expand_lessAPRI WIDGET

Guarisci te stesso (2015) di Saki Santorelli – Recensione

Iacopo Camozzo Caneve

Arriva finalmente in Italia, dopo una lunga gestazione (ne dà conto l’autore nell’introduzione raccontando di una vicenda iniziata nel 2005 e conclusasi, dopo alterne vicende, nella stampa del libro in questione) la traduzione di un libro di Saki Santorelli, uno dei padri fondatori della mindfulness così come la conosciamo noi tutti oggi in occidente.

Il libro , sin dalle prime pagine, si presenta con una forza poetica e una capacità espressiva che raramente capita di trovare tra le letture specialistiche, e “Guarisci te stesso” è anche, ma non solo, una lettura specialistica. Anche, ma non solo, proprio per coerenza con il messaggio di fondo dell’intero, bellissimo libro: che dentro ogni guaritore ci sia un ferito, e che dentro ogni ferito ci sia un’ interezza che si può contattare, come un sempre accessibile Guaritore interno.

Seguendo il filo teso da questo antico mito -nella figura di Chirone, appunto, il “guaritore ferito”- Santorelli ci conduce in un emozionante viaggio nel rapporto di cura -così come egli lo vive nella sua pluriennale esperienza di istruttore di mindfulness-, un rapporto caratterizzato dal duplice e speculare riconoscimento, da parte di entrambi i membri della copia, della reciproca appartenenza alle “categorie” di guaritore e di ferito, pur nel rispetto dei diversi ruoli e delle diverse “competenze” (si direbbe in ambienti più strettamente terapeutici).

Nei suoi racconti di incontri lungo percorsi di mindfulness vediamo, concretamente, come la possibilità di aprirsi al momento presente, la consapevolezza, possa essere il balsamo, lo spazio che ci permette di accogliere dentro di noi il nostro essere feriti senza venirne lacerati, senza che questo si trasformi nella sensazione di essere divisi, separati dentro noi stessi o, peggio, separati dalla persona di cui ci stiamo prendendo cura.

Dunque, è proprio nell’ incontro tipicamente umano tra chi offre e chi riceve cura, e nella possibilità del reciproco riconoscimento della comune appartenenza alle due “categorie” che, dice Santorelli, possono nascere gli incontri più autentici e più squisitamente curativi.

Non solo un libro sulla mindfulness, non un libro di psicoterapia, ma un libro che in ogni pagina spinge a riflettere -in particolare chi per caso o per sventura psicoterapeuta lo è- sul significato della relazione di aiuto e soprattutto sulla possibilità di mettere in moto risorse interne che l’altro, i nostri pazienti, possono avere ma che forse spesso rimangono latenti proprio per il disconoscimento della duplice natura del nostro essere guaritori, ma anche feriti, e del poter essere guaritori di se stessi dei nostri pazienti.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Mindfulness per principianti di Jon Kabat-Zinn – Recensione

BIBLIOGRAFIA:

  • Santorelli, S. (2015). Guarisci te stesso. Raffaello Cortina Editore

DSM-5, L’essenziale. Guida ai nuovi criteri diagnostici, di L.W. Reichenberg

Non è certo una lettura appassionante, ma viste le dimensioni e i contenuti schematici mi pare un buon libro da tenere sulla scrivania e consultare agilmente al bisogno.

Sono passati quasi due anni dalla pubblicazione da parte della American Psychiatric Association del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 5a edizione (DSM-5), il testo diagnostico di riferimento della psichiatria americana. Come previsto, anche questa edizione ha destato importanti polemiche nella comunità scientifica e non, in quanto il testo mantiene sostanzialmente un’impostazione categoriale e, rispetto al precedente, allarga le maglie della psicopatologia includendo anche condizioni fisiologiche come il lutto (in pratica si può parlare di depressione anche solo due mesi dopo la perdita di una persona cara).

Vengono anche  proposte nuove diagnosi come il disturbo da accumulo, il disturbo da binge eating e la sindrome psicotica attenuata nel bambino, mentre altre sindromi hanno cambiato categoria (ad esempio il gioco d’azzardo patologico è finito nelle dipendenze, il disturbo da dismorfismo corporeo nei disturbi ossessivo compulsivi).

Il libro in questione, scritto da un counselor americano, è una sorta di Bignami del DSM-5, che in modo abbastanza schematico si propone di: informare i lettori sui cambiamenti rispetto alla versione precedente del manuale (DSM-IV), fornire criteri e raccomandazioni per il trattamento dei nuovi disturbi introdotti e fornire quando possibile la lista dei codici della più europea International Classification of Diseases (ICD-9 e ICD-10). Quest’ultima caratteristica rende il testo piuttosto utile nella pratica clinica istituzionale dove è spesso necessario inserire tali codici nelle cartelle cliniche o in altri documenti, magari dopo la comparazione con la diagnosi da DSM.

Non è certo una lettura appassionante, ma viste le dimensioni e i contenuti schematici mi pare un buon libro da tenere sulla scrivania e consultare agilmente al bisogno.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Come cambia la diagnosi dei disturbi di personalità alla luce del DSM-5

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Reichenberg, L.W. (2015). DSM-5. L’essenziale. Guida ai nuovi criteri diagnostici, Raffaello Cortina Editore

La Doppia Diagnosi: ad ogni disturbo le sue sostanze

Giada Costantini, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Le ricerche esistenti sul rapporto causale tra disturbi psichiatrici e disturbi derivanti da sostanze stupefacenti sottolineano come i sintomi dei disturbi mentali e dei problemi legati alla tossicodipendenza interagiscono l’uno con l’altro e si influenzano vicendevolmente.

La comorbilità, o doppia diagnosi, è definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) come la coesistenza nel medesimo individuo di un disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive e di un altro disturbo psichiatrico.

Le ricerche esistenti sul rapporto causale tra disturbi psichiatrici e disturbi derivanti da sostanze stupefacenti sottolineano come i sintomi dei disturbi mentali e dei problemi legati alla tossicodipendenza interagiscono l’uno con l’altro e si influenzano vicendevolmente: in alcune ricerche emerge che i disturbi psichiatrici e della personalità di solito si manifestano prima dei disturbi derivanti dall’uso di sostanze, accentuando la suscettibilità individuale a tali problemi (Kessler et al., 2001; Bakken, Landheim, e Vaglum, 2003); tuttavia, i disturbi psichiatrici possono essere anche aggravati dal consumo di sostanze stupefacenti (ad esempio in McIntosh, e Ritson, 2001) oppure possono manifestarsi in parallelo.

In linea generale, la relazione che lega tossicodipendenza e disturbo psichiatrico può essere di vario tipo.

In un primo caso, la tossicodipendenza può essere conseguenza di una problematica psichiatrica (autoterapia). In questo senso molti pazienti tentano di curare il loro disturbo mentale da soli e l’uso della sostanza subentra in un secondo momento. In una seconda condizione le sostanze possono precedere, causare o slatentizzare una sintomatologia psichiatrica indotta da un’intossicazione, da una crisi d’astinenza o dagli effetti persistenti del consumo prolungato della sostanza. L’intensità e la durata dei sintomi psichici sono determinate dal tipo di sostanza usata, dalla sua quantità e dalla durata del consumo. Infine, il disturbo mentale e la tossicodipendenza possono essere paralleli e la causalità del tutto indipendente; in genere poi interagiscono aggravandosi a vicenda.

Per quanto riguarda i disturbi dell’umore, sono il tipo di disturbo psichiatrico più spesso in comorbidità con i DUS (disturbo da uso di sostanze): la depressione può indurre abuso di sostanze come tentativo di automedicazione, o può a sua volta causare depressione, disforia, ansia e la così detta sindrome amotivazionale; il disturbo bipolare è presente soprattutto con quadri clinici caratterizzati da tratti più marcatamente ansiosi e da spiccata impulsività. Le evidenze della letteratura indicano che circa 2 pazienti bipolari su 3 (60-65%) incontreranno una sostanza durante il proprio decorso clinico (Clerici et al., 2006).

Anche i disturbi d’ansia hanno una buona comorbilità con l’uso di sostanze: come dimostrato in diversi studi (Ogborne et al., 2000; Gandhi et al., 2003; Tournier et al., 2003) i pazienti che presentano un disturbo d’ansia tendono ad assumere principalmente sostanze ad azione sedativa con giustificazioni auto-terapiche improprie.

In letteratura è riportata una stretta relazione tra DAP (disturbo da attacchi di panico) e uso/ abuso di cannabis con aumento, rispetto alla popolazione generale, sia del numero degli attacchi di panico che della durata della malattia.

Tale relazione viene spesso sottostimata e misconosciuta dagli assuntori che attribuiscono erroneamente proprietà ansiolitiche ai cannabinoidi (Zvolensky, Cougle, Johnson, Bonn-Miller, e Bernstein, 2010).

La relazione di tipo causale che unisce il disturbo d’ansia generalizzata e la fobia sociale con il DUS appare essere biunivoca e può essere immaginata come un circuito chiuso: l’ansia spinge alla sperimentazione delle sostanze e si ripresenta, essa stessa, come sintomo caratteristico delle fasi astinenziali, divenendo così il principale fattore di mantenimento del comportamento d’abuso, potenziando anche la sintomatologia ansiosa che si voleva medicare (Buckner, Heimberg, Ecker, e Vinci, 2013).

La presenza del disturbo ossessivo compulsivo (DOC) non è certo infrequente nei nostri pazienti, poiché i meccanismi di base, comuni sia ai comportamenti di dipendenza da sostanze che alle patologie dello spettro impulsivo/compulsivo, si sovrappongono. Infatti il DOC, il discontrollo degli impulsi (ICD) e il DUS convergono a vari livelli: fenomenologico, neurochimico, neurocognitivo, a livello dei neurocircuiti cerebrali e della comorbidità. I comportamenti DUS e ICD correlati dovuti ad un aumento della compulsività, chiamano in causa i circuiti dello striato dorsale. Si ritiene quindi che, con la progressione e la cronicizzazione dei disturbi, gli uni prendano le caratteristiche degli altri, aggravandosi a vicenda e rendendo più difficili i trattamenti (Fontenelle, Oostermeijer, Harrison, Pantelis, e Yucel, 2011).

Tuttavia, a complicare la cura dei pazienti con sintomi ansiosi sono i trattamenti farmacologici con benzodiazepine, delle quali i pazienti tendono rapidamente a fare un uso improprio, a volte associando altre sostanze psicoattive ad azione sinergica. Anche in questo caso le sospensioni delle terapie amplificano l’ansia rendendo ancora di più il paziente vulnerabile a ricadere nelle assunzioni.

Tra i pazienti dei servizi psichiatrici con molta frequenza si rileva la presenza di casi di comorbilità DUS e disturbi schizofrenici (Asher, e Gask, 2010). Tra i pazienti psichiatrici le sostanze maggiormente utilizzate sono l’alcol ed i cannabinoidi (Garofano, Barretta, Falco, e Auriemma, 2014).

L’alcol, inducendo una disinibizione comportamentale e quindi facilitando la perdita del controllo degli impulsi, porta al peggioramento del quadro clinico. L’utilizzo viene sostenuto da un desiderio di automedicazione soprattutto per alleviare ansia, tensione, depressione (Evren, e Evren B, 2003). L’associazione tra disturbi psicotici e derivati della cannabis è ormai ben supportata da numerosi studi epidemiologici e neurofisiologici: l’uso dei cannabinoidi è un fattore di rischio per lo sviluppo di psicosi ed un elemento aggravante della sintomatologia psicotica già in atto. Anche in questo caso vi è il tentativo improprio di risolvere l’ipoforia e l’apatia che accompagnano la sintomatologia negativa correlata alla condizione psicotica in atto (Zammit et al., 2008).

Le stesse motivazioni autoterapiche si riscontrano nella scelta dell’uso di sostanze psicostimolanti, come la cocaina e le amfetamine, probabilmente compensatoria rispetto ad una condizione di ipodopaminergia presente a livello del sistema mesocorticale, che sembra essere fondamentale nella patogenesi della schizofrenia. L’abuso compulsivo viene così giustificato dalla necessità di mantenere un normale tono dopaminergico. Tuttavia, al sollievo iniziale della sintomatologia negativa, segue il potenziamento dell’espressione psicopatologica legata ai sintomi positivi, con alterazioni comportamentali fortemente disadattivi (De Quadro, Carpenter, e Tandor, 2000).

