’esperienza di gruppo, l’analisi semantica ha fornito interessanti spunti di riflessione. Vengono di seguito riportati alcuni esempi rappresentativi di descrizione delle sensazioni provate dai pazienti nel dedicarsi ai propri hobby:

– “Mi piace cucinare. Quando preparo un piatto per mio marito mi sento utile ”

– “Cantare in mezzo agli animali mi fa tornare bambino, quando stavo bene e l’unica preoccupazione era quella di giocare”

– “Quando mi incontro con le mie amiche per andare a ballare, mi dimentico di essere malata: mi trucco, mi vesto bene e non penso a nient’altro”

– “Quando gioco a burraco non penso alla malattia. Mi concentro perché voglio vincere”

– “La domenica esco di casa per andare a fare fotografie. Amo stare all’aria aperta, fotografare la natura ed avere un’ora tutta per me ”

– Nel contesto di questo tipo di attività i pazienti esprimono atteggiamenti positivi: si sentono utili, ritrovano concentrazione, avvertono una gradevole sensazione di fuga dalla sofferenza, ritrovano una propria immagine corporea positiva, “ritornano bambini”.

Fine del gruppo

La data dell’ultimo incontro del gruppo, comunicata ai pazienti sin dall’inizio, agisce anche come obiettivo comune, per i pazienti e per il terapeuta, nel lavoro verso gli obiettivi da raggiungere. In questa occasione, oltre ai pazienti sono stati invitati anche i loro familiari e/o le persone significative. I commenti e la percezione dei pazienti riguardo l’esperienza di gruppo vissuta è stata più che soddisfacente.

Hanno infatti riconosciuto a questa esperienza una serie di vantaggi, espressi attraverso le seguenti parole: “Ho condiviso i miei problemi con gli altri”, “ho acquisito consapevolezza che anche gli altri hanno molti dei miei stessi problemi”, “mi ha fatto sentire più forte”, “quando torna a casa dopo l’incontro di gruppo mi sento più ricca, ho qualcosa in più”, “è più facile parlare con persone che hanno i miei stessi problemi rispetto al parlare con i familiari”, “ è un momento di sfogo”, “quando sto qui mi sento più forte, posso dare consigli a persone più giovani” , “è un momento di svago, due ore tutte per noi”, “posso dare qualcosa agli altri della mia esperienza”, “sono riuscita ad aprirmi, cosa che non riesco mai a fare”, “qui mi sono trovata in compagnia, a casa sto chiusa in camera, parlo da sola, mi sfogo, ma soprattutto piango”, “ ho condiviso la mia esperienza con persone che finalmente mi capivano”, “nella famiglia mi metto in disparte, nel gruppo sono stata molto esposta”, “tornando a casa pensavo alle cose dette e stavo meglio”, “sono migliorata a livello psicologico”, “ci siamo sentiti meno soli”, “mi sono accorta che guardando i parenti dei pazienti li conoscevo già attraverso i racconti che avevo ascoltato, è come se attraverso i racconti dei miei compagni di viaggio io li avessi conosciuti”, “all’inizio della malattia ero crollato, ora ho meno rabbia”, “sono sempre venuta anche se stavo male, perché mi sento in un ambiente sensibile che mi capisce”, “se sto a casa piango e basta, se vengo qui sto più tranquilla”, “quando ho visto le altre piangere mi sembrava di vedere me stessa quando ero sola”, “il gruppo mi ha consolato parecchie volte”, “il gruppo è stato utile”, “ho capito di non essere sola”, “ho conosciuto persone deliziose”.

Grazie all’esperienza fatta è stato possibile appurare la necessità e l’importanza di percorsi di supporto psicologici individuali e di gruppo rivolti ai pazienti con fibromialgia, volti ad approfondire ed ampliare la conoscenza della malattia stessa, ad offrire uno spazio condiviso di interazione tra malati, ad accogliere il dolore, nella sua piena comprensione e soprattutto volti all’empowerment delle potenzialità del soggetto stesso.

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Philomena (2013) Tra perdono e confronto. Cinema & Psicoterapia #34

Antonio Scarinci, Sofia Piccioni

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #34

Philomena (2013)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

Il film può essere un’ottima traccia di confronto con il paziente sui temi narrati: disporsi al perdono, favorire un atteggiamento aperto al confronto, privo di pregiudizi, sviluppar l’autodirezionalità come funzionamento personale relativo al sé che persegue senso e significato.

Info

Un film di Stephen Frears. Con Judi Dench, Steve Coogan. Drammatico – Gran Bretagna, USA, Francia 2013. Tratto dal libro “The lost Child of Philomena Lee” di Martin Sixsmith, pubblicato nel 2009.

Trama

Stephen Frears racconta la storia vera di una madre alla ricerca del figlio perduto. Philomena resta incinta molto giovane. E’ ripudiata dalla famiglia che la chiude in convento. Il figlio che partorisce le viene sottratto e dato in adozione. La donna non rinuncia a ritrovare suo figlio. Incontra un giornalista che accetta di aiutarla nella sua ricerca. L’istituzione religiosa che l’aveva ospitata adolescente frappone ostacoli, ma i due non si scoraggiano e alla fine riescono a ritrovare Michael ma scoprono anche un’amara verità.

Il figlio di Philomena in America ha ricoperto una posizione di prestigio nell’amministrazione Bush (senior), responsabile dell’ufficio legale del presidente, e ha convissuto con un partner omosessuale prima di ammalarsi di AIDS e morire. Questa è la parte meno dolorosa, perché la donna scopre il vergognoso commercio di bambini che le suore gestivano, sottraendo alle loro madri naturali i piccoli per affidarli a facoltose famiglie dietro laute ricompense in denaro.

Motivi d’interesse

Il film contrappone una fede presunta e mal testimoniata, rappresentata dalle suore e in particolare da suor Hildegarde – la religiosa disprezza con livore le giovani donne che non hanno saputo resistere al loro istinto animale e si sono lasciate sedurre dalla lussuria, meritevoli quindi di essere punite – e una fede vera che resiste alle ingiustizie subite, profonda, ancorata a un Dio in cui Philomena ha sempre creduto nonostante tutto.

Freas propone, inoltre, un interessante confronto tra i principali protagonisti, Judi Dench che interpreta Philomena e Steve Coogan, il giornalista. La prima, donna coraggiosa, priva di autocommiserazione, credente ma non bigotta né ipocrita, il secondo, ateo studioso di storia russa, con una profonda diffidenza negli esseri umani. I due si confrontano, lei senza confondere Dio con chi ha la pretesa di rappresentarlo facendo ricorso a un potere prevaricatore, lui scettico ma senza pregiudizi, curioso e aperto a scoprire la verità da qualunque parte e in qualsiasi modo si manifesti. Non c’è contrasto tra chi ha ragione e chi ha torto, si palesa semplicemente un incontro tra chi è capace di andare oltre, di spingersi aldilà.

Si costruisce così una relazione basata sul rispetto reciproco, si abbatte il pregiudizio e chi opera nel campo della salute mentale, ma si potrebbe benissimo generalizzare, sa quanto sia importante andare aldilà del pregiudizio, andare oltre ciò che spesso confondiamo con il singolare, con ciò che non ci appartiene, che vorremmo tenere a distanza per riconoscere e incontrare il diverso che rappresenta pur sempre una parte, un frammento della nostra comune umanità.

Philomena è un film emozionante, delicato e crudele al tempo stesso. Nella tragedia ciò che emerge è il perdono della protagonista. Senza giustificare, accetta la vergognosa vicenda che l’ha vista vittima di soprusi disdicevoli, riconosce l’offesa e non dimentica – dedica l’intera vita alla ricerca del figlio – ma con compassione passa oltre le miserie e la stupidità ipocrita e ne trae beneficio nel riorganizzare la propria vita.

Indicazioni per l’utilizzo

Il film può essere un’ottima traccia di confronto con il paziente sui temi narrati: disporsi al perdono, favorire un atteggiamento aperto al confronto, privo di pregiudizi, sviluppare l’autodirezionalità come funzionamento personale relativo al sé che persegue senso e significato.

Trailer

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RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012). Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE

Dimmi che avatar usi e ti dirò chi sei

FLASH NEWS

Lo studio dimostra sia che gli avatar possono offrire informazioni accurate sulla personalità del creatore, sia che gli individui con una personalità gradevole tendono a creare un avatar che invoglia gli altri a farsi conoscersi meglio.

La comunicazione tra gli individui avviene sempre più on-line, spesso, senza conoscersi dal vivo. Le recenti ricerche condotte alla York University tentano di comprendere i vantaggi e i limiti che si verificano incontrando altre persone in un contesto digitale.

In uno studio pubblicato in Personality and Social Psychology Bulletin, Fong e Mar hanno indagato nello specifico quali tratti della personalità degli utenti avatar sono trasmessi alla comunità virtuale.

