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Psicologia per Tutti – Seminari divulgativi a Monza, Maggio 2015

Poco meno di un mese all’evento “Psicologia per tutti” promosso dal Centro Acacia di Monza.

Per l’intero mese di maggio 2015, il Centro Acacia di Monza ospita seminari gratuiti rivolti alla cittadinanza. Tutte le sere diversi professionisti della salute (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri e nutrizionisti) si avvicenderanno per presentare brevi conferenze a carattere divulgativo su una specifica tematica.

L’iniziativa, segnalata dal MIP (Maggio di Informazione Psicologica), ha come obiettivo quello di coinvolgere la popolazione su argomenti attuali e di interesse comune al fine di informare e contribuire a diffondere la cultura psicologica.

In quest’occasione sarà anche possibile prenotare un colloquio gratuito con un professionista del Centro.

Gli incontri si svolgeranno dal 4 al 29 maggio 2015 a partire dalle 20.45 all’interno dei locali del Centro Acacia, in via Galileo Galilei 42 a Monza.

La partecipazione è aperta a tutti, previa iscrizione ai seguenti contatti:

3314122812

[email protected]

 

Di seguito il programma dettagliato:

PRogramma - Psicologia per tutti

 

Come cambia la nostra attenzione all’interno dei contesti sociali

FLASH NEWS

I risultati ottenuti confutano le ricerche precedenti che suggerivano che le persone tendono a guardare soprattutto i volti e a spostare automaticamente la propria attenzione nella direzione verso la quale sono orientate le altre persone.

L’attenzione è un processo cognitivo che permette di selezionare alcuni stimoli ambientali, ignorandone altri. Da un punto di vista evolutivo, si tratta di un meccanismo estremamente utile ai fini della sopravvivenza dell’uomo in quanto consente di organizzare le informazioni provenienti dall’ambiente esterno, in continuo mutamento, e di regolare di conseguenza i processi mentali.

Numerosi studi hanno messo in evidenza che quando vengono mostrate alle persone fotografie o scene raffiguranti altri individui, l’attenzione visiva, misurata tramite l’orientamento dello sguardo, viene rapidamente diretta verso le persone presenti sulla scena, in particolar modo verso i loro volti e occhi piuttosto che sui loro corpi o su oggetti non sociali.

Questo fenomeno viene comunemente definito attenzione sociale, termine spesso utilizzato anche per descrivere un altro tipo di risposta attentiva ovvero la tendenza a seguire la direzione dello sguardo altrui.

Una recente ricerca condotta presso la Bournemouth University, in collaborazione con l’Università di Portsmouth, ha tuttavia cambiato il modo convenzionale di pensare a tale fenomeno. Lo studio prevedeva tre condizioni sperimentali nelle quali ai soggetti veniva mostrato un filmato di due donne che aspettavano in una sala d’attesa.

Ai primi due gruppi veniva detto che stavano guardando le immagini live di una webcam e che avrebbero o meno incontrato le donne successivamente, mentre al terzo gruppo veniva mostrato lo stesso filmato facendo loro credere che fosse pre-registrato. Nonostante i dati provenienti dalla letteratura suggerissero che, nell’eventualità di incontrare i soggetti presenti nel video, i partecipanti avrebbero orientato la loro attenzione verso il volto di questi individui e seguito la direzione dei loro sguardi, i risultati ottenuti sono stati ben diversi.

Sia che i partecipanti credessero di incontrare o meno le persone presenti nel filmato, quando ritenevano di guardare le immagini live di una webcam, tendevano ad evitare di guardare in faccia le persone e difficilmente seguivano il loro sguardo, anche quando pensavano di non poter essere visti. Quando, invece, i partecipanti credevano che la scena fosse pre-registrata guardavano in misura maggiore i volti dei soggetti e ne seguivano la direzione dei loro sguardi.

Questi risultati sembrano suggerire che i fattori coinvolti nel processo di attenzione sociale sono molto più numerosi e complessi di quanto si sarebbe potuto pensare, molti dei quali spesso non vengono tenuti in considerazione nel corso di studi sperimentali condotti in questo campo. Non sempre ciò che emerge dalle proprie ricerche può quindi essere immediatamente generalizzato alla vita reale.

In questo senso, la ricerca condotta da Nicola Gregory ha cercato di rimanere il più vicino possibile al contesto di vita reale al fine di ridurre possibili differenze indotte dalle misurazioni effettuate in un contesto puramente sperimentale.

I risultati ottenuti confutano le ricerche precedenti che suggerivano che le persone tendono a guardare soprattutto i volti e a spostare automaticamente la propria attenzione nella direzione verso la quale sono orientate le altre persone.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La Bulimia Nervosa – Introduzione alla Psicologia Nr. 11

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (11)

 

 

La bulimia nervosa, letteralmente significa “fame da bue”, è uno dei disturbi inerenti alla sfera dell’alimentazione ed è caratterizzata dalla tendenza a esercitare, in maniera disregolata, un eccessivo controllo sul proprio peso.

 

La Bulimia Nervosa è un disturbo psichico che compare durante la prima adolescenza ed è caratterizzato da eccessiva preoccupazione per il peso e le forme, cui segue una dieta ferrea, abbuffate e vomito autoindotto.

Ciò che caratterizza il disturbo è l’essere costantemente preoccupati per il peso e la forma del corpo. Questa preoccupazione alimenta in maniera perpetua il tentativo di aumentare di peso che induce, a sua volta, a mettere in atto comportamenti che portano inevitabilmente alla prossima abbuffata.

Il pensiero di voler dimagrire velocemente induce a seguire una dieta rigidissima, fortemente ipocalorica, non sostenibile a lungo, che diventa l’incipit delle abbuffate successive. I pensieri disfunzionali che regolano e mantengono le abbuffate sono:

  1. Perfezionismo e pensieri dicotomico del tipo ‘tutto o nulla’ e – cercare di mantenere il proprio corpo a un regime calorico molto basso, ideale perfezionistico, porta inevitabilmente alla messa in atto di piccole trasgressioni che quando si verificano, sono percepite dalla persona come una perdita di controllo a cui è impossibile rimediare (modalità tutto o nulla) Di conseguenza una volta innescata la catena la persona continua a mangiare senza nessun freno. L’unica soluzione possibile, a questo punto, è liberarsi da quello che si è mangiato eliminandolo attraverso il vomito.
  2. Alterazione del meccanismo che regola il rapporto fame – sazietà. La dieta ferrea porta a un aumento della fame e dell’appetito, con conseguente modificazione di alcuni neurotrasmettitori, tra cui la serotonina e gli elettroliti, con inevitabili ripercussioni di tipo fisiologico.
  3. Emozioni negative – Le abbuffate creano uno stato di piacevolezza. Questa sensazione piacevole iniziale serve soprattutto a bloccare e soffocare, le emozioni negative provate. Tale comportamento dà vita a un circolo vizioso:
  • A. sopprimere le emozioni attraverso il cibo porta a non risolvere mai i problemi favorendo l’abbuffata successiva;
  • B. Le abbuffate stesse portano alla comparsa di emozioni negative (senso di colpa, disgusto, paura d’ingrassare), che a loro volta innescano le nuove abbuffate.

Chiaramente, dopo l’abbuffata si palesa la terribile paura di aumentare di peso, che a sua volta porta alla messa in atto di comportamenti compensatori (vomito autoindotto, uso improprio di lassativi, digiuno, esercizio fisico eccessivo). I mezzi di compenso, come il vomito e il digiuno (dieta ferrea), portano ad avere altre abbuffate e il circolo vizioso, vomito – abbuffata – vomito – abbuffata, si autoalimenta e si mantiene fino a cronicizzarsi.

Come dimostrato in molti studi con il vomito è possibile eliminare solo una parte delle calorie ingerite; con i lassativi e i diuretici l’eliminazione è quasi nulla. Le abbuffate e le condotte eliminatorie sono spesso eseguite in gran segreto, lontano dagli occhi indiscreti di tutti, perché attivano emozioni di vergogna non controllabile.

La qualità di vita delle persone affette da bulimia nervosa è fortemente compromessa: spesso percepiscono diminuzione del tono dell’umore, si sentono prive di mordenti e con scarse, se non nulle, relazioni sociali.

Le persone affette da bulimia, anche quelle normo peso, possono produrre gravi disagi al proprio organismo grazie all’ingestione di ripetuti lassativi o clisteri e all’innesco del vomito. Infatti frequenti, in queste persone, sono gli scompensi elettrolitici o la disidratazione, che solitamente sfociano in problemi fisiologici piuttosto importanti. Per esempio il continuo vomito può provocare lesioni allo stomaco e l’uso di lassativi può procurare disfunzioni cardiache con perdita di minerali vitali come il potassio.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è un trattamento efficacie per tale patologia. Spesso deve essere associata ad una consulenza nutrizionistica e all’assunzione di una terapia con antidepressivi come la fluoxetina.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Il capro espiatorio in Girard e in Fornari (Pt.2): Il sacrificio del re-sacerdote

Insomma, ogni capo politico, ogni eroe è anche il punto di convergenza di speranze, aspettative, delusioni e infine rancori. Ovvero di odio. Questa parabola è inevitabile. Ed effettivamente se ci pensiamo bene ancor oggi è così.

La teoria del capro espiatorio è un modello antropologico che spiega alcune fasi del passaggio dalla violenza generalizzata delle società antiche a quella più limitata delle società post-classiche. Secondo Girard e Fornari il problema principale dell’agonismo rivalitario è che non c’è mai tregua. Il vincitore vive nell’ansia dello spodestamento e della detronizzazione. Finché si tratta di conflitti non sanguinari, poco male, o quasi. La competizione emulativa, come si sa, è anche alla base delle società moderne basate sullo sviluppo professionale e sulla concorrenza (ma anche sul supporto sociale fornito dallo stato e sulla solidarietà umana, beninteso).

Nelle società antiche, e in particolare nell’antichissima vita tribale che precede i primi imperi orientali e le prime città-stato greche e italiche, il conflitto era altamente sanguinario. Il vincitore si elevava al rango di capo tribù, di re-sacerdote, di eroe e perfino di semidio, ma era continuamente a rischio di essere spodestato e ucciso.

Nei miti classici gli eroi fanno spessissimo una morte violenta, con rarissime eccezioni: in questo momento mi viene in mente solo Odisseo, unico eroe antico morto nel suo letto sazio di giorni e beato. O almeno così gli profetizza Tiresia nell’Ade. In realtà anche Odisseo muore ucciso da suo figlio, non Telemaco, ma Telegono, figlio dei suoi amori con Circe. Telegono era venuto a Itaca per conoscere il padre. Lo incontra, non lo riconosce, ha un diverbio e lo uccide. A pensarci bene, allo stesso modo Edipo fa fuori suo padre Laio. Da notare che molti di questi eroi sono capi politici e vengono uccisi. Edipo sovrano di Tebe, Agamennone re di Micene, Odisseo re di Itaca. Romolo primo re di Roma. Romolo fu assunto in cielo durante una tempesta, ma altre tradizioni mitologiche più oneste dicono che fu fatto a pezzi, ossia linciato, dai senatori.