Anche alcune sostanze psicostimolanti ed allucinogene possono indurre quadri psicopatologici indistinguibili da episodi psicotici acuti: le psicosi acute indotte da sostanze stupefacenti caratterizzano in particolare i consumatori di cocaina, anfetamine ed allucinogeni, le quali, di solito, si attenuano relativamente in fretta una volta sospeso l’uso.

L’uso cronico di cocaina è in grado di generare una sindrome paranoidea di gravità variabile, a volte difficilmente differenziabile da forme schizofreniche paranoidi primarie. Di pari gravità sono le psicosi croniche indotte dagli allucinogeni (LSD e Fenciclidina, PCP) i cui sintomi, caratterizzati da comportamenti bizzarri e a volte violenti, possono perdurare per mesi o ricomparire anche ad un anno dalla sospensione. Altre sindromi psichiatriche possono essere indotte dall’uso di ecstasy (MDMA) come la psicosi paranoidea, il disturbo schizoaffettivo e il disturbo ossessivo compulsivo. Inoltre i poliabusatori hanno un maggiore rischio di disturbi psichiatrici legati all’assunzione di ogni singola sostanza.

All’espressione di sintomi di natura psicopatologica concorrono diversi altri fattori come la personalità premorbosa, la presenza di una patologia psichiatrica sottosoglia, la predisposizione genetico-biologica e la storia familiare, i fattori socioambientali, nonché le spinte motivazionali (Paparelli, Di Forti, Morrison, e Murray, 2011).

Può essere però molto difficile operare una distinzione tra i sintomi che sono dovuti all’intossicazione da stupefacenti ed episodi psicotici non indotti dall’uso di sostanze.

Altri studi hanno dimostrato un’alta prevalenza di DUS nei Disturbi di Personalità (Van Den Bosch, Verheul, e Van Den, 2001).  Siever e Kenneth (cit in Guareschi Cazzullo, Lenti, Musetti, e Musetti, 1995) definiscono la personalità come

costituita da quella distinta e persistente costellazione di comportamenti o tratti che caratterizzano il funzionamento sociale-relazionale ed occupazionale. Quando questi tratti o comportamenti o strategie sono maladattativi ciò costituisce un disturbo di personalità.

Da questa definizione si potrebbe intendere l’uso delle sostanze come una strategia di fronteggiamento: è costante il rilievo, nella raccolta accurata della storia dei nostri pazienti, di un uso di droghe a scopo adattativo.

Alcune ricerche si sono soffermate sulla relazione tra il disturbo borderline di personalità e il DUS: alcune impostazioni teoriche hanno sottolineato come l’utilizzo di sostanze serva a far fronte a un vuoto incolmabile che questi pazienti portano con sé (Correale, Alonzi, Carnevali, Di Giuseppe, e Giacchetti, 2001), altre come l’utilizzo di sostanze serve per placare un caos nelle emozioni e nella condotta divenuto ormai insopportabile (Linehan, 1993 (a), 1993 (b); Liotti, 2001).

 Altri studi hanno accertato la forte correlazione tra il DUS e il disturbo antisociale di personalità. Tra le caratteristiche psicopatologiche nucleari del disturbo antisociale vi sono l’impulsività, l’irritabilità, l’aggressività. Un crescente numero di valutazioni retrospettive e di studi prospettici suggeriscono che la comparsa dei sintomi della personalità antisociale o della iperattività con deficit di attenzione (ADHD) avvenga in età antecedente all’inizio dell’impiego di sostanze (Luthar, Anton, Merikangas, e Rounsaville, 1992; Klein, e Manuzza, 1991) e potrebbe esse una fattore predisponente allo sviluppo del DUS. Infatti, alcune dimensioni psicopatologiche della personalità antisociale sono condivise dai soggetti abusatori di sostanze e determinano l’adozione di pattern comportamentali simili, quali l’avventatezza, l’irresponsabilità nelle azioni e nelle relazioni, l’incapacità di apprendere dall’esperienza, la tendenza ad ingannare, mentire, aggredire (Vassileva, Gonzalez, Bechara, e Martin, 2006). A questo si aggiunge anche la condivisione di altri fattori di rischio come il basso livello socioculturale, la storia familiare, spesso caratterizzata da abbandoni e abusi, e la provenienza, prevalentemente da aree urbane impoverite (Westermeyer, e Thuras, 2005).

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La dipendenza da sostanze spiegata in un video

 

BIBLIOGRAFIA:

Raccontare il vero dal falso: i consumatori di cannabis mostrano un aumento della suscettibilità ai ricordi

Daniela Sonzogni

FLASH NEWS

I risultati mostrano che i consumarti di cannabis avevano un numero maggiore di falsi ricordi, come osservato in alcune popolazioni psichiatriche/neurologiche e in persone anziane. Piuttosto che un’alterazione tra le strutture di memoria, i risultati mostrano una compromissione più diffusa che porta ad una ridotta capacità di affrontare il recupero e le richieste di monitoraggio necessarie a distinguere tra eventi illusori e reali.

La cannabis è la droga più utilizzata in tutto il mondo dopo l’alcool e il tabacco anche se le implicazioni per la salute correlate all’utilizzo di cannabis a lungo termine sono ancora una questione non specificata. L’uso regolare di cannabis è stato associato a conseguenze negative sulla salute inclusi disturbi psichiatrici e neuro-cognitivi.

Uno studio recente ha coinvolto più di mille persone dimostrando che l’uso cronico di cannabis è associato a un declino cognitivo, con maggiore deterioramento in quegli individui che presentano un uso persistente. Tra i vari domini cognitivi studiati, la memoria è una di quelle più frequentemente identificate come colpita negativamente dall’effetto di cannabis. Precedenti studi sull’impatto neurocognitivo del consumo di cannabis hanno individuato un deficit di memoria dichiarativa e di lavoro che tende a normalizzarsi con l’astinenza.

Un aspetto rimasto inesplorato della funzione cognitiva dei consumatori cronici di cannabis è la capacità di distinguere tra ricordi veritieri e illusori, un aspetto cruciale del monitoraggio della realtà che si realizza con un’adeguata funzione di memoria e controllo cognitivo.

Utilizzando la risonanza magnetica funzionale è stato dimostrato come i consumatori abituali, anche in astinenza di cannabis per mesi, mostrano una maggiore suscettibilità alle false memorie non riuscendo a considerare come nuovi degli stimoli che per certe caratteristiche richiamano quelli studiati. Questi risultati mostrano quindi una lunga e duratura compromissione dei meccanismi cognitivi e di memoria coinvolti nel monitoraggio della realtà.

Oltre a un peggioramento delle prestazioni, i consumatori di cannabis mostrano una ridotta attivazione delle aree associate ai processi di memoria all’interno del lobo temporale mediale e laterale (MLT) e nelle regioni cerebrali frontali e parietali coinvolte nell’attenzione e nel monitoraggio della performance. Lo studio ha mostrato anche alterazioni nell’ippocampo che in particolare diminuisce di volume associato alla quantità di cannabis utilizzata e può persistere anche dopo un’astinenza di 6 mesi.

In particolare nello studio effettuato i partecipanti hanno studiato una lista di parole che sono state successivamente presentate insieme a una lista nuova di parole semanticamente indipendenti e una lista di parole correlate semanticamente. Quest’ultima lista induce l’illusione di una falsa memoria in cui i partecipanti sostengono erroneamente che il nuovo stimolo è stato precedentemente studiato.

La corretta individuazione degli stimoli semanticamente correlati è più impegnativo a livello cognitivo rispetto alle parole semanticamente indipendenti. I primi sono principalmente legati ad una maggiore attivazione del lobo temporale mediale (MLT), parietale e regioni cerebrali frontali.

L’analisi dei dati comportamentali ottenuti in fase studio non ha rilevato differenze tra i gruppi per quanto riguarda il loro grado di attenzione, nel numero di parole studiate riconosciute correttamente e nel numero di parole nuove respinte correttamente. Tuttavia i consumatori di cannabis mostravano significativamente maggiori falsi ricordi.

I risultati mostrano che i consumarti di cannabis avevano un numero maggiore di falsi ricordi, come osservato in alcune popolazioni psichiatriche/neurologiche e in persone anziane. Piuttosto che un’alterazione tra le strutture di memoria, i risultati mostrano una compromissione più diffusa che porta ad una ridotta capacità di affrontare il recupero e le richieste di monitoraggio necessarie a distinguere tra eventi illusori e reali. Questa persistente incapacità di raccontare il vero dal falso può avere implicazioni mediche e legali. Evitare distorsioni di memoria può infatti essere estremamente rilevante in alcuni contesti come in un aula o in un esame forense o in un contesto più generale in cui questa capacità ci fornisce un adeguato senso di realtà che guida il comportamento futuro basato sulle esperienze passate.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Uso di cannabis e insorgenza di disturbi psichiatrici: quale relazione?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La nostra ipotesi sul tradimento – Tracce del tradimento Nr. 08:

La somministrazione d’inutili sofferenze non è mai gratuita. Non fare i conti con i propri reali progetti, indipendentemente dalle sensazioni temporanee di grandiosità o potere, rende sempre poveri e i sogni di cambiamento rischiano di naufragare in una inutile conflittualità di coppia.

La tesi che sosteniamo è che il cercatore di tracce ha prevalentemente un problema personale mentre il lasciatore di tracce, il seminatore, ha spesso scopi che riguardano la relazione, il partner, anche se non sempre egli o lei è consapevole di questo. Questi scopi relazionali sono facilmente inferibili da chi indaga. Quindi chi lascia tracce parla al partner, e lo fa nei casi in cui desidera che queste tracce vengano in qualche modo intercettate. Mentre chi cerca tracce è in una fase difficile della propria vita personale e di coppia ed è solo, isolato psicologicamente dentro la sua ossessione con comportamenti intrusivi che violano gli spazi privati dell’altro.

Spesso chi lascia lo fa senza analizzare a fondo le conseguenze del suo atto, e chi cerca lo fa per un ossessione ma senza una reale valutazione dei comportamenti da adottare qualora  trovasse le tracce che teme di trovare. Qual è allora l’utilità possibile di questi nostri articoli sul tradimento? Un invito alla riflessione per tutti i cercatori e lasciatori di tracce all’approfondimento delle implicazioni dei propri comportamenti invadenti o distratti. E le conseguenze che è necessario o preferibile trarre. Un aiuto per sapersela cavare con onore e con capacità di buon navigante tra i misteri e le complessità della propria vita affettiva.

Questi articoli potrebbero essere letti come un aiuto alla consapevolezza delle motivazioni reali di chi tradisce e lascia tracce e di chi cerca le tracce del tradimento. Potrebbe essere interessante per il cercatore sapere che l’altro ha tradito realmente e trarne le conseguenze oppure rendersi conto che l’altro non ha tradito e rendersi conto di quanto c’è di personale e privato nella rabbia o nel dolore del cercare tracce, così da rendersi conto che non è cercando tracce che si risolve il problema.

Forse il cercatore di tracce può imparare a interrogarsi sulla propria ossessività, sulla difficoltà a lasciare passare i propri pensieri negativi che invece abitano il palcoscenico mentale in modo ripetitivo e senza alternative, così come può essere interessante rendersi conto di quanto la costante sospettosità verso l’altro parli della propria solitudine, della sfiducia, della solitudine interiore. Per il lasciatore, potrebbe essere utile individuare i propri desideri e le proprie insoddisfazioni dentro la relazione in modo maggiormente consapevole e potrebbe essere utile capire bene come intervenire su una relazione che sta stretta o che si vorrebbe più frizzante o che si è deciso di chiudere. La somministrazione d’inutili sofferenze non è mai gratuita. Non fare i conti con i propri reali progetti, indipendentemente dalle sensazioni temporanee di grandiosità o potere, rende sempre poveri e i sogni di cambiamento rischiano di naufragare in una inutile conflittualità di coppia. Concludiamo la premessa con due esempi interessanti e utili a portare avanti  il nostro discorso.
 

