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Politica: le promesse mancate ce le andiamo a cercare?

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta del 19 Aprile 2015.

 

Forse chi crede nelle promesse è anche qualcuno che promette troppo a se stesso. Come nelle relazioni patologiche in cui il ruolo è il rovesciamento del ruolo speculare dell’altro.

In politica e nel calcio e forse nella vita le promesse mancate, le bombe inesplose, sono la regola. Nel calcio rimangono dei nomi nella memoria che raccontano sogni mancati: Comandini, Ventola, Morfeo, Gascoigne e Denilson. E poi Recoba. Ancora più lontano nel tempo ricordo un uruguayano, tale Ruben Paz. Perfino per un distratto orecchiante di calcio come me questi nomi significano qualcosa in cui si era molto sperato e poi molto disperato. E nel calcio la promessa mancata è in genere un ricordo malinconico. 

In politica la promessa mancata si carica invece di risentimento e rancore. Leggo sui quotidiani che in Brasile la presidentessa Dilma è una delusione, una promessa mancata. Sono pessimista, credo che tutta la politica sia sempre una promessa mancata e che quel poco che c’è di buono in essa consista nella capacità comunque di apprezzare i pochi risultati positivi che talvolta ci regala, sempre ben inferiori rispetto alle promesse. Ogni capo politico, ogni eroe è anche il punto di convergenza di speranze, aspettative, delusioni e infine rancori (https://www.stateofmind.it/2015/04/capro-espiatorio-violenza-societa-2/). Ovvero di odio. Questa parabola è inevitabile. Ed effettivamente, se ci pensiamo bene, ancor oggi è così. Pensiamo a Obama: dopo le speranze eccessive la disillusione, altrettanto eccessiva. 

In un tempo antichissimo, la promessa mancata dei politici preludeva al loro linciaggio, inizialmente spontaneo e bestiale, poi ritualizzato. E se nel momento della crisi e della disillusione il legame sociale e la solidarietà di gruppo si erano deteriorati in una diffidenza di tutti contro tutti a rischio di diventare una guerra civile, nel linciaggio del capo, spontaneo o rituale, la solidarietà si ricomponeva. In molte società tribali era previsto che il re regnasse per un periodo predeterminato, dopo il quale era ritualmente ucciso (Fornari, 2006; Girard, 1982).

Questa cerimonia aveva sostituito i precedenti scoppi periodici di guerre civili, faide e vendette reciproche. In seguito, anche l’uccisione del capo andò incontro a una progressiva civilizzazione. Inizialmente un sacrificio umano sostituì quello del re in carica. Poi si passò a sacrifici animali fino ad arrivare a cerimonie di morte e resurrezione solo metaforiche.
Naturalmente, nulla è superato per sempre. Eliminazioni più o meno formalizzate di capi politici sono avvenute anche dopo l’istituzione e l’estinzione dei sacrifici umani. Da Cesare a Luigi XVI fino a Gheddafi fare il capo politico è sempre un mestiere ad alto rischio. Per comandare occorre promettere, e se si promette prima o poi si delude, scatenando la reazione di chi abbiamo illuso.

Si può sfuggire a questo intreccio perverso di promessa e delusione? Di idealizzazione e svalutazione? Si può sfuggire a schemi rigidi o pervasivi che prevedono sempre lo stesso tipo di relazione? In cui i comportamenti relazionali tendono a diventare ripetitivi e stereotipati? (https://www.stateofmind.it/2012/05/dimaggio-intervista-tmi-cicli-interpersonali/) In cui l’eterna attesa di promesse meravigliose porta a un’eterna disillusione? Cosa è rimasto dell’atmosfera messianica che circondò la campagna elettorale di Barack Obama, fino ad arrivare al video che diffondeva su youtube la canzone intonata da Will.i.am dei Black Eyed Peas e ispirata dal discorso ‘Yes We Can’?
Forse chi crede nelle promesse è anche qualcuno che promette troppo a se stesso. Come nelle relazioni patologiche in cui il ruolo è il rovesciamento del ruolo speculare dell’altro. Come accade nel caso classico dei ruoli di abusato e abusante, descritto in alcuni disturbi di personalità, in cui persone che sono state vittime di maltrattamenti tentano di raggiungere una transitoria tranquillità rispetto al timore di essere oggetto di violenza o sopraffazione esercitando sugli altri una violenza preventiva.

Oppure immaginiamo una persona, un elettore, che percepisce tendenzialmente se stesso come qualcuno cui è stata promessa una palingenesi o almeno un qualche cambiamento sostanziale nella sua vita e vede l’altro, il politico, come colui che ha promesso questa palingenesi, o questo possibile cambiamento. Forse alla base di queste aspettative redentive di molti elettori, aspettative che si rinnovano periodicamente all’ emergere di nuove figure politiche, vi è una memoria dolorosa d’insoddisfazione o di esclusione. Ed ecco che la psicologia ci suggerisce che chi davvero promette un cambiamento profondo non è tanto il politico, l’aspirante eletto ma l’elettore stesso, desideroso di trovare nella politica un compenso alle sue insoddisfazioni. È quindi l’elettore stesso che ha fatto a se stesso una promessa che non è in grado di mantenere.

Questa però suona un po’ troppo come il classico parere dello psicologo, che va a dire al paziente che egli stesso contribuisce a causare i problemi di cui soffre. E questo genera colpevolizzazione, perché è come dire al paziente: “Te la vai a cercare”, facendo sentire il paziente giudicato (https://www.stateofmind.it/2012/05/dimaggio-intervista-tmi-cicli-interpersonali/). Interventi del genere frequentemente generano un potenziamento dell’immagine negativa di sé, che a sua volta può generare depressione o ostilità. Lo psicologo viene così percepito come un giudice critico, dominante, ostile.

Che fare, allora? Seguiamo Giancarlo Dimaggio, psicoterapista che si è occupato di come rendere le persone consapevoli dei loro schemi senza colpevolizzarle, e vediamo se la sua saggezza è applicabile a noi che cadiamo vittime di eterne promesse, elettorali e non. Dimaggio raccomanda di partire non dalla colpevolizzazione, ma dall’accesso al desiderio: “Lei desidera realizzare quello e si aspetta che gli altri reagiscano così e a causa di questo tende a cadere. La terapia tenta di darle una luce nuova nella vita”. Questo già di suo dà speranza, è progettuale e genera un’attitudine positiva (https://www.stateofmind.it/2012/05/dimaggio-intervista-tmi-cicli-interpersonali/).

Cosa desidera realizzare l’elettore votando? Che si realizzino i suoi sogni. Il che è buono e giusto. Occorre però che si sia coscienti di questo enorme investimento personale su una persona che, pur sembrandoci sincera e intima come Obama sapeva esserlo mentre pronunciava il suo celebre discorso, in realtà nulla sa di noi ed è costretto da noi stessi a non essere del tutto sincero, a non dirci francamente c’è poco da promettere e ancor meno da sperare e quello che si può realizzare sarà sempre molto meno di quanto atteso. Nessuno lo voterebbe. Quegli stessi elettori pronti a indignarsi davanti alle promesse non mantenute, presumibilmente non voterebbero un politico che facesse solo promesse certamente realizzabili, ovvero minimali.

Che si fa allora? Ci si rassegna a questo gioco delle parti, a questa doppia menzogna? Forse si. Però possiamo iniziare a vivere tutto questo con maggiore consapevolezza, con leggerezza più distaccata, non cadere vittime né dell’entusiasmo facile delle promesse e nemmeno della sterile saggezza di chi non sa dare fiducia negli altri.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Report sul workshop: Schema Therapy sui problemi della sfera sessuale

Simona Giuri, Filippo Tinelli

Ciò che a parere degli autori la Schema Therapy può aggiungere alle altre forme di terapia sessuologica, è l’ovviare ai vissuti di vergogna e di colpa che le persone con difficoltà sessuologiche incontrano sia nella richiesta di aiuto sia nell’ aderenza a forme di terapia che per esempio chiedono una esposizione e una esplorazione su aspetti che per lungo tempo hanno tentato di evitare, di controllare, di autogestire.

Si è tenuto a Parma, 28 e 29 Marzo, il Workshop in Schema Therapy sui Problemi della sfera sessuale organizzato dal Direttore dell’Istituto di Scienze Cognitive, Alessandro Carmelita e condotto dal Dott. Eshkol Rafaeli, professore associato e direttore del programma clinico per adulti del Dipartimento di psicologia dell’Università Bar-llan (Tel Aviv), cofondatore dell’Istituto israeliano di Schema Therapy, capo del laboratorio di ricerca su “Affetto e relazioni” presso il Dipartimento di psicologia e il Centro di Neuroscienze dell’Università di Bar-llan; e dal Dr. Offer Maurer, psicologo clinico, direttore e fondatore di una Scuola di psicoterapia e cofondatore dell’istituto israeliano di Schema Therapy, membro del Consiglio dell’associazione israeliana di psicoanalisi e psicoterapia relazionale, direttore fondatore di un istituto di psicoterapia gay friendly.

Il primo giorno è iniziato con una introduzione sui concetti principali di Schema Therapy,  Bisogni, Schemi maladattivi precoci, Stili di Coping e il concetto di Schema Mode al quale si è dedicato maggiore spazio, essendo in ST la parte del paziente che noi riusciamo a vedere in terapia, contiene in sé lo schema e lo stile di coping che ci permette di caratterizzare in un determinato momento la persona e a riconoscere quando questa passa da un mode all’altro, ed è nella capacità del terapeuta di riconoscere questi spostamenti e permettere un intervento terapeutico. Sono stati illustrati i principali schema mode, bambino vunerabile, genitore interiorizzato, mode di coping e mode adulto sano e le diverse strategie terapeutiche che si utilizzano nell’intervento terapeutico.

Dopo questa breve carrellata, probabilmente più semplice per i già addetti ai lavori, si entra nel vivo degli obiettivi del workshop, ovvero viene proposta la concettualizzazione dei problemi sessuali nel quadro del modello della Schema Therapy.
Tre sono i modi principali che possono poi potenzialmente sostenere in età adulta difficoltà nella sfera sessuale:
Dinamiche “secondarie” alla sessualità, in quanto non connesse direttamente alla soddisfazione dei bisogni della sfera sessuale, ma in cui la non soddisfazione dei bisogni primari più generali, quali la giocosità, la libertà di espressione, possono portare allo sviluppo di schemi e mode che incidono nei diversi ambiti, compresa la sessualità, dove per es, la difficoltà di prendere contatto con i propri desideri e i propri bisogni si potrebbe riflettere nelle difficoltà del desiderio sessuale;
Dinamiche primarie alla sfera sessuale, per cui i problemi sessuologici hanno a che fare con difficoltà principalmente connesse alla sessualità e a tal proposito è stato proposto il concetto di “bisogni fondamentali nascenti relativi al sé sessuale”;
Dinamiche da abuso/trauma sessuale, in riferimento alle difficoltà sessuologiche scaturite da eventi traumatici di natura sessuale e, in linea con la letteratura sul trauma, gli autori riferiscono come inizialmente ci si dovrebbe concentrare sulle dinamiche di tipo secondario e poi in un secondo momento considerarli e trattarli come dinamiche primarie, questo perché probabilmente nell’ ambiente familiare molti altri sono i bisogni primari che non sono stati soddisfatti.

Nel corso del week end ci si addentra gradualmente e praticamente in quelle che sono le implicazioni cliniche di questo modello attraverso la dimostrazione con simulate e role-playing che i due autori abilmente utilizzano, stimolati dai contributi e dalle domande dei partecipanti.

Ci si è concentrati sulla Disfunzione erettile e sull’ Eiaculazione precoce, attraverso la presentazione di casi clinici, la loro concettualizzazione, prima individuale e poi di coppia, che visivamente consente sia al clinico che alle persone coinvolte di vedere come le diverse parti di sé emergono, si intrecciano, si influenzano e hanno contribuito al concretizzarsi delle problematiche sessuologiche attuali, e come, da un gomitolo intrecciato, possa prendere forma una coerenza e un filo continuo che abilmente trattato con strategie esperienziali ad hoc nei punti aggrovigliati, si scioglie e prende forma, modificandosi.

Ciò che a parere degli autori la Schema Therapy può aggiungere alle altre forme di terapia sessuologica, è l’ovviare ai vissuti di vergogna e di colpa che le persone con difficoltà sessuologiche incontrano sia nella richiesta di aiuto sia nell’aderenza a forme di terapia che per esempio chiedono una esposizione e una esplorazione su aspetti che per lungo tempo hanno tentato di evitare, di controllare, di autogestire.

E’ spesso necessario “aggirare” la resistenza iniziale ponendo in risalto il valore della terapia per il partner e la qualità della relazione.

Personalmente ho trovato stimolante il concetto di Bisogni fondamentali nascenti relativi alle sessualità, costrutto, come dagli stessi autori definito, ancora in evoluzione e che vuole canalizzare in sé tutta una lista in costruzione di bisogni legati alla sfera sessuale che si hanno nell’infanzia e nell’adolescenza e che, se adeguatamente soddisfatti, possono proteggere da eventuali difficoltà sessuologiche nonché permettere di godere di una buona sessualità nel corso della propria vita.

Particolarmente interessante è stato veder applicare alcune delle tecniche esperienziali della Schema Therapy, imagery rescripting, role play storico e chair work, per il superamento delle problematiche relative alla sfera sessuale. Il workshop si conclude con una suggestione particolarmente interessante ed utile alla comprensione di disturbi della sessualità estremamente complessi: a diverse parti della personalità corrispondono diversi stili sessuali, che nelle personalità meno integrate, possono presentare grandissime differenze e discontinuità.