Per Girard non si tratta di un caso. Il linciaggio periodico e rituale era proprio il modo in cui le società antiche digerivano conflitti diventati ormai insostenibili. Insomma, ogni capo politico, ogni eroe è anche il punto di convergenza di speranze, aspettative, delusioni e infine rancori. Ovvero di odio. Questa parabola è inevitabile. Ed effettivamente se ci pensiamo bene ancor oggi è così. Pensiamo ad Obama: dopo le speranze eccessiva, la disillusione eccesiva. Che, per Girard prelude al linciaggio. Per fortuna solo simbolico ai giorni nostri.

Nel linciaggio, dice Girard, il legame sociale e la solidarietà di gruppo, che si era deteriorata in diffidenza di tutti contro tutti nel momento della crisi e della disillusione, si ricompone. Naturalmente il vero e proprio linciaggio del capo oggi non avviene più (o quasi. Ricordiamo Gheddafi?) mentre un tempo era, per Girard, lo sbocco inevitabile della parabola del potere. Anzi, il linciaggio del re-sacerdote era istituzionalizzato. In molte società tribali era previsto che il re regni per un periodo predeterminato, dopo il quale venga ritualmente ucciso. Non metaforicamente. Un linciaggio rituale e previsto invece dello scoppio imprevisto e terribile e probabilmente, sanguinoso per tutti, avvenendo in condizioni di guerra civile e scontri tra bande rivali. Come forse accadde per Romolo e poi sicuramente per Cesare.

 

 

Noi e la dipendenza da Internet

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero e Michela Muggeo, pubblicato su Linkiesta di Domenica 12 Aprile 2015

 

L’uso eccessivo di internet è legato a problemi emotivi sottostanti, come l’ansia, la depressione, lo stress o la rabbia. Il web è utilizzato come modalità per “sentire meno” il disagio o per cercare di uscirne. Chi sviluppa dipendenza da internet ha spesso anche una personalità ben determinata e propensa alla dipendenza, all’impulsività, alla ricerca di esperienze e sensazioni nuove e alcuni tratti di aggressività.

Internet e noi: che ha da dirci la psicologia? L’impatto è negativo, oppure non c’è mai nulla di veramente nuovo sotto il sole? Ci rende drogati, o siamo da sempre scimmie bisognose di una droga? Hanno ragione i conservatori o gli ottimisti che sperano nel progresso? Sbagliano i disincantati, anche se non lo ammetteranno mai e ci prendono in giro scrivendoci: “Errai, candido Gino?” Oppure i fiduciosi, e anche loro non lo ammetteranno mai?

Non vorremo dare l’impressione di considerare internet solo una fonte di sofferenze emotive. Purtroppo siamo due psicoterapeuti, e quindi va a finire che parliamo di un disagio psicologico: la dipendenza da internet (internet addiction). Semplicemente, siamo esperti di dolori psicologici e parliamo di quello che meglio sappiamo. Prendersela con internet può essere troppo facile. E scrivere “dipendenza da internet” è un po’ generico. In realtà si diventa drogati non di internet, ma di alcune attività che avvengono su questa piattaforma. Ad esempio il sesso e il gioco, il cybersex e l’online gambling.

Naturalmente, internet ci mette del suo. Nulla di nuovo sotto il sole, sesso e gioco d’azzardo sono antichissimi desideri umani. L’esperienza virtuale però modifica la dipendenza. Il cybersex è un tipo di dipendenza sessuale con i “vantaggi del web”: anonimità e facilità di accesso. È facile rimanere nella privacy della propria casa, ingaggiati in fantasie impossibili nella vita reale. Discorso simile per il gioco, il gambling: possibilità di accesso in ogni momento del giorno e della notte e da ogni dove, da un qualsiasi dispositivo connesso.

Ormai internet è disponibile con facilità in quasi tutti i posti di lavoro, sugli smartphone e nei luoghi pubblici. E l’uso compulsivo di Internet può interferire notevolmente con la vita lavorativa e sociale di chi ne abusa, determinando un vero e proprio disturbo.

Quel che rende l’uso di Internet una droga, una dipendenza è l’eccessivo uso della rete a discapito del lavoro e delle relazioni sociali e la difficoltà a disconnettersi nonostante le conseguenze negative sulla vita offline (LEGGI ARTICOLO).

 

I segnali d’allarme che fanno temere una possibile dipendenza da Internet sono:

• Perdere il senso del tempo online: ti trovi spesso a rimanere connesso più a lungo di quanto avessi previsto? Qualche minuto si trasforma in qualche ora? Ti irriti se vieni interrotto?

• Avere problemi nel portare a termine i compiti, a casa o al lavoro: ti ritrovi a fare tardi al lavoro per avere utilizzato internet per motivi diversi? A casa trascuri la spesa da fare, la lavatrice o altre commissioni per passare più tempo connesso?

• Isolamento dalla famiglia e dagli amici: pensi che nessuno ti capisca nella tua vita reale come invece fanno i tuoi amici online? Ti ritrovi a passare meno tempo con amici o famiglia e più tempo connesso alla rete?

• Sentimenti di colpa legati all’uso di internet: ti irriti quando gli altri continuano a dire di spegnere il computer o di mettere giù lo smartphone? Non dici sempre la verità sul tempo effettivo speso online?

• Sentire un senso di euforia quando si è connessi: ti ritrovi a usare internet come valvola di sfogo quando sei triste, stressato o cerchi eccitamento sessuale? Hai provato a ridurre l’uso di internet e non ce l’hai fatta?

Internet facilita, sicuramente. La sua immediatezza, il suo essere a portata di dito contano. Però non è tutta colpa della modernità e della tecnologia. L’uso eccessivo di internet è legato a problemi emotivi sottostanti, come l’ansia, la depressione, lo stress o la rabbia. Il web è utilizzato come modalità per “sentire meno” il disagio o per cercare di uscirne. Chi sviluppa dipendenza da internet ha spesso anche una personalità ben determinata e propensa alla dipendenza, all’impulsività, alla ricerca di esperienze e sensazioni nuove e alcuni tratti di aggressività (Ko et al., 2010; Park et al., 2012; Ma, 2012).

Insomma, si oscilla tra eterne debolezze umane e nuove debolezze tecnologiche. Hanno ragione un po’ tutti: i laudatores temporis acti e quelli che dicono che da sempre l’umanità è un legno storto. Quello che non si capisce bene è l’impatto che l’utilizzo del web ha su persone con una dipendenza da internet rispetto a chi non ha questo problema.

La letteratura scientifica ci informa che l’utilizzo di internet si mantiene grazie a rinforzi in fondo molto innocenti, come ad esempio il divertimento, il passare del tempo o il cercare informazioni. Quindi non sembra che sia il caso di prendersela con internet. Però, se questo è vero per la maggioranza degli utenti, sembra che altri meccanismi, più legati all’impulsività, siano in azione nel mantenimento dei peggiori comportamenti legati all’uso di internet. Insomma internet è innocente, ma in alcuni di noi tira fuori il peggio.

Per capirci di più in questo dilemma, una ricercatrice italiana, Michela Romano, è andata a indagare come il tempo passato su internet influisce su persone che sono o non sono già consumatori abituali di internet. I risultati parlano chiaro: l’utilizzo di internet ha un pesante impatto negativo sull’umore soprattutto nel gruppo di chi è già drogato di internet.

Insomma, internet è innocente, ma in chi già ha esagerato e già si è drogato di internet, internet stesso moltiplica il disagio ulteriormente, rafforzando la spirale di dipendenza. Insomma, siamo tutti un po’ schiavi di antichissime passioni, ma in chi ha già ceduto internet rafforza le catene.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Confessioni di una sociopatica: viaggio nella mente di una manipolatrice – Recensione

Michela Dellantonio

Il libro è la testimonianza di M. E. Thomas, una donna con diagnosi di disturbo antisociale di personalità. È un’affermata avvocatessa, docente di diritto, ha un ottimo lavoro, una bella famiglia, è pubblicista per le maggiori riviste scientifiche, dona il dieci per cento del suo reddito in beneficenza, alla domenica fa volontariato come insegnante in una scuola.

Fin qui niente di strano se non per il fatto che le manca soltanto una cosa: la morale, e non ne sente la mancanza. E’ una sociopatica, che vuole mantenere l’anonimato e che racconta la storia della sua vita:

“una storia vera raccontata attraverso un filtro. È il filtro attraverso cui io vedo il mondo, fatto di megalomania, idee fisse e di una totale mancanza di comprensione nei confronti degli altri”.

“Sono una persona libera dalle emozioni più irrazionali e incontrollabili. Sono furba e calcolatrice. Sono intelligente, sicura di me e molto affascinante; ma faccio anche del mio meglio per reagire in maniera appropriata ai confusi segnali emotivi che mi vengono lanciati dalle altre persone.

Nel libro l’autrice fa trasparire la sua fame di successo e ammirazione, la sua continua e ossessiva ricerca del potere e delle vincite al gioco. Descrive  candidamente una vita di furbizia e falsità in cui “ogni persona, ogni cosa può essere misurata con precisione matematica per ricavarne qualche vantaggio”.

E. Thomas è anche una donna senza scrupoli e manipolatrice, ma lei definisce la manipolazione una caratteristica positiva che le permette di

[blockquote style=”1″]“mettere a frutto i doni che mi ha dato il buon Dio!”[/blockquote]

È una donna che va fiera di aver portato alla rovina delle persone per raggiungere il suo scopo; ne è un esempio il suo agire meschino quando da adolescente riuscì a far licenziare un professore che la valutava, secondo lei, in modo non adeguato, montando un caso di molestie sessuali in piena regola.

L’autrice ritiene le relazioni intime alla stregua di transazioni finanziarie; all’interno delle quali è la seduzione che le provoca piacere, non la relazione in se stessa, nella quale incanta e manipola i suoi partner come fossero dei “beni”.

Secondo M. E. Thomas non esiste una cura specifica, se non quella di trarre beneficio dall’essere mormone, cosa che permette a ciascun individuo di quella confessione religiosa di migliorare se stesso attraverso l’impegno sociale.

Nella storia che racconta emergono anche alcune cose di lei “piacevoli”:

  • non è un maniaco omicida, ma un “alto funzionante sociopatico”;  non fa male fisicamente alle persone (nonostante abbia impulsi per farlo), in genere segue le regole e i regolamenti sociali;
  • fa cose belle per la gente (ha comprato una casa a suo fratello), fa volontariato e dona in beneficenza, ai suoi studenti dà amore,  apprezza la sua famiglia.