Una seminatrice e un cercatore testardo: La ragazza in questione è stata scoperta dal convivente a intrattenere un dialogo amoroso con un ragazzo usando un indirizzo di posta elettronica di cui lui non era a conoscenza. La ragazza si era dimostrata negli ultimi mesi sempre meno disposta ad abbracciarlo e a fare l’amore con lui, per il resto era normalmente gentile anche se un poco distratta come presa da pensieri a lui non conosciuti. Il ragazzo aveva tentato di forzare la posta elettronica in vari modi ma non era riuscito a entrare fino a quando una volta preso il portafoglio di lei mentre lei dormiva aveva trovato un nome di uomo scritto in un bigliettino dentro la patente. Aveva molto faticato a trovare qual era l’indirizzo di posta a cui applicare la password ma alla fine con Yahoo ci era riuscito, nome di lei, password ed era entrato. Nella posta di lei aveva trovato un mondo sconosciuto di relazioni e soprattutto un ragazzo che aveva riposto ingenuamente ad alcune sue lettere e aveva riattraversato con lui le tappe e i progetti di una nuova relazione che stava per sostituirsi alla sua.

Questo caso ormai abbastanza comune è interessante, perché nel mondo complesso dell’informatica e d’internet, spesso le password si nascondono in modo convenzionale e assolutamente non innovativo. E ci si fa scoprire.

Il cercatore ossessionato e la ragazza fedele: quando lei usciva lui passava tutto il tempo a rovistare tra le sue cose, borse, cassetti, tasche degli abiti, e non trovava nulla di sospetto ma non demordeva dalla sua ossessione che gli consentiva di sentirsi capace e in dominio della situazione, non trovando nulla sospettava in lei fini doti di nasconditrice sempre più malevole. Sempre più spesso analizzava centimetro dopo centimetro le cose di lei, e non trovava nulla, il suo umore peggiorava e diventava sempre più sgarbato non avendo nulla da rimproverarle ma non essendo affatto contento di come andavano le cose. Il fatto che non trovasse nulla non veniva interpretato come una prova di fedeltà ma come la conferma della furbizia e malevolenza di lei.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

L’insostenibile leggerezza del bugiardo patologico

DBT per Binge eating e bulimia: – Intervista alla Dott.ssa Debra L. Safer

Durante il convegno Dialectical Behavior Therapy (DBT) per il trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione, tenutosi a Firenze lo scorso Aprile, la Dott.ssa Safer ha accettato di rilasciarci un’intervista in cui vengono approfondite alcune tematiche presenti nel suo libro Binge eating e bulimia: Trattamento dialettico-comportamentale.

Mara Soliani (MS): La prima domanda è la seguente: nel suo libro ‘Dialectical Behaviour Theory for Binge eating and bulimia’ del 2009 si precisa che tale trattamento ha un limitato supporto dal punto di vista della ricerca scientifica, ad oggi qual è lo stato dell’arte su questo versante?

 Debra L. Safer (DLS): Io non ho fatto nessun’altra ricerca dall’ultima pubblicata, altri ricercatori hanno svolto ricerche sulla DBT che hanno confermato l’efficacia della stessa ma non le ho seguite io e quindi mi viene da dire che da allora non ci sia un aumento dell’evidenza che la DBT sia efficace. Abbiamo fatto uno studio in cui partendo dallo stesso manuale ne è stato creato un altro come manuale di auto-aiuto, questo comprende gli stessi moduli del manuale dbt per binge eating e bulimia ma la messa in atto è totalmente gestita dal paziente che ha inoltre il supporto di 6 telefonate da 20 minuti ciascuna da dividersi in 13 settimane. I pazienti sono stati testati all’ingresso e dopo le 13 settimane di trattamento, è emerso un tasso di astinenza dall’abbuffata pari al 40% e questo è a parer mio già un buon risultato, sempre gli stessi pazienti testati a 6 mesi di distanza hanno mostrato un tasso di astinenza dall’abbuffata pari al 30%, quindi c’è stato un lieve peggioramento, tuttavia in generale hanno riportato un miglioramento nella qualità di vita. Mentre per quanto riguarda il gruppo di controllo l’astinenza dalle condotte di binge si aggira attorno allo 0% per tutta la durata dello studio.

MS: Nel capitolo del suo libro in cui si orienta il paziente al minduful eating c’è un piccolo paragrafo relativo al craving per il cibo e alla riduzione di questo, potrebbe dirmi qualcosa di più sulle possibili tecniche per affrontare il craving?

(DLS): Dunque credo che quello che noi facciamo sia di continuare a parlare del craving come un’urgenza. Più se ne parla più questo si incrementa, meno se ne parla più questo diminuisce, nonostante questo il craving continua ad essere comunque presente e attivo nella sua funzione ossia quella di cercare la ricompensa. Ma non facciamo nulla di più nello specifico.

MS: Qual è la sua opinione in merito al nuovo filone di ricerche che vede il binge eating disorder come una possibile dipendenza?

(DLS): Ok questa è un’ottima domanda. Mi lasci pensare, io credo che a livello del nucleo accumbens, coinvolto nel circuito della ricompensa, succeda qualcosa di simile nel binge-eater come nella persona che ha una dipendenza da sostanze stupefacenti. Credo tuttavia che in alcuni casi il motivo per cui il cibo è così gratificante è perché è proibito, perché i pazienti non se lo concedono. Quindi credo sia difficile capire che in DBT questo non è visto come una dipendenza ma come una regolazione emotiva, ogni cibo va bene perché la sua funzione è quella di regolare le emozioni. Ho inoltre notato che ci sono pazienti che credono che una volta mangiata una certa quantità di cibo non hanno più controllo e non importa quale sia la loro emozione, devono evitarla. E’ per questo che io credo bisogna insegnare loro la regolazione emotiva. Spesso i pazienti pensano: Posso avere altro cibo o posso evitarlo? Io non credo che ci sia un senso nel continuare a pensarla in questo modo, perché fondamentale è credere nella teoria cui si fa riferimento quindi se tu perdi il controllo e continui a mangiare questo non ti aiuterà. Se diciamo loro: Il problema non è che tu sei dipendente ma che non ti consenti di provare le emozioni, il cibo non è il problema. Tuttavia se un paziente arriva da me e crede che il suo problema sia la dipendenza da cibo io non lo combatto, gli dico che se vuole mangiare zuccheri può farlo, credo che approcciarsi alla nostra teoria sia già un metodo per capitolare, per arrendersi.

MS: Nel suo manuale sono presenti i presenti i moduli volti all’incremento di abilità nucleari e di mindfullness, di regolazione emotiva e di tolleranza alla sofferenza mentale, se facciamo un paragone con il manuale DBT della Dot.ssa Linehan non è presente il modulo relativo all’incremento dell’efficacia interpersonale, potrebbe spiegarci il perché di questa decisione?

(DLS): Non lo uso a scopo di ricerca ma lo userei nella pratica clinica. Nella ricerca da noi condotta non è stato inserito perché non c’era tempo a sufficienza per insegnare le tecniche di efficacia interpersonale ed eravamo preoccupati che l’efficacia potesse essere simile se comparata alla terapia interpersonale. Per questo non è stato inserito, solo ed esclusivamente a scopo di ricerca.

MS: Dopo sei anni dalla pubblicazione del manuale è cambiato qualcosa nella sua esperienza clinica? Ci può raccontare in cosa consiste il cambiamento?

(DLS): Credo che quello che sia cambiato è che mi sono focalizzata sempre più nell’avere un’espressione emotiva nelle sedute, io credo che in gruppo sia difficile fare questo e io ho seguito principalmente gruppi. Negli studi relativi alla bulimia la mia esperienza clinica era principalmente relativa ai gruppi e non è stata incoraggiata l’espressione emotiva perché c’era il rischio che potesse essere fuori controllo ed inoltre nei gruppi il tempo è ridotto a due ore e le cose da affrontare sono molte; ma adesso, non usando più questo metodo solo a scopo di ricerca, ma anche con i pazienti nella pratica clinica ho provato ad incoraggiare l’espressione emotiva nella relazione con me.

Ho implementato le mie conoscenze circa la Teoria dell’attaccamento e l’importanza che il paziente venga ammirato e validato nell’espressione delle sue emozioni perché nessuno l’ha mai fatto prima.

Inizialmente io mi limitavo all’applicazione delle skills adesso lascio che accada qualcosa in più in seduta, e quello che accade credo sia sintonizzazione, cerco veramente di essere li con loro perché l’esperienza di provare un‘emozione con un’altra persona di cui ti fidi versus il provare ad affrontarle da soli sia speventante inizialmente. Per quanto io continui a dare e a lavorare sulle skills credo che sia molto meglio fare esperienza con me in seduta e credo che questo sia quello che è cambiato da quando io lavoro. L’altra cosa che forse è accaduta è relativa al fatto che ho usato le stesse skills usate per i Binge Eaters e i Purging anche per coloro che sono emotional eaters non necessariamente binge eaters ma ho fatto fatica ad usarle con persone come loro a cui non serve un criterio diagnostico. Ho lavorato anche con soggetti obesi che hanno fatto un intervento di chirurgia bariatrica per perdere peso, pratica assai diffusa negli stati uniti e considerata il trattamento ufficiale per l’obesità. Nonostante questo, dopo l’intervento, quasi il 20-30% dei pazienti riprende peso, così ho provato ad usare la DBT con questi pazienti anche se loro non possono abbuffare perché il loro stomaco non lo consente, tuttavia ciò che ho riscontrato e che loro esagerano nel mangiare sulla base di un emozione, così ho provato ad adattare lo stesso trattamento modificandolo leggermente perché i pazienti sono diversi.

Binge eating e bulimia Trattamento dialettico-comportamentale - Intervista alla Dott.ssa Debra L. Safer (2)

MS: In base alla sue esperienza ci può dire quali sono i pazienti resistenti al suo trattamento?

(DLS): Io credo ci siano diversi tipi di binge eaters. Credo che per quelli che vengono da me e che per tutta la loro vita e per tutti i loro bisogni emotivi sono ricorsi solo al cibo e non hanno altro, beh credo sia inutile insegnare a loro delle skills perché quello di cui hanno bisogno nella loro vita è avere degli amici, dei soldi, magari sono persone che non hanno un lavoro e magari hanno anche una personalità complessa e quindi faticano a relazionarsi, e per loro il cibo è davvero l’unica soluzione; è come se loro non potessero avere nutrimento in altri modi e vorrebbero fermarsi, ma non hanno altro e penso che l’unico modo in cui potrebbero fermare le abbuffate è alla condizione che io sia li con loro ogni minuto ma non è possibile che succeda. E penso che loro vorrebbero proseguire con la terapia ma non farebbero necessariamente dei progressi e in merito a questo non sono sicura sul da farsi. Penso che a volte il problema sia anche quello di non avere soldi, io penso che il fatto di non avere un lavoro influisca sulla mancanza del senso di mastery e quello che loro cercano è l’abbuffata ed difficile portare loro a dire smetto, perché non hanno altre persone, non hanno figli non hanno nessuno e io non saprei cosa fare per loro perché io non sarei sufficiente.

Altri pazienti con cui ho difficoltà sono coloro che non credono al modello quindi non credono che il problema dipenda dal modo in cui sperimentano le emozioni.

Qualche volta questi pazienti nel momento in cui iniziano il trattamento iniziano anche a vedere il collegamento fra cibo ed emozioni. E’ come se loro non sono consapevoli delle loro emozioni e quindi c’è bisogno di tempo prima di affrontare il cambiamento. Magari iniziano a dire: Oh il fatto non è semplicemente che ero in casa da solo, è che qualcosa stava iniziando a cambiare in me. Io credo che certi pazienti, specialmente quelli che vivono a casa con i genitori, abbuffano quando sono soli, ed è quella la loro opportunità, inizialmente molti di loro non credono che sia qualcosa che accade dentro di loro a portarli ad abbuffare ma lo fanno solo perché sono soli. Questa sarebbe l’opportunità che non vogliono vedere o non possono vedere, il fatto che c’è qualcosa che sta cambiando in quel momento. Qualche volta lo vedo anche negli uomini i quali spesso dicono che il loro problema è che mangiano troppo, e quando in prima seduta il problema che mi riportano è questo, quello che faccio non è DBT. Loro magari sono persone che in casa hanno troppo cibo, sono mangiatori esterni, vedono il cibo dopo di ché lo vogliono, quindi il nostro lavoro inizialmente consiste nel mettere via il cibo.