Un avatar è tipicamente un’immagine che rappresenta sé stesso in un mondo virtuale che va dal semplice personaggio del videogioco a schede di personaggi realizzati attraverso rendering tridimensionali (per es.Warcraft). I profili avatar permettono agli individui di esprimere o sopprimere tratti fisici o psicologici nel mondo digitale. Precedenti ricerche hanno mostrato che gli individui tipicamente scelgono e preferiscono per comunicare avatar simili a sé stessi.

Nella ricerca sono state valutate due componenti: accuratezza generale e accuratezza specifica. La prima si riferisce alla somma tra accuratezza specifica e le aspettative date da norme generali che indicano la presenza di quel tratto, mentre la seconda indica quanto è presente il tratto di personalità di mio interesse nella specifica persona.

Nella prima fase dello studio i partecipanti hanno creato profili avatar, nella seconda fase invece un gruppo di partecipanti ha visto e valutato gli avatar creati nella prima fase. I tratti di personalità emersi erano:

– l’apertura alla novità, coscienziosità, l’estroversione, la gradevolezza, e la nevrosi.

Secondo l’analisi effettuata, alcuni tratti di personalità sono accuratamente comunicati meglio di altri. Per esempio gli individui socievoli tendono a creare avatar che meglio comunicano la loro personalità. Al contrario, le persone che presentano alti livelli di nevrosi tendono a creare avatar che non comunicano la loro personalità con precisione. Le persone che sono più gradevoli, tipico tratto della popolazione generale, tendono a creare avatar che suscitano agli altri intenzioni amicizia. Al contrario, avatar con un’espressione neutra, o qualsiasi altra espressione che non sia un sorriso, capelli neri, capelli corti, un cappello, e / o gli occhiali da sole hanno meno probabilità di suscitare intenzioni di amicizia.

Sulla base di studi precedenti, i ricercatori si aspettavano di riscontrare associazioni  tra profili avatar di genere e stereotipi di genere, ma sorprendentemente i risultati non lo confermano. Gli avatar utilizzati nello studio sono profili di base semplici, pertanto gli autori si augurano che attraverso nuove ricerche si possano estendere questi risultati ad avatar più complessi e dinamici, come quelli che si trovano in mondi digitali tridimensionali.

Lo studio dimostra sia che gli avatar possono offrire informazioni accurate sulla personalità del creatore, sia che gli individui con una personalità gradevole tendono a creare un avatar che invoglia gli altri a farsi conoscersi meglio.

 

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Metacognizione e deterioramento del funzionamento sociale nella depressione

 

Il malfunzionamento metacognitivo è presente in tutte le fasi del disturbo depressivo? Le abilità cognitive e metacognitive continuano a peggiorare dopo il primo impatto con i sintomi? In che modo? Che ruolo hanno la severità dei sintomi e la durata del disturbo?

Il Disturbo Depressivo Maggiore è considerato uno dei disturbi più debilitanti. L’impatto sulla qualità della vita è profondo e associato ad un deterioramento importante del funzionamento sociale. Numerose ricerche in letteratura documentano la presenza di problemi interpersonali sia come causa che come conseguenza del disturbo; le persone depresse sono meno attive e soddisfatte della loro vita sociale e frequentemente riportano difficoltà nella relazione con i propri compagni, figli e amici.

C’è un crescente interesse intorno alla possibilità che deficit nella cognizione sociale possano contribuire alle difficoltà interpersonali riscontrate nei pazienti depressi.
La ricerca in quest’area ha documentato un malfunzionamento nella teoria della mente (ToM) e nella codifica di stimoli emotivi mentre pochi studi hanno indagato il ruolo di abilità di ordine superiore, come la metacognizione o la mentalizzazione, nel deterioramento del funzionamento sociale nei pazienti depressi.

Un recente studio che mette in rilievo questo aspetto è quello di Ladegaard e colleghi (2014).
Gli autori esaminano un campione di quarantaquattro pazienti durante il primo episodio depressivo attraverso un’ampia gamma di strumenti, compresa la MAS (Metacognition Assessment Scale) nella sua versione abbreviata (MAS-A).
I risultati indicano difficoltà presenti in tutte le aree di cognizione sociale esaminate, metacognizione, teoria della mente e percezione sociale, con differenze significative rispetto ai quarantaquattro pazienti del gruppo di controllo. In un precedente studio su caso singolo Carcione e colleghi (2008) riportano un miglioramento delle capacità metacognitive progressivo e parallelo al recupero dalla sintomatologia depressiva in una giovane donna, come evidenziato dalla MAS.

Questi risultati sono in linea con lo studio di Fischer-Kern e colleghi (2013) che, utilizzando la RFS (Reflective Functioning Scale) sulla Adult Attachment Interview, ritrae un deterioramento significativo nell’ identificazione e nell’ interpretazione dei propri e altrui stati mentali, in un campione di quarantasei pazienti donne con Disturbo Depressivo Maggiore, rispetto al gruppo di controllo.
Pur con alcune discordanze tra gli studi, le evidenze disponibili suggeriscono un deterioramento ad ampio raggio della cognizione sociale durante la fase acuta del disturbo e aprono la strada a possibili implicazioni terapeutiche, come la necessità di valutare il malfunzionamento metacognitivo in fase diagnostica e di includere nella cornice di trattamento del Disturbo Depressivo Maggiore strategie terapeutiche focalizzate al recupero delle abilità implicate nella cognizione sociale.

Diverse domande restano aperte. Per esempio, il malfunzionamento tracciato è presente in tutte le fasi del disturbo? Le abilità cognitive e metacognitive continuano a peggiorare dopo il primo impatto con i sintomi, in che modo? Che ruolo hanno la severità dei sintomi e la durata del disturbo?

Ladegaard e colleghi (2014), ponendosi queste domande, cercano di far luce sulla traiettoria su cui si muovono le abilità coinvolte nella cognizione sociale a partire dalla comparsa del primo episodio.
Ventisette pazienti con Depressione Maggiore Cronica (che, secondo la classificazione del DSM-IV soddisfano continuativamente i criteri di diagnosi per il Disturbo Depressivo Maggiore per un periodo minimo di due anni) sono messi a confronto con quarantaquattro pazienti al primo episodio di Depressione Maggiore su diversi strumenti di valutazione in grado di descrivere le funzioni implicate nella cognizione sociale, tra le quali la ToM e la metacognizione.

Gli autori ipotizzano un funzionamento peggiore della cognizione sociale dei pazienti cronici rispetto ai pazienti al primo episodio, come conseguenza della lunga esposizione al disturbo, e un’associazione tra severità dei sintomi e deterioramento delle abilità cognitive utilizzate nella comprensione sociale, ipotesi coerente con studi che documentano un’associazione tra durata degli episodi depressivi e atrofia di alcune aree cerebrali.

Nessuna ipotesi è confermata. Deficit nella cognizione sociale sono presenti in egual misura in entrambi i gruppi e non si evidenzia alcuna significativa associazione tra gravità sintomatologica e abilità cognitive sociali. La presenza di un disturbo depressivo da moderato a grave potrebbe essere quindi sufficiente per prevedere la presenza di deficit nelle abilità coinvolte nei processi di comprensione sociale.
Seguendo i descrittori della MAS-A emerge che entrambi i gruppi hanno difficoltà nel collegare pensieri, emozioni, comportamenti e processi interpersonali. Entrambi i gruppi riconoscono gli altri come portatori di pensieri ed emozioni ma faticano a riconoscere il legame esistente tra pensieri, emozioni e comportamenti nell’altro. Entrambi i gruppi faticano a comprendere che l’altro adotta punti di vista diversi dal proprio nella comprensione degli eventi. Infine, in egual modo, i soggetti esaminati utilizzano il supporto dell’altro ma falliscono nel gestire stati di sofferenza soggettiva mutando la loro prospettiva sul problema.

In modo simile, van Randenborgh e colleghi (2012), esaminando la ToM in pazienti con depressione cronica e pazienti con depressione episodica, non riportano differenze tra i gruppi mentre altri studiosi (King et al., 2010) riportano la tendenza dei pazienti depressi a produrre memorie generiche indipendentemente dalla severità dei sintomi.
Tuttavia, in contrasto con queste evidenze, una significativa associazione tra deterioramento nelle capacità di mentalizzazione, durata del disturbo e numero di accessi ospedalieri è descritta nello studio di Fischer-Kern e colleghi (2013) prima citato.
Interessanti sono le spiegazioni avanzate da Ladegaard e colleghi di fronte agli inaspettati risultati.