L’autrice è consapevole di sé, ha cercato aiuto per gestire il suo disordine, ne ha parlato apertamente nel libro, ha creato un blog (www.sociopathworld.com) in cui discute con altri psicopatici e non, anche se ammette di aver agito in tal modo per trarne profitto.

Ha avuto il coraggio di confessare il suo disturbo ai parenti più stretti e a un paio di amici, dopo di allora lo ha rivelato ad una o due persone all’anno, solamente quando ha avuto necessità di consigli in un campo in cui erano esperti (scrittura, ottimizzazione del sito,..) o

[blockquote style=”1″]“semplicemente perché morivo dalla voglia di far sapere a qualcuno di qualche fantastica canagliata che ero riuscita a combinare: un prepotente fatto fuori, o un tizio sedotto solo per il gusto di rovinarlo”.[/blockquote]

Ora attraverso il libro vuole in qualche modo togliersi quella maschera di anonimato per mostrare al mondo chi è realmente, per

[blockquote style=”1″]“vivere alla luce del sole e fare in modo che quelli come me sappiano che non sono soli”.[/blockquote]

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Cercare informazioni su internet ci fa sentire più intelligenti

FLASH NEWS

L’essere impegnati in una ricerca su internet porta i soggetti a credere di possedere effettivamente un maggior numero di informazioni frutto di una conoscenza personale dell’argomento, piuttosto che ritenere che la propria capacità di rispondere alle domande del compito sia dovuta alla possibilità di aver avuto accesso ad internet.

Cercare informazioni su internet permette alle persone di sentirsi più intelligenti. È quanto emerso da una recente ricerca condotta presso la Yale University e pubblicata su American Psychological Association. Grazie a internet è possibile avere accesso in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo ad ogni tipo di informazione, di trovare una risposta a qualunque domanda. Matthew Fisher, principale autore dello studio, afferma che è proprio questo il motivo che porterebbe alcuni individui a confondere le informazioni provenienti da fonti esterne con quelle invece già presenti “nella propria mente”, sovrastimando così la reale conoscenza che si ha di un certo argomento.

In una serie di 9 esperimenti, nel corso dei quali è stato reclutato un campione costituito da 152 a 302 partecipanti a seconda di ciascuna fase, è stato chiesto a ciascun soggetto di rispondere a quattro semplici domande (e.g. “Come funziona una cerniera lampo?”) e di indicare quale sito internet riportava la migliore risposta in merito. Lo stesso testo utilizzato dalla maggior parte dei partecipanti per rispondere a tali domande veniva fornito anche ai soggetti del gruppo di controllo, ai quali non era stato permesso di compiere alcuna ricerca su internet. Entrambi i gruppi venivano in seguito valutati sulla base della loro capacità di rispondere a delle domande che non avevano nulla a che fare con gli argomenti oggetto della precedente ricerca (e.g. “Perché le notti nuvolose sono più calde?”).

È così emerso che coloro che avevano potuto impegnarsi in una ricerca online ritenevano di essere più esperti e di avere a disposizione un maggior numero di informazioni rispetto ai soggetti del gruppo di controllo, anche quando l’argomento della ricerca non riguardava le successive domande a cui era chiesto loro di rispondere.

Un risultato che ha molto sorpreso i ricercatori è stato, inoltre, che questi soggetti avevano un’esagerata sovrastima delle proprie conoscenze anche quando nel corso della loro ricerca sul web non erano riusciti a recuperare le informazioni richieste perché si trattava di domande molto difficili oppure perché erano stati applicati dei filtri particolari alla ricerca su Google che avevano impedito di trovare la risposta desiderata. Tali soggetti affermavano, inoltre, di avere una maggiore attivazione a livello cerebrale rispetto a coloro che facevano parte del gruppo di controllo, scegliendo immagini di risonanza magnetica funzionale che mostravano un maggiore livello di attivazione come corrispondenti alle immagini del proprio cervello.

È quindi possibile concludere che l’essere impegnati in una ricerca su internet porti i soggetti a credere di possedere effettivamente un maggior numero di informazioni frutto di una conoscenza personale dell’argomento, piuttosto che ritenere che la propria capacità di rispondere alle domande del compito sia dovuta alla possibilità di aver avuto accesso ad internet.

Non si tratta della sola possibilità in sé di aver accesso a internet ad alimentare questa sovrastima delle proprie conoscenze personali in quanto, quando ai partecipanti veniva dato direttamente un indirizzo web al quale reperire le informazioni richieste, non riportavano livelli più alti di conoscenza personale rispetto al gruppo di controllo, ma della possibilità di essere impegnati in un’attività di ricerca attiva.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Fisher, M., Goddu, M.K., & Keil, F.C. (2015). Searching for Explanations: How the Internet Inflates Estimates of Internal Knowledge. Journal of Experimental Psychology: General. Advance online publication. http://dx.doi.org/10.1037/xge0000070. DOWNLOAD

Il capro espiatorio in Girard e in Fornari: la violenza nelle società antiche – (Monografia)

LA TEORIA DEL CAPRO ESPIATORIO IN GIRARD E FORNARI PT.1

Questo era il senso della passione greco-romana per le palestre: la guerra. Le società post-classiche, medievale e moderna, hanno messo il lavoro al posto della guerra. O quasi.

La teoria del capro espiatorio è un modello antropologico sviluppato dallo studioso franco-statunitense René Girard (1982) e poi ulteriormente elaborato e modificato dal suo allievo e successore Giuseppe Fornari (2006). In breve, si tratta di una teoria sul funzionamento sociale e culturale umano, di come gli uomini e le donne usano le credenze religiose e filosofiche per far funzionare le relazioni sociali, sia spontanee che istituzionalizzate.

La teoria non affronta il livello razionalistico della struttura sociale ovvero il patto economico e il contratto di interesse che sono alla base delle associazioni umane. Piuttosto essa tratta il livello emotivo e antropologico, di come gli uomini riescano a gestire i conflitti emotivi incanalandoli in cerimonie e riti religiosi e culturali e trasformandoli in racconti e narrazioni dotate di senso. A questo livello emotivo e cognitivo, il modello è d’interesse anche per lo psicologo clinico, che può trarre insegnamento su come nella sofferenza e nella patologia, soprattutto dei disturbi di personalità, questa gestione fallisca e i rapporti tra le persone esplodano in scontri e conflitti rabbiosi. Naturalmente questo importa soprattutto nella comprensione del caso del disturbo di personalità borderline, disturbo intriso di stati aggressivi e collerici.

Nel modello di Girard i rapporti umani sono concepiti come tendenzialmente conflittuali e rivalitari. Gli individui sono in agonismo perenne e competono per posizioni di rango in cui si sentano riconosciuti, ammirati, abbiano accesso alle risorse materiali e, soprattutto, destino ammirazione, seguito e imitazione. Il problema dell’imitazione per Girard è centrale. I conflitti umani, oltre ad avere una radice economica (l’accesso alle risorse) e gerarchica (l’acceso ai ranghi superiori), ha anche una radice puramente cognitiva, in cui chi vince la competizione diventa un modello per gli altri: in quanto vincitore i suoi comportamenti, i suoi pensieri e perfino le sue emozioni diventano oggetto di imitazione ed emulazione e ovviamente anche invidia.

La nostra società umana è quindi affetta da continue situazioni di rabbia rivalitaria, la cui gestione non è semplice. Ce la caviamo alternando continuamente scontri ritualizzati e riconciliazioni, provocazioni verbali e riconoscimenti reciproci, sfottò o anche offese a scuse. Questo accade nel mondo moderno, che è riuscito a espungere la violenza fisica nelle relazioni tra cittadini dello stato di diritto. Inoltre le organizzazioni sopra-statali (come le Nazioni Unite o l’Unione Europea) tentano, con minore successo, di risolvere anche i conflitti tra stati eliminando la guerra, ovvero il ricorso alla violenza fisica per risolvere i conflitti.
Man mano che si va indietro nel tempo il livello di violenza aumenta. All’inizio dell’era moderna già lo stato assoluto monarchico in realtà era riuscito bene a limitare la violenza, a fondare il governo della legge e, inoltre, attraverso la diplomazia tentava, con successo scarso ma non del tutto nullo, di prevenire le guerre tra stati.

Nell’età classica i rapporti tra stati sfociavano costantemente nella guerra, tanto è vero che ogni cittadino greco o romano sapeva bene che una porzione fissa dell’anno, a cavallo tra primavera ed estate, dopo la semina e prima del raccolto, era dedicata alla guerra. Le guerre diminuirono più per merito delle grandi unificazioni imperiali, macedone e romana, che per merito delle città stato greche e italiche e delle tribù barbariche, incapaci di risolvere pacificamente i conflitti. Anzi, questi organismi cittadini e tribali non si ponevano nemmeno il problema di liberarsi della guerra; la guerra era concepita come una condizione periodica inevitabile come le stagioni.

Le società antiche erano culture di contadini-cittadini-soldati per i quali la guerra faceva parte del ciclo agricolo annuale. Non a caso era così diffuso lo schiavismo, essendo i cittadini occupatissimi con la politica e la guerra, oltre che con i lavori agricoli. L’odierna complessità dei mestieri e delle specializzazioni era ignota alla cultura classica, che demandava tutto il lavoro agli schiavi. Per i filosofi greci, lavorare era un’attività ignobile e inadatta all’uomo libero.

Con tutta la sua violenza, già il successivo medioevo, con la sua economia complessa e differenziata, i suoi artigiani, i suoi artisti, i suoi banchieri, i suoi architetti, i suoi monaci studiosi e intellettuali, era meno adatto alla guerra. Insomma, con il medioevo comincia a esserci troppa gente che aveva un lavoro vero e non poteva perdere tempo a fare politica nell’agorà e partire per una campagna militare ogni primavera. Per non parlare poi della necessità continua di esercizio fisico per tenersi pronti alla guerra; necessità incompatibile con il lavoro. Questo era il senso della passione greco-romana per le palestre: la guerra. Le società post-classiche, medievale e moderna, hanno messo il lavoro al posto della guerra. O quasi.

LA TEORIA DEL CAPRO ESPIATORIO IN GIRARD E FORNARI

 

Talassemia: riscontriamo depressione nei portatori sani?

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Talassemia: riscontriamo depressione nei portatori sani?