Non per forza devo fare delle skills relative all’emozione se pensano che questo non sia il problema. Negli Stati Uniti esiste un libro che si chiama Mindless Eating dove si insegna al paziente a mangiare su piccoli piatti, si insegna loro a mettere via il cibo, a mangiare in una sola portata, ecco con loro iniziamo così, con le piccole cose che riescono a fare, così che l’ambiente in cui vivono non li faccia cadere in tentazione perché credo che loro si dicano che il problema sia che cibo è li, possono anche sentirsi benissimo ma il cibo è li e quindi devono mangiarlo.

MS: I gruppi DBT standard sono generalmente eterogenei, per esempio pazienti autolesionisti e pazienti con dipendenza da sostanze vengono inclusi nello stesso gruppo, come avviene invece nella sua esperienza clinica?

 (DLS): Questo non è quello che succede nella mia esperienza clinica, non abbiamo pazienti autolesionisti e pazienti con dipendenza da sostanza nello stesso gruppo con pazienti che hanno un disturbo alimentare. I pazienti con disturbo alimentare sono separati e questo perché il mio programma era rivolto solo ed esclusivamente a loro. I pazienti che presentano altre problematiche come quelle che mi ha detto prima vengono inviati direttamente nella clinica in cui viene applicato il modello DBT standard, il motivo principale è che nel nostro centro non c’è terapia individuale ma solo di gruppo, mentre nella clinica in cui applicano la DBT standard c’è sia la terapia di gruppo che quella individuale e quindi possono avere più aiuto.

MS: Se lei ha dei pazienti con disturbo alimentare in comorbidità con un disturbo di asse due in quale gruppo lo include? Nel DBT standard o nel gruppo DBT per i disturbi alimentari?

(DLS): Li includo nel gruppo DBT standard, ci sono ricerche condotte su pazienti che hanno entrambe le problematiche con i quali si è provato ad applicare il metodo spiegato nel mio manuale e questo non ha funzionato perché se è presente il target dell’autolesionismo, il target del cibo non è sufficientemente importante se paragonato con l’altro.

Se noi prendiamo come target la qualità di vita non c’è nessuna minaccia alla vita nei pazienti che mostrano solo un disturbo alimentare.

Generalmente nel trattamento di questi pazienti viene come primo step quello di interrompere i comportamenti di autolesionismo, ma non essendoci nei nostri pazienti questo aspetto il nostro primo step è quello di interrompere le abbuffate perché questa è l’unica minaccia alla terapia. Spesso le persone che mostrano una comorbidità con disturbi di asse due mostrano anche un collegamento con l’autolesionismo mentre nei binge eaters non sempre c’è questo collegamento. Quindi come prima cosa ci sono da affrontare i target che rappresentano una minaccia alla vita, dopo di che, affrontati quelli, si lavora sulla qualità di vita.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Dialectical Behavior Therapy (DBT) per il trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione, Firenze, 17-19 Aprile 2015 – Report del workshop, II Parte 

BIBLIOGRAFIA:

 

Report dal Congresso ICED 2015: International Conference on Eating Disorders – Boston, 23-25 Aprile 2015

Communication: Today and Tomorrow è il leitmotiv dell’ultima edizione ICED organizzata dalla Academy of Eating Disorders (AED). Un’attenzione particolare è stata rivolta al ruolo delle nuove tecnologie come strumenti di prevenzione, valutazione e trattamento dei disturbi alimentari ed alla comunicazione, nel senso più ampio del termine.

Il principale obiettivo dell’ICED di quest’anno, infatti, riguarda quello che Glenn Waller (Presidente AED), nel discorso di benvenuto, definisce gap tra ricerca e pratica clinica. In altre parole, l’intento è quello di promuovere un maggior interscambio tra ricercatori e clinici e l’integrazione delle loro diverse competenze, in modo da rendere più proficuo l’intervento sui pazienti con disturbi alimentari. Per questo motivo, all’interno della conferenza, sono stati organizzati anche meeting a piccoli gruppi di ricercatori e clinici, che hanno permesso- nel concreto- di condividere idee, strumenti ed esperienze.

Report dal Congresso ICED 2015 International Conference on Eating Disorders - Boston, 23-25 Aprile 2015_GLENN WALLER

Durante le tre giornate, attraverso discussioni orali, special interest group (SIG), workshop e sessioni poster sono stati affrontati vari temi, suddivisi in sezioni, tra cui: trattamenti di adolescenti e adulti, fattori di rischio e prevenzione , neuroscienze, comorbilità, personalità e cognition.

Per quanto riguarda i trattamenti, all’interno di un SIG, P. Doyle ha presentato un intervento combinato di Family Based Treatment (FBT) e Dialectical Behavior Therapy (DBT).

Doyle parte dall’osservazione che la FBT è un trattamento- in genere- solido ed efficace per gli adolescenti con Disturbi Alimentari, ma si dimostra limitato se applicato a pazienti difficili che mostrano anche disregolazione emotiva grave (trasversale a tutti i tipi di DA), tratti di personalità disfunzionali e comorbilità in Asse I (ansia e disturbi dell’umore, soprattutto). Tali elementi associati al DA vengono considerati come fattori limitanti l’efficacia della FBT, pertanto l’integrazione della DBT è pensata al fine di superare la difficoltà legata al trattamento di adolescenti con questo profilo.

Il programma descritto prevede l’integrazione dei due tipi di trattamenti in termini di modalità (prescrittiva – non prescrittiva) e di strumenti e strategie (skills groups, phone coaching, motivation building, parent training comportamentale ed empowering genitoriale), dove il focus rimane la famiglia. Dimostrando l’efficacia di quest’intervento combinato, Doyle ha proposto tre possibili applicazioni FBT-DBT: sequenza di due diversi trattamenti, combinazione di due trattamenti integrati, DBT come intervento aumentativo della FBT. Infine, ha sottolineato la maggior indicazione di un trattamento di questo tipo per pazienti con Bulimia Nervosa.

Uno studio interessante sul tema della motivazione al trattamento è stato discusso da S. Sarin, che ha analizzato l’effetto predittivo del tipo di motivazione (autonoma vs. controllata) sul cambiamento dei sintomi alimentari, dell’impulsività, dell’ansia e dell’umore in due gruppi di pazienti con Anoressia Nervosa con Restrizioni (AN-R) e Anoressia Nervosa con Abbuffate e Condotte di Eliminazione (AN-B/P), sottoposte ad un trattamento combinato (CBT-DBT-IPT). I risultati ottenuti hanno evidenziato che alti livelli di motivazione autonoma pre-trattamento predicono una riduzione della sintomatologia alimentare, depressiva e dell’impulsività post-trattamento in entrambi i gruppi (il gruppo AN-R mostra- però- cambiamenti più ridotti); alti livelli di motivazione controllata pre-trattamento predicono un incremento della preoccupazione relativa al peso e della sintomatologia alimentare post-trattamento; il tipo di motivazione mostra un maggior impatto per il gruppo AN-B/P rispetto al gruppo AN-R. In generale, la motivazione interna predispone i pazienti ad ottenere maggiori benefici sia nel breve che nel lungo termine, mentre la motivazione controllata predice esiti sfavorevoli. Sarin ha sollecitato studi futuri atti ad individuare l’impatto che i due tipi di motivazione discussi potrebbero esercitare su trattamenti diversi e ricerche su interventi mirati a modificare lo stato motivazionale dei pazienti.

Nell’ambito delle neuroscienze un contributo interessante è stato quello relativo alla plasticità cerebrale.

J. Feusner ha discusso uno studio condotto su pazienti AN con DOC in comorbilità, sottoposte ad un trattamento intensivo CBT rivolto ai sintomi ossessivo-compulsivi. Attraverso l’impiego di tecniche di neuroimaging e i punteggi alla YBOCS, si sono evidenziate co-variazioni post- trattamento tra sinapsi e metabolismo cerebrale, soprattutto nella regione orbito-frontale, e miglioramento della sfera ossessivo-compulsiva. La modularità osservata dimostra la potenzialità di un trattamento di psicoterapia sulle modificazioni cerebrali.

Nell’area relativa alla personalità ed alla cognizione S. Lloyd ha condotto un’analisi della relazione tra perfezionismo e stile cognitivo in adolescenti e adulti con AN.

Mediante l’uso di self- report sulle diverse dimensioni del perfezionismo (MPS) e sullo Stile Cognitivo (Detail and Flexibility Questionnarie) e la somministrazione di test neuropsicologici sul set-shifting e sulla coerenza centrale (WCST e RCFT), è stato accertato che- sia negli adolescenti che negli adulti- è presente un’associazione tra perfezionismo, rigidità cognitiva e attenzione al dettaglio self-report, per contro il perfezionismo non si associa alle prestazioni ai test neuropsicologici. Gli autori hanno rimarcato la valenza di questi risultati nella pratica clinica: gli strumenti self-report sul perfezionismo e sulla rigidità cognitiva possono fornire un importante insight al paziente riguardo l’impatto che questi hanno sulle difficoltà del quotidiano; i deficit rilevati potrebbero essere inclusi nel progetto terapeutico al fine di ottimizzarne gli esiti.

Una delle ricerche sui fattori di rischio si è focalizzata sulla relazione temporale tra i commenti dei pari e lo sviluppo di un disturbo alimentare.

Amaia-Hernàndez ha esposto uno studio longitudinale che ha valutato il valore dei commenti dei coetanei per lo sviluppo di disturbi alimentari nell’arco di 10 anni, su uomini e donne di tre coorti di età. Dai risultati emersi è stato dimostrato che i commenti dei coetanei possiedono un effetto predittivo specificamente per lo sviluppo della Bulimia Nervosa, indipendentemente dal sesso, dall’età e dal BMI alla baseline. Gli autori hanno concluso che il ruolo dell’influenza dei pari, sottoforma di discussione sul peso o sull’alimentazione, è fondamentale per l’esordio di un vero e proprio problema alimentare. Alla luce di questi dati, una riflessione particolare è stata dedicata alla pervasività di questa influenza, dal momento che non sono state rilevate differenze età/sesso-correlate, e da ciò derivano importati implicazioni per la pratica clinica, in primis interventi preventivi volti a ridurre il criticismo tra pari.

All’interno della sezione sulla comorbilità è stato presentato uno studio interessante sulla frequenza del Pica e disturbo da ruminazione in un campione di pazienti DA uomini e donne.

Mediante la somministrazione di strumenti self-report (e non secondo i criteri DSM-V), è emerso che il 2% delle donne soddisfa diagnosi di disturbo da ruminazione e nessun soggetto soddisfa diagnosi di Pica. Ciò confermerebbe che entrambi i disturbi esaminati sono rari. Tuttavia, gli autori di questo lavoro ipotizzano che la scarsa rilevazione del Pica e del disturbo da ruminazione potrebbero rispecchiare un generale basso tasso di questi disturbi, l’effetto dello stigma di questi ultimi o il fatto che questi soggetti non giungono all’attenzione dei clinici e questo ne determinerebbe una sotto-stima.

In merito alle attuali tecnologie come strumenti innovativi per la terapia, una ricerca di T. Melioli ha valutato l’impatto di Instagram, come social media, sull’immagine corporea e sulla preoccupazione relativa al peso ed il rapporto tra questi due variabili.

I parametri esaminati includevano la frequenza d’uso di Instragram, i sintomi alimentari, l’insoddisfazione corporea e la cultura sui social media. I risultati discussi hanno evidenziato che la frequenza d’uso di Instagram è associata all’Impulso alla Magrezza, l’uso quotidiano è associato all’Insoddisfazione Corporea, la cultura sui social media è correlata negativamente con i sintomi bulimici. Inoltre, alti livelli di cultura sui social media moderano la relazione tra frequenza d’uso di Instagram, impulso alla magrezza ed insoddisfazione corporea. Questi risultati suggeriscono che l’uso di Instagram può contribuire all’insoddisfazione dell’immagine corporea ed allo sviluppo di disturbi alimentari. D’altra parte, una buona conoscenza dei social media può fungere da fattore protettivo rispetto a questi effetti, da considerare in un’ottica di prevenzione.

Report dal Congresso ICED 2015 International Conference on Eating Disorders - Boston, 23-25 Aprile 2015_ hall

In chiusura si è tenuta una sessione orale plenaria dal titolo Empirically Based Practise: The Art and Science of Combining Clinical Expertise with Avaible Research, che ha previsto la presentazione di un caso clinico e una successiva discussione sulle proposte di trattamento, tenendo conto delle più recenti evidenze sperimentali in termini di diagnosi e di trattamento.