I ricercatori ipotizzano la presenza di un processo di adattamento: con il perdurare della sofferenza i pazienti cronici avrebbero avuto più tempo a disposizione per adattarsi ad una condizione di difficoltà, tempo che avrebbe permesso loro di funzionare a pari livello dei pazienti durante il primo episodio depressivo. Seguendo lo stesso filone di pensiero gli studiosi avanzano l’idea che l’impatto iniziale del disturbo possa assorbire le risorse cognitive, sottraendole così al processo di comprensione sociale.
Un processo simile è emerso nei pazienti schizofrenici all’esordio; quando confrontati con pazienti schizofrenici con un tempo di malattia prolungato alle spalle, mostrano simili o peggiori abilità meta cognitive (Vohs et al., 2014).
Resta da considerare, per quanto riguarda l’assenza di associazione tra severità dei sintomi e abilità cognitive sociali, se ampliando la forbice entro cui considerare la severità dei sintomi possano emergere associazioni non evidenziate nello studio attuale.

Infine, un accenno alla farmacoterapia. Mentre nessuno dei pazienti al primo episodio assume farmaci, il 93% dei pazienti con Depressione Cronica è sottoposto a trattamento farmacologico, con terapie e dosaggi diversi, che potrebbero giocare un ruolo nel consentire prestazioni migliori rispetto alle aspettative.
Tra i limiti da considerare vi sono le dimensioni ridotte del campione e possibili problemi di classificazione dei pazienti. Gli autori sottolineano la necessità di studi futuri con campioni più numerosi e diversificati, che considerino tra altri aspetti, la presenza di Disturbi di Personalità e traumi nella storia personale, in quanto importanti predittori di un povero funzionamento metacognitivo (Dimaggio et al., 2007).
Per il momento, sottolineano gli autori, è difficile trarre conclusioni definitive ma un dato emerge con chiarezza; la necessità di lavorare sin dall’esordio, sin dal primo episodio depressivo, sul funzionamento cognitivo e metacognitivo coinvolto nei processi di comprensione sociale.
Se questi risultati dovessero essere replicati potrebbero di certo avere importanti implicazioni terapeutiche. Inoltre, studi prospettici potranno gettare luce sui rapporti di causalità tra cognizione sociale e Disturbo Depressivo Maggiore.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Cyberbullismo: come aiutare le vittime e i persecutori, di Federico Tonioni – Recensione

Un libro concreto quello di Federico Tonioni che affronta un tema di grande attualità, quello del bullismo online, con un taglio divulgativo e pratico, mirato ad un pubblico di genitori ma certamente utile anche ad insegnanti, educatori e professionisti che intendono comprendere a fondo il mondo in cui oggi bambini e adolescenti si muovono.

Un centinaio di pagine che tentano di rendere integrabili anche per noi adulti due spazi, quello del reale e del virtuale, che non vedono separazione alcuna nelle rappresentazioni mentali dei nostri ragazzi. L’avvento dell’era digitale infatti con la sua comunicazione portatile ha modificato le menti dei nostri figli, rendendole diverse dalle nostre, rafforzando così il cosiddetto gap intergenerazionale.

È cambiata la natura delle loro relazioni, i concetti di vicinanza e distanza, quello di intimità e di separatezza dagli altri. L’era digitale ha anche compromesso alcune capacità conquistate in molti anni di evoluzione come quella di attendere, di desiderare, e di stare da soli. Modifiche che hanno portato all’emersione di un nuovo profilo cognitivo che presenta spiccate abilità di coordinazione visuo-motoria, a fronte di una maggiore distraibilità e difficoltà di concentrazione, tempi e modi di lettura più adatti ad una pagina web che ad un libro, memoria e modalità di apprendimento e di pensiero diverse dalle nostre.

Più volte l’autore invita il lettore ad un atteggiamento aperto e non giudicante: dobbiamo tener conto che i ragazzi di oggi stanno al mondo in un modo diverso dal nostro e che non può essere considerato a priori patologico solo perché ai più incomprensibile.

Quello del cyberbullismo è un tema tristemente noto per numerosi fatti di cronaca che hanno avuto forte risonanza mediatica. Si tratta naturalmente di un fenomeno molto complesso, simile al bullismo tradizionale ma che presenta delle caratteristiche inedite che lo rendono un fenomeno fuori controllo del quale è difficile stabilire i confini. Il libro riporta una definizione di bullismo tradizionalmente inteso come una forma di prevaricazione, singola o di gruppo, che viene esercitata in maniera continuativa da ragazzi, definiti bulli, nei confronti di una vittima predestinata.

Caratteristiche che permettono di definire un episodio con l’etichetta “bullismo” sono l’intenzionalità del comportamento aggressivo agito, la sistematicità delle azioni aggressive fino a divenire persecutorie (non basta un episodio perché vi sia bullismo anche se spesso la stampa contribuisce a far credere il contrario) e l’asimmetria di potere tra vittima e persecutore. Nella sua dimensione online il bullismo diventa cyberbullismo il quale, sfruttando la comunicazione digitale, aumenta esponenzialmente le conseguenze negative degli eventi. Alcune caratteristiche fanno sì che gli attacchi online siano particolarmente feroci e di conseguenza ancor più duri da sopportare per le vittime: l’apparente anonimato di cui gode il bullo digitale, l’assenza di contatto fisico, la visibilità ad un numero potenzialmente enorme di spettatori.

Le cause di tutto questo vanno ricercate secondo l’autore nel complesso rapporto tra emozioni, istinti e corpo.  La comunicazione online, eliminando la presenza fisica dell’altro, ci porta o ci permette di comportarci in maniera diversa rispetto a quanto faremmo dal vivo. Tutte le emozioni vissute nella loro dimensione online sembrano esacerbate.

In particolare l’aggressività giocata online si manifesta senza presenza fisica quindi senza un limite in grado di contenerla. L’esclusione del corpo dal processo comunicativo tende a favorire comportamenti più disinibiti, incrementa l’aggressività e la sessualizzazione delle relazioni. Questo non avviene solo tra gli adolescenti ma è sufficiente leggere i commenti alle notizie sui principali quotidiani online per notare come anche noi adulti cadiamo spesso vittime dello stesso inquietante fenomeno. Gli esperimenti di Milgram negli anni 60′ sull’obbedienza all’autorità ci avevano già detto che la vicinanza della vittima sul piano percettivo aumenta il legame tra azioni e conseguenze, rendendo saliente la responsabilità personale per la sofferenza inflitta.

Numerosi sono gli spunti di riflessione che questo libro suggerisce. Oltre ad entrare in dettaglio nelle varie forme che può assumere il cyberbullismo, fornisce l’elenco di alcune caratteristiche che compongono la personalità di vittime e persecutori e dedica un intero capitolo alle istituzioni che si occupano di tutelare il rispetto della legalità e la promozione di valori positivi anche online.

L’autore si rivolge direttamente ai genitori, segnalando comportamenti che potrebbero destare allarme, come il ritiro sociale o l’abbandono di uno sport, suggerendo un atteggiamento di dialogo che non esclude il conflitto, evitando atteggiamenti drastici.

In chiusura Tonioni fornisce un utile decalogo da seguire nel caso ci si trovi a dover intervenire in una situazione di cyberbullismo (lo riportiamo in seguito in forma ridotta):

1.    cercare di avere una visione d’insieme di quanto accaduto

2.    ascoltare attentamente la vittima e mantenere la calma

3.    bloccare l’autore delle aggressioni segnalandolo al blog o al social network

4.    salvare tutto il materiale che può fungere da prova e poi cancellare dalle chat foto e dialoghi denigratori

5.    valutare la possibilità di sporgere denuncia alla polizia postale dopo aver condiviso l’accaduto con la scuola ed i soggetti coinvolti

6.    collaborare se possibile con gli altri genitori coinvolti

7.    non rimproverare o colpevolizzare vostro figlio per non essersi difeso da solo

8.    creare un atmosfera che trasmetta sicurezza, protezione, e contenimento della paura

9.    essere pazienti nell’ascoltare vostro figlio a più riprese

10.    rivolgersi a strutture e professionisti specializzati per l’aiuto

Quello del rapporto di ragazzi e bambini con gli strumenti digitali è una delle nuove sfide che la famiglia si trova a dover affrontare. La lettura di questo libro può aiutare ad combattere questa battaglia senza rimanere vittima del pregiudizio negativo che porta a proibire a priori ciò che non conosciamo e per questo ci spaventa.

Federico Tonioni è il responsabile, al Policlinico Gemelli di Roma, del primo ambulatorio italiano che si occupa di dipendenza da internet e fenomeni di cyberbullismo.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Tonioni, F. (2014). Cyberbullismo. Come aiutare le vittime e i persecutori, Mondadori, 2014

La reificazione sessuale della donna e la paura di subire violenza

FLASH NEWS

L’oggettificazione sessuale  della donna, potrebbe aumentare la paura delle donne di incorrere in danni fisici e sessuali.

Uno studio pubblicato sulla rivista Sex Roles, spiega il motivo per cui le donne temono di più la violenza fisica rispetto agli uomini.

I risultati ottenuti sostengono la teoria secondo la quale le donne potrebbero avere maggior paura della violenza in quanto temono di poterla subire, spesse volte, da parte degli uomini.