 Autrice: Derna Busacchio (LUMSA Roma)

 

Abstract

La continua relazione tra mente e corpo ha spinto ad indagare sulla possibile relazione tra malattia ematologica non grave (beta-talassemia) e disturbo depressivo maggiore. Attraverso la sommistrazione di un questionario mirato a misurare la depressione, BDI-IIBec Depression Inventory, a soggetti portatori sani di talassemia i quali hanno riportato un punteggio totale pari a 14,75 che indica la presenza di una depressione lieve. I risultati ottenuti offrono spunti per un ulteriore indagine su questo versante e risultano utili ai fini di una osservazione clinica.

 

English Abstract

The continuous relationship between mind and body has led us to investigate the possible relationship between haematological disease is not serious (beta-thalassemia) and major depressive disorder. Through the administration of a  targeted questionnaire to measure the depression, BDI-IIBec Depression Inventory, in subjects with healthy of thalassemia which have reported a total score equal to 14,75 which indicates the presence of a mild depression. The results offer insights for further investigation on this side and are useful for the purposes of a clinical observation.

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Il sistema cerebrale della ricerca e le dipendenze comportamentali

Iacopo Camozzo Caneve

Il sistema della ricerca attiva l’organismo e lo pone in uno stato di euforica bramosia nel suo volgersi verso tutto questo; non richiede una ricompensa, non c’è bisogno di alterazione chimica come può accadere tramite la sostanza; è il semplice volgersi verso, lo stato mentale desiderante a rappresentare il motore per la ripetizione del comportamento.

Dalla seconda metà del secolo scorso un circuito cerebrale ha ricevuto un’attenzione particolare, e più di altri ha dato luogo a interpretazioni differenti che si sono succedute nel tempo; si tratta del fascicolo prosencefalico mediale (MFB) che, attraverso l’ipotalamo laterale (LH), connette regioni del tronco encefalico inferiore con regioni superiori fino alla corteccia mediale frontale.

La storia di questo circuito ebbe inizio con la scoperta nel 1954 da parte di Olds e Milner (Olds, J., MIlner, P., 1954) del fatto che in laboratorio gli animali agivano (attraverso elettrodi opportunamente sistemati) per procurarsi continuativamente stimolazioni elettriche in specifiche zone del cervello: il circuito interessato fu subito denominato “sistema del piacere”, o, più avanti, sistema della ricompensa cerebrale e sistema del rinforzo, credendo quindi di aver identificato il sistema cerebrale utilizzato dal cervello per scatenare le sensazioni di piacere implicate nei comportamenti “consumatori” (che si trattasse di mangiare del cibo, avere un rapporto sessuale o altri).

Negli anni, dopo una serie di interpretazioni del significato di questo circuito che continuavano sostanzialmente ad andare nella stessa direzione, intendendolo quindi come una fonte di “gratificazione a scopo raggiunto”,  Jaak Panksepp e il suo gruppo hanno avanzato, dati alla mano, una proposta alternativa che vede questo stesso circuito implicato non nel piacere derivante dalla consumazione (o, per noi umani, dal raggiungimento dello scopo) quanto nella “anticipazione bramosa delle ricompense”; si è vista infatti essere  l’area del setto quella implicata nella piacevole consumazione, mentre il sistema MFB-LH, da adesso denominato sistema della RICERCA, è piuttosto interessato in una aspecifica “energizzazione” dell’organismo che si impegna in comportamenti di ricerca (ricerca che può essere rivolta al cibo, a una tana per i cuccioli, un compagno/a sessuale…).

In questo modo, compare anche una lettura nuova della dinamica organismo-ambiente (soprattutto per quell’organismo particolare che è l’essere umano) che sostituisce a una concezione dell’organismo come passivo elaboratore di informazioni provenienti da un mondo che “arriva”, l’idea di un organismo attivo che, appunto, in ogni momento cerca, indipendentemente da un bisogno omeostatico impellente, e che dal cercare trae uno stato di euforica bramosia di gran lunga più gratificante di quanto uno scopo, una volta raggiunto, non sia in grado di produrre.

La bramosia anticipatoria della ricerca ha un tale potere euforizzante da essere ricercata in quanto tale (per questo, la confusione durata anni con il sistema del piacere) e si può ben vedere nella frenetica  auto-stimolazione, in situazioni sperimentali appositamente progettate, di tali aree cerebrali da parte degli animali; una pulsione alla ricerca, quindi, totalmente differente dal piacevole senso di liberazione associato alla consumazione che si può osservare quando invece gli animali sono messi nelle condizioni di stimolare l’area del setto.

Negli esseri umani, il sistema della RICERCA ha la caratteristica di essere interessato non solo nei bisogni di base (cercare cibo, una tana, fuggire da un predatore…) ma è al servizio di più complessi bisogni sociali e “intellettuali”, oltre che potersi orientare verso i più disparati e allettanti stimoli del mondo circostante, dalle scintillanti luci di una sala da gioco, alle luccicanti vetrine dei parchi-per-gli-acquisti appositamente costruiti, sino alle “promesse sociali” dei social network. RICERCA è un sistema senza morale, un imperativo che dice all’organismo “alzati e vai”, ce la puoi fare.

Il sistema della RICERCA attiva l’organismo e lo pone in uno stato di euforica bramosia nel suo volgersi verso tutto questo; non richiede una ricompensa, non c’è bisogno di alterazione chimica come può accadere tramite la sostanza; è il semplice volgersi verso, lo stato mentale desiderante (terminologia non usata da Panksepp) a rappresentare il motore per la ripetizione del comportamento, grazie alla sua capacità di evocare uno stato del corpo e della mente che sono di per sé gratificanti. Negli esseri umani (negli animali si può desumere unicamente da indizi comportamentali) tale bramosia anticipatoria si accompagna all’accresciuto senso di  sé di chi ha la percezione, anche svincolata da qualsiasi indizio razionale, di essere in grado di trovare quello che sta cercando e di poter fare accadere le cose nel mondo così come vuole (immediato il parallelo con l’irrazionalità di certi comportamenti dei giocatori d’azzardo).

E così, a dispetto della propria razionalità, nonostante una parte della mente possa cogliere l’assurdità del comportamento, l’attesa mentre la pallina salta sulla roulette che gira vorticosamente, il tempo per accedere sullo smartphone alla propria e-mail, l’occhio che corre lungo la vetrina alla ricerca del prezzo più basso…tutto questo può essere ricercato di per sé, per la sua qualità soggettiva non solo piacevole, ma di vera e propria grandiosità, a un senso di saper fare e poter fare, tanto quando si tratta di saper trovare la soluzione a un problema quanto se si tratta di poter farcela al tavolo da gioco.

Programmato in un mondo oggettivamente più pericoloso ma nonostante tutto meno ingannevole e stimolante, il sistema della RICERCA si trova oggi in una  realtà circostante troppo piena di “esche”: e-mail, sale gioco, centri per lo shopping…gli esempi si moltiplicano, e le dipendenze comportamentali possono trarre proprio da questi circuiti l’energia per andare avanti.

La stessa energia, d’altronde, che ci ha permesso di esplorare il nostro pianeta (e oltre), conoscere, scoprire, capire… E’ infatti lo stesso sistema della RICERCA quello che si attiva nella curiosa esplorazione del nostro ambiente, quello che ci fa cercare la soluzione a un problema relazionale o lavorativo o ci spinge a gironzolare per una libreria alla ricerca della prossima lettura o, più prosaicamente, quello che  ci ha spinti ad arrivare sin qui nella lettura di questo articolo.

Nelle parole di Panksepp:

“una macchina complessa che genera conoscenze e credenze” (Panksepp, 2014)

 

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Pensiero intuitivo & utilizzo degli smartphone

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Le correlazioni indicano che i soggetti con una maggiore propensione al pensiero intuitivo (rispetto a quello analitico) si affidano maggiormente ai loro Smartphone, in quanto estensioni della mente, per scopi e funzioni psicologiche nella quotidianità, quali ad esempio l’orientamento spaziale o il recupero di informazioni già apprese.

Gli smartphone ci risolvono un sacco di problemi nella quotidianità sostituendosi non solo a oggetti, ad esempio sveglie, pile, mappe, agende, calcolatrici, guide etc, ma anche alle funzioni cognitive ad essi sottese quali la memoria, l’orientamento e la navigazione spaziale, abilità matematiche di base e i processi di apprendimento.

In tal senso i dispositivi digitali del nostro secolo vengono definiti “estensioni della mente” umana.

Tuttavia un nuovo studio dell´Università di Waterloo e pubblicato sulla rivista Computers in Human Behavior dimostra che la controindicazione maggiore nell’ uso degli Smartphone in queste diverse funzioni colpirebbe proprio le persone definite come intuitive (rispetto agli analitici) e cioè tendenti a basarsi sulle proprie emozioni e sensazioni nel prendere decisioni e nella risoluzione di problemi.

Coinvolgendo circa 600 partecipanti i ricercatori hanno valutato diverse variabili tra cui lo stile cognitivo (intuitivo vs. analitico nella risoluzione di problemi), abilità numeriche e verbali; e d’altro canto hanno analizzato le abitudini di utilizzo degli Smartphone.

Le correlazioni indicano che i soggetti con una maggiore propensione al pensiero intuitivo (rispetto a quello analitico) si affidano maggiormente ai loro Smartphones, in quanto estensioni della mente, per scopi e funzioni psicologiche nella quotidianità, quali ad esempio l’orientamento spaziale o il recupero di informazioni già apprese. Non è stata però rilevata nessuna correlazione tra pensiero analitico o intuitivo e l’utilizzo degli Smartphones per scopi sociali o di puro intrattenimento.

La tendenza ad affidarsi ai dispositivi digitali e a considerarli pragmaticamente delle estensioni della nostra mente probabilmente continuerà ad aumentare, e dunque a modificare le nostre menti e i relativi processi di funzionamento. Studi simili ci consentono di comprendere come la nostra mente si differenzi rispetto ad alcune variabili individuali nell’uso dei dispositivi digitali e come questi ultimi influenzino la nostra evoluzione cognitiva.

 

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La droga non passa mai di moda

È un disturbo del comportamento motivato che, soprattutto in soggetti predisposti, s’instaura progressivamente, anche se non obbligatoriamente, attraverso stadi subentranti, che sfumano l’uno nell’altro e che sono caratterizzati da cambiamenti neuropatologici e comportamenti culminanti, nella fase finale, in una ricerca e consumo compulsivo di sostanza psicoattiva.

Con il termine “droga”, dal punto di vista farmacologico, si fa riferimento a qualsiasi sostanza, sintetica o naturale, chimicamente pura o meno, la cui assunzione provoca una modificazione della coscienza, della percezione, dell’umore (Galimberti, 2007). Di fronte a un fenomeno così poco comprensibile e controllabile il contesto sociale ha sempre cercato di racchiuderlo in significati attribuiti attraverso rituali o norme da cui derivarne il senso, la legitimizzazione o la delegittimazione (Loi e Tarantini, 2006).