Un attivo dibattito e uno stimolante confronto tra numerosi esperti ricercatori e clinici hanno fatto da cornice a quest’ultima sessione.

I punti chiave emersi sono: motivazione al trattamento, consapevolezza di malattia, relazione terapeutica. Sembrano questi gli elementi da sottoporre ad un approfondimento mirato da parte dei ricercatori e dei clinici.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO: 

I Disturbi del Comportamento Alimentare: Report dal congresso SOPSI 2015, Milano

I segreti di Osage County (2013) – Cinema & Psicoterapia #35

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #35

I segreti di Osage County (August: Osage County) (2013)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

Diretto da John Wells, basato sulla pièce teatrale di Tracy Letts Agosto, foto di famiglia, vincitrice del Premio Pulitzer. Interpretato da Julia Roberts, Meryl Streep, Ewan McGregor, Chris Cooper, Julianne Nicholson, Sam Shepard.

Trama

La scomparsa misteriosa del marito di Violet Weston, un’anziana signora della contea di Osage malata di cancro è l’evento che induce Ivy, una delle tre figlie di Violet, a riunire l’intera famiglia. Arrivano Barbara, sorella di Ivy con suo marito Bill e sua figlia Jean, Mattie sorella di Violet con il marito Charles ed infine Caren ultima delle sorelle Weston insieme al compagno Steve. Il mistero della scomparsa ha presto una soluzione: Beverly Weston è morto inspiegabilmente mentre si trovava in barca.

 Dopo i funerali, con tutta la famiglia riunita per il pranzo, presente anche Little Charles, figlio di Mattie e Charles, Violet si scaglia con forti reprimende sui componenti della famiglia, rammentando vecchi accadimenti spiacevoli.

Barbara e Bill sono ormai in rotta, Steve cerca di abusare di Jean, ancora minorenne, Barbara ha una furiosa lite con Caren e con la stessa Jean, Mattie critica e deride suo figlio ritenuto un buono a nulla, e scopre che Little Charles è il figlio di Beverly, quindi fratello e non cugino di Ivy con la quale ha una relazione. Il film si snoda in una escalation che porta Caren a tornare in Florida con Steve, Jean ad abbandonare sua madre e ritornare a casa, con Bill, Little Charles insieme a sua madre e Charles ad andarsene, Ivy, dopo aver appreso la verità sul suo spasimante, a lasciare la casa della madre delusa e intristita.

Violet rimane, infine, sola perché anche Barbara per via di amare rivelazioni riguardo alla morte di Beverly e al testamento della famiglia Weston la lascia.

Motivi d’interesse

Le dinamiche familiari della famiglia Weston ci ricordano che la storia di ogni famiglia è caratterizzata da continue trasformazioni che rendono disfunzionali le modalità abituali con le quali si è sempre cercato di far fronte ai cambiamenti. La capacità dei singoli componenti di fronteggiare la malattia, è il caso di Violet affetta da un cancro, richiede uno sforzo per mobilitare risorse capaci di rendere flessibili e adattivi vecchi schemi. Le situazioni critiche e complesse richiedono piani di vita modulati sulle nuove esigenze che si vengono a creare. In questo caso alla malattia di Violet si aggiunge la morte improvvisa di Beverly che rende ancora più critico il momento.

Alcuni piani esistenziali adattivi dei singoli componenti e dell’intero sistema familiare sembrano perdere di efficacia in un contesto che sta mutando. Quelle modalità d’interazione che si sono trasmesse di generazione in generazione vacillano, le stesse credenze che hanno guidato per tanto tempo i singoli componenti appaiono ormai inadatte.

I cambiamenti alterano l’equilibrio e creano una confusa sofferenza. Vecchi problemi mai affrontati, il non detto, i segreti, i vissuti passati che hanno scavato fossati rancorosi tra i componenti riaffiorano, si risvegliano dal torpore di rimozioni, razionalizzazioni, negazioni e altre difese che hanno tutelato la forma, coprendo emozioni mai espresse, mai regolate, mai gestite.

Ed ecco che all’improvviso emerge un’emotività espressa dirompente. La temperatura emotiva del contesto familiare si alza. Rivela la mancanza d’affetto o viceversa un’attenzione invadente. L’ipercriticismo di Mattie verso Little Charles o di Violet nei confronti di Barbara, l’atteggiamento di ostilità di quasi tutti i membri della famiglia ne rappresentano una parte. L’altra parte è espressa dall’ipercoinvolgimento emotivo e dall’autosacrificio di Ivy, dalla drammatizzazione di Violet e di Caren. Le accuse reciproche, la ricerca di colpe e di responsabilità, le aspettative deluse, la rigidità dei comportamenti che non tengono conto delle esigenze e dei bisogni degli altri, un cinismo esasperato e la caccia spietata al capro espiatorio punteggiano tutta la narrazione.

Ogni emozione, ogni ricordo, ogni dettaglio della vita dei protagonisti, anche quelli taciuti e mantenuti nascosti per tanto tempo è rappresentato in tutta la sua drammaticità. Ognuno ha il suo dolore, il suo segreto, le sue bugie, la sua diffidenza in un contesto familiare disfunzionale in cui gli abusi si perpetuano di generazione in generazione. E tutto si palesa in una comunicazione farcita da insulti verbali anche violenti.

 Indicazioni per l’utilizzo

La storia familiare di ogni individuo è la storia del processo di formazione di rappresentazioni soggettive e familiari insieme.  L’eredità culturale che ci lascia è fatta di scopi e credenze che si modificano attraverso l’elaborazione dei vissuti personali, che si ancorano al passato per dare origine a sintesi nuove. Spesso l’ancoraggio è così forte che è difficile se non impossibile staccarsi da piani di vita pervasivi e inflessibili che in un contesto mutato continuano a riprodursi in modo disfunzionale.

La conoscenza allora del contesto d’apprendimento è utile perché il paziente possa distanziarsene criticamente per navigare lungo rotte più originali e personali, funzionali alle proprie mete.

La co-costruzione di una nuova trama narrativa che ripercorre le tappe di una storia di generazioni, non è un’operazione in cui il terapeuta si pone in una posizione neutrale, ma agisce e attiva un gioco di finzione e il film può in questo senso essere molto utile.  In sostanza, si opera in un contesto evolutivo, dove il soggetto può mantenere il funzionale di ciò che le generazioni passate gli hanno trasmesso e cambiare ciò che è diventato maladattivo.

Trailer

 

LEGGI ANCHE:

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

I bambini con lieve ritardo mentale potrebbero essere dei testimoni affidabili

Vanessa Smiedt

FLASH NEWS

Un nuovo studio ha dimostrato che i bambini con lieve ritardo mentale descrivono le loro esperienze in modo veritiero tanto quanto i bambini con sviluppo tipico, soprattutto quando vengono intervistati in prossimità all’evento.

I bambini con ritardo mentale hanno un rischio maggiore di subire maltrattamenti. Essi possono essere considerati testimoni validi?

Un nuovo studio ha dimostrato che i bambini con lieve ritardo mentale descrivono le loro esperienze in modo veritiero tanto quanto i bambini con sviluppo tipico, soprattutto quando vengono intervistati in prossimità all’evento. Anche i bambini con più gravi deficit cognitivi possono fornire informazioni valide ma in misura minore a quelli con sviluppo tipico.

Lo studio è stato condotto dai ricercatori dell’ Università di Lancaster in Gran Bretagna. Alla ricerca hanno preso parte 196 bambini di scuole inglesi dai 4 ai 12 anni (dai 7 anni per i bambini con capacità cognitive inferiori). La metà dei bambini sono stati intervistati per la prima volta 6 mesi dopo l’avvenimento di un episodio. I rimanenti sono stati intervistati sia una settimana dopo, sia dopo 6 mesi. I bambini sono stati valutati tramite 4 subtest e la WIPPSI-III e i bambini con ritardo mentale sono stati suddivisi, in base al QI, in ritardo mentale lieve o moderato.

Gli eventi si presentavano in classe e prevedevano attività legate alla salute e alla sicurezza. Le interviste iniziavano con domande molto ampie permettendo una libera rievocazione degli eventi per poi approfondire la rielaborazione attraverso domande specifiche.

Ricerche precedenti hanno suggerito che una precoce intervista, in particolare una che prevede una rielaborazione completa dell’evento, può attivare i ricordi dell’esperienza originale e rafforzare la memoria nel tempo (Pipe, Sutherland, Webster, Jones, La Rooy, 2004; Salmon, Pipe, 2000). Il presente studio dimostra che lo stesso vale per i bambini con ritardo mentale lieve, infatti il gruppo che è stato intervistato in prossimità all’evento e una seconda volta dopo 6 mesi ha riportato più informazioni ed erano più accurati e meno suggestionabili.

I risultati suggeriscono che per tutti i bambini, a prescindere dalle capacità cognitive, la testimonianza oculare richiede una serie di abilità specifiche (ad esempio, reperimento di informazioni durante l’intervista e non suggestionabilità rispetto alle domande). Come per i bambini con sviluppo tipico, si è rilevata una notevole variabilità all’interno dei gruppi di bambini con ritardo mentale indicando che la funzione cognitiva da sola non è sufficiente a spiegare le prestazioni di richiamo.

Possiamo concludere che questi bambini potrebbero essere considerati utili informatori e testimoni e quindi i tribunali dovrebbero prendere più seriamente le prove fornite da bambini con difficoltà cognitive.

È importante però sottolineare la necessità per gli intervistatori di dare la priorità a domande aperte poiché sia i bambini più piccoli con sviluppo tipico che quelli con ritardo mentale erano più sensibili a un interrogatorio con domande specifiche e fuorvianti.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Se i bambini mentono…la responsabilità è dei genitori!

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Snoopy e l’insuccesso: riconoscere i propri limiti – Peanuts (03)

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA  (03) 

 

 Il bracchetto Snoopy, dalla mente audace e sognatrice, porta avanti con ammirevole costanza il grande sogno di diventare scrittore, nonostante le continue risposte di rifiuto da parte degli editori. Sebbene la perseveranza sia un ingrediente indispensabile per il raggiungimento di una meta, questa divertente striscia evidenzia una verità indiscutibile, ovvero che non basta credere in un sogno per far sì che si realizzi.

Snoopy riconoscere i propri limiti - PEANUTS Nr. 03

Le correnti culturali che spingono alla ricerca della gratificazione personale nel successo rischiano di ridurre la visione critica rispetto alle proprie capacità, di minimizzare l’importanza dello sforzo in termini di faticoso esercizio e di creare un falso ideale di sé.

E’ invece utile mantenere uno sguardo realistico sulle proprie potenzialità e tarare gli obiettivi rispetto agli strumenti a disposizione, sia personali che ambientali, senza cadere nella trappola del giudizio globale sul proprio valore personale:

se non sono abile come scrittore, non significa che io sia un incapace o un fallito.

Snoopy si protegge inconsapevolmente dalla minacciosa possibilità di vedere infranto il suo sogno, attraverso quello che Fritz Heider chiama Self-Serving Biases (Heider, 1958), detto anche bias al servizio del sé.

E’ una distorsione cognitiva che consiste nella tendenza generalizzata ad attribuire il successo a se stessi e a negare la responsabilità dell’insuccesso o ad attribuirla ad altri. In questo caso, la mente di Snoopy mette in atto un bias di auto-protezione per la gestione dell’insuccesso, finalizzata a evitare la frustrazione e a soddisfare il bisogno di auto-valorizzazione.

Un intervento psico-educativo utile per Snoopy potrebbe essere quello di abbassare le aspettative di successo, rivolgendosi ad esempio a un pubblico più modesto (gli amici o il giornale del paese), seguire dei corsi per imparare le tecniche di base, confrontarsi con altri scrittori e imparare a mantenere un occhio critico costruttivo rispetto ai propri limiti e alle proprie capacità.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Bias impliciti: quali interventi? Psicoeducazione

BIBLIOGRAFIA:

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

Into the woods: brevi riflessioni nel bagliore della luna blu

Katiuscia Morelli

Into the woods ovvero nel bosco, luogo che fa da sfondo all’intreccio di più fiabe in cui i protagonisti, per realizzare i propri desideri ed arrivare ai propri obiettivi, devono appunto attraversare il bosco. Quattro storie nella Storia che rappresenta un’allegoria della vita con gioie, lotte, fughe, imprevisti e momenti di dolore.