Secondo Watson, autore dello studio, i risultati della ricerca confermano i dati di precedenti già presenti in letteratura per cui l’oggettificazione sessuale  della donna, potrebbe aumentare la paura delle donne di incorrere in danni fisici e sessuali.

Tutte le forme di oggettificazione sessuale della donna hanno un unico comune denominatore: il corpo della donna o le sue parti sono separati dal resto della persona e pertanto possono essere oggetto di godimento da parte di un’altra persona.

Lo studio era costituito da un campione di 133 studentesse afro-americane e 95 donne bianche. E’ stato visto che le donne che vivevano in collegio presentavano un tasso di esperienze di stupro da 5 a 7 volte superiore rispetto a donne della stessa età che vivevano fuori. Nello studio sono state osservate differenze di razza: le donne afro-americane hanno riportato più esperienze di oggettificazione sessuale e paura del crimine di violenza rispetto alle donne bianche, ed erano maggiormente affette da stress psicologico.

Watson sostiene, inoltre, che le donne che vivono in un contesto socio-culturale in cui lo stupro è simile a una epidemia si sentono maggiormente a rischio e lo stato d’ansia provato è costante anche in situazioni in cui non dovrebbero temere nulla.

Lautore sostiene inoltre che la chiave utile per aumentare il senso di sicurezza, la libertà e l’affermazione delle donne nel mondo, è sfidare e sradicare la diffusa accettazione della violenza sessuale, nelle sue molteplici forme.

Propone poi di adottare delle misure preventive per aumentare la sicurezza delle donne: evitare di camminare sole di notte, portare con sé spray irritanti o oggetti con cui difendersi, promuovere iniziative per modificare l’idea radicata di oggettivazione sessuale della donna e soprattutto collaborare con gli uomini nel fermare la violenza per distribuire equamente il potere tra uomo e donna, che è spesso causa di violenza dell’uomo sulla donna.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Corso di Perfezionamento: Esperto in Audizioni di Minori Vittime di Abuso Sessuale e Maltrattamento

iescum Corso di Perfezionamento: Esperto in Audizioni di Minori Vittime di Abuso Sessuale e Maltrattamento

 

Bambini e adolescenti oggi esprimono difficoltà e vissuti personali in diversi contesti (scuola, centri di aggregazione, ludoteche, centri sportivi, ecc.).
Lo psicologo è spesso colui che in prima istanza li raccoglie e può avere un ruolo fondamentale anche nella rilevazione di abusi sessuali e maltrattamenti.
L’ascolto del minore è un passaggio cruciale che richiede preparazione e competenze specifiche.
Obiettivo di questo corso, unico nel suo genere per la presentazione di casi e materiali tratti da casi clinici, è preparare lo psicologo a questo compito fornendo strumenti per il riconoscimento e la valutazione dei quadri di abuso e maltrattamento. Saranno anche esaminati gli aspetti legislativi all’interno dei contesti giudiziari.

DATE E LUOGO
I edizione – c/o ASCCO, P.za Ravenet n.5, Parma: 15 marzo – 19 aprile – 17 maggio – 7 giugno – 20 settembre – 4 ottobre
II edizione – c/o Apprendimento e Recupero, Via Abano 11, Milano: 10 maggio – 14 giugno – 13 settembre – 18 ottobre – 8 novembre – 29 novembre
(le due edizioni presentano identici programmi e contenuti).

PROGRAMMA
MODULO I – Abuso sessuale e maltrattamento: definizioni e caratteristiche
MODULO II – Personalità pedofile e maltrattanti
MODULO III – L’ascolto del minore
MODULO IV – Tecniche di colloquio con il minore
MODULO V – La protezione del minore
MODULO VI – La stesura di una relazione e segnalazione

DOCENTE
Carmelo Dambone, psicologo clinico, psicoterapeuta, perfezionato in criminologia, Professore a.c. in “Comunicazione, mass media e crimine” presso l’Università IULM di Milano. Assistente presso l’Università Cattolica del “Sacro Cuore” di Milano – corso di “Normativa a Tutela dell’Infanzia” e docente di psicologia clinico forense presso varie scuola di specializzazione in psicoterapia.

CREDITI ECM
Per l’evento saranno richiesti crediti ECM per le professioni di psicologo.

ORGANIZZAZIONE
Il corso è organizzato dalla Scuola di specializzazione ASCCO, con il patrocinio di IESCUM.

COSTI
Il costo di iscrizione è di € 650,00.
Sono previste le seguenti riduzioni:
– per gli iscritti a IESCUM Alumni, € 570,00
– per gli studenti delle scuole di specializzazione Humanitas Milano, ASCCO ed ASCOC, € 470.00.
In tutti i casi (prezzo pieno o ridotto) il pagamento verrà suddiviso in due rate. La prima, di € 300,00, da corrispondersi al momento dell’iscrizione, la seconda, dell’importo restante, al termine del corso.
Tutti i prezzi si intendono esenti IVA, art. 10, comma 1, numero 20 del D.P.R. n. 633 26 ottobre 1972

 

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Corso di Perfezionamento: Esperto in Audizioni di Minori Vittime di Abuso Sessuale e MaltrattamentoConsigliato dalla Redazione

Corso di Perfezionamento Esperto in Audizioni di Minori Vittime di Abuso Sessuale e Maltrattamento
IESCUM, Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano – ONLUS organizza il corso di perfezionamento in Esperto in Audizioni di Minori Vittime di Abuso Sessuale e Maltrattamento, a Parma da marzo a ottobre 2015 (6 incontri) e a Milano, da maggio a novembre 2015 (6 incontri). Obiettivo di questo corso, unico nel suo genere per la presentazione di casi e materiali tratti da casi clinici, è preparare lo psicologo a questo compito fornendo strumenti per il riconoscimento e la valutazione dei quadri di abuso e maltrattamento. Saranno anche esaminati gli aspetti legislativi all’interno dei contesti giudiziari.  (…)

Tratto da: IESCUM

 

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Tsipras, il voto greco e l’Europa dei PIGS

 

Per capirci qualcosa sulle conseguenze del voto greco ho tentato di leggere un articolo di economia sul Sole24Ore. Non ho capito nulla. Troppo difficile. E ho capito la saggezza del mio caporedattore, che mi ricorda di scrivere di psicologia anche quando devo dire la mia su un fatto del giorno. “Di qualcosa di psicologico!

Di psicologico riguardo alla Grecia mi viene in mente il termine PIGS, con il quale pare che gli economisti indichino i paesi dell’Europa mediterranea, ovvero Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. È un termine sprezzante e avvilente per chi lo riceve. Il termine è nato intorno al 1990 ed è stato bandito per le sue connotazioni razzistiche e degradanti (derogatory), come scrive Katie Allen del Guardian (Allen, 2010).

Tsipras, il voto greco e i PIGS - Psicologia e Economia

L’acronimo PIGS mi ha sempre colpito per l’allusione al maiale, l’animale impuro, e per la sua origine nel giornalismo economico, che immagino intriso di severa mentalità protestante diffidente vero l’impurità morale meridionale e forse cattolica, allusione che rende il termine applicabile talvolta anche all’Irlanda, raddoppiando la I in PIIGS. Immagino anche che la maggiore confidenza del nord protestante con la Bibbia rafforzi ulteriormente il significato dell’accenno all’immoralità del maiale.

Si tratta di una percezione superficiale, che in qualche modo allude però alle difficoltà culturali che spezzano l’Europa, il dosso che rende accidentata la relazione tra nord e sud e che non facilita il senso di appartenenza condivisa tra noi europei. Fino al punto di chiamarci tra noi con i nomi di animali impuri.

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E qui vengo finalmente all’inciso psicologico: il bisogno di appartenenza è una componente del più ampio bisogno di socializzazione dell’uomo. Negli altri cerchiamo non solo la novità e lo stimolo, ma anche un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi. Cerchiamo anche le somiglianze, le conferme, le similitudini di gusto, sensibilità e storia personale (Baumeister e Leary, 1995; Brewer, 1991).

E la carenza di senso di appartenenza può partecipare alla generazione del disturbo psicologico più connesso con il rapporto con gli altri: la fobia sociale (Procacci, Pellecchia, e Popolo, 2010).

 Ansia sociale - © Lorenzo Recanatini - Alpes Editore

Non so se davvero i nordeuropei, dopo l’esito del voto greco, ci vedano come maiali grufolanti nel fango delle affaticate economie mediterranee. Forse possiamo essere meno permalosi e accettare la nostra natura porcina con un certo auto-ironico compiacimento.

Se davvero il voto greco, dadaista e provocatorio, può servire a dare una scossa a questa Europa paralizzata e a trovare la giusta quadra tra moralismo nordico-protestante e indulgenza meridionale e cattolica, ben vengano i maiali. In fondo ricordo che mio nonno diceva che il maiale è un nobile animale, degno del titolo aristocratico di “don” che i contadini italiani del sud davano ai signori. E così concludeva nel suo italiano semi-dialettale, rivolgendosi al suo maiale di fattoria:

“Tutti te chiamano puorco, io ti chiamo don puorco!”