Preziose le riflessioni emerse nel corso del workshop che i docenti hanno reso estremamente coinvolgente lasciando ampio spazio a domande e curiosità, soprattutto sulla concreta modalità di soddisfare i bisogni nascenti relativi alla sessualità, normalizzando e validando esperienze di quotidiana interazione con i piccoli, lasciando spazio a momenti di leggerezza: dalla buona risoluzione del complesso di Edipo, cioè quando il piccolo, vincitore e perdente allo stesso tempo pensa della sua mamma “anche lei lo desidera, ma questo non accadrà mai perché sta con papà e io troverò qualcun’altra che somiglierà alla mamma”, fino alla magra consolazione per i partecipanti puntuali, che dati di ricerca, dimostrerebbero che chi si sveglia al mattino presto ha una vita sessuale più soddisfacente.

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Schema Therapy: intervista ad Alessandro Carmelita

La creatività secondo la teoria sistemica di Csikszentmihalyi: il ruolo del dominio e dell’area di specialità

 

Il modello sistemico di Csikszentmihalyi vede la creatività come un evento culturale, sociale e psicologico nello stesso tempo. Essendo convinto, all’inizio del suo percorso scientifico, che la creatività sia un processo esclusivamente intrapsichico, Csikszentmihalyi si rende conto, in seguito alle sue ricerche e a quelle di altri studiosi come Morris Stein e Dean Simonton, dell’importanza delle variabili esterne nello studio della creatività.

Le variabili esterne, che costituiscono l’ambiente, si costituiscono in due aspetti principali: uno simbolico o culturale, chiamato dominio, e uno sociale, chiamato area di specialità. La creatività è un fenomeno che risulta dall’interazione tra la persona, il dominio e l’area di specialità.

Il ruolo del dominio

Il dominio consiste in un set di regole simboliche e procedure (Csikszentmihalyi ,2005, 247) specifiche, che conserva e trasmette il patrimonio di conoscenze. Il dominio è una categoria importante per la creatività, in quanto la novità che essa porta può aver senso soltanto in riferimento a qualcosa che già esiste, l’originalità dovendosi rapportare al tradizionale. Un dominio, come per esempio la matematica, la pittura, la musica, trasmette in continuazione informazioni alla persona, mentre la persona che manifesta creatività provoca un cambiamento in un particolare dominio o lo trasforma in uno nuovo che rimarrà nel tempo.

Alcune persone hanno più opportunità delle altre di produrre dei cambiamenti nei dominii, sia per le qualità personali, sia perché si trovano in una posizione favorevole rispetto a certi dominii, posizione che può essere data da un maggiore accesso o da una posizione sociale che permette di impiegare più tempo di sperimentazione. Per esempio, molte delle scoperte scientifiche di una volta sono state fatte da persone che avevano sia i mezzi, che il tempo necessari, così come alcuni preti (Copernico), precettori (Lavoisier), medici (Galvani). Al contrario, una persona non può essere creativa in un dominio a cui non è esposta: per quanto un bambino possa avere delle doti in matematica, egli non potrà contribuire con qualcosa di nuovo alla matematica senza sapere le sue regole (Csikszentmihalyi ,2005, 250).

L’insieme dei dominii fanno parte di ciò che noi chiamiamo cultura, ovvero il sapere di una società o dell’intera umanità. Tra i primi dominii possiamo nominare quelli del linguaggio, dell’arte, della musica, della religione.

L’interazione tra il dominio e le persone nell’ambito della creatività consiste nel fatto che le persone creative introducono sempre un cambiamento nel dominio, e il cambiamento influisce sui modi di pensare, agire o essere dei membri di quella cultura.

Il cambiamento che non influisce sui pensieri, sentimenti e i modi di agire non è un cambiamento creativo. Dawkins (cit. in Csikszentmihalyi, 2005, 250) fa un’analogia tra l’evoluzione biologica e la creatività, ossia tra il modo di trasmissione del materiale genetico tramite il gene e quello del patrimonio culturale, tramite quello che lui chiama meme. A differenza del gene, che trasmette le informazioni geneticamente, i memi di un dominio sono trasmessi intenzionalmente e imparati. Il meme (tipi di conoscenza, stili dell’arte, sistemi di credenze, ecc.) è un’ unità di informazione culturale di una comunità i cui membri hanno generalmente lo stesso modo di pensare, fare ed essere, imparati gli uni dagli altri e riprodotti senza modificarli.

Quando si produce un cambiamento invece abbiamo a che fare con la creatività. I memi si sono modificati molto lentamente durante la storia. Per esempio, per modificare l’utensile di pietra apparso nell’epoca di pietra ci è voluto un milione di anni. Alcuni aspetti della cultura possono influire sulla modificazione e l’apparizione di nuovi memi: il modo immagazzinare le informazioni, l’accessibilità alle informazioni, il grado di differenziazione dei dominii, il grado di integrazione della cultura, l’apertura.

Se le informazioni sono immagazzinate in un modo rigoroso e durevole, le persone sono facilitate nell’assimilazione del sapere e, di conseguenza, si possono trovare in una situazione favorevole rispetto all’innovazione. L’accessibilità all’informazione invece determina la cerchia delle persone che possono partecipare ai processi creativi: nel Medioevo, per esempio, il clero ha limitato l’accesso delle masse alle conoscenze religiose, così come la richiesta di conoscere il latino e il greco hanno limitato l’accesso del popolo all’educazione superiore. Per quanto riguarda il grado di differenziazione dei dominii, possiamo dire che la specializzazione delle informazioni porta chiarezza e i progressi possono essere più probabili. L’integrazione della cultura invece comporta la difficoltà dell’accettazione di una novità di un certo dominio, in quanto implicherebbe la modificazione dell’intera cultura. Ma una volta accettata, questa novità porta cambiamento in tutta la cultura.

Infine, l’apertura di una cultura alle informazioni di un’altra fa crescere la possibilità di innovazione. Infatti, i nuovi memi appaiono più frequentemente nelle culture che sono esposte a idee e credenze diverse, spesso per la fortuna di una posizione geografica strategica o per ragioni economiche. E’ quello che è successo con i commercianti greci che hanno raccolto informazioni dall’Egitto, dall’Oriente, dal nord dell’Africa, Persia e Scandinavia, per poi elaborarle nelle loro città stato. E’ anche l’esempio di Firenze e Venezia, che nel periodo del Rinascimento erano centri di produzione e commercio.

Spostando l’attenzione dalla cultura al dominio, possiamo valutare anche l’influenza di alcune caratteristiche del dominio sulla creatività, come per esempio il sistema di codificazione, l’integrazione delle informazioni del dominio, l’importanza del dominio per la cultura, l’accessibilità del dominio, il grado di autonomia del dominio rispetto alla cultura. Di solito, un dominio sviluppa i propri memi e i propri sistemi di codifica, che, per quanto sono chiari, per tanto sono assimilabili e quindi possono costituirsi base e strumenti per la creatività.

Rispetto al grado di organizzazione delle informazioni, un dominio con un sistema simbolico debole e diffuso si troverà nell’impossibilità di stabilire se una novità porta o meno dei miglioramenti, così come è capitato nel dominio della chimica prima dell’adozione della tabella di Mendeleev. Al contrario, un sistema può essere talmente organizzato che diventa rigido e rende impossibile ogni innovazione, come nel caso della fisica pre-quantistica. L’importanza di un dominio per una cultura varia nel tempo, in funzione di alcuni fattori, come per esempio le opportunità di realizzazione professionale ed economica, le prospettive per il futuro, ecc. Il dominio soprastante attrae gran parte dell’interesse dell’elite, aumentando così le possibilità di manifestazione della creatività. Come esempio possiamo portare il dominio dell’arte nel periodo del rinascimento, la fisica quantistica all’inizio del ventesimo secolo.

Anche l’accessibilità delle informazioni di un dominio può stimolare la creatività, essendo conferma in questo senso gli effetti che ha avuto l’introduzione della stampa o dell’internet, in tempi più recenti. Un’ altra caratteristica del dominio che influisce sulla creatività è la sua autonomia rispetto ad altri. Quando essa viene a mancare, il dominio più importante di quel momento li può bloccare o limitare l’estensione e la possibilità di sviluppo, come è successo per il dominio dell’astronomia nei casi di Galilei e Giordano Bruno, quando il dominio imperante era la religione che voleva proteggere le sue verità. Un altro esempio in questo senso può essere il dominio politico marxista nell’Unione Sovietica, che respingeva l’emergere di idee di altri dominii che entravano in conflitto con le proprie (Csikszentmihalyi, 2005, 254-255).

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Il ruolo dell’area di specialità

L’area di specialità è composta da specialisti di un certo dominio che hanno il compito di selezionare e valutare le performance delle persone, in vista dell’inclusione o meno delle loro creazioni in uno specifico dominio. L’area di specialità si riferisce all’organizzazione sociale di un certo dominio, come per esempio i professori, i critici d’arte, i custodi dei musei, ecc. Così come un dominio è necessario perché una persona possa portare novità, un’area di specialità è necessaria per deliberare quale di queste novità merita di essere introdotta nei dominii, quindi nella cultura. Tra i memi esiste una concorrenza simile a quella che esiste tra i geni. Per sopravvivere, le culture devono eliminare gran parte delle nuove idee che i suoi membri producono, non potendo assimilare tutte le novità senza dissolversi nel caos. L’individuo, per il limite di attenzione, non può seguire tutte le novità, ma solo una parte di loro. Nello stesso tempo, la cultura non può sopravvivere a lungo se non quando gran parte dei suoi membri presta attenzione ad almeno alcune stesse cose. Da qua l’esigenza di selezione e l’importanza delle diverse aree di specialità che agiscono da filtri, aiutandoci a scegliere quelle nuovi memi che meritano la nostra attenzione.

La società come insieme di aree di specialità

Nella prospettiva sistemica, l’insieme delle aree di specialità legate tra di loro, e quindi degli individui che hanno il potere di modificare i dominii, costituiscono la società. Esistono diverse condizioni della società che sono rilevanti per la creatività, in termini di stimolazione o inibizione: la ricchezza della società, l’interesse per le nuove idee, l’organizzazione sociale ed economica, la mobilità e le situazioni conflittuali, la complessità della società.

Di solito, le società sviluppate hanno più possibilità di incoraggiare la creatività, in quanto possono aumentare l’accessibilità alle informazioni, possono offrire alle persone una formazione più specializzata, hanno i mezzi per costruire università e laboratori e per ricompensare gli sforzi creativi, nonché per mettere in pratica le nuove idee. Nelle società in cui invece l’intera energia fisica ed intellettuale viene investita in attività legate alla sopravvivenza, esistono meno probabilità perché le innovazioni siano stimolate, prese in considerazione e riconosciute. Nonostante ciò, sembra che esista una distanza tra la ricchezza e l’attuazione della creatività, dovuta al fatto che prima di tutto la ricchezza viene investita in opere sociali e di infrastruttura (trasporto, industria, ecc.) e solo dopo nello sviluppo dei dominii di altro tipo (telefonia, servizi), come testimonia la situazione degli Stati Uniti del diciannovesimo secolo.

Un altro modo in cui la società influisce sulla creatività è legato al suo essere proattiva o reattiva alle novità. A differenza di una società proattiva, quella reattiva non sollecita e non stimola la creatività, come è successo nell’Egitto, quando, in seguito a realizzazioni spettacolari raggiunte nell’arte, architettura, religione e tecnologia, si è deciso di non cambiare più niente, venendo riconosciuta soltanto la precisione dell’esecuzione, ma non l’originalità.

Anche il tipo di organizzazione della società ha un ruolo importante per la creatività, in termini di apertura o meno al cambiamento.

Le società strutturate in maniera stabile, le società ugualitarie e quelle in cui l’autorità centrale tende all’assolutismo hanno pochi interessi per il cambiamento, per il fatto che la novità viene vista come minaccia per lo stato attuale delle cose. Le aristocrazie e le oligarchie possono favorire la creatività più che le democrazie o i regimi socialisti, per il motivo che, quando il potere e la ricchezza sono concentrate nelle mani di pochi, è più facile destinare parte di essi per sperimenti rischiosi o non necessari.

La mobilità, le minacce esterne e i conflitti interni di una società influenzano in modo positivo la creatività. La mobilità permette l’accesso e l’uso di diverse idee delle diverse culture, motivo per il quale tante opere d’arte o scoperte scientifiche sono nate in città che erano grandi centri commerciali, come per esempio Firenze, Napoli, Venezia, durante il Rinascimento. Anche la disintegrazione interna sembra avere come effetto un incoraggiamento della creatività, probabilmente per il fatto che gli interessi delle classe di solito separate arrivano a sostenersi reciprocamente. Le minacce esterne invece le consideriamo in termini di concorenza tra diverse società in diversi dominii, quando ognuna vuole superare le altre.

La complessità di una società si misura anche in funzione del grado di assimilazione della novità, che a sua volta dipende dalla specializzazione e dall’uniformità. Le condizioni ideali della creatività sono legate alla forte differenziazione dei dominii, insieme però ad una unità organica.

L’area di specialità

Le aree di specialità possono variare come grandezza in funzione del tipo di dominio e del suo grado di specializzazione. Esistono aree di specialità composte da poche persone, come è il caso del dominio delle lingue e letterature assire, oppure del dominio della biologia molecolare. Al contrario, possono esistere aree di specialità formate da mille specialisti, come nel dominio dell’ingegneria elettronica, altre che si confondono con la società, come può essere quello della musica leggera. Le aree de specialità hanno un ruolo decisivo nel selezionare e introdurre nei dominii i prodotti creativi. Ci sono diversi aspetti che contribuiscono alla probabilità di accettazione o rifiuto delle novità da parte dell’area di specialità: il rapporto con le risorse, il rapporto con le altre aree di specialità, la flessibilità.

Un’area di specialità, per attirare persone verso il proprio dominio, deve essere in grado di ottenere risorse dalla società, in modo da poter offrire ricompense economiche o legate alla posizione sociale. Infatti, non a caso, durante la storia, la creatività nell’arte e nelle scienze si è sviluppata in società che avevano fondi da investire in quei dominii: le opere di Firenze sono state fatte con il contributo dei banchieri di tutta l’Europa, così come Leonardo da Vinci si è spostato in diverse parti del mondo in funzione del cambiamento del mercato. Alcune aree di specialità attirano nuovi talenti per la posizione importante dei suoi valori nella società, come succede nei giorni d’oggi con l’ecologia o l’informatica.