 Ma partiamo dall’inizio, dalla fatidica frase I wish (io desidero) che accomuna tutti i personaggi che sognano di cambiare la propria sorte: c’erano una volta un fornaio e sua moglie che non potevano avere bambini; una ragazza orfana ridotta a sguattera dalla propria matrigna e dalle sorellastre; un ragazzo e sua madre la cui unica ricchezza è una mucca che non dà latte; e una bimba con una mantella rossa e tanta fame di dolci, di pane e di conoscenza …

Ne nasce un canto in cui i pensieri vengono esplicitati attraverso le parole, come in una sorta di rito propiziatorio che ricorda la prima Cenerentola disneyana che cantava i sogni son desideri di felicità … tu sogna e spera fermamente, dimentica il presente e il sogno realtà diverrà.

Ebbene ecco sulla scena comparire la possibilità di realizzare quanto agognato sotto le spoglie di una strega diventata brutta in seguito ad un incantesimo. Derubata e disperata si vendica gettando un maleficio sulla famiglia del fornaio ignaro di tutto.

Ma una luna blu che compare solo ogni mille anni può sciogliere il maleficio della strega e quello del fornaio e di sua moglie, conditio sine qua non è che i due coniugi dovranno procurarsi una mucca bianco latte, una mantella rossa, una scarpetta d’oro e capelli biondi entro la mezzanotte del terzo giorno.

D’altronde nulla si ottiene senza sacrificio e dunque ecco che i nostri personaggi entrano nel bosco per cercare tutto ciò di cui hanno bisogno, il loro obiettivo è chiaro così come è chiaro che l’alleanza per un desiderio comune porta più facilmente al compimento dello stesso. A rendere la ricerca ancora più affannosa è la figura della strega, la paura e l’ansia che in giuste dosi diventano attivanti e ci rendono più lucidi.

Ma nel bosco molte cose verranno imparate …

Cappuccetto Rosso capirà a sue spese che le raccomandazioni di un adulto competente sono importanti per non portarci fuori dal sentiero dell’amore per sé stessi e che conoscere è fondamentale per scegliere ma che la responsabilità della scelta invero è solo nostra.

Cenerentola apprenderà dopo una serie di rapporti negativi che nelle relazioni non conta solo lo strenuo corteggiamento di un principe narcisista educato ad essere affascinante, non sincero ad ottenere e non a condividere. Ripartirà da sé stessa e dalla propria identità per avere la possibilità di fidarsi di nuovo, senza per questo affidarsi completamente ad altri e alle caratteristiche che altri hanno voluto affibbiarle, ricercando la forza proprio nella cenere.

Il fornaio e sua moglie impareranno ad apprezzare la complicità di una coppia forse troppo logora da un desiderio non realizzato per fermarsi ad apprezzare ancora l’odore del pane appena sfornato e la dolcezza dei biscotti che chi non ha, anela tanto.

 Ma il bosco offrirà loro la possibilità di incontrare le proprie paure, gli errori dei padri, e soprattutto la rigidità del giudizio morale verso sé stessi e gli altri che spesso porta a punire e punirsi senza cercare un compromesso con il proprio passato, la propria educazione, al fine di costruire un’alternativa.

Anche Il ragazzo costretto a vendere la propria mucca disobbedirà alla raccomandazione della madre, come in una profezia che si auto avvera mostrerà di non essere all’altezza del compito assegnatogli così che quel giudizio espresso dal genitore così tante volte e con così tanta convinzione, risulterà vero. Il riscatto sarà arduo e porterà alla rottura degli antichi schemi, non senza grande dolore. Il perdono, visto come nuovo inizio e come possibilità di incanalare in modo creativo la rabbia chiude gli intrecci cui la strega aveva dato inizio.

La strega, dal suo canto, rappresenta il perturbante, la parte irrazionale, che se non integrata può boicottarci, può togliere e non dare, può tenerci imprigionati in una torre senza porte o farci precipitare in un burrone …

Nell’introduzione a Il femminile nella fiaba, M.L. von Franz scrive che

in origine e sino al diciassettesimo secolo circa soprattutto gli adulti erano interessati alle fiabe. Poi lo sviluppo di una visione razionale della vita e il conseguente rifiuto dell’irrazionale portarono a considerare le fiabe come assurdi racconti di vecchie, adatti soltanto a divertire i bambini…

Di certo into the woods ci porta nella foresta dell’inconscio per riconoscere e conoscere limiti, paure, angosce e desideri da affrontare con occhi di bambino e sguardo di adulto.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La cenerentola di Branagh: un’eroina contemporanea dentro un abito d’epoca

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Marie Louise von Franz, M. L. (1983). Il femminile nella fiaba. Bollati Boringhieri 
  • Lorenzini R., Sassaroli S. (2000). La mente prigioniera. Raffaello Cortina

 

Shopping compulsivo – Introduzione alla Psicologia Nr. 13

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (13)

 

 

Lo shopping compulsivo diventa compensatorio di qualcosa che manca, non materiale ma emotivo. Quindi, andrebbe a soffocare uno stato emotivo negativo che tendenzialmente ha a che fare con la sfera depressiva e di cui il paziente non è conscio. 

 

Kraepelin la chiamava oniomania, al secolo shopping compulsivo o impulso patologico a comprare. Di cosa si tratta?

Esso consiste nel comprare oltre misura, ma ciò che differenzia questo comportamento dalle normali spese, che tutti comunemente eseguiamo, è la necessità di dover comprare a tutti i costi qualcosa, altrimenti si generano una serie di paure patologiche che portano a uno stato di malessere.

Quindi, la linea che divide lo shopping normale dal compulsivo risiede proprio nella patologia data dell’atto del comprare.

In questo caso, lo shopping diventa compensatorio di qualcosa che manca, non materiale ma emotivo. Quindi, andrebbe a soffocare uno stato emotivo negativo che tendenzialmente ha a che fare con la sfera depressiva e di cui il paziente non è conscio.

Dopo aver acquistato si prova una sorta di piacere, benessere, che presto è sostituito dal doloroso senso di colpa di aver speso gli ennesimi soldi, derivante, a sua volta, dalla mancanza di controllo che porta all’agito compulsivo.

Gli shopper compulsivi sostengono di essere invasi dall’ urgente bisogno da fare propria quella cosa, a questo punto sono letteralmente costretti a passare all’atto perché lo stimolo è percepito come irrefrenabile e intrusivo. Questa spinta incontrollabile all’acquisto, tipica dei compratori compulsivi, è stata definita ‘buying impulse‘, ed una tendenza distruttiva invalidante, generata da un bisogno urgente che preme per essere soddisfatto.

I compratori compulsivi acquistano ripetutamente oggetti per porre fine, temporaneamente, a una mancanza che non sarà mai pienamente soddisfatta poiché non è sostituibile con qualcosa di materiale.

Questo disturbo somiglia per molti versi ad altre forme di dipendenza, per questo sono presenti fenomeni di craving (incapacità di controllare l’impulso che porta al comportamento patologico), di pensiero desiderante (prefigurarsi la soddisfazione proveniente dall’acquisto), di tolleranza (che porta i soggetti ad aumentare progressivamente la quantità di oggetti da comprare), e di astinenza (le crisi a cui si va incontro quando è impossibilitato nell’acquisto).

Lo shopping compulsivo ha gravi ripercussioni sulla vita sociale, lavorativa, familiare e coniugale, oltre alle inevitabili perdite finanziarie e all’importante portata di ansia, che deriva dall’irrefranibile voglia di acquistare, di depressione e di perdita quando si scopre che si è in preda a una perdita di controllo.

Liberarsi dalla dipendenza da shopping è possibile grazie a un percorso terapeutico che aiuti a tenere sotto controllo i comportamenti problematici e li riduca nel tempo, fino a farli scomparire.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

L’anoressia nervosa e il controllo dell’appetito: la fame che non motiva a mangiare

Le persone affette da Anoressia Nervosa, nonostante la fame, sono in grado di ignorare le ricompense connesse con il cibo. 

La maggior parte delle persone, indipendentemente dal loro peso, sono in grado di controllare l’assunzione di cibi grassi ad alto contenuto calorico. Tuttavia, nonostante le migliori intenzioni, quando arriva il momento di prendere una decisione, la vista del cioccolato o di un ottimo dolce diventa troppo eccitante e l’autocontrollo viene meno. Questo comportamento è piuttosto normale in quanto la fame aumenta l’intensità della ricerca di ricompense alimentari. Tuttavia, le persone affette da Anoressia Nervosa, nonostante la fame, sono in grado di ignorare le ricompense connesse con il cibo. 

In un recente studio realizzato da Christina Wierenga, Walter Kaye e colleghi, pubblicato nella nota rivista Biological Psychiatry, vengono messi in luce i meccanismi celebrali che potrebbero giocare un ruolo importante negli alterati pattern alimentari dell’Anoressia.
Gli autori hanno analizzato i comportamenti di reward connessi con la fame e la sazietà in un campione di 23 donne guarite dall’Anoressia Nervosa (campione clinico) e 17 soggetti sani (campione di controllo).

I risultati hanno mostrato come le donne sane, quando hanno fame, mostrano un aumento dell’attività della parte del cervello che le motiva a ricercare la ricompensa, mentre tale attivazione non si osserva nel campione clinico. Quest’ultimo mostra invece una aumentata attivazione del circuito cognitivo di controllo senza riguardo per lo stato metabolico (fame o sazietà).

Quindi ciò che emerge dallo studio è che le donne che hanno sofferto di Anoressia Nervosa mostrano due diversi modelli di cambiamento nel circuito cerebrale che possono contribuire alla loro capacità di sostenere l’ evitamento del cibo.
In primo luogo la fame non aumenta il coinvolgimento dei circuiti di reward e motivazione nel cervello. Questo potrebbe proteggere i pazienti affetti da anoressia dalla fame stessa. In secondo luogo è emersa una aumentata attivazione dei circuiti di “auto-controllo” nel cervello, il che rende le “ex pazienti” più capaci di tollerare lo stimolo a mangiare.

Questo studio quindi supporta la letteratura che concepisce l’Anoressia Nervosa come un disturbo neurobiologicamente mediato: le persone che hanno sofferto di Anoressia Nervosa sono meno sensibili alla ricompensa e alla spinta motivazionale della fame. In altre parole quindi la fame non le motiva a mangiare.
Questi risultati, oltre alla loro valenza nel migliorare la comprensione del funzionamento celebrale nell’anoressia, hanno delle implicazioni importanti anche da un punto di vista terapeutico. Inoltre, poiché questi stessi circuiti e processi sembrano essere impegnati ‘al contrario’ per l’obesità,essi possono essere anche di importante valore nella comprensione di questa patologia alimentare.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Neurobiologia: perché nell’anoressia viene ignorato lo stimolo della fame

BIBLIOGRAFIA:

Il vaccino MPR possibile causa dell’Autismo? Le risposte di uno studio americano

FLASH NEWS

La ricerca ha nuovamente smentito l’idea che ricevere una o due iniezioni possa causare un aumento del rischio di autismo. Tutto ciò dimostra che non esiste nessuna associazione tra il vaccino MPR e l’insorgere di patologie dello spettro autistico e fa si che anche questo studio si ponga in linea con quelli precedenti che hanno riportato dati di questo tipo in altre popolazioni.

Il vaccino MPR è un vaccino trivalente di immunizzazione contro il morbillo, la parotite e la rosolia che normalmente è somministrato in due dosi, la prima tra 12 e  15 mesi e la seconda tra 4 e 5 anni. Nonostante le ricerche degli ultimi 15 anni non abbiamo mai riscontrato una correlazione o un legame causale tra il vaccino MPR e i disturbi dello spettro autistico, è opinione diffusa che l’aver ricevuto iniezioni del vaccino MPR possa significativamente aumentare il rischio di patologie di questo tipo.

A fronte quindi di dati che sottolineano come il tasso di diffusione dei disturbi dello spettro autistico non differisca tra i bambini che hanno ricevuto il vaccino e quelli che non sono stati sottoposti alle iniezioni, l’idea di un nesso tra i due aspetti è ancora sostenuta. Ciò è vero in particolare per i genitori che hanno già figli autistici i quali, in seguito anche all’evidenza che i secondogeniti presentano un rischio genetico maggiore di sviluppare un disturbo dello spettro autistico rispetto alla popolazione generale, tendono a limitare le vaccinazioni per i loro bambini più piccoli.