 

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I Disturbi Alimentari e la centralità del cibo nella cultura moderna

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato Domenica 25 Gennaio 2015 su Linkiesta

Anoressia e bulimia sono tentativi di affermazione di sé nel campo del controllo del cibo e dell’aspetto fisico. I disturbi alimentari iniziano per lo più al limitare dell’adolescenza, quando si entra in un mondo sociale e competitivo di giovani adulti, dove occorre conquistare l’attenzione e la considerazione altrui. 

Non so quando precisamente il cibo è entrato a far parte della cultura di massa ed è diventato un oggetto di culto popolare, cult e pop. Più che le ricette in sé forse furono importanti i libri di ricette che diffusero il sapere dalle cucine aristocratiche a quelle borghesi. Oppure certi segnali, come le frasi celebri. Forse prima di Oscar Wilde a nessun letterato sarebbe venuto in mente un aforisma su quanto sia importante il cibo e, soprattutto, quanto siano irrimediabilmente noiosi quelli che non prendono sul serio il cibo. Wilde stava seminando il terreno delle foto di piatti disseminate sui social. Non sono un esperto di storia delle idee, ma ho l’impressione che il cibo è diventato “borghese” nell’800 e “pop” negli anni ’80 del secolo scorso.

Forse la stessa cosa è accaduta ai disturbi psicologici legati al cibo. Nell’ottocento la cultura medica “borghese” li individua e li definisce. Nel 1873 il medico francese Charles Lasègue, riportò otto casi di emaciazione e deprivazione alimentare su base psicologica, e pose grande enfasi sulla sofferenza emotiva dei pazienti. In quello stesso 1873 a Londra William Gull descrisse tre casi e li denominò per la prima volta con il termine che poi si sarebbe universalmente affermato: anoressia nervosa. Due anni dopo, nel 1875, in Italia a Bologna Giovanni Brugnoli descrisse altri due casi.

Dopo queste prime segnalazioni si assiste a un silenzio prolungato per alcuni decenni, in cui si cercano spiegazioni neurologiche per questi disturbi. A ridosso degli anni ‘80 Hilde Bruch (1973) e Mara Selvini-Palazzoli (1963) riaffermano la natura psicologica dei disturbi alimentari e li descrivono come un paralizzante senso di inadeguatezza e di insufficienza di fronte agli impegni della vita adulta a cui si unisce la restrizione alimentare come surrogato illusorio di quel carente senso di competenza, efficacia e autonomia personale di queste pazienti. Ancor più chiaro il legame della bulimia con gli anni ’80. Questa sindrome è stata definita nel 1979 dallo psichiatra inglese Gerald Russell.

È negli anni ’80 del ‘900 che anoressia e bulimia entrano a far parte della cultura di massa e diventano un oggetto quasi pop di campagne pubblicitarie di sensibilizzazione. Fino a quel momento si trattava di curiosità psichiatriche da circo, stramberie simile alle isteriche del maestro di Freud. il professor Charcot della Salpetrière di Parigi. Poi improvvisamente sembrarono diventare quasi un’epidemia e soprattutto assunsero un valore simbolico. Che trasformazione! Da residuo polveroso della psichiatria ottocentesca a malessere psicologico legato al consumismo degli anni ‘80.  

Quegli anni -ricordate?- furono il tempo del ritorno al privato e di un rinnovato edonismo. Cambiati i valori, improvvisamente l’ideale non era più rinnovare il mondo ma affermarsi personalmente, realizzarsi. Le professioni economiche diventarono appetibili. Gordon Gekko, pescecane della Borsa di New York, rubava la scena e si impadroniva del film “Wall Street” di Oliver Stone. Un ideale neopagano di bellezza, forza, potere e splendore personale prendeva possesso dell’immaginario pubblico.

Breve annotazione: cosa s’intende per anoressia e bulimia? La prima è la repulsione volontaria e ossessiva nei confronti del cibo generata da un intenso timore di poter diventare grassi o addirittura dalla convinzione erronea di essere sovrappeso. La bulimia è invece contraddistinta da episodi di abbuffate (consumo rapido di abbondanti quantità di cibo a elevato contenuto calorico) accompagnati da comportamenti di compenso, tra i quali il più diffuso è il vomito autoindotto, oltre all’uso smodato di diuretici e lassativi, il digiuno e l’attività fisica eccessiva. Il fine di questi comportamenti è attenuare il senso di colpa e l’aumento di peso procurati dall’abbuffata.  

L’associazione d’idee tra edonismo e l’emergere dei disturbi alimentari non è intuitiva. Il rifiuto del cibo dell’anoressica sembra piuttosto una negazione di sé. Eppure non è così. Anoressia e bulimia sono tentativi di affermazione di sé nel campo del controllo del cibo e dell’aspetto fisico. I disturbi alimentari iniziano per lo più al limitare dell’adolescenza, quando si entra in un mondo sociale e competitivo di giovani adulti, dove occorre conquistare l’attenzione e la considerazione altrui.

La giovane età ci rende particolarmente sensibili al giudizio altrui e ai piccoli e grandi dispiaceri delle competizioni di rango imposte dalla vita sociale. A quella giovane età il ruolo svolto dalla bellezza fisica è incisivo e per le donne lo è ancor di più. Il timore di non riuscire ad affermarsi, il timore di essere socialmente invisibili può generare il desiderio parossistico di aderire a un ideale fisico accettato, come è la magrezza, fino alle forme grottesche dell’estremo sottopeso dell’anoressia o al continuo vomitare quel che si mangia nella bulimia. Salvo poi riempirsi di nuovo di cibo quando si è in preda alla fame e all’insicurezza. Il cibo è fonte di angoscia, ma anche di consolazione. Mangiare ci calma, abbuffarci ancor di più.

L’individuo così cade preda di convinzioni che si definiscono, in gergo psicologico, maladattative e  distorte: la convinzione di non essere all’altezza, di non avere il controllo delle situazioni e, ancora peggio, di non avere il controllo dei propri stati d’animo e delle emozioni, che appaiono assumere un carattere di intensità ingestibile (Sassaroli e Ruggiero, 2010).

I disturbi alimentari diventano simbolici di questa svolta culturale individualistica e “pop” non solo per l’ossessione verso il cibo o l’aspetto corporeo, ma ancor di più per alcuni temi psicologi più nascosti: l’ossessione per il controllo sulla realtà e per la perfezione dello sviluppo individuale e la centralità della cosiddetta autostima personale su cui fondare il proprio benessere.

Nelle epoche pre-industriali, aristocratiche e non consumistiche, questi fenomeni non erano assenti, ma assumevano significati diversi. Eppure con alcune consonanze con la modernità risuonano. In un’economia di sussistenza pochi avevano accesso al consumismo alimentare che permette il lusso oppositivo dell’astinenza dal cibo. E quando avveniva, essa assumeva un carattere religioso, come nel caso di Santa Caterina.

L’astinenza dal cibo della santa aveva un valore di rinuncia, di mortificazione e di autodisciplina. Nella santa medievale mancava il carattere di affermazione individualistica della moderna anoressia. Però è anche vero che nelle sante medievali l’astensione dal cibo era una componente di una scelta religiosa ampia e complessa che consentiva alle donne un ruolo sociale incisivo. Santa Caterina poté, grazie alla rinuncia al mondo, sottrarsi al matrimonio e attingere a una formazione culturale che altrimenti le sarebbe stata preclusa. Imparò a leggere e a scrivere e poté svolgere un ruolo sociale e politico di primo piano nella società del tempo. Partecipò a missioni diplomatiche presso la sede papale, contribuendo a far sì che il Papa tornasse a Roma da Avignone. Tutto questo può essere interpretato, in termini moderni, come segno di affermazione personale per Santa Caterina (Bell, 1985).

Tuttavia in Caterina e in altre donne l’astensione dal mondo era un percorso efficace, che effettivamente portò le sante ascetiche medievali a diventare delle personalità di primo piano. Nell’anoressia moderna il desiderio di autonomia e di affermazione è molto più problematico e contradittorio e molto meno efficace.

L’anoressica è al tempo stesso attratta e intimorita dal mondo adulto delle relazioni sociali e dell’affermazione di sé. Incapace di accettare e di gestire la precarietà e la mobilità della competizione pubblica, va alla ricerca di un parametro quantificabile e controllabile e al tempo stesso carico di valore simbolico. Il peso è un numero, un parametro quantificabile. Il peso poi rimanda all’aspetto corporeo, naturalmente. E non si tratta affatto soltanto di un rimando soltanto simbolico. Con il nostro corpo, con la sua bellezza, ci presentiamo e ci facciamo accogliere, accettare e giudicare dagli altri e dal mondo. Un bell’aspetto è un buon biglietto da visita. Tuttavia, si tratta di una logorante e difficile negoziazione continua con gli altri. La sensazione di mancanza di controllo è quindi massima, ed è proprio ciò che teme l’anoressica. Di qui la scelta paradossale del disturbo alimentare: Il controllo del corpo diventa un fine in sé, una corsa autodistruttiva in cui lo scopo iniziale, poter essere accettati e piacere agli altri, è dimenticato a favore della magrezza e del controllo, che diventano un valore in sé.  