L’uso di sostanze per alterare lo stato di coscienza è rintracciabile in diverse culture già dal 4000 a.c.: i Sumeri indicavano il papavero da oppio come pianta della gioia, dimostrando così come le antiche popolazioni della Mesopotamia conoscevano bene le proprietà euforizzanti del succo di tale pianta. Nell’800, con lo sviluppo della cultura scientifica, tutti i significati legati ai contesti religiosi e sciamanici sono stati trasformati e deprivati della magia: la droga, che mediava l’incontro mistico con il sacro, si trasforma nella ricerca individuale dell’illusione (Testoni e Frigerio, 2002).

Negli anni ’70 esplodono le lotte politiche, in nome della libertà d’espressione, sia mentale che fisica. “Sesso, droga e Rock’n’Roll”, mai definizione fu più adatta per riassumere gli anni ’70: sono gli anni della trasgressione, della rivoluzione femminile, della supremazia delle ideologie politiche. E’ il decennio dei cosiddetti figli dei fiori, quelli che vestivano con pantaloni a zampa di elefante, maglie coloratissime e con i capelli imprescindibilmente lunghi. Il movimento pacifista degli Hippie fa strage di consensi tra i giovani e diviene il marchio di fabbrica di un’intera generazione, sempre pronta a dire ‘no’ a qualsiasi imposizione o sopruso.  Ma il fenomeno come quello hippy, diffusosi dall’America all’Europa, comunque si connotava più con la trasgressione che non della protesta pacifista e come tale si è disperso a favore dell’uso di droghe come fenomeno individuale (Loi e Tarantini, 2006)

In questi ultimi anni si è sempre più consolidata l’idea della tossicodipendenza come malattia, attraverso la possibilità di definire in maniera adeguata un quadro clinico e un quadro patogenetico: ne conosciamo il meccanismo biologico e gli aspetti comportamentali e psicologici, come la relazione tra la persona e l’oggetto che viene impiegato per trarre piacere, o le modalità con cui in generale il soggetto gestisce le gratificazioni della sua vita. Tutto ciò ci consente di dire che uno degli aspetti propri della tossicodipendenza è quello di essere anche una patologia, nonostante il problema abbia altre valenze di ordine politico, economico, esistenziale, che vanno al di là della pura malattia.

L’addiction, nella sua accezione moderna, è definita come un disturbo mentale ad andamento cronico recidivante, che si sviluppa in seguito a complesse variabili biologiche e ambientali. Caratteristica dell’addiction è una modalità compulsiva e discontrollata di assunzione di sostanze nonostante le conseguenze sfavorevoli. Tale termine comprende i concetti di tolleranza e di dipendenza, ma anche altri aspetti che la caratterizzano: la preoccupazione per l’acquisizione della droga e l’uso compulsivo, l’intenso desiderio della sostanza (craving), la perdita di controllo, il forte rischio di ricadute e il diniego della propria condizione di dipendenza. Il comportamento recidivante, invece, è una conseguenza dell’addiction e intende la possibilità di ricaduta nell’uso della sostanza dopo un periodo più o meno lungo di disintossicazione. Le sostanze, per essere in grado di generare abuso e dipendenza, devono avere tre caratteristiche di base: liking, cioè piacevoli, funzionali ai bisogni fisici della persona, capaci di dare tolleranza, astinenza e craving (Clerici, Carta e Cazzullo, CI, 1986).

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Da un punto di vista neurobiologico, le modificazioni psicopatologiche e comportamentali che si osservano nell’addiction sono spiegate sulla base del modello della brain reward, dal momento che le sostanze di abuso produco effetti di rewarding (ritenuti euforizzanti e positivi dal consumatore) e di reinforcing (i comportamenti associati all’uso di sostanze vengono reiterati nel tempo). Per assumere un ruolo di sostanza di abuso, una molecola deve essere dotata di capacità dopaminergiche, cioè deve saper interferire, in modo più o meno diretto, sul tono dopaminergico del sistema di gratificazione, tramite un’azione diretta (recettoriale) o indiretta (attraverso meccanismi di reuptake pre e/o post sinaptici) (Kandel, Kessler e Margulies, 1978) : le diverse sostanze di abuso presentano differenti meccanismi d’azione, ma tutte producono effetti sui circuiti della gratificazione dove determinano una attivazione della trasmissione dopaminergica, dando così luogo a comuni effetti funzionali dopo somministrazione acuta o cronica.

È un disturbo del comportamento motivato che, soprattutto in soggetti predisposti, s’instaura progressivamente, anche se non obbligatoriamente, attraverso stadi subentranti, che sfumano l’uno nell’altro e che sono caratterizzati da cambiamenti neuropatologici e comportamenti culminanti, nella fase finale, in una ricerca e consumo compulsivo di sostanza psicoattiva. Le prime assunzioni determinano una sensazione di piacere legata alla stimolazione dei recettori mu degli oppioidi e la stimolazione di dopamina con interessamento nel nucleo accumbens, amigdala, corteccia prefrontale (CPF) e striatodorsale (gangli della base). In tal modo si realizza un apprendimento incentivo (per rinforzo), patologico perché non finalizzato a rinforzare comportamenti adattativi di base, quali ad esempio la ricerca del cibo, di attività sessuali, di interazioni sociali, etc.

Inizia un processo di plasticità neuronale che porterà a una modificazione del fenotipo neuronale che si verifica in seguito alle assunzioni ripetute di sostanze d’abuso (Scott e Koob, 2010; White, 2002). Proseguendo l’uso, l’attivazione dei sistemi contro-opponenti diviene fondamentale nel generare il passaggio dal “io voglio” al “io devo”: se in una prima fase si ha la percezione di scegliere una sostanza per il puro piacere che provoca, in sua seconda fase la sua assunzione diviene quasi una necessità. Lo spostamento verso il polo disforico negativo dell’affettività condiziona il rischio di ricadute (sollievo temporaneo indotto da droghe) e l’evoluzione verso l’addiction (Nestler, 2002; 2004.).

Con il progredire della dipendenza il comportamento di ricerca e assunzione di sostanza inizialmente sostenuta da un rinforzo positivo, sono memorizzati come comportamenti svincolati dall’obiettivo, pertanto difficili da controllare. Il paziente vede le sue funzioni di decision making pesantemente compromesse (Lucchini, 2014). Tuttavia, per comprendere la complessità dell’addiction è fondamentale analizzare il contesto attuale e riflettere sulla possibilità di nuove prospettive di cura che tengano conto, oltre agli aspetti neurobiologici, di come la tossicodipendenza sia un fenomeno in continua evoluzione.

In Italia, mentre inizialmente era l’eroina a suscitare il massimo interesse sul problema droga, con gli anni ‘90, unitamente all’incremento dell’uso di cocaina, fu l’avvento delle droghe sintetiche a modificare profondamente il panorama della dipendenza da sostanze. Anche l’interesse del mondo scientifico iniziò ad allargarsi nei confronti di tutte le droghe: a presentarsi agli operatori dei servizi per le dipendenze erano sempre più giovani e giovanissimi che poco avevano a che fare con i soggetti tossicodipendenti con cui fino allora si era abituati a trattare. Erano i consumatori delle cosiddette nuove droghe, le droghe sintetiche, per loro a nulla sarebbero serviti i farmaci utilizzati nel recupero degli eroinomani. Non solo. Le condizioni economiche, sociali e lavorative di questi soggetti non erano sovrapponibili alla media degli utenti tradizionali: erano giovani, spesso studenti, provenienti da famiglie tra loro diversissime.

GUARDA NUDGET (2014) VIDEO SUL FENOMENO DELLA DIPENDENZA:

 

Oltre alla novità chimica delle sostanze sintetiche, si potrebbe espandere l’aggettivo nuove droghe e far riferimento alle differenze rispetto agli stili precedenti di consumo, oltre che al tipo di sostanza. L’aggettivo “nuovo” pone l’accento sulle trasformazioni in atto nel rapporto che gli adolescenti e i giovani hanno con le droghe (Picone Stella, 2002; Di Blasi, 2004; Leoni e Ponticelli, 2003): un innalzamento nei livelli di consumo che va interpretato non solo come un effettivo aumento, ma anche come un atteggiamento di maggiore accettazione ed una maggiore disponibilità ad ammettere l’esistenza del fenomeno (Leoni e Ponticelli, 2003; Buzzi, Cavalli e De Lillo, 2002).

L’indagine IARD del 2002 (cit. in Buzzi, Cavalli e De Lillo, 2002) spiega come la contiguità agli stupefacenti da parte dei giovani intervistati si configura sempre più come un fenomeno di consumo e non come una espressione di devianza. L’utilizzo di sostanze stupefacenti sembra rispondere più ad un desiderio di presenza nel mondo: in un sistema che corre a velocità vertiginose, in cui si perdono i riferimenti, non si è in grado di progettare il proprio futuro, in cui la cultura dell’aiuto a superare il proprio limite è particolarmente diffusa, le droghe rispondono ad un bisogno di identità che non viene soddisfatto altrove. I giovani con i livelli di contiguità più eleva paiono dunque essere i più fragili dal punto di vista psicologico e progettuale, ragazzi che non hanno niente da perdere, ma che non trovano nemmeno nulla da cercare né nulla attorno a cui organizzare la propria identità e il proprio senso.

Questo nuovo atteggiamento verso l’uso di sostanze potrebbe riflettere anche un importante cambiamento che caratterizza la nostra epoca: molti dei fenomeni osservati nei tossicodipendenti, quali la profonda insicurezza, le difficoltà di identificazione, la mancanza di autonomia, lo scarso sviluppo del sentimento di stima di sé, trovano la loro origine e il loro senso proprio nella specificità della struttura familiare (Cancrini, 1982; Cancrini e Barboni, 1985). Alcuni punti critici che bilanciano il rapporto tra disfunzionalità familiare ed esito problematico nella tossicodipendenza  sono: una relazione fusionale, ossia un atteggiamento protettivo che tende generalmente a bloccare i processi di esplorazione verso l’esterno del figlio; le separazioni impossibili, che difendono i figli dall’angoscia di separazione e di differenziazione (Toscani, 1988); quelli che Bowlby (1988) definiva i “legami transgenerazionali”, che fanno pensare che il processo di crescita nei genitori non sia stato sufficientemente sviluppato e facilitato all’interno della propria famiglia di origine, per cui allevare un figlio nella dipendenza risulta l’unica via percorribile perché l’unica conosciuta.