Lo studio in questione ha considerato 95 727 bambini americani, confrontando quelli che hanno un fratello maggiore affetto da patologie dello spettro autistico con quelli che hanno un fratello maggiore che non presenta il disturbo.

I risultati hanno dimostrato che la maggior parte dei bambini ha un fratello maggiore non affetto (93 798), mentre solo una piccola parte del campione è rappresentato dai bambini che hanno un fratello maggiore con autismo (1 929). La percentuale dei bambini con fratello affetto che a loro volta hanno ricevuto una diagnosi di autismo è maggiore rispetto a quella dei bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico ma con fratello sano (ciò potrebbe supportare anche il ruolo che i fattori genetici ricoprono nell’etiologia dei disturbi dello spettro autistico). Inoltre, e questo è il dato più significativo, i tassi di iniezione del vaccino MPR, sia alla prima che alla seconda vaccinazione, sono più bassi nel caso dei bambini che hanno un fratello con autismo e maggiori per quelli con fratello non affetto.

La ricerca ha infine smentito anche l’idea che ricevere una o due iniezioni possa causare un aumento del rischio di autismo. Tutto ciò dimostra che non esiste nessuna associazione tra il vaccino MPR e l’insorgere di patologie dello spettro autistico e fa si che anche questo studio si ponga in linea con quelli precedenti che hanno riportato dati di questo tipo in altre popolazioni.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Autismo e vaccini: Intervista a Chiara Picinelli

BIBLIOGRAFIA:

Disturbi alimentari & difficoltà economiche: quale legame?

Lo studio evidenzia una correlazione tra un’attitudine estrema verso il cibo e il mangiare e difficoltà finanziarie a breve termine per le studentesse femmine, suggerendo l’esistenza di un circolo vizioso.

Affrontare difficoltà economiche durante l’università può aumentare il rischio nelle studentesse di sesso femminile di sviluppare un Disturbo Alimentare, in accordo con una recente ricerca dell’Università di Southampton e Solent NHS Trust.

Al contrario, lo studio mostra che il fatto di avere un’attitudine estrema verso il cibo e il mangiare predice difficoltà finanziarie a breve termine per le studentesse femmine, suggerendo l’esistenza di un circolo vizioso.
In altre parole attitudini negative verso il cibo aumenterebbero il rischio di difficoltà finanziarie nel breve termine, e queste difficoltà potrebbero a loro volta esacerbare le attitudini alimentari negative nel lungo termine.

La ricerca, pubblicata nell’ International Journal of Eating Disorders, ha inoltre analizzato la relazione tra lo status socioeconomico e le attitudini alimentari, mostrando come siano più frequenti le attitudini alimentari negative nelle donne provenienti dalle famiglie meno ricche.
Circa 400 studenti universitari provenienti da diverse facoltà della UK hanno completato una indagine relativa al benessere familiare, recenti difficoltà economiche e attitudini verso il cibo e il magiare, attraverso l’uso dell’ Eating Attitudes Test (EAT). Questo strumento chiedeva ai partecipanti di rispondere a domande quali “mi sento estremamente colpevole dopo che mangio”, “ sono preoccupato dal pensiero di essere più magro” o “ho l’impulso di vomitare dopo che mangio”. Punteggi elevati a questa scala indicavano estreme attitudini alimentari e la potenziale presenza di un disturbo alimentare.

Ogni studente ha completato la ricerca 4 volte, ad intervalli di 3-4 mesi l’una. I principali risultati sono stati i seguenti:
* un elevato livello di difficoltà finanziarie nella prima somministrazione del test era associato con più gravi attitudini verso il cibo e il mangiare nella terza e quarta somministrazione del test;
* una minore ricchezza familiare registrata nella prima somministrazione del test era associata con più elevati punteggi all’EAT nell’ultima somministrazione del test;
* più elevati punteggi all’EAT alla prima somministrazione predicevano un aumento delle difficoltà economiche nella seconda somministrazione.

I risultati indicano quindi l’esistenza di una relazione tra la situazione finanziaria e i disturbi alimentari nelle donne, ma non negli uomini. È possibile infatti che coloro che sono più a rischio di sviluppare un disturbo alimentare percepiscano un minor controllo sugli eventi della loro vita, quali ad esempio la situazione finanziaria, e possano quindi restringere la loro alimentazione al fine di esercitare controllo in altre aree della loro vita. Future ricerche sono però necessarie al fine di approfondire il legame esistente tra disturbi alimentari e status finanziario.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Disturbi del comportamento alimentare (DCA): una panoramica attuale e un progetto del Ministero della Salute

BIBLIOGRAFIA:

Burnout e insegnamento: come combattere lo stress dell’insegnante

Burnout: definizione e caratteristiche

Con il termine burnout (in inglese bruciato, fuso) si indica una condizione di stress lavorativo protratto e intenso che determina un logorio psicofisico ed emotivo, cui seguono demotivazione, svuotamento interiore, disinteresse e senso di inefficacia per l’attività lavorativa (con riduzione della produttività).

Particolarmente diffusa nelle professioni sanitarie ed educative (infermieri, medici, insegnanti), presenta numeri preoccupanti nel nostro Paese. Una ricerca condotta dal Comune di Milano per i casi di inabilità al lavoro, nel periodo 1992/2001, ha mostrato che, su oltre 3000 persone, le più colpite sono le insegnanti, con una frequenza doppia di patologia psichiatrica rispetto ad altre categorie (Lodolo D’Oria, e coll., 2002).

I tipici sintomi del burnout interessano diversi livelli, da quello cognitivo a quello fisiologico.
Sintomi cognitivo/emotivi. Scoraggiamento, difficoltà di concentrazione, incubi notturni, irritabilità, sensi di colpa e fallimento (sia nella sfera professionale che privata), distacco emotivo (indifferenza verso gli utenti), cinismo, trascuratezza degli affetti e delle relazioni, iperinvestimento sul lavoro, che diventa il centro della propria vita, anche a dispetto dell’esaurimento delle energie. Esempi di distacco psicoemotivo in ambito scolastico riguardano l’adozione di forme d’insegnamento esclusivamente tradizionali, l’applicazione non flessibile della programmazione, l’attribuzione del fallimento scolastico dell’alunno al suo scarso impegno, a modeste capacità intellettive o alla famiglia e al ceto sociale di appartenenza, e l’abbandono di strategie didattiche quali il recupero individualizzato.
Sintomi comportamentali. Assenteismo, mancanza di iniziativa, aggressività verso gli utenti, aumento dei comportamenti di dipendenza (caffè, fumo o farmaci, con il serio pericolo di sviluppare malattie psichiatriche, come depressioni gravi).
Sintomi fisici. Disturbi intestinali (gastrite, stitichezza), senso di debolezza, emicrania, allergie e asma, insonnia, inappetenza. 
Chi soffre di burnout vuole dimostrare le proprie capacità a tutti i costi, ma nutre profonda sfiducia in se stesso, e spesso non si rende conto che il logoramento di cui è vittima gli imporrebbe di riposarsi e pensare al proprio benessere.

 

Fattori di rischio e fattori protettivi nel burnout

Recentemente, l’Inail – Dipartimento di medicina del lavoro – ha pubblicato una scheda su Burnout e insegnamento dove vengono affrontate le tematiche inerenti ai fattori di rischio e alle strategie per contrastare il burnout a scuola.
Fattori di rischio. Tra i fattori predisponenti a carattere individuale troviamo un’eccessiva dedizione al sacrificio, il bisogno di affermazione attraverso il lavoro (a discapito della vita privata), problematiche familiari o relazionali e la scarsa tolleranza dello stress. Esistono molteplici cause di carattere organizzativo, come le condizioni di lavoro (classi numerose, carenza di attrezzature), l’organizzazione scolastica (eccessive pratiche burocratiche, carenza di percorsi di aggiornamento significativi) e le “politiche” scolastiche (limitata possibilità di carriera, retribuzione insoddisfacente, precarietà e mobilità).
Fattori protettivi. All’interno della gamma degli “ammortizzatori” del burnout si possono citare le relazioni familiari solide e che offrono una rete di sostegno emotivo adeguata, il genere (le donne possiedono maggiori risorse emotive) e l’età di servizio (gli anziani hanno più esperienza lavorativa e strumenti per affrontare situazioni stressogene). Altre condizioni favorenti sono il supporto di colleghi e il livello di autoefficacia percepita, attraverso il riconoscimento del proprio lavoro da parte di superiori e utenti.

 

Burnout: Trattamento e strategie didattico-organizzative 

La terapia cognitivo-comportamentale per il burnout

Nell’ ottica cognitivo-comportamentale, i pensieri che assorbono la vittima di burnout ruotano intorno a due convinzioni “l’utente è ingrato, insensibile ai miei sforzi di aiutarlo”, ma anche “sono abbandonato dall’azienda, non riconoscono i miei sforzi, e quindi mi sento inutile”.
Questo atteggiamento mentale determina risposte emotive e comportamentali di aggressività, che si alternano a disperazione e inutilità, “non riesco a raggiungere i miei obiettivi, devo impegnarmi di più”. L’obiettivo del trattamento è cambiare questo modo di pensare per ridurre l’intensità delle emozioni negative (e della conseguente tensione corporea) e creare un clima sereno e produttivo all’interno dell’ambiente lavorativo.

Una pratica ampiamente usata per contrastare gli effetti di pensieri ed emozioni frustranti è la Mindfulness, tecnica meditativa che si fonda sulla presa di coscienza (consapevolezza) delle sensazioni presenti che vengono accettate, senza giudizio, senza valutazioni, nel loro “naturale fluire” (Harris, 2009). Si impara a vivere nel presente, senza colpevolizzarsi per il passato né temendo il futuro, con benefici su molti disturbi emotivi e fisici, tipici del burnout (disturbi del sonno, cefalee, dolori muscolari, ansie, depressioni, paura del fallimento) (Gilbert, 2005).

Per migliorare i rapporti con colleghi, superiori e allievi a scuola, è utile apprendere tecniche di assertività, abilità che serve a contrastare sia la tendenza alla passività “non sono in grado di aiutare nessuno” sia cinismo e aggressività, apprendendo a rispondere a richieste eccessive con chiarezza, calma e salvaguardando il rapporto di fiducia con l’utenza e l’immagine lavorativa.

Fulcro della terapia è la ristrutturazione cognitiva dei pensieri depressivi del tipo “l’alunno non apprende, sono un incompetente” con pensieri più razionali e positivi sul tono dell’umore come “farò del mio meglio con i mezzi a mia disposizione”. La collaborazione con i colleghi è poi fondamentale per sfogare le proprie frustrazioni e preoccupazioni e diminuire il peso delle responsabilità. A questo fine il supporto dato da gruppi di sostegno con altre persone che vivono la stessa condizione di logoramento, e la vicinanza dei familiari, evitano il sovraccarico di ansie e tiene lontani da comportamenti dannosi per sé e gli altri.

Mettere in primo piano i propri bisogni (coltivando hobby e interessi o riprendendo i contatti sociali che si erano persi concentrandosi troppo sul lavoro), servirà a non logorare le energie indispensabili per curare le persone che chiedono a loro volta aiuto.

Ad oggi sul burnout è possibile intervenire con ottimi risultati, ma è necessario rendersi conto che continuare a negare le proprie necessità primarie (riposo, svago, tranquillità) porta solo all’autodistruzione e che si ha urgente bisogno di aiuto per cambiare stile di vita e far riemergere il rispetto per sé, l’ottimismo, la gioia di vivere.
Uscire dal burnout è possibile, quindi, attraverso il controllo sulle proprie priorità di vita, sulle proprie emozioni e l’impegno per la riorganizzazione di un ambiente di lavoro in cui siano chiari ruoli, compiti da svolgere, aspettative realistiche di miglioramento delle difficoltà degli utenti, così da non superare i limiti personali ed esaurire le proprie energie interiori.