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bell, R.M. (1985). Holy Anorexia. Chicago: University of Chicago Press.  Tr. Italiana: La santa anoressia. Digiuno e misticisimo da medioevo a oggi. Bari: Laterza. 2002.
  • Bruch, H. (1973). Eating disorders: Obesity, anorexia nervosa, and the person within. New York: Basic Books. Tr. Italiana: Patologia del comportamento alimentare: obesità, anoressia mentale e personalità. Milano: Feltrinelli.
  • Selvini Palazzoli, M. (1963). L’anoressia mentale. Milano: Feltrinelli.
  • Sassaroli, S., Ruggiero, G. M. (2010). I Disturbi Alimentari. Bari: Laterza.
  • Russell, G. (1979). Bulimia nervosa: an ominous variant of anorexia nervosa. Psychological Medicine. 9-429–48.

American Sniper: un riflettore sul PTSD nei veterani di guerra – Cinema & Psicologia

 Silvia Bagnulo

American Sniper (2015)

di Clint Eastwood

 

TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Non si tratta soltanto di una trasposizione cinematografica delle sue azioni eroiche, ma viene messo in luce anche un aspetto meno popolare, di cui si parla ancora poco, e che riguarda la fase successiva alla conclusione di un conflitto o di un’esperienza bellica, il Disturbo Post-Traumatico da Stress, molto diffuso nei veterani di guerra.

 

Nei cinema italiani il nuovo anno è iniziato con l’uscita di American Sniper, film diretto da Clint Eastwood basato sull’omonima biografia del cecchino, divenuto leggenda, Chris Kyle, arruolato nei Navy SEAL, corpo speciale della marina militare americana.
Prese parte a quattro turni della guerra in Iraq, durante i quali si contraddistinse per le sue eccellenti prestazioni tali da fargli guadagnare gli appellativi “Leggenda” e “Il diavolo di Ramadi”, città dove trascorse gran parte della sua permanenza in Iraq.
Tuttavia non si tratta soltanto di una trasposizione cinematografica delle sue azioni eroiche, ma viene messo in luce anche un aspetto meno popolare, di cui si parla ancora poco, e che riguarda la fase successiva alla conclusione di un conflitto o di un’esperienza bellica, il Disturbo Post-Traumatico da Stress, molto diffuso nei veterani di guerra.
Nel film si vede come Kyle, tornato a casa, presenta disturbi del sonno e momenti della giornata in cui si isola, si assenta e rivive momenti del conflitto sotto forma di flashbacks. Talvolta intraprende azioni di difesa non necessarie, dovute ad un’interpretazione inadeguata della realtà e condizionata dall’esperienza in Iraq.

Tali sintomi sono caratteristici del Disturbo Post-traumatico da Stress che, come definito dal DSM IV-TR, è l’insieme di segni e di sintomi tipici che seguono l’esposizione ad un evento traumatico estremo. Presenta un’incidenza nella popolazione pari al 6,8%, che sale al 15% fino a toccare punte del 60% quando l’evento all’origine del disturbo è un conflitto bellico e per tale ragione denominato anche “nevrosi da guerra”.
Oltre ai sintomi accennati, Kyle presenta un’altra caratteristica tipica del DPTS nei veterani, ossia il senso di colpa per non essere riuscito a proteggere i compagni deceduti nel corso dei conflitti.
Nonostante le ingenti conseguenze, il protagonista riesce a lasciarsi alle spalle i lasciti di quello che ha vissuto, ritrova la gioia di vivere con la famiglia e i suoi figli e utilizza il suo talento per addestrare al tiro persone con gravi menomazioni fisiche e con gravi forme di DPTS, anche questa esperienza si rivelerà cruciale per il destino di Kyle.

La comunità scientifica ha posto attenzione alla problematica e diversi studi dimostrano la correlazione positiva tra l’aver preso parte ad un conflitto e il successivo manifestarsi della patologia.
È stato appurato che spesso si accompagna a comportamenti compulsivi, quali controllare che porte e finestre siano regolarmente chiuse 20-30 volte al giorno, verificare l’assenza di ordigni esplosivi sotto le auto ad ogni loro utilizzo, temere di essere spiati; frequenti sono anche i disturbi di ansia e l’incidenza del disturbo depressivo è del 37% in più rispetto alla popolazione generale.
Elementi che aggravano un quadro di per sé complesso.
American Sniper punta un riflettore sul tema e lo fa con accorgimenti cauti, ma facilmente rinvenibili agli occhi di un pubblico attento. Lascia intravedere come le conseguenze di un conflitto vanno purtroppo oltre il numero di vittime, le distruzioni del territorio e delle sue risorse, delle ricchezze culturali ed economiche, ma arrivano a dilaniare anche l’esistenza di chi ad una tale catastrofe è sopravvissuto e non riesce a staccarsi da momenti, attimi ed esperienze vissute, dal ricordo e dal senso di colpa e che non riuscendo a riprendere in mano le redini della propria vita, rivive metaforicamente quell’esperienza come il repeat della stessa scena di un film, appunto.

 

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La musica di Rihanna per contrastare il dolore post-operatorio – Musica & Psicologia

FLASH NEWS

In uno studio eseguito alla Northwestern University è stato scoperto che ascoltando per 30 minuti le canzoni di Rihanna o di Taylor Swift, o qualunque altra musica, il piccolo paziente subisce una significativa riduzione del dolore  provato.

A causa degli effetti collaterali che i farmaci oppioidi possono provocare nei bambini, i medici, spesso, limitano le prescrizioni e di conseguenza può capitare che il dolore provato, soprattutto in fase post operatoria, possa non essere sotto controllo.

In uno studio eseguito alla Northwestern University è stato scoperto che ascoltando per 30 minuti le canzoni di Rihanna o di Taylor Swift, o qualunque altra musica, il piccolo paziente subisce una significativa riduzione del dolore  provato.

La ricerca ha coinvolto 60 pazienti pediatrici di età compresa tra i 9 e i 14 anni. Le opzioni di scelta musicale comprendevano differenti generi tra cui pop, country, rock e musica classica, ma era possibile ascoltare anche degli audio libri. Permettere ai pazienti di scegliere la propria musica o le storie da ascoltare era una parte importante di questo trattamento, diversamente da quanto fatto da studi precedenti che indagavano gli effetti della musica in generale sulla riduzione del dolore.

Secondo i risultati di questo studio la terapia ha funzionato a prescindere dal livello di dolore dichiarato inizialmente dal paziente, infatti anche dopo la conclusione della ricerca molti pazienti hanno deciso di continuare a usare la musica o gli audiolibri per lenire il dolore, calmarsi, distrarsi o per riuscire a dormire.

Santhanam Suresh, autore dello studio, è convinto che questo tipo di terapia possa agire su un circuito presente nella corteccia prefrontale coinvolto proprio nella memoria del dolore. “C’è un certo apprendimento del dolore”, ha detto, “L’idea è che se non ci pensi non lo senti così tanto. Lo scopo è quello di cercare di prendere in giro il cervello, focalizzando la mente su qualcos’altro di diverso dal dolore”.

Il tentativo di trovare una strategia alternativa alle medicine per minimizzare il dolore è importante perché gli analgesici oppioidi hanno diverse controindicazioni e possono causare problemi respiratori nei bambini. La audio-terapia è un’opportunità importante perché non solo è efficace ma a differenza dei farmaci non ha costi e effetti collaterali.

 

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Il cibo proibito: la spirale dieta e abbuffate nella bulimia nervosa

La persona con Bulimia Nervosa presenta una valutazione di sé (autostima) centrata principalmente sul suo peso corporeo, sulla forma del suo corpo e sulla propria capacità di controllare questi ultimi.

I criteri diagnostici che nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV, APA 2004) definiscono la Bulimia Nervosa sono in sintesi:

  • Ricorrenti abbuffate. Un’ abbuffata è un episodio di alimentazione durante il quale viene ingerita una quantità di cibo oggettivamente grande; il soggetto sperimenta durante questo episodio un senso di perdita di controllo;
  • Ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso (es. vomito auto-indotto, abuso di lassativi, diuretici, digiuno o esercizio fisico eccessivo)
  • Eccessiva valutazione e controllo della forma del corpo e del peso; autovalutazione centrata principalmente o esclusivamente sulla forma del corpo e il peso e sulla capacità di controllarli, come nell’Anoressia nervosa.