Altro fenomeno esistente è quello del poliabuso. Questa condotta è caratterizzata da un uso concomitante in un individuo di due o più sostanze che non necessariamente implicano lo sviluppo di dipendenza: generalmente nel poliabuso il soggetto assume varie classi di sostanze senza che ne divenga dipendente contemporaneamente a tutte o, in alternativa, sviluppa una dipendenza per una sola sostanza. Tuttavia, il poliabuso porta a conseguenze importanti: aumenta il rischio di problemi sanitari (infezioni, disturbi di organo e apparato); produce una risposta peggiore al trattamento (maggiori tassi di drop out e minore ritenzione in trattamento); causa una maggiore gravità e minori tassi di risposta clinica ai trattamenti nella psicopatologia in comorbidità; aumenta il rischio di insorgenza di disturbi psicopatologici associati. In Italia il 60% dei consumatori ha caratteristiche di poli-assuntore; il 93% dei consumatori di eroina utilizza contemporaneamente alcol; il 96% dei consumatori di cocaina utilizza anche alcol; il 92% dei consumatori di THC utilizza anche alcol (Indagine ESPAD e IPSAD, 2007-2008, cfr. Hibell et al., 2012).

Infine, la comorbilità psichiatrica associata al comportamento tossicomanico è sempre più complessa (Regier et al. 1990; Serio, 2004; Clerici et al.,1991; Kessler et al.,1996; Serio, 2004; Regier et al., 1998; Weaver et al., 2000; Cantor-Graae et al., 2001; Hasin et al., 2007; Merikangas et al., 1998; Schneider et al., 2001; Marsden et al., 2000): richiede un trattamento individualizzato e la creazione di servizi integrati.

 

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Il fuoco amico sui CIM: commento all’articolo de La Repubblica “I manicomi ora si chiamano psicofarmaci”

Commento all’ articolo di Pietro Cipriano de La Repubblica del 10 aprile “I manicomi ora si chiamano psicofarmaci”.

 

Preso nel suo insieme, anche se non credo sia nell’ intenzione dell’autore, l’articolo mi sembra un danno per il servizio pubblico, strumentalizzabile dai suoi numerosi nemici ed offensivo per le migliaia di splendidi operatori che fianco a fianco con i malati ed i loro familiari portano il carico della sofferenza mentale cercando, se non di guarire, perlomeno di migliorare la qualità della vita di centinaia di migliaia di persone con cui stabiliscono legami che durano un’intera esistenza in uno scambio reciprocamente arricchente. 

 

E’ sempre positivo quando si parla di Psichiatria e soprattutto di servizio pubblico. Figuriamoci quando a farlo è, nelle pagine della cultura, un quotidiano così prestigioso come La Repubblica del quale condivido, come si diceva da giovani, la weltanschauung.
Sono reduce di tutta la mia carriera professionale trascorsa per trent’anni, fino alla pensione, nel Dipartimento di Salute Mentale di Viterbo. Come in un “piatto ricco” non resisto alla tentazione e mi “ci ficco”, anche attratto dalle frasette estrapolate ed evidenziate dai sottotitoli nel testo.

“Finalmente”, mi dico. Sono certo in una difesa appassionata del servizio pubblico contro l’avanzare, anche in questo campo, del privato. Poi, andando avanti nella lettura e, pur condividendo molte suggestioni aneddotiche, mi appare lo spettro di Comunardo Niccolai (che i più anziani ricorderanno come terzino del Cagliari campione d’Italia degli anni ’70) la squadra di Gigggirrrriva, per intenderci, passato alla storia per i suoi travolgenti e imprevedibili autogol.

Preso nel suo insieme, anche se non credo sia nell’intenzione dell’autore, l’articolo mi sembra un danno per il servizio pubblico, strumentalizzabile dai suoi numerosi nemici ed offensivo per le migliaia di splendidi operatori che fianco a fianco con i malati ed i loro familiari portano, talvolta eroicamente il carico della sofferenza mentale cercando, se non di guarire, perlomeno di migliorare la qualità della vita di centinaia di migliaia di persone con cui stabiliscono legami che durano un’intera esistenza in uno scambio reciprocamente arricchente. 

Dopo questa generica affermazione cerco di entrare più nel merito delle singole questioni. In primo luogo non ho motivo per dubitare delle affermazioni del dottor Cipriano e spero che con l’arrivo al SPDC del San Giovanni abbia più fortuna di quella avuta fin ora essendo incappato in situazioni indubbiamente deplorevoli.

Un primo discorso riguarda gli psicofarmaci. Indubbiamente ci possono essere abusi. Il ‘900 è stato il secolo della farmacologia e gli abusi sono stati inevitabili, si pensi anche alle polemiche di questi giorni sull’abuso degli antibiotici.

Il che non vuol dire che si stava meglio quando non c’erano gli antibiotici.

La chiusura dei manicomi è stata certamente dovuta alla rivoluzione culturale e alla stagione riformista di quegli anni che poi, come il Concilio Vaticano secondo, ha attenuato la sua spinta restando parzialmente incompiuta, ma certamente anche all’avvento degli psicofarmaci.

Non sono la panacea e neppure il demonio: dipende, come sempre, dall’obiettivo per cui vengono utilizzati, nonché dalla competenza dell’utilizzatore.
Semmai occorre allarmarsi per un uso improprio sempre più a pioggia degli psicofarmaci, anche da parte di non specialisti, non per curare malattie ma per fronteggiare emozioni come la tristezza e l’ansia che sono parte integrante dell’esistenza ed hanno valore adattivo. Qui si aprirebbe un discorso più profondo sulla negazione che la nostra cultura fa della sofferenza e della stessa morte che più sono espulse più ci spaventano.

 

Il percorso classico  degli psicofarmaci

Degli psicofarmaci sappiamo inoltre che sostengono enormi interessi economici e che appena prodotti vengono spacciati per assolutamente efficaci e certamente innocui
(niente dipendenza, nè tolleranza) fino alla scadenza del copyright che garantisce i guadagni più cospicui. A quel punto vengono tirati fuori gli studi attardatisi nei cassetti dei ricercatori sulla pericolosità di quel farmaco. Contemporaneamente ne compare uno nuovo che si caratterizza in genere per tre aspetti:

  1. viene accreditato di efficacia pari e superiore al precedente,
  2. è assolutamente esente da effetti collaterali immediati e a lungo termine e
  3. costa circa 10 volte il precedente.

E’ stato così per l’eroina (inizialmente prodotto da banco) poi per i barbiturici che ci hanno portato via Marylin, poi per le benzodiazepine presenti in tutte le case ed ora per gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) che non si negano a nessuno.

Un’altra critica che mi sento di fare e di pensarsi noi come i buoni che hanno capito tutto e gli altri, in passato stupidi, cattivi e persino in malafede. Questa è una visione narcisistica e priva di una prospettiva storica. I medici che si sono occupati dei malati mentali hanno sempre cercato di farlo a fin di bene il che certamente non preserva dagli errori.

La nascita dei manicomi non è stata un esercizio di crudeltà mentale ma il tentativo di riconoscere il malato mentale come soggetto bisognevole di cure distinguendolo da altri esclusi ed emarginati. Alla fine del ‘600, le strutture lasciate libere dai lebbrosi rivelano finalmente la loro utilità nell’accogliere una vasta umanità di individui respinti dalla città, diventando ospedali ed al contempo carceri per persone di ogni tipo ed estrazione sociale.

Emblema delle nuove strutture dedicate all’isolamento è l’Hopital General di Parigi, fondato nel 1656, che viene definito da Foucault “il terzo stato della repressione”. Si tratta appunto di uno dei primi ospedali destinati ad accogliere e “correggere” i folli e gli alienati, ma è in realtà l’emanazione di un’autorità assoluta che il re crea ai limiti della legge tra la polizia e la giustizia. Fin dall’inizio è evidente che non si tratta di un’istituzione medica, ma di una sorta di entità amministrativa dotata di poteri autonomi, che ha diritto di giudicare senza appello e di applicare le sue leggi all’interno dei propri confini. I malati sono trattati senza rispetto per le condizioni in cui versano e tutta l’organizzazione ricorda molto da vicino quella di un carcere. La nascita dei manicomi vuole superare “il grande internamento” e riconoscere lo status di malati.

Ancora, Cipriano afferma che gli psicofarmaci non bastano e che al paziente servono soprattutto legami, un lavoro, un’ abitazione e, soprattutto, una dignità ed un progetto di vita. Ci mancherebbe altro, è la fiera dell’ovvio. Se non fanno questo, e possono farlo solo loro, un terreno dove il privato non potrà mai raggiungerci, cosa fanno i Dipartimenti di Salute Mentale?
Il problema, piuttosto, è la mentalità e dunque la formazione degli operatori.

Anche il Dipartimento di Salute Mentale può trasformarsi in un “terricomio” se assume la dimensione dell’istituzione totale. A mio avviso lo diventa quando tenta di soddisfare al suo interno tutti i bisogni dei pazienti che invece devono cercarne la realizzazione nella società. Il manicomio era orribile non solo per i muri ma perché tutta la vita avveniva al suo interno. Non c’era bisogno di altro.
Volterra era una vera e propria città nella città con scuole, ufficio postale, officine, campi da coltivare, ospedali per quando ci si ammalava e persino un piccolo cimitero. Il rischio non è che i nostri dipartimenti diano solo farmaci ma che diano case da matti, lavoro per matti, soggiorni o vacanze per matti, pensioni per matti e così via.

In proposito fate caso a come delle attività normalmente piacevoli, quando praticate dai matti acquisiscano il postfisso “therapy” e diventino estremamente più costose e motivo di esclusione invece che di integrazione. Si veda la pet therapy, l’art therapy, l’ippoterapia, la musicoterapia, la terapia attraverso il cinema o il teatro o lo sport. L’essenza del manicomio è l’esclusione, il fatto di essere “un mondo a parte” e questa insidia è ben più subdola degli psicofarmaci perché si annida nella nostra mente di operatori e forse ancora di più in quelli compassionevoli e oblativi. Persino nel delinquere, fino ad oggi, il matto aveva un suo percorso a parte.

La costruzione di una società migliore è un percorso lungo pieno di inciampi e di strade sbagliate. Lo stesso vale per l’edificazione della salute mentale, le tappe precedenti alla nostra vanno guardate come propedeutici passaggi essenziali senza i quali non ci sarebbe stata la sensibilità che il dottor Cipriano esprime ed anche noi e lui saremo visti così tra cento anni, un po’ miopi e gretti ma, spero, umili portatori di un progetto comune.
Mi auguro che il futuro non abbia bisogno dei Dipartimenti di Salute Mentale perché la società sarà completamente inclusiva e di per sé terapeutica e la gestione del disagio mentale riguarderà tutti come l’educazione. Nel frattempo però restiamo uniti a difesa di quanto di buono è stato fatto in Italia e stiamo attenti agli autogol che danno argomenti ai detrattori del servizio pubblico. Per resistere ci serve gente che parli in termini di “noi”. Gigggirrrriva e non Comunardo Niccolai.