 

Prevenzione del burnout: Strategie professionali

Tra le strategie personali/professionali suggerite nel documento INAIL (Petyx, S. e coll., 2012) e che ogni insegnante può adottare troviamo:
– Considerare gli insuccessi lavorativi come momenti transitori e costruttivi.
– Creare una rete sociale all’ interno della scuola per migliorare la comunicazione all’ interno del contesto lavorativo.
– Individuare fonti di soddisfazioni e gratificazioni anche esterne al contesto lavorativo.
– Formulare al dirigente proposte per ottimizzare alcuni aspetti critici a livello organizzativo, insieme ad altri colleghi che sperimentano le stesse difficoltà.

Compiti dell’organizzazione scolastica

Secondo l’art. 6 dell’Accordo Europeo sullo stress lavoro-correlato dell’8 ottobre 2004, spetta al datore di lavoro stabilire misure adeguate per la prevenzione e la riduzione dello stress, e attuarle con la partecipazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti, lungo tre direzioni:
1. Area gestione e comunicazione. Assicurare ascolto (valorizzare proposte, risorse umane e professionali) e sostegno (incoraggiamento a manifestare il disagio legato a fattori organizzativi, senza colpevolizzare l’insegnante), una maggiore flessibilità nell’applicazione di norme.
2. Area formazione. Stimolare la consapevolezza degli insegnanti rispetto ai motivi scatenanti dello stress, aiutarli a comprenderne le cause (screening dei vari fattori probabili) e il modo in cui affrontarlo (tecniche di gestione dello stress).
3. Informazione e consultazione dei lavoratori. Sottolineare le effettive risorse dell’organizzazione scolastica, coinvolgere i docenti nelle decisioni (gestire le criticità in team).

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Burnout e strategie disadattive di gestione dello stress lavoro-correlato

BIBLIOGRAFIA:

Milano tra tradizione e innovazione, tra libertà e violenze

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta del 3/05/2015

 

È tempo di parlare bene di Milano, dopo le violenze di venerdì pomeriggio. È tempo di parlare di una città accogliente e aperta, come raccontò per anni Gaetano Afeltra sul Corriere della Sera con saggia ingenuità, parlando dei suoi sogni di giovane ambizioso proveniente da Amalfi, sogni che a Milano poterono realizzarsi senza dover soffrire l’usuale prezzo dell’emigrante: lo sradicamento, l’esclusione, la solitudine. A Milano, per fortuna, c’è tutta l’Italia e trovi sempre persone con le quali puoi ricreare il meglio della tua regione di provenienza, lasciando alle spalle le ristrettezze della vita di provincia.

Invece di Milano ci lamentiamo sempre, costantemente, crogiolandoci in un’eterna scontentezza, in un eterno e malmostoso rimuginio. Che va bene, la scontentezza è il sale della libertà, quando non sconfina nell’invocazione a buon mercato della violenza. È l’eterno rischio di degenerazione dello spirito critico in spirito autodistruttivo.
È vero: Milano non ti fa innamorare. Non ha il fascino della storia che avvolge Roma, Venezia o Firenze. Precocemente occupata dagli stranieri fin dal ‘500, è rimasta per secoli provincia spagnola e austriaca senza una signoria locale che la ingombrasse di monumenti come Mantova o Ferrara. Questo è stato anche un vantaggio: le ha consentito uno sviluppo moderno con viali e parchi e linee metro che non devono fare i conti con mille rovine del passato. Però i suoi viali non hanno la monumentalità di quelli di Parigi.

Milano non ha nemmeno il fascino metropolitano di New York. Il suo centro storico, stretto nel perimetro circolare delle mura medievali, è piccolo e conserva le proporzioni umane della città comunale, del borgo italiano. E nemmeno questa misura è però sentita un pregio, dato che toglie a Milano la disumanità sradicata della grande metropoli, della giungla urbana.
Oltre le mura medievali si stende la cerchia intermedia che arriva alle mura spagnole zeppa di palazzi umbertini, liberty o in stile “novecento” che non ti abbagliano e che sei portato a sottovalutare, come un po’ tutte le cose di Milano. A me piacciono il novecento della Torre Rasini al 61 di Porta Venezia e il liberty della Casa Galimberti al 3 di via Malpighi. Ma al giorno d’oggi è sufficiente cliccare wikipedia per avere un elenco completo dei palazzi milanesi.

Non sono qui però per lodare l’architettura e la sottovalutata bellezza di Milano, cose di cui poco m’intendo. Posso però scrivere di come l’insoddisfazione verso Milano sia una forma -attenuata, come si conviene a Milano- del disagio della modernità. Disagio a tratti impalpabile, poiché è il disagio della mancanza di senso e di direzione. L’individuo lasciato a se stesso e alla propria libertà può rischiare di scoprire di non saper che farsene, di questa libertà. Liberato da significati e da direzioni un tempo opprimenti, può scoprire che un’esistenza laica e senza sensi prefabbricati da una tradizione può disorientare. Poco consola sapere che in passato tradizione e sacralità hanno servito troppo spesso il male e il delitto. Ancora oggi le civiltà ancora pervase dal senso del sacro non sono affatto un modello ideale, e anzi si macchiano di violazioni dei diritti umani, i più elementari. Ma la pochezza umana non ci consente di non sentire la mancanza dei lati positivi di quegli orizzonti così ricchi di senso.

Uno dei sogni dell’uomo moderno è la liberazione dal fardello dei ceppi sociali, dei limiti, delle convenzioni morali e religiose. Probabilmente questo spinse il giovane Afeltra a lasciare Amalfi negli anni ’30 e tentare la fortuna a Milano. Il problema è che poi iniziamo a sentire la mancanza di questo fardello. Anche dietro la più violenta protesta, come ad esempio quella dei black bloc, c’è una richiesta d’ordine. Si potrebbe dire che ogni rivoluzionario non è altro che un conservatore impaziente, un uomo d’ordine un po’ impulsivo. Per questo, sebbene i ribelli talvolta indulgano a leggere e ammirare Nietzsche, nessuno è disposto a seguirlo fino in fondo. Va bene il sì alla vita, ma la bestia bionda, per fortuna, non tenta nessuno. Si persegue allora un ribellismo moderato e una devastazione ragionevole, qualche auto bruciata e qualche negozio devastato, ma niente dei massacri rivoluzionari della prima metà del novecento.

E nemmeno il delirio giovanile e terroristico della seconda metà del secolo scorso. Tutto oggi sembra ridursi a un periodico incresparsi della superficie borghese, con qualche scontro in piazza a cura dei Black Bloc testimoniato da mille selfie immediatamente diffusi per il mondo su uno degli innumerevoli social network. Il tutto che si alterna a vacanze low cost, magari a Cuba, sognando una seconda vita.

So che rischio di banalizzare tutto. È che manca il pathos della distanza. Vedere queste micro-rivoluzioni sui mille media che oggi abbiamo a disposizione dà questa sensazione che nulla sia davvero serio. Vi è tutta una serie di studi sulla psicologia dei new media che dimostra come l’immediata disponibilità della notizia la banalizzi irrimediabilmente, trasformando il tutto in un gioco apparentemente innocuo. D’altro canto non è affatto detto che il borghese in pantofole che assiste dalle sue finestre ai disordini per le strade sia impaurito dai rivolgimenti sociali. Può anche condividerli e improvvisamente gettare a terra la sua zimarra e scendere sui marciapiedi a manifestare, nella sempre crescente confusione dei ruoli che è anch’essa molto milanese, se pensiamo alle manifestazioni degli anni ’70 del novecento, in cui davvero non si capiva mai chi fossero i borghesi e chi i ribelli. Oppure accentuare il desiderio d’ordine e indossare una camicia nera e recarsi alla milanesissima piazza San Sepolcro dove fu fondato il fascio primigenio: rivoluzione si, ma conservatrice. La psicologia dell’aggressività rimane un campo confuso.

Insomma, nella storia il milanese rimane un eterno scontento che vuole al tempo stesso l’ordine e il casino. Riprendendo la passeggiata interrotta a inizio articolo, dopo la Torre Rasini possiamo imboccare il Corso Venezia già amato da Stendhal (abitò al numero 51, oggi c’è una targa) e incontrare in successione Il Planetario e il Museo Civico di Storia Naturale. Dopo aver ammirato il neo-classico Palazzo Saporiti sormontato dalle statue degli dei olimpici inoltriamoci nei giardini intitolati a Montanelli, un altro eterno scontento, toscano e milanese. Oppure andare al Lorenteggio fino al numero 50 della via Giambellino al bar del Cerrutti Gino. Oggi si chiama bar Masuri ed è gestito da cinesi. Che non sia più il Bar Gino e che sia oggi dai fratelli Hu va benissimo ed è una cosa molto milanese: il passato è passato. E peraltro anche lamentarsi che non si chiami più Bar Gino è una cosa molto milanese. Basta non incendiare le auto. Poi, se proprio si vuole, c’è la salumeria di fianco gestita dal nipote di Gino, Ferdinando Fiamenghi, che tiene esposte coppe vinte a biliardo dagli amici di Gaber. Insomma, tradizione e innovazione.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La difficile convivenza di libertà e ordine

Tracce del tradimento Nr. 07: Il traditore distratto e il traditore abituale

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO 07

La ricerca di tracce è meno importante sia nei casi in cui immediatamente un errore è scoperto sia nei casi in cui a nessuno viene in mente che un tradimento sarebbe possibile, e così anche le tracce più evidenti non sono viste dal tradito.

In letteratura il problema delle tracce del tradimento è spesso raccontato come una svista, una distrazione.  Questo ovviamente è possibile, è possibile e forse abbastanza frequente che chi lascia tracce lo faccia soltanto perché, non volendo realmente farlo, si sbaglia. Il caso esiste ma è anche ai margini di questa serie di articoli.

Il traditore può essere un tipo che ha fatto le cose maldestramente e di fretta, è un tipo che non ha mai tradito e non sa tenere segreti. Oppure è un traditore abituale fin troppo fiducioso delle sue capacità di nascondere, è un tipo superficiale o disordinato. Oppure il cercatore è minuzioso ed estremamente perfezionista nella ricerca, nulla gli sfugge. Esistono situazioni in cui veramente ci si sbaglia e ci si trova a dover affrontare le conseguenze dei propri errori.

La ricerca di tracce è meno importante sia nei casi in cui immediatamente un errore è scoperto sia nei casi in cui a nessuno viene in mente che un tradimento sarebbe possibile, e così anche le tracce più evidenti non sono viste dal tradito.

Vi sono poi i traditori abituali dove il tradimento è nel patto. Vi sono coppie dove per anni il tradimento reciproco o di uno dei due fa parte del gioco. La coppia è aperta e piena di incontri con persone che vengono amate, usate, con cui ci si diverte spesso in modo esplicito e con leggerezza. Vi è crisi in queste coppie soltanto quando qualcuno infrange in modo arbitrario il patto del tradimento. In questi casi uno dei due partner mette in discussione improvvisamente il vecchio patto che contemplava la coabitazione con molte altre storie parallele e ritenute non importanti.

Accade a un certo punto che il patto vada in crisi, perché uno dei due si sente vecchio e decide la preferenza improvvisa per la tranquillità. Oppure per una conversione o per il mutare dei propri desideri.  O per un’improvvisa paura di essere abbandonato, o per la nascita inaspettata di una gelosia che prima non si conosceva. Oppure perché dopo tanti incontri sessualmente leggeri vi è all’improvviso l’incontro con  una persona di cui ci si innamora e che fa decidere per l’abbandono del vecchio partner di tante navigazioni a vista. Insomma tanti motivi che portano a mettere in discussione l’apertura della coppia come paradigma fondante.

La risposta può essere una ridefinizione del patto se entrambi sono d’accordo nel rimanere insieme o l’abbandono se uno dei due non vuole accettare una coppia monogama dopo tanti anni di abitudini diverse.

Questi casi sono lontani dal focus di questa nostra serie di articoli perché non riguardano le tracce dei tradimenti ma il problema, a volte doloroso, della necessità di cambiare le regole del gioco durante il gioco. La fase di mutamento delle regole è una fase burrascosa, ma non è affatto impossibile che porti alla condivisione con reciproca soddisfazione di regole e scopi condivisi nuovi. Il periodo della messa in discussione del vecchio patto è spesso un periodo molto doloroso e pieno di angoscia per il partner che subisce o non condivide il passaggio al nuovo statuto.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Relazioni infelici: perchè la coppia non scoppia?

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

cancel