Quando un’area di specialità è dipendente da considerazioni politiche, religiose o economiche, i criteri di scelta dei memi vengono alterati da esse, e si corre il rischio di escludere dai rispettivi dominii opere di grande valore. La storia non manca di casi in cui opere artistiche sono state rifiutate perché non soddisfacevano canoni religiosi, oppure situazioni in cui opere letterarie e scientifiche sono state annullate per non essere state in concordanza con le ideologie politiche. All’altro estremo, la totale indipendenza di un area di specialità dal resto della società riduce la sua efficienza (Roco, 2004, 27).

La flessibilità dell’area di specialità è un altro fattore importante nella scelta dei prodotti creativi. Le strategie estreme di conservatorismo totale o accettazione della qualsiasi sono dannose, la prima perché fa mancare al dominio la novità, diventando statico, la seconda perché troppe novità sono difficile da metabolizzare e il dominio si destabilizza.

FINE PRIMA PARTE – LEGGI LA SECONDA PARTE

 

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Il rapporto tra Creatività ed Emozioni

BIBLIOGRAFIA:

  • Csikszentmihalyi, M. (1996). Creativity. Flow and the psychology of discovery and Invention. HarperCollins: NY
  • Csikszentmihalyi, M.(2005). Implicatiile unei perspective sistemice in studierea creativitatii, in Sternberg, R. (Ed.) (2005). Manual de creativitate. Polirom: Iasi, pp. 247-273.
  • Roco, M.(2004). Creativitate si inteligenta emotionala. Polirom: Iasi.

EXTRA: Mihaly Csikszentmihalyi: Il segreto della felicità (VIDEO Sottotitoli in Italiano)

La sindrome da Negligenza Spaziale Unilaterale – Definizione Psicopedia

Il Neglect è una sindrome neuropsicologica caratterizzata dall’incapacità da parte del paziente di percepire o prestare attenzione a oggetti, persone, rappresentazioni, collocati in un emicampo visivo (solitamente controlaterale alla lesione), e di agire in quel lato dello spazio (Robertson, 1999).

[blockquote style=”1″]Essa ha completamente perduto l’idea di “sinistra”, per quanto riguarda sia il mondo esterno sia il proprio corpo. Talvolta si lamenta che le sue porzioni sono troppo piccole, ma il fatto è che mangia solo quello che è a destra del piatto, non le viene in mente che il piatto abbia anche una sinistra […] non ha la minima consapevolezza di sbagliarsi. Lo sa intellettualmente, è in grado di capire e ride; ma le è impossibile saperlo direttamente [/blockquote]

(Oliver Sacks)

Il Neglect è una sindrome neuropsicologica caratterizzata dall’incapacità da parte del paziente di percepire o prestare attenzione a oggetti, persone, rappresentazioni, collocati in un emicampo visivo (solitamente controlaterale alla lesione), e di agire in quel lato dello spazio (Robertson, 1999). Nonostante spesso si associ a emianopsia, emianestesia o emiparesi, la sindrome non dipende da deficit sensoriali o motori.

Non è un fenomeno univoco, può coinvolgere diverse modalità sensoriali e rappresentazionali: parliamo per esempio di neglect personale, extrapersonale e peripersonale (la dissociazione tra questi diversi tipi di neglect è ben spiegata dalla Teoria delle rappresentazioni neurali di Rizzolatti; Rizzolatti & Berti, 1990). Possono inoltre essere presenti dissociazioni anche importanti come pazienti che mostrano neglect ai test di barrage ma copiano una figura perfettamente. Tipicamente può presentarsi a seguito di un ictus o di un trauma cranico; nella maggior parte dei casi il lato che viene “negato” è quello sinistro a seguito di un evento cerebrale occorso nell’emisfero destro. Il neglect può presentarsi anche a seguito di lesioni a sinistra ma diversi studi e review hanno mostrato come questi casi siano meno frequenti e meno gravi; inoltre questi pazienti sono più difficili da valutare a causa dell’afasia (Robertson & Marshall, 1993). La condizione di negligenza varia lungo un gradiente temporale che va da pochi giorni a periodi prolungati.

Spesso i pazienti con neglect presentano anosognosia per il proprio deficit: credono che la loro rappresentazione e percezione dell’ambiente sia assolutamente normale. Per questo motivo alla sintomatologia si aggiunge anche una componente di negazione che rende quindi più difficoltoso l’intervento e la relazione con il paziente. Altri sintomi che possono trovarsi associati sono la somatoparafrenia, la misoplegia (avversione contro la parte del corpo lesa) e l’anosodiaforia (disinteresse per le conseguenze del deficit).

Come si valuta la presenza del neglect? Prima di tutto è fondamentale l’osservazione del paziente nel corso delle sue attività quotidiane. A questa vanno ad aggiungersi diverse prove standardizzate (diverse proprio perché sono frequenti le dissociazioni). La valutazione neuropsicologica del neglect può essere resa difficile dalla presenza di ulteriori difficoltà come la disprassia, l’atassia ottica e un disorientamento topografico. Inoltre c’è da sottolineare che il neglect può essere anche “compito-specifico” nel senso che un paziente può mostrare emi-inattenzione per quanto riguarda compiti di disegno ma nessuna difficoltà nella lettura e nella scrittura (Costello & Warrington, 1987).

Per il neglect peripersonale vengono utilizzati test di barrage (per esempio il test delle campanelle), test di copia di figure e di bisezione di linee. Questi compiti implicano sia competenze visive e attentive che motorie; aiutano inoltre a distinguere pazienti con neglect da pazienti emianoptici che al contrario dei primi compensano il loro deficit con movimenti del capo e del corpo. Nel valutarli bisogna considerare il tipo e la localizzazione degli errori, l’accuratezza, le modalità di esplorazione, l’eventuale presenza di perseverazione e la velocità. Altri test come la descrizione di immagini oppure il conteggio di target non implicano invece componenti motorie.

Il neglect rappresentazionale può essere indagato tramite compiti di disegno spontaneo o su comando verbale. Pazienti con neglect tenderanno a confinare il loro disegno nella parte destra del foglio disegnando perfettamente tutto ciò che è rappresentato a destra e omettendo o riportando grossolanamente la parte sinistra; tale comportamento si può osservare sia nei compiti di copiatura di un disegno sia quando viene chiesto di produrre un disegno dalla memoria, facendo quindi riferimento a proprie rappresentazioni. La valutazione del neglect personale passa invece da compiti non standardizzati come il test di Bisiach in cui viene chiesto al paziente di toccare con la mano ipsilaterale alla lesione il braccio collocato nello spazio che “neglige” oppure chiedendo al paziente di svolgere alcune attività tipiche del quotidiano.

Per quanto riguarda le basi neuroanatomiche del neglect, sono state chiamate in causa singole aree dell’emisfero destro (lobo parietale inferiore, lobo frontale e giro temporale superiore) ma si è parlato anche della possibilità di una “sindrome da disconnessione” per cui verrebbe a mancare l’interazione di diversi distretti cerebrali funzionalmente collegati tra loro (Halligan et al., 2003; Bartolomeo et al., 2007). Tra le diverse teorie patogenetiche possiamo fare riferimento a quelle di tipo attenzionale e a quelle rappresentazionali. Tra le prime rientra l’ipotesi attenzionale di Kinsbourne (1970) secondo il quale il neglect deriverebbe da un iperorientamento dell’attenzione verso sinistra. Questo perché l’attenzione sarebbe mediata da due vettori, uno di destra più potente e uno di sinistra più debole; lesioni a sinistra non porterebbero grandi squilibri, cosa che invece avverrebbe nelle lesioni parietali a destra. Secondo Posner invece il neglect dipenderebbe da un’incapacità di sganciare l’attenzione dall’emicampo ipsilesionale per spostarla a quello controlesionale a causa di un danno al lobo parietale.

Tuttavia la sola componente attentiva non spiega come mai fenomeni di neglect si possano verificare anche solo chiedendo al paziente di rappresentare nella propria mente una scena o un’immagine (ormai famoso il caso dei pazienti con neglect a cui venne chiesto di immaginare piazza Duomo a Milano e descriverla: dopo la prima descrizione che comprendeva soltanto il lato sinistro, ai pazienti venne chiesto di immaginare la piazza dalla prospettiva opposta. In questo modo, descrivendo sempre la parte sinistra della piazza, in realtà riportarono quella che nella descrizione precedente sarebbe stata la metà destra; Bisiach & Luzzatti, 1978). Appare dunque necessario integrare le componenti attentive con quelle rappresentazionali.

TRATTAMENTO E RIABILITAZIONE

STIMOLAZIONE SENSORIALE: la più utilizzata è la stimolazione calorica vestibolare (CVS) che consiste nella stimolazione delle afferenze vestibolari al cervello tramite l’immissione di acqua fredda nell’orecchio sinistro.

LENTI PRISMATICHE: utilizzate per correggere la dismetria. Attraverso queste lenti il sistema motorio di adatta a quella che è la nuova visione lungo il piano orizzontale.

EYE – PATCHING: consiste in una forma di bendaggio monoculare o binoculare con l’obiettivo di potenziare l’emisfero lesionato aumentando i movimenti oculari diretti verso l’emicampo visivo sinistro inibendo l’attività del collicolo superiore controlesionale (Teoria “Sprague effect”, Beis et al., 1999). La tecnica si basa sul fenomeno del “learned non-use” (l’inattività genera una sostenuta incapacità di recuperare una funzione accompagnata da una riorganizzazione corticale, impedendo quindi il recupero in sé della funzione; Taub et al., 2006).

VISUAL SCANNING TRAINING: l’obiettivo è di ri-orientare la visione del paziente nell’emicampo “negato” mediante un programma di training basato su istruzioni esplicite nella credenza che i sistemi di linguaggio intatti possano favorire il recupero del controllo volontario (Luautè et al., 2006).

LIMB ACTIVATION: si basa sull’attivazione congiunta di mappe cerebrali spazio-motorie che incrementano la rappresentazione cosciente di specifici settori spaziali. Miglioramenti nei sintomi del neglect si possono avere quando il paziente compie un movimento volontario con l’arto controlesionale nello spazio controlesionale (Priftis et al., 2013). E’ stato creato un dispositivo apposito per questo tipo di riabilitazione (LAD – limb activation device; Robertson et al., 1998).

 

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Consapevolezza corporea: neglect, anosognosia e somatoparafrenia

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bartolomeo, P., Thiebaut de Schotten, M., and Doricchi, F. (2007). Left unilateral neglect as a disconnection syndrome. Cereb Cortex 17, 2479 – 2490.
  • Beis J., Andre J., Baumgarten A., Challier B. (1999). Eye patching in unilateral spatial neglect: efficacy of two methods. Arch. Phys. Med. Rehabil. 80, 71–76.
  • Bisiach, E. & Luzzatti, C. (1978). Unilateral neglect of representational space. Cortex ,14, 129-133.
  • Costello, A., & Warrington, E. K. (1987). The dissociation of visuospatial neglect and neglect dyslexia. Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry, 50, 1110 – 1116.
  • Halligan, P.W., Fink, G.R., Marshall, J.C., Vallar, G. (2003). Spatial cognition: evidence from visual neglect. Trends Cogn Sci,7(3), 125 – 133.
  • Kinsbourne, M. (1979). The cerebral basis of lateral asymmetries in attention. Acta Psychologica, 33, 193 -201.
  • Luautè, J. et al. (2006). Visuo-spatial neglect: A systematic review of current interventions. Neuroscience and biobehavioral reviews and their effectiveness
  • Priftis, K. et al. (2013). Visual Scanning Training, Limb Activation Treatment, and Prism Adaptation for Rehabilitating Left Neglect: Who is the Winner? Frontiers in Human Neuroscience, 7, 360.
  • Rizzolatti, G. & Berti, A. (1990). Neglect as a neural representation deficit. Review Neurologique, 146, 626 -634.
  • Robertson, I. H. & Marshall, J. C. eds (1993). Unilateral Neglect: Clinical and experimental Studies.
  • Robertson, I. H., Hogg, K., Mac Millan, T.M. (1998). Rehabilitation of unilateral neglect: improving function by contralesional limb activation. Neuropsychological Rehabilitation 8, 19–29.
  • Robertson, I. H. & Hawkins, K. (1999). Limb activation and unilateral neglect. Neurocase, 5, 153 – 160.
    Sacks, O. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. (1985). Gli Adelphi.
  • Taub, E., Uswatte, G., Mark, V.W., Morris D.M. (2006). The learned nonuse phenomenon: implications for rehabilitation. Eura. Medicophys. 42, 241–256

Le conseguenze sociali della disuguaglianza digitale

FLASH NEWS

Gli autori mostrano come le disuguaglianze nella vita digitale possano influire sui fattori come la ricerca del lavoro, gli acquisti, l’imprenditorialità, l’accesso all’ assistenza sanitaria, gli apprendimenti, la socializzazione e le risposte ai sondaggi politici e di consumo.

Il team internazionale di studiosi che si occupano della presente ricerca ritiene che le disuguaglianze digitali, in senso lato, in termini di uso di Internet da parte delle persone, le loro competenze digitali e la percezione di sé online sono legate ad alcuni fattori sociali come la razza, il rango e il genere.

Michael J. Stern dell’ Università di Chicago sostiene che è sempre più chiaro che i rapporti digitali degli individui e il capitale digitale giocano un ruolo chiave nella realizzazione personale, nel raggiungimento di successi accademici, lavorativi e imprenditoriali e nel mantenimento di un buono stato di salute. Quelli che sono più coinvolti nella vita digitale e mediano la loro vita sociale attraverso il web, ottengono vantaggi maggiori rispetto a coloro che non partecipano attivamente a una vita sociale digitale.

