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La tecnologia nelle nuove generazioni

La tecnologia ha modificato drasticamente il modo di conoscere e apprendere, ma quali costi comporta per le nuove generazioni questa trasformazione?

Di Carin Irma Blumenthal

Pubblicato il 11 Dic. 2019

Alcuni studiosi, come Mark Prensky (2001) ritengono che gli studenti sono cambiati radicalmente; non sono più le persone per cui il sistema educativo è stato pensato.

 

Oggi i ragazzi non sono solo cambiati rispetto al passato, né hanno semplicemente mutato il modo di parlare, vestirsi o agghindarsi, come era successo nelle generazioni passate. Si è verificata una grande trasformazione, tale da cambiare le cose in maniera così profonda da rendere impossibile tornare indietro: si tratta dell’arrivo e della rapida diffusione della tecnologia digitale negli ultimi decenni del ventesimo secolo.

Gli studenti di oggi, dall’asilo all’università, rappresentano le prime generazioni cresciute con queste nuove tecnologie. Hanno speso la loro vita usando computer, videogiochi, lettori di musica digitale, videocamere, telefoni cellulari e tutti gli altri strumenti dell’era digitale. La familiarità dei bambini con una tale varietà di  schermi interattivi ha plasmato il loro modo di apprendere, di conoscere e di comunicare e, contestualmente, il loro approccio alla realtà: per i nativi, il virtuale è realtà tanto quanto quella che si attua con i sensi, in presenza.

Per via del modo in cui sono cresciuti, è molto probabile che i cervelli dei nostri studenti si siano fisicamente modificati e siano diversi dai nostri. Che ciò sia comprovato oppure no, possiamo dire con certezza che anche i loro modelli cognitivi sono cambiati. Bisogna però sottolineare che la tecnologia rende liberi e migliori solo se la sviluppiamo e la utilizziamo in modo saggio (Prensky, 2013).

Siamo di fronte ad un apprendimento digitale, fino a qualche anno fa, i compiti si facevano a casa da soli o in piccolo gruppo, alcune volte si usava il telefono per confrontare i risultati, oggi si fanno i compiti insieme tramite Skype, si condividono i risultati tramite Wathsapp, si cercano molte più informazioni su internet piuttosto che sui libri. Questo tipo di studio ha modificato le modalità di apprendimento e la velocità della gestione delle informazioni; è cambiato il livello di attenzione e la velocità con cui arrivano gli input al cervello. Ormai si attua una modalità per cui non si esegue più un compito cognitivo alla volta e, come un pc, si può arrivare ad avere un numero troppo elevato di finestre aperte, con il rischio di andare in affaticamento mentale.

 Prensky parla di saggezza digitale derivante dall’intelligenza digitale, possibile solo in chi riesce ad approcciarsi nella misura migliore e maggiormente consapevole alle nuove tecnologie. Esiste però anche una stupidità digitale, tipica di persone che fanno un uso inappropriato della tecnologia, mettendo in atto comportamenti che manifestano quanto meno superficialità, come l’impadronirsi di materiale presente in rete senza preoccuparsi del copyright né di citare gli autori.

Prensky ha coniato il termine nativi digitali, proprio per indicare i bambini che hanno grande dimistichezza con gli strumenti tecnologici. Questa espressione sarebbe in opposizione con gli immigrati digitali, che saremmo noi adulti che dobbiamo riadattare la nostra mente a questo secondo linguaggio, sono le persone che, quando queste nuove tecnologie si sono diffuse, erano già adulte e quindi hanno avuto maggiore difficoltà, o addirittura non riescono, a impadronirsi della conoscenza e dell’uso di questi nuovi mezzi. Bortolato però ritiene che il termine esatto non sia nativi digitali, ma nativi analogici, perché questi strumenti sono sì digitali, ma l’interfaccia grafica con cui si presentano è analogica. Per questo i bambini li adorano.

Il termine nativi digitali indica la generazione di nati (negli Stati Uniti) dopo il 1985, anno di diffusione di massa del pc a interfaccia grafica e dei primi sistemi operativi Windows. In Italia, secondo Ferri, si parla di nativi digitali dalla fine degli anni novanta, quando i computer e internet sono entrati prepotentemente nella vita di tutti.

Gli studi di Ferri, professore ordinario di Teoria e tecniche dei nuovi media e Tecnologie per la didattica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Milano-Bicocca, autore di numerose pubblicazioni sul rapporto tra media e società, (Ferri, Allega, 2013) dimostrano che l’apprendimento di queste nuove generazioni è caratterizzato dal multitasking: studiano mentre ascoltando musica, mentre chattano con gli amici, mentre il televisore è acceso con il suo sottofondo di immagini e parole. Questo nuovo modo di apprendere è caratterizzato dalla capacità di fare più cose contemporaneamente, ma quando pensiamo di stare facendo multitasking, stiamo solo passando da un’attività a un’altra molto velocemente, ma ogni volta c’è un costo cognitivo.

Gli adulti cercano sempre un manuale o degli strumenti per inquadrare concettualmente un oggetto di studio prima di dedicarsi a esso, i nativi apprendono per esperienza, navigano tra i media in maniera non lineare e creativa. La loro mente è fatta in maniera differente essendo in grado fin da piccoli di distribuire l’attenzione su più dispositivi contemporaneamente, a differenza dei loro genitori monotasking che faranno fatica a capirli.

Daniel J. Levitin (2015), ha effettuato alcune ricerche ed è arrivato a sostenere che il multitasking ci rende meno efficienti e comporta un vero e proprio esaurimento delle funzioni cerebrali. Si è visto che il multitasking aumenta la produzione di cortisolo, l’ormone dello stress, e di adrenalina, l’ormone del lotta o scappa, che può stimolare eccessivamente il cervello e causare annebbiamento o pensieri disturbati. Il multitasking crea un circolo vizioso di dipendenza dalla dopamina, premiando effettivamente il cervello a perdere la concentrazione e a cercare stimoli esterni.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Prensky M.. Digital Natives, Digital Immigrants Part I. On the Horizon (MCB University Press), 2001. vol.9, n.5.
  • Prensky M.. La mente aumentata, dai nativi digitali alla saggezza digitale. Erickson, 2013. pp.173, 201-207.
  • Ferri P., Allega A. M.. La sfida dei nativi digitali. Gli Speciali di Education 2.0. Milano: RCS. 2013, p. 5.
  • Levitin D. J.. Why the modern world is bad for your brain. The Guardian, 2015.
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