 

 Rispetto a quest’ultimo criterio, dunque, emerge come, mentre una persona che non soffre di un Disturbo Alimentare valuta se stessa sulla base delle proprie prestazioni percepite in una varietà di ambiti della sua vita quotidiana (es. capacità in ambito relazionale, scolastico, lavorativo, etc.), viceversa la persona con Bulimia Nervosa presenta una valutazione di sé (autostima) centrata principalmente sul suo peso corporeo, sulla forma del suo corpo e sulla propria capacità di controllare questi ultimi.

Conseguentemente a tali criteri di valutazione, la persona con Bulimia Nervosa manifesta una tormentosa preoccupazione per il proprio peso e per la forma del corpo, i quali diventano oggetto di un controllo ossessivo quotidiano, e spesso si sente grassa e orribile nonostante il suo oggettivo normopeso.

L’ossessione per il peso corporeo conduce le persone con Bulimia Nervosa ad attuare persistenti e caratteristiche forme di riduzione alimentare, ovvero a seguire una dieta estrema e costante, determinata da regole alimentari estremamente rigide e inflessibili, le quali disciplinano il quanto e il cosa si deve mangiare. Nella maggior parte dei casi, le regole dietetiche a cui si sottopongono le pazienti bulimiche impongono una drastica riduzione della quantità totale di cibo ingerita, e vietano nettamente una grande quantità di alimenti, i cosiddetti cibi proibiti, costringendo la persona ad un’alimentazione progressivamente sempre più limitata ai pochi alimenti consentiti.

Rispetto a ciò, le tre principali modalità adottate nella restrizione alimentare sono:

  • Riduzione della frequanza dei pasti,  ovvero tentare di digiunare il più possibile, saltando i pasti;
  • Riduzione della quantità di cibo al di sotto di un rigido limite calorico, in genere marcatamente inferiore al fabbrisogno quotidiano medio;
  • Eliminazione di specifici cibi, i quali sono temuti perché percepiti come ‘ingrassanti’ o perché in passato hanno dato origine ad un attacco bulimico.

La gamma dei cibi evitati varia da una persona all’altra, ma in genere per una persona che soffre di Anoressia o Bulimia solo pochi cibi riescono ad  essere mangiati tranquillamente.

Diete rigide ed estreme di questo tipo risultano profondamente dannose sia dal punto di vista fisico che psicologico, rendendo l’alimentazione giornaliera un tormento quotidiano, dominato dall’ansia e dai sensi di colpa, e danneggiando profondamente la vita sociale della persona che, a causa del disagio che prevede di provare, si sente costretta a ridurre o evitare completamente eventi sociali (es. uscire con gli amici, far visita ai parenti, etc.) che implicano il rischio di trovarsi di fronte a cibi ansiogeni.

Molte persone che hanno crisi di abbuffate compulsive esercitano costantemente un intenso sforzo su se stesse per seguire la ferrea dieta che si sono imposte. La persona pensa di dover seguire le regole alla lettera e giudica di aver fallito ogni volta che mangia di più rispetto a ciò che le regole permettono.

 

 Tale dieta severissima ed estrema genera inevitabilmente ripetuti fallimenti, i quali innescano nella persona una intensa demoralizzazione ed una dolorosa auto-critica, che spesso sfocia nell’abbuffata.

In molti casi, inoltre, la crisi bulimica è seguita da disfunzionali comportamenti di compensazione quali vomito auto-indotto, uso improprio di lassativi e diuretici (purging), oppure da digiuno o esercizio fisico eccessivo finalizzato a compensare le calorie ingerite durante l’abbuffata.

A sostenere questa reazione di fronte alla rottura delle regole dietetiche è uno stile di pensiero caratteristico di molte persone che soffrono di Bulimia Nervosa, definito pensiero tutto o nulla.

A fronte di quanto considerato, emerge come il costante ed estremo sforzo di restrizione, la reazione al percepito fallimento, unitamente alla presenza di stati d’animo dolorosi da cui la persona cerca sollievo e fuga mediante il cibo, è uno dei fattori che tipicamente scatena l’abbuffata, innescando in tal modo un circolo vizioso estenuante, di cui spesso essa mantiene per anni un doloroso segreto.

 

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Disturbi del Comportamento Alimentare – ED

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Costa E., Loriedo C. (2007) Disturbi della condotta alimentare. Diagnosi e terapia, Franco Angeli. ACQUISTA
  • Santonastaso P., Favaro A. (2002) Anoressia e Bulimia. Guida pratica per genitori, insegnanti e amici. Positive Press
  • Santoni Rugiu A., Calò P., De Giacomo P. (2003) Anoressia e Bulimia: la svolta. Manuale di auto-aiuto per il trattamento dei Disturbi Alimentari. Franco Angeli ACQUISTA

 

Black sheep effect and the identification with group

 Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Autori: Marika Rullo & Stefano Livi (Università La Sapienza di Roma)

 

Black sheep effect and the identification with group

Abstract

Previous research has suggested that the black sheep effect – i.e. ingroup derogation – mainly occurs in members highly identified with groups or belonging to highly entitative groups. The present study considered the conjoint effect of identification and entitativity on the ingroup derogation, and in particular considering he moderation role of entitativity on the relationship between identification and derogation of ingroup vs outgroup members. A sample of 169 high school students took part in the study. Results showed that deviant ingroup members from high entitativity groups was harshly evaluated especially from highly identified members than outgroup deviant members. At the same time, a deviant from low entitativity group may pose a significant threat to the highly identified members that still use derogation in order to restore a positive image of the group.

Keywords: black-sheep effect; social identity; entitativity; ingroup bias; derogation

 

PREMIO STATE OF MIND 2014

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Meglio il dolore o la solitudine?

Mentre per alcuni può essere rilassante pensare ad altro, lasciare andare la mente, ricordare situazioni piacevoli, altre persone possono sentirsi sopraffatte dai loro stessi pensieri e dalle loro stesse emozioni.

Da un punto di vista relazionale, il dilemma si coniuga nella scelta tra essere single o essere in relazioni poco sane, relazioni dolorose o maltrattanti. È quello che spesso capita a persone con tratti dipendenti, che possono preferire relazioni faticose e negative alla sensazione disarmante di essere soli in un mondo pericoloso che non si sa affrontare e decifrare senza nessuno a fianco.

Se invece la intendiamo in un senso percettivo, allora possiamo chiederci cosa succede nel nostro cervello nel momento in cui chiudiamo la porta a tutti gli input che ci arrivano continuamente dall’ambiente in cui viviamo, e restiamo, appunto, soli.

In inglese esistono due parole per descrivere questa condizione, una che fa riferimento alla situazione oggettiva di solitudine (aloneness, essere da soli) e una che fa riferimento a una sensazione di abbandono/solitudine (loneliness, essere soli).

Mentre alcune persone possono trovare sollievo dalla possibilità di chiudere tutti i collegamenti con l’esterno, altri possono avere difficoltà a rimanere davvero soli, e da questa difficoltà ha probabilmente preso linfa il successo dei social network che in qualche modo ci permettono di non essere mai davvero soli (se non lo vogliamo) e di poter interagire con altre persone rimanendo in presentia anche se lontani e in pantofole.

Mentre, quindi, per alcuni può essere rilassante pensare ad altro, lasciare andare la mente, ricordare situazioni piacevoli, altre persone possono sentirsi sopraffatte dai loro stessi pensieri e dalle loro stesse emozioni.

Questo è il punto da cui è partito un gruppo di psicologi dell’Università della Virginia, che hanno collezionato 11 studi (ora pubblicati su Science), in cui veniva richiesto ai soggetti di passare da 6 a 15 minuti in compagnia dei propri pensieri.

Nei primi 6 studi, il 58% dei partecipanti ha valutato questo compito sopra il punteggio medio di difficoltà (abbastanza difficile). Inoltre, da segnalare che due dei partecipanti sono stati esclusi perché nel momento in cui lo sperimentatore lasciava da solo il soggetto, in un caso uno ha utilizzato una penna per stendere una lista di cose da fare al termine dell’esperimento, e nell’altro un soggetto ha usato un foglio dimenticato dallo sperimentatore per fabbricare origami.

Sembra proprio che fermi si faccia fatica a stare. Durante il settimo studio è stato richiesto ai partecipanti di portare a termine lo stesso compito (rimanere soli con i propri pensieri) a casa, e il 32% ha dichiarato di fare ricorso a fattori distraenti (come lo smartphone o la musica).

Nello studio più arduo, ai partecipanti è stata data la possibilità di auto-somministrarsi brevi scosse elettriche durante il periodo in cui erano lasciati soli con i propri pensieri, dopo aver sperimentato la sensazione della scossa all’inizio dell’esperimento. Nonostante alcuni avessero dichiarato di essere disposti a pagare per non ricevere più alcuna scossa, un quarto delle donne e due terzi degli uomini hanno deciso di procurarsi scosse una volta lasciati soli. Si segnala in particolare un soggetto che si è dato 190 scosse in 15 minuti.