Esiste una forma di esclusione digitale che sta aumentando notevolmente. Gli autori della ricerca infatti affermano che internet occupa sempre più spazio nella vita quotidiana per cui le forme di svantaggio sociale sono in via di cambiamento. Secondo gli autori coloro che non sono connessi e che non sono sicuri di sé online tendono ad avere una vita più difficile.

Nel corso dell’articolo, gli autori mostrano come le disuguaglianze nella vita digitale possono influire sui fattori come la ricerca del lavoro , gli acquisti, l’imprenditorialità, l’accesso all’assistenza sanitaria, gli apprendimenti, la socializzazione e le risposte ai sondaggi politici e di consumo.

È chiaro che non essere parte della vita digitale può avere effetti significativi sul corso della propria vita. Questo articolo è quindi una lettura essenziale per chiunque sia interessato a ridurre le disuguaglianze nella nostra società, tra cui i politici, sociologi e coloro che si candideranno per le prossime elezioni.

 

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L’utilizzo delle nuove tecnologie nel trattamento del disturbo mentale

 

BIBLIOGRAFIA:

Terapia Cognitivo-Comportamentale nella Fibromialgia: quale focus per un intervento?

Anna Finocchietti

La Fibromialgia, o sindrome Fibromialgica, è una malattia reumatica caratterizzata da un insieme di manifestazioni fisiche che procurano notevole sofferenza a chi ne è affetto. La ricerca ha evidenziato l’efficacia della Terapia Cognitivo-Comportamentale nel contribuire a migliorare molti aspetti connessi a questa patologia.

 

Leggi anche: Fibromialgia – Definizione, sintomi, cura

La Sindrome Fibromialgica (SF) è una malattia reumatica caratterizzata da un insieme di manifestazioni fisiche che procurano sofferenza a chi ne è affetto, pur in assenza di dati di laboratorio (come esami ematici, radiografie etc.) che mettano in evidenza specifiche anomalie. Ciò rende la malattia spesso di non facile diagnosi e procura alla persona che ne soffre sentimenti di inaiutabilità e incomprensione da parte di familiari e medici.

La sintomatologia prevalente, sulla cui base dagli anni novanta (Wolfe et all.,1990) viene effettuata dai reumatologi la diagnosi, è costituita da dolore muscolare cronico diffuso insieme a rigidità, ma molti altri sono i sintomi che si associano al dolore e che possono variare da individuo a individuo: disturbi del sonno, alterazioni cognitive quali attenzione e concentrazione, cefalea, parestesie, stanchezza cronica, disturbi gastro-intestinali. Inoltre diversi studi hanno rilevato una maggiore sintomatologia ansiosa e depressiva nei pazienti affetti da SF rispetto alla popolazione generale; tali sintomi sarebbero tali da mantenere ed alimentare la sintomatologia dolorosa, con conseguenti ricadute sulla qualità della vita dei fibromialgici.

Per comprendere quanto il dolore può compromettere la qualità della vita nella FM, ricordo che recentemente il dolore fibromialgico è tra i dolori cronici per i quali è prevista la prescrizione di cannabis.

LEGGI ANCHE: La Fibromialgia: un’esperienza di gruppo – Psicoterapia

 

Le cause che intervengono nell’insorgere della malattia sono molteplici, così come quelle che la mantengono (Il modello di riferimento è quello biopsicosociale di Engel). Anche le cure quindi prevedono interventi sia a livello farmacologico che non farmacologico (esercizi fisici, rilassamento, terapie psicologiche).

La ricerca ha evidenziato l’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale nel contribuire a migliorare molti aspetti connessi a questa patologia: il dolore riduce infatti la mobilità portando spesso all’evitamento di attività che possono, o si teme che possano, evocarlo o peggiorarlo; inoltre l’intensità del dolore può allarmare, mettere in ansia, alimentare credenze negative sul dolore (catastrofizzazione, helplessness). La TCC può pertanto essere efficace nel modificare le credenze disfunzionali così come nel ridurre la sintomatologia ansioso-depressiva.

Gli studi che riportano dati di efficacia della TCC nella SF hanno però protocolli di intervento molto eterogenei e difficilmente comparabili; al momento sembrano non esserci protocolli di intervento mirati su specifici aspetti che caratterizzano il profilo cognitivo dei pazienti fibromialgici, ciò in larga parte sembra dovuto al fatto che le indagini sui profili psicologici di questi pazienti si sono limitate ai disturbi psicologici presenti, come ansia e depressione, molto meno alle variabili cognitive in essi implicate.

Un gruppo di ricerca della Scuola Cognitiva di Firenze, partendo da questi dati, sta da alcuni anni lavorando alla definizione di un profilo cognitivo dei pazienti fibromialgici e sulla base di risultati preliminari sta iniziando esperienze di intervento terapeutico.

Un primo lavoro (Bonini S. et all.,2014) in cui 43 soggetti con fibromialgia sono stati messi a confronto con altrettanti soggetti sani, ha messo in evidenza maggiori livelli di ansia, alessitimia, credenze negative sul dolore e peggiore qualità della vita nei soggetti fibromialgici, insieme a punteggi più elevati nelle variabili rimuginio e bisogno di controllo.

Tra i dati a nostro avviso più interessanti c’è che la catastrofizzazione, insieme all’ansia di stato e di tratto, appaiono le variabili che maggiormente hanno influito sulla qualità della vita. La catastrofizzazione inoltre è risultata mediare anche la relazione tra ansia di tratto e qualità della vita.

Un secondo lavoro (Ricci A., et all.,2014a e 2014b) si è principalmente focalizzato sul ruolo del rimuginio e della ruminazione rabbiosa nella SF. In questa ricerca sono stati messi a confronto 3 gruppi: fibromialgici, soggetti con dolore cronico di altra natura (osteoporosi e artrosi) e soggetti sani (30 soggetti per ciascun gruppo).

I risultati, oltre a confermare dati già esistenti in letteratura e nella nostra precedente ricerca riguardo all’ansia, al rimuginio e alla depressione, hanno evidenziato un dato nuovo: i pazienti fibromialgici risultano riportare punteggi più alti degli altri due gruppi sia nel rimuginio ansioso che nella ruminazione rabbiosa. Un’ipotesi interpretativa di questo dato potrebbe essere che i fibromialgici utilizzino prevalentemente rimuginio e ruminazione come strategie di coping per la regolazione delle esperienze emotive. Questo potrebbe essere supportato dalla presenza di maggiore alessitimia, come evidenziato dalla letteratura e ritrovato nel nostro primo lavoro.

Ovviamente questi sono dati provvisori, che necessitano di ulteriori conferme e indagini, ma confortano la necessità di approfondire il profilo cognitivo dei pazienti affetti da Sindrome Fibromialgica al fine di poter meglio delineare protocolli di valutazione e scegliere i focus di intervento più significativi ed efficaci.

 

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Rimuginio e Ruminazione nella Sindrome Fibromialgica – Assisi 2013

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bonini, S., Continanza, M., Rigacci, C., Turano, M.T., Puliti, E.M., Finocchietti, A. (2014), Costrutti Cognitivi dell’Ansia e Sindrome Fibromialgica. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, 20 (2), 219-229
  • Ricci, A., Bonini, S., Continanza, M., Turano, M.T., Puliti, E.M., Finocchietti A., (2014a) La Sindrome Fibromialgica: il ruolo del rimuginio e della ruminazione rabbiosa. XVII Congresso Nazionale SITCC Marinai, Terapeuti e balene, Abstract book, 297-298
  • Ricci, A., Bonini, S., Continanza, M., Turano, M.T., Puliti, E.M., Finocchietti A., Bertolucci D., (2014 b) La Sindrome Fibromialgica: il ruolo delle variabili psicologiche Ansia, Depressione, Rimuginio e Ruminazione rabbiosa, 51° Congresso Nazionale SIR e 17° Congresso Nazionale CROI, Abstract book.
  • Wolfe, F., Smythe, H.A., Yunus, M.B., Bennet, R.M., Bombardier, C., Goldnberg, D.L., et al. (1990), The American College of Reumatology 1990 criteria for the classification Arthitris and Rheumatism, 33,160-172.

E’ davvero così minaccioso? – I Peanuts alleati nella vita e nella Psicoterapia – 01

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA

 01 – E’ DAVVERO COSI’ MINACCIOSO?

Cercare di prevedere le mosse del nostro ipotetico nemico è il tentativo che mettiamo in atto per prepararci all’arrivo di una minaccia, reale o immaginata, illudendoci di essere pronti a fronteggiarla. E’ quello che prova a fare il piccolo Charlie Brown che, cieco di fronte alla poca esperienza di Snoopy, percepisce l’avversario come strategico e dalla mente insidiosa. 

Charlie Brown - Peanuts - 1 Rimuginio

Per preparare il suo contrattacco Charlie Brown non è concentrato sulla sua strategia di gioco, ma mette in atto uno sforzo cognitivo stressante e privo di vantaggi, finalizzato a immaginare cosa possa esserci nella mente del suo avversario, dimenticando gli scopi della partita.

Questo è un esempio di come usiamo il rimuginio e di come sia poco utile per definire una strategia tesa al raggiungimento di un obiettivo.

Ricordiamo che Charlie Brown è un bambino ansioso, insicuro e già in altre strisce Schultz ha sottolineato i suoi tratti paranoci.

Secondo Semerari, il pensiero paranoico tende a leggere i segnali interpersonali in modo egocentrico, poiché manca uno sviluppo pieno della comprensione della mente dell’altro (Semerari, 2000).

In questa vignetta è evidente come la mente ci possa condurre a ipotizzare le intenzioni dell’altro in modo arbitrario, senza tener conto di dati oggettivi e impedendoci di assumere una posizione decentrata. Anche una mente sana può incappare in errori cognitivi di questo tipo, soprattutto in situazioni di stress o di competizione.

Con tutta probabilità l’inesperto Snoopy riuscirà a ottenere la vittoria.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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Correlati neurali della disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità: Effetto del trattamento ed eventi avversi infantili

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Correlati neurali della disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità: Effetto del trattamento ed eventi avversi infantili

Autrice: Benedetta Vai (Università Vita-Salute San Raffaele – Milano)

 

Abstract

Introduzione: Compromissioni nelle abilità di social cognition e di processing emotivo giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo e nel mantenimento del Disturbo Borderline di Personalità (DBP). Diversi studi hanno identificato una disregolazione dell’attività di aree frontali e limbiche durante compiti di social cognition in questo disturbo: un’iperattivazione dell’amigdala e un’ipoattivazione di aree frontali potrebbero rappresentare un correlato neurale del DBP, associato in particolare alla disregolazione emotiva. Sebbene un’alterata risposta funzionale di questo circuito possa identificare un possibile biomarker per il DBP, nessuno studio ha mai valutato, in termini di correlati neurali funzionali al processing emotivo,  le differenze tra questo disturbo e altri disturbi psichiatrici, nè l’effetto di un trattamento e di eventi avversi infantili (ACE – fattori spesso considerati nell’eziopatogenesi del disturbo) sulla risposta neurale. Questo studio ha quindi lo scopo di comparare le riposte funzionali durante un compito di processing implicito di emprimenti emozioni negative tra soggetti sani, pazienti affetti da DBP, disturbi bipolare e schizofrenia, e d’indagare l’effetto di ACE e di 6 mesi di psicoterapia e trattamento farmacologico con clozapina a bassi dosaggi sull’attività neurale di soggetti affetti da DBP. Metodi: Acquisizioni fMRI a 3.0 Tesla sono state usate per studiare i correlate neurali in risposta alla elaborazione implicita di volti esprimenti paura e rabbia in 45 soggetti di sesso femminile: 11 controlli sani, 11 pazienti affetti da DBP, 10 da schizofrenia e 13 pazienti depresse con disturbo bipolare I. Un’Analisi della Varianza a una via (ANOVA) è stata effettuate per esplorare le differenze in termini di diagnosi. Un’ANOVA a due vie ha invece permesso di valutare l’effetto di due fattori: diagnosi (sani vs DBP) e ACE (alti vs bassi). Infine, un’ulteriore ANOVA è stata effettuata in 10 soggetti (5 DBP, testati prima e dopo il trattamento, e 5 controlli sani abbinati) per indagare l’effetto del trattamento combinato. Risultati: I pazienti affetti da DBP hanno mostrato un’iperattivazione dell’amigdala rispetto agli altri gruppi, mentre i pazienti depressi e schizofrenici un’ipoattivazione di quest’area. Inoltre, pazienti borderline hanno mostrato un carico significativamente maggiore di ACE rispetto a soggetti di controllo. In entrambi i gruppi un alto carico di ACE è stato associato a una minore attivazione dell’amigdala e a una maggiore risposta della corteccia prefrontale dorsolaterale. Soggetti borderline, tuttavia, hanno riportato un’iperattivazione basale dell’amigdala e un’ipoattivazione delle regioni prefrontali rispetto ai controlli. Nel DBP il trattamento integrato ha causato un ampio miglioramento sintomatico, affiancato dalla normalizzazione dell’attività dell’amigdala. Conclusioni: I risultati suggeriscono che l’iperattività dell’amigdala potrebbe discriminare soggetti con DBP da altre condizioni psichiatriche. Per quanto riguarda gli ACE, una maggiore attivazione nella corteccia prefrontale dorsolaterale suggerisce la richiesta di un controllo cognitivo maggiore sulle aree limbiche che ha portato, dopo un trattamento clinicamente efficace, a una normalizzazione della reattività dell’amigdala agli stimoli avversi. Cambiamenti di misure fMRI di attività cortico-limbico potrebbero essere di rilevanza clinica nel DBP e potrebbero fornire marcatori biologici affidabili per l’efficacia del trattamento.