 

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I Peanuts: alleati nella vita e nella Psicoterapia – Rubrica –

In questa rubrica verranno presentate le strisce più caratteristiche dei Peanuts, nella speranza che siano utili non solo a scopo didattico o terapeutico, ma anche per condurre i lettori a sorridere delle proprie fragilità, perché imparare a non prenderci troppo sul serio è forse l’insegnamento più grande che ci ha lasciato Schulz.

 

A ciascuno di noi è capitato, almeno una volta nella vita, di imbattersi in qualche personaggio dei Peanuts. Le strisce di  Charles Monroe Schulz (Minneapolis, 26 novembre 1922-Santa Rosa, 12 febbraio 2000) sono state pubblicate dal 1950 al 2000 e sono diventate le vignette più famose e influenti della storia del fumetto.

La genialità dell’autore è stata di riuscire con poche battute a condensare raffinati concetti psicologici, dinamiche interpersonali e caratteristiche di personalità, attraverso una straordinaria capacità di osservazione del comportamento umano.

L’ha capito bene Abraham J. Twerski (1930), famoso psichiatra esperto di dipendenze e fondatore del Gateway Rehabilitation Center della Pennsylvania, che ha fatto dei Peanuts  suoi compagni alleati nelle sedute di psicoterapia con i pazienti.

Nel libro “Su con la vita, Charlie Brown!”, Twerski racconta la sua prima applicazione dell’opera di Schulz con un paziente alcolista che tendeva a minimizzare la sua dipendenza.

Ai tentativi del terapeuta di renderlo consapevole delle sue strategie fallimentari nel gestire l’abuso di alcol, egli rispondeva negando o giustificandosi.

Un giorno il terapeuta decise di raccontargli la storia di Charlie Brown e dei suoi vani tentativi  di calciare il pallone all’inizio dell’annuale stagione agonistica. Ogni volta che sbagliava il tiro, Charlie Brown cercava una spiegazione razionale o si deprimeva, ma non imparava  in modo costruttivo dai suoi errori.

Peanuts 01 - Charlie-Brown Football

Dopo avergli presentato una serie di strisce, il paziente, ridendo, disse: “Sono proprio io”.

Con questo episodio Twerski sottolinea quanto i Peanuts siano in grado di elicitare processi automatici di identificazione verso dinamiche o schemi rigidi di comportamento, astenendosi dal giudizio e  stimolando empatia e  senso dell’umorismo.

In questa rubrica verranno presentate le strisce più caratteristiche dei Peanuts, nella speranza che siano utili non solo a scopo didattico o terapeutico, ma anche per condurre i lettori a sorridere delle proprie fragilità, perché imparare a non prenderci troppo sul serio è forse l’insegnamento più grande che ci ha lasciato Schulz.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Twerski, A.J. (2000). Su con la vita, Charlie Brown! Come affrontare i problemi di ogni giorno con l’aiuto dei Peanuts. Ed. Mondadori, Milano.

Il Trono di Spade (A Game of Thrones): arriva la quinta stagione

C’è tanta carne al fuoco di tutti i tipi e tutta assieme come quando si mangia etnico brasiliano. Un vero banchetto di carne e sangue. Però, non c’è nulla da fare: dopo le nozze rosse qualcosa si è spento in me.

È iniziata domenica la quinta stagione di “Il Trono di Spade” e una parte di me continua a pensare che tutto sia finito con le nozze rosse. Non ho visto la serie TV, ho solo letto (tutti) i romanzi finora usciti, e ricordo una curva narrativa entusiasmante e crescente fino alla bomba del massacro delle nozze rosse. E poi una gran confusione, un ammassarsi di fatti e un accumulo di avventure (di cui non vi anticiperò nulla, tranquilli) che ora mi prende e ora mi annoia.

Intendiamoci: l’idea di Martin di farci affezionare a certi personaggi, facendoci credere che abbiano il ruolo di protagonisti che certamente arriveranno fino alla fine o quasi per poi farli fuori precocemente è geniale. Dà un senso tragico al racconto, lo rende simile alla vita in cui non ci sono personaggi che arrivano fino alla fine e danno un senso compiuto alla loro vita, ma tante esistenze limitate e provvisorie, che giocano un ruolo finché ci sono e poi spariscono nel nulla da cui sono emersi. Così sono morti Eddard e Robb Stark. Senza un perché.

E sotto la lama spietata di Martin non spariscono mica solo i personaggi; svaniscono interi temi narrativi. Geniale impostare tutto il primo blocco del suo racconto sulla contrapposizione tra integrità morale degli Stark e corruzione politica nei regni meridionali e far intendere al lettore che questa sarà l’architrave narrativa di tutta la storia, per poi far fare una fine miserabile ai due portatori dell’integrità, Eddard e Robb, e far seguire alla loro fine una tale pletora di nuovi fatti che fa svanire il loro ricordo in un passato lontano e soprattutto fa svanire tutta la tensione narrativa tra superiorità morale e corruzione, intaccata dal dubbio che in fondo Eddard e Robb fossero una coppia di montanari un po’ imbecilli finiti in un gioco molto più grande di loro. Robb almeno aveva il genio militare, Eddard nemmeno quello. Insomma, entrambi politicamente dei minus habens. E poi, diciamolo, la virtù non si vanta, mentre questi Stark ogni mattina si contemplavano commossi nello specchio della loro dirittura morale. Morti loro, tutta la contrapposizione integrità/corruzione muore con loro e semmai riemerge la nascosta grandezza di altri personaggi dalla moralità meno esibita, ma –a mio modesto parere- più efficace nel prendersi cura delle sorti del Regno e quindi della società. Come Ditocorto e Varys l’eunuco.

E poi ci sono altri punti di forza. Le abbondanti allusioni storiche e mitologiche, per esempio. La catena che chiude il porto e intrappola le navi nella battaglia delle Acque Nere allude alla catena che chiudeva il porto di Costantinopoli e salvò l’impero bizantino dall’assalto degli arabi e dei turchi per mille anni. Le velocissime manovre avvolgenti di Robb sembrano ricalcate sulla mobilità di Napoleone nella campagna che portò alla grande vittoria di Austerlitz. Gli arcieri che massacrano i cavalieri alla carica in non ricordo più quale scontro (sempre però nelle campagne di Robb) sono un’allusione agli arcieri inglesi contro i cavalieri francesi ad Azincourt.

L’intero episodio delle nozze rosse allude al banchetto di sangue nel finale del poema dei Nibelunghi. Gli intrighi ad Approdo del Re hanno un sapore rinascimentale da cronaca di Machiavelli, che si alterna con i colori medievali delle battaglie. I racconti orientali di draghi e cavalieri della steppa alludono sia all’epoca turco-mongola del poema “Manas” sia alla favolistica orientale, araba o cinese. Le città-stato marinare e mercantili hanno un colore veneziano e mediterraneo, e così via.

Però il prezzo di questo tentativo di unire abbondanza epica, definitività tragica e mistero favolistico è l’obbligo di mantenere sempre un alto livello di inventiva senza però sommergere il lettore di fatti e personaggi alla lunga difficili da gestire nei limiti della nostra povera testa, appassionata di storie ma anche bisognosa di archi narrativi conclusivi.

Il problema principale è, secondo me, che epica, tragedia e favola fanno a pugni, mentre Martin le vuole mettere insieme. L’epica può reggere una pletora di fatti infiniti, a patto però di avere personaggi che tengano tutto assieme. La tragedia può reggere la morte precoce di protagonisti “buoni” travolti da un fato spietato a patto però di una grande semplicità della trama. La favola funziona, e forse è quello che tiene tutto assieme. Martin mette insieme queste tre cose e produce un piattone pieno di cibo che mi affascina, ma ha anche i suoi difetti. Che a mio parere sono due.

Il primo problema è che le nozze rosse sono un evento gigantesco e difficile da digerire. Dopo le nozze rosse puoi andare avanti quanto vuoi, e Martin lo fa, ma quell’evento sta lì come un macigno inamovibile nella sua enormità. Alle nozze si è compiuta una tragedia così grande e definitiva che finisce per rimpicciolire tutto quel che accade dopo. La favola continua, ma a metà del suo corso è successa una tragedia che ha istupidito tutti.

Il secondo problema è che accanto a epica, tragedia e favola Martin ci mette un quarto elemento: il bildungsroman, il romanzo moderno di formazione. Bene. Peccato che il romanzo moderno come portata aggiunta alla tragedia e all’epica diventa un contorno irrimediabilmente sciapo.

Sto pensando soprattutto a Jon Snow e anche – un po’ meno – a Tyrion Lannister. Jon e Tyrion sono proprio due personaggi da romanzo moderno di formazione, ovvero due giovani uomini inizialmente un po’ stupidi e goffi che crescono e diventano adulti nelle avversità. Il problema è che questi personaggi non tragici finiscono per rimpicciolirsi all’ombra di un avvenimento così immane come le nozze rosse. Siamo sempre lì: continuo a pensare che dopo le nozze la storia è finita. Insomma, quelli che dovevano essere i personaggi più complessi, quelli più capaci di svilupparsi e di “crescere”, ovvero Jon Snow e Tyrion Lannister, mi sembrano sempre di più due intrusi man mano che il racconto va avanti. Davide Copperfield (che è il modello di Jon Snow) piazzato di fianco ad Achille, Sigfrido e Orlando diventa immediatamente un turista perso tra Troia, la Foresta Nera e Roncisvalle.

Un po’ meglio Tyrion: la sua deformità lo rende un po’ più tragico di Jon Snow. Però in fondo non è né epico né tragico, è solo eccessivo e romantico come il protagonista di un romanzone francese di Victor Hugo con tutte le sue esagerazioni, tipo il gobbo di Notre-Dame. All’inizio mi piaceva Tyrion. Le sue sentenze ciniche da burbero benefico mi hanno stancato e non ci stanno nell’epica e nella tragedia. Martin, cosa aspetti ad ammazzare questi due personaggi falliti? Come vuoi che crescano in un mondo terribile come quello? Non c’è speranza nei Sette Regni, mentre la speranza è il cuore del romanzo dell’ottocento. Oppure è un altro dei tuoi giochetti da sceneggiatore: ammannirci Jon e Tyrion fino alla fine? Io non li reggo più.