Timothy Wilson, il primo autore di questa serie di studi, ha ipotizzato diversi fattori che possono ostacolare la possibilità di rimanere semplicemente soli con i propri pensieri.

Forse i partecipanti non sapevano su cosa lasciare scorrere la loro attenzione? Probabilmente no, visto che non si riscontravano differenze se veniva o non veniva richiesto loro di concentrarsi su un particolare tema/argomento.
Forse la tecnologia ci sta spegnendo la fantasia? No, visto che i risultati raccolti non erano in nessun modo correlati all’età o all’uso di smartphone e social network. Giustamente, Wilson ipotizza che questo uso massiccio della tecnologia sia più una conseguenza che non una causa della nostra incapacità a stare soli.

Così, Wilson ha appoggiato l’ipotesi secondo cui, essendo abituati da secoli per la nostra stessa sopravvivenza a scansionare continuamente l’ambiente esterno in cerca di potenziali pericoli, può essere atipico focalizzare la nostra attenzione solo sull’interno, e può risultarci difficile perché non ne siamo abituati.

Uno degli sviluppi futuri della ricerca riguarda proprio l’abitudine, cercando di capire quanto sia possibile imparare a stare da soli e a concentrare la nostra attenzione sull’interno anziché sugli stimoli che arrivano da fuori.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Scuola: qualità del sonno & performance scolastica nei bambini

 FLASH NEWS

Una buona qualità del riposo notturno è risultata essere correlata ad una migliore performance scolastica dei bambini nello studio della matematica e delle lingue, materie che costituiscono degli importanti predittori del loro futuro successo scolastico.

Per molti genitori convincere i propri figli ad andare a letto presto la sera può trasformarsi spesso in una vera e propria lotta.

Uno studio condotto da alcuni ricercatori della McGill University e del Douglas Mental Health University Institute di Montreal e pubblicato su Sleep Medicine suggerisce, tuttavia, come lo sforzo compiuto dai genitori porti in realtà a diversi vantaggi. Una buona qualità del riposo notturno è risultata infatti essere correlata ad una migliore performance scolastica dei bambini nello studio della matematica e delle lingue, materie che costituiscono degli importanti predittori del loro futuro successo scolastico.

Il presente studio ha coinvolto 75 bambini sani, aventi un’età compresa tra i 7 e gli 11 anni, grazie alla collaborazione con il Riverside School Board di Saint-Hubert (Quebec). Nel corso della ricerca è stata valutata l’“efficacia del sonno”, che costituisce un indice del livello di qualità del sonno ottenuto attraverso la misurazione del rapporto tra il tempo di riposo notturno ed il tempo totale trascorso a letto. Ciascun bambino è stato monitorato per mezzo di actigrafia, uno strumento che usa un’apparecchiatura simile ad un orologio da polso in grado di rilevare i movimenti che un individuo compie mentre sta dormendo, permettendo così di valutare la qualità del sonno. Successivamente è stata fatta una media dei dati raccolti durante 5 notti per ottenere un pattern del sonno abituale di questi bambini che è stato in seguito correlato con i loro risultati scolastici.

I risultati ottenuti hanno messo in evidenza l’esistenza di una correlazione significativa tra “efficacia del sonno” e una migliore performance scolastica solo in alcune materie, quali matematica e lingue, mentre non è emersa alcuna influenza di questo aspetto sullo studio di materie quali scienze e arte. Rispetto a studi precedenti, in cui era stata rilevata una correlazione tra il sonno e la performance accademica generale, i ricercatori di Montreal hanno quindi messo in evidenza l’impatto del riposo notturno sulla performance ottenuta in alcune materie specifiche.

Secondo Gruber, ricercatore presso il Douglas Institute e professore del McGill’s Department of Psychiatry, l’influenza della qualità del sonno sulla performance scolastica è da attribuire ad un’influenza di questo fattore soprattutto su alcune funzioni esecutive (abilità mentali coinvolte nella pianificazione, attenzione e multitasking per esempio) che costituiscono aspetti più critici nello studio soprattutto della matematica e delle lingue rispetto alle altre materie. Gruber, inoltre, sottolinea come dormire poco possa costituire un significativo fattore di rischio per uno scarso rendimento scolastico, un problema che ormai interessa circa il 10-20% della popolazione.

I risultati mostrano l’importanza di identificare l’esistenza di problematiche del sonno che possono altrimenti passare inosservati. Questo non vuol dire che i genitori debbano precipitarsi a far testare i propri bambini nelle cliniche del sonno, ma mostra un bisogno da parte dei pediatri di aggiungere domande in merito alla qualità del sonno nei controlli generali di routine.

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BIBLIOGRAFIA:

Fidarsi è meglio (altrimenti non cresci)

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di Domenica 25 Gennaio 2015.

 

Nell’infanzia si formano legami di attaccamento su cui fondiamo il senso di amabilità e valore personale. Comunicando con gli altri comprendiamo le menti. Nel mondo di finzione acquisiamo flessibilità e capacità di relazioni emotive. Poi esplodono gli ormoni, si spaiano le carte e diventa tutta un’altra storia.

“In principio tutto era vivo” inizia Notizie dall’interno di Paul Auster. Parla di infanzia, il periodo in cui si costruisce ciò che diventeremo da adulti. Dalla nascita fino all’inizio della pubertà il bambino ha un’attività psichica incessante, elettrica, pulsante. Il suo mondo interno si fonda su dei pilastri.

 

Il primo, la motivazione all’attaccamento. Quando è in difficoltà – fame, stanchezza, paura – il bambino cerca l’adulto di riferimento, convenzionalmente denominato: mamma. In una tipica sequenza fortunata chiede cibo se ha fame, conforto se è spaventato. La mamma accorre, lo nutre, lo calma e lo manda sereno a giocare. Interazioni ripetute di questo genere formano un’idea del tipo: “Ho bisogno di essere amato. Quando sono in difficoltà mamma accorre e fa le cose che mi fanno stare bene, quasi sempre. Vuol dire che mi ama e sono buono.” Un pensiero così, il bambino lo porta con sé varcati i cancelli dell’infanzia e lo usa per navigare nel mondo con fiducia. Lo chiamano ‘attaccamento sicuro’.

 

Secondo pilastro: nell’infanzia siamo attivi, curiosi, e bramiamo relazioni. Quello che il bambino non regge è l’assenza di reazione. Mettetelo in una stanza in cui lo psicologo – o l’essere chiamato ‘mamma’ di cui sopra – non fa una grinza quando il bambino dà segnali. Pochi secondi e si innervosisce di brutto. Mostrarsi attenti, invece, lo calma e lo riattiva. Significa che i bambini sono nati per comunicare continuamente e che il destino delle loro emozioni dipende da come gli altri  sapranno riconoscerle e rispondere. Ignorarli li spiazza non poco.

 

Terzo pilastro: la costruzione della “teoria della mente“. Gli umani non nascono sapendo che nella mente degli altri ci sono idee, prospettive, affetti diversi dai loro. All’inizio il mondo è trasparente: la mente dell’altro è nella nostra, la nostra penetra quello dell’altro. Poi lentamente scopriamo che gli altri non sanno quello che sappiamo noi, e che magari si sbagliano.

Alcuni test misurano la capacità di capire la mente degli altri. Per dire: se a tre anni so che c’è una merendina nella scatola, do per scontato che lo sappiano tutti e che agiscano di conseguenza. A quattro anni invece capisco che io lo so, ma gli altri hanno un’informazione diversa, falsa, e che agiranno guidati da quello che sanno e non dalla realtà. Negli anni la teoria della mente si affina, i bambini imparano a influenzare le credenze degli altri e si specializzano nell’arte di dire bugie.

Favorire la costruzione di una buona teoria della mente nell’infanzia facilita la vita sociale adulta. C’è una zona dove questa capacità si allena: il ‘gioco di finzione sociale’. Nel mondo del “come se”, dove tu sei un Pokémon e io l’allenatore, io sono Elsa e tu sei Olaf (il pupazzo di Frozen col naso a carota), i bambini parlano di emozioni. Si immedesimano nei ruoli, se li scambiano e per farlo devono capire l’altro in modo sofisticato. Divertendosi un mondo.

In sintesi: nell’infanzia si formano legami di attaccamento su cui fondiamo il senso di amabilità e valore personale. Comunicando con gli altri comprendiamo le menti. Nel mondo di finzione acquisiamo flessibilità e capacità di relazioni emotive. Poi esplodono gli ormoni, si spaiano le carte e diventa tutta un’altra storia.

A proposito, definizione scientifica di infanzia, fase: 9 anni. Periodo in cui un bambino pretende una copia di Assassin’s Creed e una bambina afferma il suo diritto di andare a scuola truccata. In democrazia c’è diritto di voto ma non prima dei diciotto anni: potete tranquillamente dire no.

 

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