English abstract

Background: Impairments in social cognition skills and emotional processing play a key role in the development and maintenance of borderline personality disorder (BPD). Several studies identified a dysregulation of limbic and frontal areas during social cognition tasks. A greater activation of amygdala and hypoactivation of frontal areas may represent a neural biological underpinnings of the disorder, associated with emotional dysregulation, might suggest an inefficient mutual modulation of frontal and limbic areas. Although abnormal renpose in fronto-limbic circuitry may identify a possible biomarker for BPD, no previous study explored the differences, in terms of functional response to emotional stimuli, between this disorder and other psychiatric conditions nor the effect of treatments and of adverse childhood experiences (ACE – factors often considered in the etiopathogenesis of the disorder) on this circuitry. Thus, this study is aimed at comparing the functional brain responses, during emotional processing, of healthy controls, borderline, bipolar depressed and schizophrenic patients, and at investigating the effect of ACE and of 6 months of psychotherapy and pharmacological treatment with clozapine, an atypical antipsychotic, on neural activity in BPD. Methods: A 3.0 Tesla fMRI acquisition was used to study the neural correlates of the passive view of emotional fearful and angry faces in 45 female subjects: 11 healthy control (HC), 11 BPD patients, 10 subjects affected by schizophrenia and13 depressed females with bipolar I disorder. Firstly, a One-Way ANOVA was used to explore the differences in terms of diagnosis. Furthermore, an ANOVA with two factors: diagnosis (BPD vs. HC) and ACE (high vs. low) was performed. Finally, another ANOVA was performed in 10 subjects (5 BPD, tested  before and after treatment, and 5 matched controls) to explore the effect of the combined treatment. Results: BPD subjects showed an hyperactivation of the amygdala compared to other groups, whereas depressed and schizophrenic patients a reduced response. BPD patients showed a significantly higher burden of ACE compared to HC. In both groups higher ACE were associated with a lower activation of amygdala and hyperactivation of dorsolateral prefrontal cortex. Borderline subjects, however, reported a basal increased activity of the amygdala and a reduced response of prefrontal regions compared to HC. Integrated treatment caused a broad symptomatic improvement, paralleled by a normalization of amygdala activity in BPD. Conclusion: Results suggest that the hyperactivity of the amygdale may differentiate BPD from HC and other psychiatric conditions. Concerning ACE, a greater activation in dorsolateral prefrontal cortex suggests a request for a higher control on limbic areas which resulted, after successful treatment, in a normalization of amygdala reactivity to aversive stimuli. Changes of fMRI measures of cortico-limbic activity might be of clinical relevance in BPD and might provide reliable markers for treatment efficacy.

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

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Ortoressia: l’ossessione patologica sul consumo di cibi sani e naturali (Intervista)

Ortoressia: l’ossessione psicologica per il mangiare sano

La Psicologa e Psicoterapeuta Francesca Fiore, ricercatrice presso Studi Cognitivi e già autrice per State of Mind, racconta in questa breve intervista che cosa si intende quando si parla di ortoressia, termine (da orthos, giusto, corretto, e orexis, appetito) utilizzato per la prima volta nel 1997 dal dietologo americano Steven Bratman per descrivere l’ossessione patologica riguardo al consumo di cibi sani e naturali.

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Il termine Ortoressia deriva dal greco Orthos (giusto) e Orexis (appetito) e indica l’ossessione psicologica per il mangiare sano. L’ortoressico è infatti controllato da un vero e proprio fanatismo alimentare, un complesso di superiorità basato sul cibo che lo porta a disprezzare chi non mangia sano.

Secondo i dati diffusi dal Ministero Italiano della Salute per i disturbi alimentari, gli ortoressici sarebbero 300 mila in Italia (a fronte di tre milioni di pazienti con disturbi alimentari), con una prevalenza maggiore tra gli uomini piuttosto che tra le donne (11.3% vs 3.9%) (Donini e coll. 2004)… CONTINUA A LEGGERE

 

La Dott.ssa Fiore cura anche la rubrica di Introduzione alla Psicologia per la Sigmund Freud University Milano

Sigmund Freud University Milano - Università di Psicologia

La primavera e l’aumento di pensieri legati al suicidio

FLASH NEWS

Per le persone che soffrono di depressione maggiore o di altri problemi di salute mentale la primavera è la stagione in cui si verifica un aumento di pensieri circa il suicidio.

Molti studi hanno indagato questo fenomeno, uno tra questi nel 2005 ha esplorato il numero di suicidi negli USA tra il 1971 e 2000. Questa ricerca ha trovato che una maggiore frequenza di suicidio si verifica in primavera con un picco nei mesi di aprile e maggio. Nel 2012 uno studio intitolato Seasonality of Suicidal Behavior conferma che inspiegabilmente il picco stagionale del suicidio si situa in primavera anche se emerge che nuovi picchi stanno emergendo in nuovi periodi dell’anno.

Indipendentemente dal periodo dell’anno il suicidio è un problema di salute pubblica che deve essere esplorato a vari livelli attraverso l’educazione pubblica, la conoscenza culturale, e la consapevolezza clinica dei segni e dei sintomi

Il presidente della Pennsylvania Medical Society (PAMED) afferma che nel 2012 ci sono stati 1.613 suicidi in Pennsylvania.
Ogni volta che qualcuno prende una decisione consapevole di tentare o completare il suicidio, spesso amici e parenti si chiedono cosa avrebbero potuto fare per impedirlo. Riconoscere il suicidio come un problema di salute pubblica e affrontarlo in maniera adeguata potrebbe essere utile a tutti coloro che cercano delle risposte alle perdite personali.

Secondo i dati del Dipartimento della Salute della Pennsylvania, il maggior numero di suicidi nel 2012 è stato commesso da persone di età compresa tra 45 anni e 54 anni, seguiti da coloro di età 55 anni ai 64 anni.
I rapporti della American Association of Suicidology indicano la Pennsylvania 29° in classifica nella nazione per il numero di suicidi, mentre Montana, Alaska, e Wyoming hanno purtroppo i tassi più elevati.

A livello nazionale, i dati suggeriscono che nel 2011 si sono verificati 39.518 suicidi. Inoltre, più di 487.700 persone sono state trattate nei dipartimenti di emergenza per atti di autolesionismo ma molto probabilmente il numero effettivo di persone che cercano di farsi male è più alto. Si conoscono infatti solo i pazienti che finiscono nei dipartimenti di emergenza ma ogni giorno si verificano tentativi di suicidio da parte di coloro che cercano di affrontare tutto da soli senza cercare alcun aiuto.

Secondo l’ American Academy of Pediatrics gli individui più vulnerabili sono i più giovani. Nel 2012 ci sono stati 68 individui di età inferiore ai 20 anni che hanno deciso di togliersi la vita e che hanno compiuto un suicidio. I dati a disposizione indicano che fino all’ 80 per cento dei suicidi commessi dai giovani sarebbero potuti essere prevenuti, per questo è importante conoscere i segni del suicidio e capire come si può aiutare chi sta pensando di togliersi vita. Secondo la relazione annuale del Pennsylvania Child Morte Review del 2014, il 45 % delle morti avvenute nel 2011 per suicidio sono avvenute con l’uso di un’arma o per asfissia.

La nuova legge richiede alle scuole di adottare delle misure di prevenzione del suicidio nel sistema scolastico pubblico attraverso una consapevolezza del suicidio da parte dei giovani e la formazione del personale già dall’anno accademico 2015-’16.

Lo psichiatra infantile Robert E. Wilson, MD, PhD, eletto presidente della Pennsylvania Psychiatric Society e membro attivo PAMED, dice che i fattori di rischio per il suicidio sono: precedenti tentativi di suicidio, storia di depressione o altre malattie mentali, abuso di alcol o droghe, storia familiare di suicidio o violenza, malattia fisica, sentirsi soli, presenza di un evento di vita stressante, perdita e facile accesso ai metodi letali. Secondo il dott. Wilson mantenere questi fattori in mente può aiutare amici e familiari a prestare attenzione a una persona cara soprattutto se manifesta segnali di pericolo.

Il Dr. Wilson aggiunge che è importante non respingere un individuo quando esprime il suo desiderio di farsi male, bisognerebbe anche osservare i cambiamenti di umore e verificare l’eventuale uso di sostanze. Ѐ importante creare un ambiente sicuro e fornire l’aiuto necessario a coloro che mostrano un’instabilità emotiva.

Gli esperti di salute mentale offrono la loro disponibilità in ospedali, cliniche e studi medici e attraverso la linea diretta nazionale, ricordando però che insegnanti, medici, genitori e tutti i membri del pubblico giocano un ruolo fondamentale nel prevenire la perdita di vite.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Gli effetti nascosti del paracetamolo sugli stati emotivi

 

Quello che i ricercatori sono arrivati a ipotizzare è che il farmaco provochi cambiamenti neurochimici che influenzano i processi psicologici di valutazione e che potrebbero cambiare la sensibilità agli stimoli emotivi, in generale.

Sono ben conosciuti gli effetti del paracetamolo (o acetaminofene) come analgesico, i farmaci di cui questo è principio attivo son ampiamente diffusi sul mercato; esso agisce regolando la parte del cervello che controlla la temperatura corporea e inibisce la sintesi di prostaglandine nel sistema nervoso centrale. Un recentissimo studio, condotto dall’Ohio State University e pubblicato la scorsa settimana sulla rivista Psychological Science, ha mostrato che il farmaco agisce non soltanto alleviando il dolore fisico ma avrebbe anche effetti sugli stati emotivi quali la tristezza e la gioia.

Gli effetti del farmaco, nel lenire non solo i dolori fisici ma anche quelli psicologici, erano stati già indicati in ricerche precedenti; la novità apportata dallo studio dello psicologo sociale Geoffry Durso riguarda, nello specifico, l’effetto del paracetamolo sulle emozioni positive.

ARTICOLI SU: FARMACOLOGIA – PSICOFARMACOLOGIA

Il trial clinico ha visto coinvolti 82 partecipanti, dei quali un gruppo ha ricevuto una dose giornaliera di 1000 mg di paracetamolo, all’altro gruppo è stato somministrato un placebo. Dopo un’ora (il tempo necessario affinché il farmaco faccia effetto) sono state mostrate ai partecipanti 40 foto tratte dall’International Affective Picture System (IAPS), scelte per la loro capacità di suscitare emozioni, che mostravano scene spiacevoli di bambini malnutriti e tristi e altre di bambini felici mentre giocano. I partecipanti sono stati invitati poi ad esprimere un giudizio positivo (+5 estremamente gradevole) o negativo (-5 estremamente sgradevole) per ogni foto mostrata.

I risultati hanno mostrato che il gruppo che aveva assunto acetaminofene aveva reazioni meno intense alla visione delle foto, cioè valutava le immagini strazianti in maniera meno sconvolgente e le immagini felici in maniera meno positiva rispetto al gruppo placebo.

I ricercatori hanno in seguito testato un gruppo di 85 persone per valutare se questo cambiamento di giudizio si applicasse solo alle emozioni o se il farmaco smussasse la capacità di valutazione della gente in generale. Questo secondo studio ha dimostrato lo stesso ottundimento delle reazioni emotive; ma non ha dimostrato che il paracetamolo influenzi la quantità di blu che i partecipanti vedevano in ogni foto.

Quello che i ricercatori sono arrivati a ipotizzare è dunque che il farmaco provochi cambiamenti neurochimici che influenzano i processi psicologici di valutazione e che potrebbero cambiare la sensibilità agli stimoli emotivi, in generale. Il team ha ora intenzione di studiare l’effetto di altri antidolorifici come l’aspirina e l’ibuprofene, per verificare se questi possano avere lo stesso impatto sulle emozioni.

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BIBLIOGRAFIA:

Bambini plusdotati: come manifestano il loro talento? La classificazione a 5 livelli di Deborah Ruf e le 6 tipologie di Maureen Neihart

Le traiettorie di sviluppo di questi profili propongono una rivisitazione più approfondita del soggetto plusdotato, che colga i tratti salienti e che tenga sempre in considerazione che ogni soggetto gifted  è irripetibile e, di conseguenza, avrà uno sviluppo individuale e unico nel suo genere.

In un panorama scientifico in cui l’intelligenza è stata approfonditamente studiata, con relative ricerche e strumenti, il concetto di plusdotazione nei bambini non possiede ancora sistemi di classificazione largamente diffusi. Il soggetto plusdotato ricopre infatti un’ampissima varietà di caratteristiche che non sempre possono essere classificate e facilmente predette. Egli viene considerato un essere unico nel suo genere, che possiede una concatenazione di caratteristiche che possono renderlo molto differente da altri soggetti con stesso quoziente intellettivo – QI.

Ad esempio, un bambino ad alto potenziale può essere molto bravo a utilizzare i numeri e le operazioni, ma allo stesso tempo presentare carenze nell’area verbale e del linguaggio. Due bambini, entrambi molto bravi nell’area dei numeri e in quella verbale, possono avere QI medesimo ma, se uno possiede capacità di ragionamento maggiori, può rientrare in un livello differente di plusdotazione rispetto all’altro. Inoltre, alcuni bambini possono manifestare un cambiamento nelle loro abilità al variare di aspetti ambientali, psicologici o contestuali (Ruf, 2009).

Deborah Ruf, studiosa e ricercatrice americana che dedica da anni la propria carriera professionale al mondo della plusdotazione, ha proposto una classificazione a cinque livelli del soggetto di talento. I livelli vengono identificati dal QI e da abilità tipiche che si manifestano fin dai primi giorni di vita. Tale classificazione viene ideata dall’autrice a fronte di uno studio approfondito su un campione di 50 famiglie con uno o più figli plusdotati suoi pazienti (2009). I bambini presi in esame sono 78: 13 al primo livello, 21 al secondo, 19 al terzo, 18 al quarto e 7 al quinto. Gli strumenti di misurazione dell’intelligenza che vengono utilizzati sono Wechsler Individual Achievement Test III, Stanford Binet 5 e Scales of Indipendent Behavior – Revisited.