Questo non vuol dire che non sto aspettando avidamente i prossimi volumi delle “Cronache del Ghiaccio e del Fuoco” e che vi sto invitando a evitare le prossime puntate della serie TV. Il raccontone di Martin continua a piacermi (anche se mai come prima delle nozze rosse, dove la tragedia si è compiuta). I personaggioni più tragici continuano a reggere, a cominciare dalla figura cristica di Theon Greyjoy (ma quante ne ha passate?) e dalla vicenda ormai cristiana di Jaime Lannister. Jaime! Lui è capace di evolvere e di vivere un romanzo di formazione, altro che Jon Snow! Questo perché nessuno se lo aspettava da parte di quel fatuo bellimbusto, mentre Jon e Tyrion fin dall’inizio si sono presentati al lettore dicendo: seguimi e vedrai come evolvo, vedrai come sono complesso.

Poi ci sono i machiavellici Ditocorto e Varys che davvero hanno a cuore le sorti del Regno e non solo di fare bella figura con la propria buona coscienza (prendi e porta a casa Eddard, anche se la tua morte mi ha commosso). Bene o quasi anche Cersei: è una regina rinascimentale con un’intrigante mistura d’idiozia, bellezza e velleitaria furbizia. In realtà -come scriveva Richard Strauss nel suo epistolario con Hugo von Hoffmansthal (lo so, sono un goffo esibizionista della mia cultura)- ai personaggi rinascimentali manca sempre qualcosa per essere veramente presi sul serio come protagonisti di tragedie, non sono né moderni né antichi (bella fregatura!) Però va bene così: Cersei si salva col suo sex appeal da urlo e poi vederla tutta nuda è un piacere! Solo descritta, però; mannaggia a me che non vedo la serie TV. Le lettrici si consoleranno con le nudità di suo fratello Jaime, altrettanto maiale. E con questo chiudiamo l’inevitabile parentesi sesso acchiappa lettori.

Continuerò a leggere tutto, lo ripeto, e un giorno mi vedrò anche la serie TV, che mi dicono essere ancora meglio del romanzone. I supercattivoni funzionano a meraviglia. Roose Bolton con la sua voce sussurrante è un vero psicopatico e suo figlio Ramsay Snow sembra un Dexter trapiantato da Miami a Forte Terrore. Le nevrosi dei Tully e degli Arryn funzionicchiano decentemente, anche se di nuovo c’è l’effetto da romanzo moderno che fa a pugni con epica, favola e tragedia. Invece tutta la parte orientale mi annoia un po’ e lì, mi spiace Martin, il sesso esibito e spinto della Daenerys Targaryen con il suo stallone mongolo (come si chiama? Ah si, Drogo!) ci sta malissimo in una favola orientale: non puoi far apparire Rocco Siffredi (Drogo Siffredi? Perdonate la battutaccia) a fianco di Sherazade nelle Mille e una Notte! A meno che non vuoi produrre un porno trash, naturalmente.

Delle avventure di Arya Stark non ci ho capito più niente da tempo (spiacente, ma Arya soffre dell’effetto Davide Copperfield), per non parlare di Bran Stark, ormai perso in un trip senza speranza tra le nevi. Simpaticissimi invece i ciccioni del clan Manderly di Porto Bianco, il loro intermezzo comico mi piace. E mi piacciono anche i meridionalissimi Martell e il fighettismo dei Tyrrell, con connesso rischio di omofobia consapevolmente affrontato: il cavaliere dei Fiori è una deliziosa provocazione. Quelli delle Isole di Ferro mi piaciucchiano, anche se a volte mi sembrano messi lì a fare solo numero: l’ennesimo filone narrativo. Infine la durezza morale di Stannis Baratheon mi affascina, ha delle spigolosità che si lascia dietro di molte leghe il perbenismo degli Stark.

Poi c’è Catelyn e tutta la vacua polemica del supposto maschilismo di Martin. Scrittore accusato di avere un suo perverso gusto a raccontare i disastri di nobildonne un po’ idiote con velleità politiche. Che dire? A parte che le donne idiote di Martin sono solo due, Catelyn e Cersei, e a parte che nel Trono di Spade c’è anche una gran folla d’idioti maschi e dotati di pisello! Vogliamo parlare di Robert Baratheon? E poi io penso che questa idea della nobildonna bella e idiota sia geniale e ci fa uscire fuori dal cliché (maschilista?) della donna idealizzata. Voto a favore di personaggi donna un po’ cretini e anche tanto coglioni (vero Catelyn?) L’umanità è stupida e questa è la vera parità tra sessi: quote rosa nel cretinismo universale dell’umanità!

Insomma, c’è tanta carne al fuoco di tutti i tipi e tutta assieme come quando si mangia etnico brasiliano. Un vero banchetto di carne e sangue. Però, non c’è nulla da fare: dopo le nozze rosse qualcosa si è spento in me.

 

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Il trattamento DBT in pazienti a rischio suicidio: quanto è efficace?

FLASH NEWS

La DBT standard che vede combinata la componente di psicoterapia individuale e il trattamento di gruppo di skills training, non ha fatto riscontrare esiti significativamente migliori rispetto alle condizioni di solo intervento di gruppo o di solo psicoterapia individuale.

Le evidenze dell’efficacia della Dialectical Begaviour Therapy (DBT) approdano sull’autorevole JAMA Psychiatry. Di nuovo un trial randomizzato, a firma Marsha Linhean e Kathy Korslund, dimostra che una serie di interventi DBT sono in grado di ridurre i tentativi suicidari e i comportamenti autolesivi in un campione di donne con disturbo borderline della personalità e altamente suicidarie.

La DBT, ben conosciuta in letteratura e nella pratica clinica come trattamento coterapico per pazienti con marcata impulsività e disregolazione emotiva, include per uno stesso paziente sia la terapia individuale che la terapia di gruppo (skills training) nonchè una serie di interventi di coaching telefonico e specifiche modalità di gestione del team dei terapisti.

In particolare, nello studio appena pubblicato su JAMA Psychiatry, Marsha Linehan e il suo team si sono preoccupati di indagare l’effetto specifico della  terapia di gruppo di skills training rispetto alle altre componenti della terapia DBT (ad esempio, rispetto alla terapia individuale).

In particolare sono stati confrontati tre gruppi di pazienti sottoposti alla combinazione di diverse componenti della Dialectical Behaviour Therapy: il primo gruppo ha ricevuto il trattamento di terapia di gruppo di skills training associato con interventi di case management (DBT-S); il secondo gruppo è stato sottoposto a terapia DBT individuale in associazione ad attività di gruppo (non skills training, ma focalizzandosi sulle abilità già possedute dai pazienti) (DBT-I); e infine il terzo gruppo ha ricevuto un trattamento DBT standard che include cioè sia la terapia di gruppo che la terapia individuale.

Il campione è stato costituito da 99 donne (età media 30 anni) con diagnosi di disturbo borderline, con almeno due tentativi di suicidio e/o comportamenti autolesivi negli ultimi cinque anni. Dai dati è emerso che tutte e tre le combinazioni di trattamento (quella principalmente focalizzata sul gruppo di skills training DBT, quella principalmente focalizzata sulla terapia individuale DBT, nonchè la coterapia standard DBT individuale e di gruppo) riducono in modo simile i tentativi di suicidio, l’ideazione suicidaria e la gravità degli atti autolesivi e ugualmente promuovono la motivazione a rimanere in vita.

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In altre parole, la DBT standard che vede combinata la componente di psicoterapia individuale e il trattamento di gruppo di skills training, non ha fatto riscontrare esiti significativamente migliori rispetto alle condizioni di solo intervento di gruppo o di solo psicoterapia individuale.

I tre gruppi sono risultati significativamente simili nei loro effetti in termini di riduzione della suicidarietà a livello di ideazione e fattuale. Ulteriori ricerche e replicazioni dei trial sono necessari comunque per trarre conclusioni sulle modalità di combinazioni di trattamento per  questa tipologia di pazienti suicidari e autolesivi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Devianza e Violenza di Lothar Bönisch – Recensione

L’impianto è cognitivo: il comportamento violento e deviante è concepito soggettivamente come una reazione congrua alle situazioni dalla persona che li mette in atto.

Lothar Bönisch ha scritto un libro completo e dettagliato sugli aspetti psicologici e sociali della violenza e della devianza. Il titolo rispecchia fedelmente l’argomento ed è semplicemente “Devianza e Violenza”, pubblicato dall’editrice bu,press di Bolzano nel 2014.

Bönisch inizia la sua trattazione dal concetto di coping, ampliandolo in modo da includere anche i comportamenti devianti e violenti definiti come forme, naturalmente perverse, di coping.  L’impianto è quindi cognitivo: il comportamento violento e deviante è concepito soggettivamente come una reazione congrua alle situazioni dalla persone che li mette in atto.

Accanto a questo principio Bönisch ne pone un altro di tipo sociale, ed è il concetto di anomia elaborato da Durkheim, ovvero il crollo di regole di condotta universali e dotate di valore instrinseco. Oggi invece ci sono regole soggette a perpetua contrattazione il cui valore è sempre solo strumentale: vanno rispettate perché servono a qualcosa, non come leggi morali in sé. Principio laico più che giusto, ma che oggettivamente rende meno facile il controllo dei propri impulsi in persone propense.

Infine Bönisch enuncia il terzo principio, quell’etichettamento, il “labeling” come altro potente fattore che trasforma in devianti soggetti non riconducibili al modello dominante. Questi tre principi sono in realtà anche tre modelli in competizione ma non necessariamente incompatibili, che spiegano differenti percorsi per arrivare alla devianza e alla violenza. In alcuni casi prevale l’etichettamento, in altri l’anomia, in altri il coping ma senza che un principio sia esclusivo.

Bönisch prosegue la trattazione esplorando lo sviluppo di tendenze antisociali in famiglia durante l’infanzia, sia per imitazione di comportamenti violenti negli adulti oppure per reazione ad ambienti in cui regna la trascuratezza emotiva. Ancora una volta i due principi non si escludono a vicenda ma possono interagire ed essere presenti entrambi, sia pure in diversa misura nei vari casi.

Bönisch  tratta poi alcuni casi particolari. Prima di tutto, l’adolescenza, che Bönisch definisce come una fase d’inevitabile devianza potenziale. Le circostanze della crescita, la necessità di definirsi e di uscire dal nucleo protetto dell’infanzia agiscono da fattori che facilitano episodi di oppositività potenzialmente deviante, fattori che vanno conosciuti e canalizzati in uno sviluppo sociale normale.

C’è poi il rapporto tra mass media e violenza. Sia come intrattenimento che come notizia la violenza è un potente attrattore di interesse e di ascolto. Altro caso particolare è il rapporto tra mascolinità e violenza. Bönisch analizza a fondo il rapporto particolare tra sesso maschile e comportamento violento, sia dal punto di vista biologico che sociale. Anche in questo caso siamo di fronte a una situazione di devianza potenziale che può essere controllata.

Il libro si conclude con una trattazione degli interventi di sostegno pedagogico e sociale più efficaci per contrastare devianza e violenza.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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