La classificazione parte da un livello di moderatamente plusdotato (livello 1, QI 120-129), proseguendo con gli altamente plusdotati (livello 2 – QI 130-135), gli eccezionalmente plusdotati (livello 3 – QI 136-140) e i profondamente plusdotati ai livelli 4 e 5 (QI 141 o più). L’autrice riporta alcune semplici e accurate tabelle in cui vengono esplicitate le principali abilità, abbinate all’età e alla frequenza con cui, all’interno del gruppo di bambini plusdotati a quel livello specifico, esse potrebbero manifestarsi.

Il primo livello – L1 riguarda i bambini con QI tra il 90° e 98° percentile ai test standardizzati di misurazione dell’intelligenza: sono coloro che spiccano nell’ambito scolastico per la loro intelligenza brillante, per la facilità di apprendimento e per la predisposizione al potenziamento delle materie studiate più che al recupero. Ma a differenza di altri, manifestano alcune abilità non presenti nei bambini normodotati. Infatti, la maggioranza di loro provano desiderio che qualcuno legga per loro prima di un anno di età, conoscono e pronunciano molte parole prima dei 18 mesi e formulano frasi di 3- 4 parole tra i 18 e i 20 mesi di età, fanno addizioni e sottrazioni semplici all’età di 4 anni e usano il computer in maniera indipendente entro i 6 anni. Alcuni sanno contare e conoscono la maggior parte delle lettere e colori entro i 3 anni, amano i puzzle entro i 2 anni ed entro i 6 anni fanno puzzle da 200 a 1000 pezzi, mostrano impazienza nella ripetizione e scansione lenta di numeri e lettere durante la lezione scolastica a 7-8 anni.

L’autrice sostiene invece che tutti i soggetti in L1 leggano a livelli di 2/3 anni oltre la propria età entro i 7 anni e siano in grado di leggere libri suddivisi in capitoli in modo indipendente entro i 7 anni e mezzo. La psicologa Leta Hollingworth definisce “ottimale” questo livello di intelligenza, in quanto questi soggetti non si sentono molto differenti dalle persone normodotate, ma esprimono una ottima riuscita sul campo scolastico e lavorativo, godendo a pieno dei relativi privilegi (1926).

Nei livelli successivi, le abilità aumentano di numero e si fanno sempre più precoci. Nel livello 2 – L2 i soggetti sono in gradi di prestare attenzione più a lungo dei coetanei e possono potenziare il loro talento con corsi accelerati in ambito scolastico. Tutti i soggetti in L2 prestano attenzione se qualcuno legge per loro a 5-9 mesi, comprendono le direttive e domande dei genitori, rispondendo, a 6-12 mesi; formulano frasi di almeno 3 parole a 2 anni, contano e fanno operazioni matematiche semplici a 5 anni e leggono libri semplici a 5,5 anni.

I soggetti al livello 3 – L3 possiedono un QI tra il 98° e 99° percentile. Già a poche ore dalla nascita, questi bambini manifestano a genitori e personale medico un’abilità spiccata nel mantenere l’attenzione a lungo. Le figure di riferimento notano come essi riescano a capire in maniera limpida molte cose prima ancora che sappiano parlare. Sono descritti dai genitori come bambini intensi e molto sensibili, che fin da piccoli non amano essere trattati in maniera infantile. Alcuni di loro possono avere difficoltà a fermare i processi di pensiero e a rilassarsi, ad esempio durante il riposo notturno. Molti sanno l’indirizzo della propria abitazione prima dei 5 anni e, al momento dell’entrata nel ciclo scolastico, può insorgere qualche problema nella risoluzione di problemi semplici, perché considerati senza senso o illogici per il loro livello mentale. In questo contesto, raramente le insegnanti sono in grado di riconoscere le loro potenzialità, accrescendole. Tutti loro sanno l’alfabeto intero all’età di 17-24 mesi, si divertono con giochi per adulti all’età di 6 anni e leggono libri per ragazzi o giovani all’età di 7,5 anni.

I bambini al livello 4 – L4 sono speciali in maniera evidente rispetto ai coetanei per la grande abilità che hanno nel cogliere i dettagli, dare senso alle cose e arrivare a conclusioni e teorie sul mondo decisamente fuori dalla norma. Essi assorbono informazioni in maniera spontanea, continuativa e automatica, senza alcuna insistenza dei genitori. A questo livello, generalmente le difficoltà iniziano a sorgere all’inserimento nella scuola materna: spesso i genitori si aspettano che le maestre siano in grado di gestire un livello intellettivo simile mentre le maestre sono convinte che un bambino molto più intelligente della norma possa comunque apprezzare qualsiasi forma di apprendimento, dalla più semplice alla più adatta al suo livello. Alle scuole elementari invece i genitori chiedono di norma l’inserimento del bambino a una classe superiore, chiedendo un supporto concreto.

Le problematiche che il bambino incontra sono precoci e difficoltose da gestire per i genitori che non godono di un supporto psicologico adeguato. Si tratta infatti di bambini che hanno bisogno specifici, che necessitano di strumenti qualitativamente differenti. Essi infatti sono in grado di comprendere ad esempio la matematica allo stesso modo in cui i loro coetanei comprendono la lettura delle parole al primo anno delle elementari: ciò rende la noia un’emozione particolarmente frequente ed evidente in ambito scolastico.

Un precoce sviluppo in un’ area viene però spesso accompagnato da un’immaturità spiccata in un’altra area, che potrebbe ad esempio essere quella emotiva: ciò rende il soggetto bisognoso di un buon supporto psicologico. Sono bambini che riescono a completare l’intero ciclo dei primi otto anni di istruzione entro quattro anni o meno, ma spesso i genitori scelgono per loro un percorso scolastico normale, affiancato da un potenziamento mirato e continuo, con una particolare attenzione al fattore evolutivo e di maturità emotiva. E’ invece dannoso “abbandonare” questi bambini ai percorsi scolastici normativi senza prendersi cura della capacità intellettiva, trattandoli come soggetti normodotati.

La categoria L5 riguarda 1 soggetto su 250.000 circa, con maggior incidenza nelle aree metropolitane.

Al momento – e ha solo 6 anni – Carol si dedica all’investigazione dei grandi quesiti filosofici sul Senso. Divora libri sull’origine dell’universo, sull’inizio della vita, su evoluzione, storia umana, progresso e religione. Sta tentando di dare risposta alle domande universali: “Chi sono? Perché esisto? Chi è Dio?”, domande che ci si pone tipicamente in adolescenza o età adulta.” Mamma di una bambina plusdotata L5

La valutazione del QI potrebbe suggerire che essi siano allo stesso livello di L4, ma vi è una sostanziale differenza: trattasi infatti di soggetti intellettualmente plusdotati in maniera incredibile in ogni dominio di conoscenza. Essi sono però particolarmente fragili, soprattutto in base a fattori come ambiente di crescita più o meno supportivo, tratti di personalità, motivazione, effettive occasioni di esplorazione del mondo.

Si può notare come essi prestino attenzione visiva alle prime ore della nascita e ascoltino chi legge storie per loro alle prime settimane di vita; i genitori hanno inoltre la netta sensazione che essi capiscano le direttive genitoriali a 1-4 mesi e sanno che hanno video e programmi preferiti a 6-8 mesi. Generalmente, entro i due anni questi soggetti parlano come un adulto, leggono parole semplici, utilizzano il computer e pongono quesiti sul funzionamento del mondo. Inoltre, chiedono della veridicità di Babbo Natale e del topolino dei denti, manifestano interesse per dizionari e almanacchi, giocano a video games per adolescenti, comprendono concetti astratti e le funzioni matematiche entro i 3-4 anni.

Rendersi conto del livello intellettivo di un soggetto L5 è lampante anche agli occhi del genitore più incurante, ma prendersene cura è tutt’altro che semplice. Innanzitutto perché mancano in moltissimi paesi nel mondo gli strumenti adatti alla valutazione di un QI simile, poi manca spesso la sensibilità a comprendere che i genitori stessi avrebbero bisogno di una formazione specifica. Si pongono inoltre numerosi ostacoli nel riconoscimento e supporto del soggetto a livello di rapporti interpersonali, di istituzioni e società.

Un’altra autrice che delinea una classificazione dei soggetti plusdotati, questa volta per “profili”, è Maureen Neihart, che possiede un’esperienza trentennale a fianco dei bambini gifted, pubblicando più di trecento articoli sull’argomento. I sei profili che l’autrice individua, di seguito riportati, differiscono per tratti di personalità, bisogni manifestati e modalità di espressione del proprio talento (Betts e Neihart, 1988).

Come già accennato, è importante sottolineare come queste tipologie non debbano essere considerate in maniera rigida, ma rappresentino linee guida in grado di indirizzare l’intervento sui differenti soggetti (Morrone e Renati, 2010). Nonostante ciò, l’utilità di questa categorizzazione è grande e permette di avere un quadro più generale e globale di tali individui nei loro punti di forza e debolezza e delle caratteristiche manifestate a livello socio-emotivo (Betts e Neihart, 2010).

Il plusdotato di successo – T1 è un soggetto che ha una notevole riuscita scolastica e manifesta un comportamento consono e da “bravo ragazzo” sia in ambiente scolastico che casalingo. Egli possiede concetti positivi di sé ed è soddisfatto e compiaciuto delle sue abilità, nonché desideroso di approvazione da parte di maestre, compagni e genitori. Ma, nonostante la sua abile capacità a ottenere buoni risultati, spesso gli mancano le competenze necessarie per apprendere in modo approfondito e autonomo. Infatti, il tipo di conoscenza che possiede è perfettamente conforme ai programmi scolastici, manca però l’interessamento verso argomenti differenti. Goertzel e Goertzel lo descrivono come colui che in età adulta manifesterà una perdita delle capacità immaginative e dell’autonomia, nonostante il successo che accompagna la sua carriera e le sue scelte di vita (1962). Per tale motivo, egli potrebbe necessitare di un sostegno e stimolo in ambiente scolastico e casalingo volto all’incremento di una motivazione che non dipenda strettamente dall’ottenimento di buone votazioni o desiderabilità sociale e dallo sviluppo di abilità a fronteggiare l’incertezza e il rischio.

Il plusdotato creativo – T2 manifesta un’intensa motivazione a perseguire i propri scopi personali e ha una predisposizione allegra nei confronti del mondo, un alto livello di energia, esprimendo a pieno gli impulsi. Egli possiede una personalità forte e positiva, che però può essere accompagnata da labilità emotiva, area in cui manifesta livelli più bassi di autocontrollo e, in generale, scarso interesse a uniformarsi alle aspettative. Sarebbe importante capire, di fronte a un T2, con quale modalità manifesta il suo talento artistico, più che individuare il livello della sua creatività. Sarebbe inoltre importante domandarsi se abbia sviluppato una piena consapevolezza delle sue abilità artistiche e tenere conto che queste possono andare di pari passo con aspetti di devianza, disagio o deficit.

Particolarmente difficile da individuare, rispetto ai precedenti, è invece il plusdotato sotterraneo – T3. Questo profilo è infatti caratterizzato da strategie di coping disfunzionali, che mirano a evitare la possibilità di esprimere a pieno le abilità del soggetto. Egli percepisce una dissonanza relativa alla riuscita dei propri obiettivi e la svalutazione delle proprie capacità, avvertendo pressioni di fronte alle situazioni che potrebbero determinare positivamente la sua riuscita scolastica e professionale. Infatti, egli associa i comportamenti finalizzati alla buona riuscita di obiettivi positivi a “tradimenti” nei confronti del gruppo sociale di riferimento. Per questo motivo, si ritira e mostra resistenza di fronte alle opportunità di sviluppo del suo talento, che il soggetto stesso non riconosce (Kerr, 1985).

Se si dovesse individuare questo tipo di plusdotato attraverso i test standardizzati di successo scolastico, si cadrebbe probabilmente in errore perché questi difficilmente predicono le sue effettive potenzialità, ma solo le capacità che egli crede di possedere. Gli strumenti più adatti potrebbero essere le osservazioni, interviste, valutazioni basate sulla performance e inventari. L’intervento che si potrebbe attuare su di lui è una ri-definizione dell’autostima in ambiente scolastico e casalingo, un incremento delle competenze sociali al fine di inserirlo in una pluralità di contesti e un’occasione di effettiva discussione sui punti di forza di una mobilità verso l’alto.

Il quarto tipo è il cosiddetto “soggetto antisociale – a rischio” – T4 e presenta problematicità su vari fronti. Possedere un grande talento sembra infatti mettere il soggetto in difficoltà nella gestione di quest’ultimo.  Nello specifico, egli presenta problematiche emotive e comportamentali espresse in azioni di disturbo e stati di crisi. Non è un soggetto che riceve solitamente motivazione a livello scolastico ma potrebbe ad esempio provare stati emotivi intensi, come la rabbia, attraverso l’acting out, andando alla ricerca di sensazioni forti e nutrendo aspettative irrealistiche su di sé. In questo contesto, spesso egli non è in grado di gestire le frustrazioni a livello quotidiano e la maggior parte delle volte ciò è causato da carenze educative proprie del suo percorso di crescita. L’intervento più adeguato su questa tipologia di plusdotato potrebbe avere come obiettivo primo il ritorno a un funzionamento psichico e comportamentale equilibrato, fornendogli sostegno attivo e modificando l’orientamento al problem solving da “centrato sulle emozioni/disfunzionale” a “centrato sul problema”.

Il “plusdotato due volte eccezionale” – T5  presenta una forma di disabilità fisica o emotiva e per tale motivo, non è quasi mai identificato come soggetto di talento. Egli infatti manifesta comportamenti di disagio che non vengono associati alla plusdotazione, come ad esempio avere una scrittura incomprensibile o mettere in atto comportamenti distruttivi, che non gli permettono di seguire le lezioni scolastiche. Inoltre, sembra sperimentare un alto livello di stress, che si associa a disturbi dell’umore e di ansia, con frequenti vissuti di frustrazioni, scoraggiamento e isolamento. Il plusdotato in questione sembra manifestare una non consapevolezza del suo atteggiamento nei confronti dell’ambiente scolastico, tanto da negare il proprio disagio e ritenere invece che siano le lezioni o i compiti a essere estremamente “noiosi” o “stupidi”. Utilizza spesso una modalità sarcastica o critica in approccio alle lezioni, generalmente col fine di nascondere il suo profondo senso di inefficacia e bassa autostima. Anche se sono poco conosciuti, esistono alcuni programmi scolastici alternativi ideati da alcuni studiosi per  esprimere a pieno il potenziale del T5 (Daniels, 1983; Fox, Brody & Tobin, 1983; Gunderson, Maesch & Rees, 1988).

Il plusdotato “autonomo nell’apprendere” – T6 rappresenta invece una tipologia in grado di esprimere la plusdotazione nella maniera più funzionale e potenziata. Infatti, il soggetto possiede alti livelli di autoefficacia, obiettivi autodefiniti, buona disposizione nel perseverarli, ricerca delle sfide, ha una visione incrementale delle proprie capacità e coraggio nella gestione della propria giftedness. Altre caratteristiche che lo contraddistinguono sono buone capacità di autoregolazione, uno stile esplicativo di tipo assertivo, buona gestione delle delusioni e delle difficoltà. Inoltre, il suo obiettivo sembra più focalizzato sull’apprendimento che sulla buona riuscita scolastica e professionale. Egli possiede spesso una buona consapevolezza del legame tra convinzione di poter svolgere un compito bene o male e il risultato finale. Nonostante la sua efficacia e buona funzionalità, egli potrebbe comunque avere bisogno un affiancamento e supporto su come autogestirsi e fronteggiare i costi psicologici e sociali del suo successo.

Come già accennato, le traiettorie di sviluppo di questi profili propongono una rivisitazione più approfondita del soggetto plusdotato, che colga i tratti salienti e che tenga sempre in considerazione che ogni soggetto gifted  è irripetibile e, di conseguenza, avrà uno sviluppo individuale e unico nel suo genere (Renati e Zanetti, 2012). Inoltre, rimangono aperte alcune questioni sulla possibilità che questi sei profili abbiano validità di categorizzazione solo nei paesi occidentalizzati, in quanto vi sono elementi, come famiglia contesto educativo scolastico e sociale, che modellano queste tipologie. Vi è poi la convinzione che questi modelli siano dinamici e possano variare durante lo sviluppo del soggetto (Neihart, 2009).

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Metodi a confronto per la valutazione dello Stress Lavoro-Correlato: il metodo INAIL e il metodo V.I.S.

Metodi a confronto per la valutazione dello Stress Lavoro-Correlato: Il metodo INAIL e il metodo V.I.S.

 

Questo approfondimento, offre una revisione critica della proposta fatta dall’INAIL in merito alla cosiddetta “fase preliminare” dello stress lavoro-correlato. Come noto, tale passaggio è secondo la normativa vigente, il primo step da compiere nel processo di valutazione e si avvale della considerazione di indicatori oggettivi e verificabili, quali gli eventi sentinella, unitamente a fattori di contenuto e contesto.

Poiché il metodo INAIL, non è l’unico strumento a disposizione (sebbene la sua adozione in Italia sia molto diffusa), si pone un confronto tra esso ed un altro metodo: il metodo V.I.S. (Valutazione per Indicatori di Stress), sviluppato seguendo un approccio di tipo psicologico, ergonomico e della medicina del lavoro (Sarto, De Carlo,  Falco, Vianello,  Zanella, Magosso, Bartolucci, Dal Corso,  2009).

Grazie al consenso degli autori e dell’editore (FrancoAngeli), l’utilizzo del metodo V.I.S è libero e gratuito.

 

BIBLIOGRAFIA:

Le arti marziali per il trattamento di disturbi correlati a traumi: il wing tsun kung fu quale tecnica elettiva nella (ri)definizione dei confini corporei e delle distanze interpersonali

Felice Scaringella

 

Le arti marziali per il trattamento di disturbi correlati a traumi: il wing tsun kung fu quale tecnica elettiva nella (ri)definizione dei confini corporei e delle distanze interpersonali.

Nel trattamento dei disturbi legati a traumi, la pratica marziale potrebbe diventare un potente strumento di cura ausiliario alla psicoterapia poichè in grado di sviluppare quelle abilità di difesa personale che andrebbero ad agire direttamente sulla dimensione sensoriale e corporea ristrutturando confini e distanze personali e interpersonali.

In una pubblicazione non troppo recente, Rosa Maria Di Stefano sottolineava un curioso parallelismo tra psicoterapia e arti marziali. In particolare, l’obiettivo di questo eccellente lavoro mirava a mettere in luce, attraverso un’ampia rassegna di studi, quanto queste discipline potessero rappresentare una valida integrazione alla terapia verbale di numerosi disturbi rientranti in un ampio spettro di psicopatologie (Di Stefano, 2005). Il primo parallelismo, e forse quello che rende maggiormente efficace la proposta, è quello che considera entrambe le pratiche (le discipline marziali e la psicoterapia) come delle vere e proprie forme di arte.

I benefici che la persona può trarre dalla pratica delle arti marziali sono stati confermati da lavori provenienti dall’integrazione degli approcci psicoterapeutici: molte patologie psichiche, oggi, vengono trattate facendo riferimento a diversi canali d’accesso al vissuto della persona, in particolare al canale corporeo in quelli che vengono chiamati approcci bottom-up (Ogden, Minton, Pain, 2006). Gli approcci psicoterapeutici bottom-up si sono dimostrati utili particolarmente nel trattamento delle memorie traumatiche e dei disturbi ad esse correlati, infatti, si è osservato che la semplice presa di coscienza del contenuto razionale relativo ai vissuti della persona non era sufficiente a favorire complete elaborazioni di emozioni e ricordi potenzialmente soverchianti.

Nello specifico dei disturbi correlati a traumi sono spesso riscontrabili fenomeni di dissociazione psichica e somatoforme che potrebbero incidere negativamente sul decorso della patologia in quanto le emozioni traumatiche continuerebbero a svolgere la loro azione a livello sensoriale dando luogo a ciò che viene identificato come dissociazione strutturale della personalità (van der Hart, Nijenhuis, Steel, 2006). Ne consegue che i clinici, oggi, siano più orientati ad integrare nella pratica terapeutica approcci quali l’EMDR, la Psicoterapia Senso-Motoria e gli interventi basati sulla Mindfulness (Di Donna, 2012; Giannantonio, 2013; Ogden, Minton, Pain, 2006).

Nel trattamento dei disturbi legati a traumi, con particolare riferimento a quegli eventi perturbativi della vita psichica facenti capo ad aggressioni, abusi fisici e sessuali (anche cumulativi), la pratica marziale potrebbe diventare un potente strumento di cura ausiliario alla psicoterapia poichè in grado di sviluppare quelle abilità di difesa personale che andrebbero ad agire direttamente sulla dimensione sensoriale e corporea ristrutturando confini e distanze personali e interpersonali, e facilitando ciò che Janet (cit. in Ellenberger, 1970) ha ritenuto essere una tappa necessaria finalizzata al raggiungimento dei progressi nella cura psicoterapeutica, ovvero, il processo di completamento delle azioni interrotte durante l’evento traumatico perturbativo a causa dell’attivazione delle difese dissociative.

Il Wing Tsun (in questo articolo faremo riferimento allo stile Wing Chun praticato nella scuola fondata dal GM Leung Ting – ultimo allievo del GGM Ip Man- e denominato Wing Tsun) potrebbe essere un’arte marziale fortemente indicata per gli scopi che abbiamo appena illustrato, infatti, i suoi principi di combattimento troverebbero applicazioni specifiche proprio in ciò che si è rivelato carente in pazienti che hanno subìto traumi da aggressioni. La disciplina è uno stile di Kung Fu sviluppatosi in Cina circa 400 anni fa quale derivazione diretta dello stile Shaolin. Secondo quanto trasmesso dal Great Grandmaster Ip Man, il sistema sarebbe stato messo a punto da una donna, una monaca buddista, che avrebbe insegnato le tecniche ad una ragazza di nome Yim Wing Chun (da qui il nome dello stile) la quale veniva continuamente tormentata da un bullo che voleva prenderla in sposa a tutti i costi.

Secondo la leggenda (si ricorda che le origini di questa arte marziale sono ignote), la ragazza ebbe la meglio in combattimento proprio perché le nuove tecniche non richiedevano lo sviluppo di grande forza fisica rispetto al Kung Fu tradizionale ma risultavano, al contrario, estremamente efficaci nello sconfiggere l’avversario a patto che ne venivano seguiti scrupolosamente i principi. Oggi il Wing Tsun risulta essere uno dei più efficaci e scientifici sistemi di difesa personale (Leung Ting, 1978). 

Affiancare la pratica del Wing Tsun alla psicoterapia dei pazienti ai quali è stato diagnosticato un disturbo post-traumatico conseguente ad aggressione, significa lavorare su ciò che potrebbe essere seriamente compromesso in queste persone, ovvero la capacità di definire e strutturare i propri confini personali e interpersonali (Giannantonio, 2013).

Definire i propri confini significa negoziare le distanze nel mondo intersoggettivo e il Wing Tsun risulta essere un’arte marziale in grado di accompagnare l’individuo traumatizzato verso il raggiungimento di questo obiettivo, infatti, una delle prime tecniche che vengono insegnate agli allievi riguarda la capacità di stabilire un’adeguata distanza interpersonale (che, ovviamente, varia da individuo a individuo) in modo da avere il tempo di poter avviare la negoziazione di un possibile tentativo di aggressione da strada attraverso ciò che viene chiamato pre-confronto (si ricorda che nel Wing Tsun non si ricerca lo scontro ma, al contrario, si cerca sempre di prevenire tale circostanza o, in caso di inevitabilità dell’attacco, di stroncarlo sul nascere).

Come sostiene Giannantonio (2013), l’abuso potrebbe risultare essere un fattore di rischio per il restringimento della cosiddetta finestra di tolleranza (Ogden, Minton, Pain, 2006). La psicoterapia e la pratica integrata del Wing Tsun permettono di lavorare al fine di aumentare l’ampiezza della finestra di tolleranza in quanto entrambe le arti lavorano ai limiti di quest’ultima, l’una attraverso gli stimoli forniti dal terapeuta nel setting della seduta fornendo quell’ambiente cosiddetto sicuro ma non troppo (Bromberg, 2006), l’altra attraverso la strutturazione di situazioni cosiddette borderline che simulano vere e proprie aggressioni inducendo nell’allievo lo stress limite per poter riconoscere, negoziare ed eventualmente affrontare efficacemente un possibile attacco. Secondo lo stesso Giannantonio (2013), il trauma potrebbe avere effetti destrutturanti sulle dimensioni relative ai confini individuali per cui praticare il Wing Tsun potrebbe agevolare i pazienti nella ristrutturazione degli stessi, agendo in particolare su:

  • Percezione: le difficoltà di percezione dei confini corporei riguardano i cosiddetti pazienti sovraconfinati che permettono l’intrusione dei propri aggressori assumendo atteggiamenti di sottomissione conseguenti a risposte dissociative di freezing, e pazienti sottoconfinati aventi marcate difficoltà nel riconoscimento e nell’interpretazione dei propri marcatori somatici (ad esempio, i segnali corporei relativi alla paura). La pratica del Wing Tsun, attraverso l’esercizio delle forme (Siu Nim Tau, Chum Kiu) e del Chi-Sao, aiuta la mente ad assumere un atteggiamento mindful oriented (Ogden, 2009) insegnando il corretto uso della respirazione e della sensibilità corporea in modo da poter riconoscere l’esistenza reale di un pericolo, non negando allo stesso tempo la normale reazione di paura che non viene dissociata ma utilizzata adattivamente al fine di allertare e orientare i sistemi d’azione di attacco e fuga.
  • Difesa: nei pazienti traumatizzati risulta pervasivo l’uso delle difese dissociative patologiche a scapito di meccanismi regolativi più adattivi. In altre parole, questa dissociazione innescherebbe, a fronte di nuove aggressioni, risposte che sembrano bypassare completamente i sistemi di difesa più maturi. Secondo Porges (2009), da una parte potrebbero attivarsi risposte di mobilizzazione mettendo in atto un attacco come risposta automatica ad uno stimolo condizionato che potrebbe non avere alcuna valenza di pericolo imminente, dall’altra si potrebbe innescare una risposta di immobilizzazione che potrebbe favorire l’aggressione in quanto l’individuo, pur avendo gli strumenti per difendersi (anche le tecniche di Wing Tsun), mostrerebbe un atteggiamento di rigidità corporea che potrebbe fargli subire un attacco al quale non ci sarebbe alcuna risposta difensiva se non quella di depersonalizzazione e anestesia somatica (Nijenhuis, 2004). Il Wing Tsun si propone di insegnare agli allievi strategie di regolazione emotiva più adattive in situazioni di elevato stress: attraverso il pre-confronto si invita l’allievo ad integrare il vissuto emotivo con il linguaggio simulando possibili aggressioni in cui il tono della voce risulta congruente con la rabbia che dovrebbe prendere il sopravvento sulla paura nel momento in cui si invita l’aggressore a desistere dalle sue malevoli intenzioni. Si insegna, perciò, ad utilizzare la condivisione sociale quale efficace strategia per evitare l’intrusione oltre i limiti dei propri confini personali.

Una naturale conseguenza della mancanza di definizione dei confini personali è la mancanza di capacità nel negoziare la distanza fisica. Come suggerisce Ogden (2013, p. 210):

pazienti che hanno vissuto un trauma relazionale sono raramente in grado di stabilire una distanza appropriata tra se stessi e gli altri

Ovvero, possono irrigidirsi, tirarsi indietro o bloccare il respiro nel momento in cui il terapeuta esegue movimenti di allontanamento/avvicinamento. Questi fenomeni in seduta vengono affrontati attraverso esercizi pratici di psicoterapia senso-motoria che sono molto simili agli esercizi che gli istruttori di Wing Tsun insegnano ai propri allievi: uno di questi consiste nello stoppare, attraverso il sollevamento delle braccia, l’eccessiva intrusione nei propri confini personali dopo aver superato la distanza ottimale individuale.

Concludendo, la pratica delle arti marziali potrebbe avere effetti facilitanti sulla riabilitazione individuale se questa viene inserita all’interno di un programma di trattamento più ampio ed integrato.

Gli effetti non riguardano solo l’incremento delle capacità di socializzazione o del controllo dell’aggressività. In questo lavoro, si è ipotizzato che proporre l’affiancamento della pratica del Wing Tsun alla psicoterapia dei disturbi post-traumatici potrebbe avere effetti positivi sulla definizione dei confini corporei e delle distanze interpersonali, nonché sull’integrazione dei vissuti traumatici e delle parti dissociate della personalità. Ciò non sta a significare che il Wing Tsun sia l’unica arte marziale in grado di adempiere a questo compito: come sottolinea la Di Stefano (2005), tutte le arti marziali hanno effetti positivi sulla mente dell’individuo, in particolare sull’autostima, purchè non vengano praticate al solo scopo di aumentare la potenza fisica ma studiando anche i principi filosofici caratteristici di ciascuna di esse.

Il Wing Tsun rappresenta, quindi, un caso particolare che presenta numerose somiglianze con i più recenti approcci alla psicoterapia. Inoltre, esso non è da considerarsi uno sport da competizione come il Karate o il Judo, ma una disciplina finalizzata esclusivamente all’autodifesa, capacità che nelle vittime di traumi cumulativi e complessi risulta essere seriamente compromessa. Sarebbe opportuno, in futuro, valutarne anche l’efficacia a livello empirico stabilendo degli indicatori oggettivi o misure indirette in grado di mostrare miglioramenti e progressi dell’allievo/paziente nella vita quotidiana, quindi progettando dei trial clinici o studi caso/controllo al fine di stabilire una possibile correlazione o l’esistenza di differenze statisticamente significative nelle differenti modalità di cura dei pazienti traumatizzati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Le donne vittime di violenza domestica più a rischio di problemi mentali?

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Uno studio recentemente effettuato da un team composto da ricercatori dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze King’s College di Londra, dell’Istituto Universitario di Salute Mentale a Montréal (IUSM) e dell’Università di Montréal dimostra che, in aggiunta ai danni fisici, le donne che subiscono violenza domestica sono a maggior rischio per lo sviluppo di problemi mentali, quali ad esempio depressione e sintomi psicotici.

In relazione a ciò, abbiamo inoltre studiato il ruolo di certi fattori legati alla storia personale delle vittime, quali l’abuso durante l’infanzia e la scarsità di risorse economiche”, afferma la Dottoressa Ouellet-Morin, autrice principale dello studio, ricercatrice presso l’Istituto Universitario di Salute Mentale a Montréal e anche docente della Scuola di Criminologia dell’Università di Montréal.

1052 madri hanno preso parte all’Environmental Risk (E-Risk) Longitudinal Twin Study per un periodo di circa di 10 anni. Sono stati esclusi dallo studio soggetti con precedenti diagnosi di depressione. Durante questo periodo di 10 anni, i ricercatori hanno effettuato una serie di interviste per determinare se le partecipanti avessero subìto violenza dai loro compagni e se soffrissero di disturbi mentali.

I risultati di questo studio mostrano che:

– Più di un terzo delle donne riporta di aver subito violenza domestica dal proprio compagno (ad esempio, essere spinte o colpite con un oggetto);

– Queste donne aveva una più ampia storia di abuso durante l’infanzia, abuso di sostanze stupefacenti, povertà, gravidanze precoci e sintomatologia relativa al disturbo antisociale di personalità;

– Soffrivano inoltre di depressione due volte di più rispetto alle altre partecipanti, anche controllando le altre variabili;

– La violenza domestica non ha avuto impatto solamente sull’umore, ma anche sugli aspetti di salute mentale. Tra queste donne, il rischio di sviluppare sintomi psicotici al limite della schizofrenia è tre volte più alto rispetto al resto della popolazione.

Abbiamo dimostrato che la violenza domestica causa danni non solo fisici, ma anche psicologici, dal momento che incrementa il rischio di andare incontro a depressione e a sintomi psicotici”, aggiunge Louise Arseneault, ricercatrice presso l’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze King’s College di Londra. I professionisti della salute devono essere consapevoli del fatto che le donne che soffrono di certi disagi mentali potrebbero essere vittime di violenza, e viceversa. Sarebbe inoltre necessario ed auspicabile imparare a mettere in atto pratiche di prevenzione di violenza domestica, conclude.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Università di Psicologia a Milano: la Sigmund Freud University

Sigmund Freud University Milano - Università di Psicologia

Dopo Vienna, Linz, Parigi e Berlino, aperta anche la sede Milanese della Sigmund Freud University, sita in Ripa di Porta Ticinese 77.

Obiettivo di questa università privata è offrire una formazione completa e altamente professionalizzante in teorie e tecniche delle scienze psicologiche: grazie alla propria caratura internazionale, infatti, SFU è in grado di proporre corsi estremamente attenti agli sviluppi scientifici delle tecniche psicologiche, mirati alla crescita degli studenti come professionisti.

Classi ridotte di circa 50 studenti, tutoraggio individuale, attenzione alla pratica e docenti di fama internazionale sono le chiavi attraverso le quali l’università Sigmund Freud di Milano fornirà ai propri studenti un bagaglio di competenze reali, riconosciute a livello internazionale e altamente qualificanti, volte a garantire un rapido ingresso nel mondo del lavoro per i propri studenti.

I corsi di laurea in psicologia si svolgono prevalentemente nella sede di Milano, ma ogni semestre gli studenti trascorrono un periodo continuativo a Vienna, ospiti del nuovo Campus nel centralissimo e storico parco del Prater.

Le iscrizioni ai Corsi di Laurea sono ancora aperte. Gli interessati potranno, accedendo alla pagina dedicata, ottenere tutte le informazioni necessarie compilando il modulo nella pagina dei contatti presente sul sito dell’università.

Tutte le informazioni legate a docenti, modalità di iscrizione, programma dei corsi sono disponibili su www.milano-sfu.it

Effetto Flynn: stiamo diventando sempre più intelligenti?

Oltre 30 anni fa, il professore neozelandese James R. Flynn ha rilevato che nel corso del secolo scorso, il livello di QI, stabilito in base ai punteggi riportati nei test di intelligenza come il Wechsler (WISC) o il Raven, è aumentato di generazione in generazione. Questo aumento dei punteggi di QI è stato denominato appunto Effetto Flynn.

Prove dirette dell’esistenza di questo fenomeno vengono da numerosi studi svolti in diversi paesi (inizialmente 14, ma ora le ricerche sono arrivate a coprire oltre 20 paesi,), dove uno stesso test è stato usato sulla popolazione ma in tempi differenti, generalmente dopo molti anni l’uno dall’altro, ed è stato visto che le ultime generazioni riportavano punteggi migliori nei test rispetto alle generazioni precedenti.

Dai risultati dei test è emerso che l’aumento medio del QI è stato di 3-4 punti ogni 10 anni fino ad arrivare ad 8 punti nei paesi nordici.

 Malgrado esistano molte prove a favore di Flynn, ancora non risulta chiaro quali possano essere le cause, ovvero se il merito dell’aumento del QI sia da attribuire soprattutto ad un cambiamento del sistema educativo e sociale (ambiente sociale più stimolante anche grazie alle innovazioni tecnologiche e maggior livello di scolarizzazione), oppure da fattori biologici in particolare il miglioramento dell’alimentazione e di uno stile di vita in generale più sano.

Quindi secondo le teorie di Flynn noi siamo più intelligenti dei nostri nonni ed i nostri figli saranno più intelligenti di noi…ma sarà vero?

Un gruppo di ricercatori di Copenaghen, in uno studio del 2008, hanno osservato che dalla fine degli anni ’90, l’aumento si è interrotto ed in questi ultimi i punteggi nei test che valutano il livello di QI hanno iniziato addirittura a diminuire. Il loro studio era focalizzato sulla popolazione danese, ma i risultati concordano con quelli ottenuti in uno studio precedente (2004) svolto in Norvegia, Paese con il quale la Danimarca condivide molte caratteristiche storiche, linguistiche, culturali e sociali.

L’interpretazione data a questi risultati è che l’effetto Flynn potrebbe essere giunto alla fine nei paesi altamente sviluppati (come Danimarca e Norvegia) ma può essere ancora riscontrabile nei paesi ancora in via di sviluppo.

Tuttavia, gli autori di questo studio sostengono che in futuro le differenze generazionali nei punteggi dei test sono destinate a diminuire.

 

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Gli ingredienti del tradimento – Tracce del tradimento Nr. 05 –

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO 05

Il dolore del tradimento inflitto al partner, la colpa, lo strazio per il distacco di chi si ama da noi. Spesso ci appaiono vite “come se”, come se ci fossero sentimenti e rapporti, ma senza le implicazioni emotive e dolenti che ogni atto esistenziale implica. Insomma una vita di benefici sognati e di costi evitati.

Quali sono gli ingredienti di queste storie di tradimento?

Innanzitutto la tendenza a inferire da tracce labili un tradimento certo, e l’atto inferenziale appare come una certezza marmorea e indiscutibile. Poi la nascita dell’odio improvvisa dopo la mitizzazione del sentimento amoroso, l’odio verso l’altro accusato di rompere un progetto esistenziale. E da quell’odio si deduce l’omicidio: se non stai con me allora con nessun altro. Una sorta di tragedia grandiosa appare agli occhi di persone dalla vita spesso affatto epica. E l’atto violento è l’unico atto grandioso di una vita intera, una sorta di tragico riscatto.

Un secondo ingrediente è la caduta delle spinte ideologiche e spirituali alla  monogamia. Cresce il desiderio di tutto potere e avere in una società che spinge al soddisfacimento del massimo dei desideri possibili e al disprezzo per le regole morali autoimposte. È la società del mercato e dell’ immagine che ci dice “no limits” dove il limite invece che il risultato di una scelta pacata appare come una banalità, un noioso accomodarsi alla normalità, una riduzione di senso. Questo è interessante perché è come se nella modernità avanzata si recuperassero aspetti di comportamento promiscuo sepolti nelle radici genetiche del nostro essere mammiferi predatori.

La spinta al consumo si sposta dagli oggetti (le borse, le scarpe) alle relazioni. È  difficile non farsi coinvolgere da questa corsa generale e veloce al massimo del soddisfacimento in tutti i campi.  Anche la spinta al consumo sessuale si è fatta grande, ovunque occhieggiano da manifesti, giornali, televisioni e internet, donne e uomini giovani, disponibili e molto belli che ci guardano e ci chiedono “e perché no?”

Questa ideologia della libertà costituisce al contempo l’intelligenza dell’occidente, la sua incredibile spinta al cambiamento -come scrive Landes (2000)- ma anche la sua nemesi dolorosa.  La motivazione che abbiamo avuto verso la scoperta, l’esplorazione del nuovo, la curiosità per la sperimentazione di soluzioni scientifiche e tecniche sempre nuove, hanno implicato molte vittorie ma portato alcuni mutamenti non facili da affrontare per la larga parte della popolazione. L’interesse per tutto ciò che è nuovo è anche al centro di una crisi dei rapporti e della necessità di una riflessione  che chiede nuove soluzioni.

Nei rapporti, che è l’area che stiamo mettendo a fuoco, il tradimento e il gioco sembrano poter sostituire la consapevolezza del dolore e del limite che è in ogni atto umano. Spesso i nostri pazienti quando arrivano da noi sembrano raccontare storie di assoluta impreparazione ad affrontare le normali conseguenze degli atti della vita.

Il dolore del tradimento inflitto al partner, la colpa, lo strazio per il distacco di chi si ama da noi. Spesso ci appaiono vite “come se”, come se ci fossero sentimenti e rapporti, ma senza le implicazioni emotive e dolenti che ogni atto esistenziale implica. Insomma una vita di benefici sognati e di costi evitati.

Anche il cinema ci mostra in modo interessante questa esclusione della sofferenza implicata nella maggiore libertà che abbiamo. Pensiamo ad Almodovar, il grande regista racconta un suo mondo ideale di donne e uomini forti e allegri in cui la promiscuità assoluta, i gusti sessuali e le tragedie della vita possono essere affrontate tutte insieme, con una leggerezza e un vitalismo che esclude il racconto della sofferenza. O il nostro Ozpetec quando dopo le peggiori tragedie, dopo lutti, cambiamenti di gusto sessuale e identitario riunisce alla fine i personaggi a volersi bene intorno a un tavolo.

Non tutti nella vita riescono ad essere Penelope Cruz e Carmen Maura o la nostra Greta Scacchi, e il fatto che anche questa allegria sia possibile non vuol dire che sia un paradigma esportabile o auspicable per tutti e in tutte le situazioni.  Proprio questo limite costituisce secondo noi la genialità di Almodovar, un visionario che come tutti i grandi anticipa e coglie  il sentimento profondo del proprio tempo.  Ma quando poi l’illusione finisce è difficile cominciare ad imparare l’alfabeto emotivo e sentimentale necessario a vivere la vita. La leggerezza della società occidentale ci salva e ci danna e forse sarebbe anche ora di affrontare con serietà la costruzione di un’etica laica del sentimento e della responsabilità che ci permetta di affrontare in modo maturo e “all’occidentale” la vita.

L’accettazione del limite della sofferenza, o la fuga da queste appaiono come una delle forbici e dei dilemmi esistenziali maggiormente presenti nei nostri pazienti.

 

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