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Deontologia: vi sono differenze di genere?

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Se fosse possibile ritornare indietro nel tempo, considerereste giusto uccidere Adolf Hitler, quando ancora era adolescente, per prevenire gli effetti tragici della Seconda Guerra mondiale?

Di fronte a un simile dilemma morale, le donne e gli uomini sembrerebbero avere atteggiamenti e risposte differenti.
Secondo una nuova ricerca gli uomini sarebbero più propensi ad accettare azioni altamente dannose su un singolo per un maggiore vantaggio della collettività (cioè salvare molte vite), rispetto alle donne.

Ai soggetti è stato chiesto di riflettere su 20 dilemmi morali rispetto ai quali si trovavano poi a decidere se fosse lecito uccidere, torturare, mentire, etc allo scopo di salvare vite umane. In particolare lo studio ha esaminato due differenti principi etici. Da una parte la deontologia secondo cui la moralità di un’azione dipende dalla sua coerenza con una norma morale. Dall’ altra l’utilitarismo per cui un’ azione può considerarsi moralmente giusta se si ha un effetto di massimizzazione dell’utilità, cioè si ottiene un effetto positivo per un maggior numero di individui: secondo questa prospettiva dunque la medesima azione può considerarsi moralmente corretta in una situazione ma non in un’altra circostanza.

I ricercatori hanno dimostrato che nelle donne sarebbero maggiormente presenti rispetto agli uomini inclinazioni deontologiche; anche se non vi sono differenze tra maschi e femmine nelle valutazioni razionali degli effetti e dei potenziali risultati positivi per la collettività di un’azione dannosa sul singolo. Dunque, secondo lo studio si riscontrano differenze di genere in termini di atteggiamenti e inclinazioni morali che però non rimandano all’ interferenza delle emozioni, almeno a livello delle valutazioni razionali degli aspetti utilitaristici. In altre parole, le donne prediligono la morale deontologica, pur mantenendo simili livelli di razionalità nell’ analisi degli esiti.

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Antidolorifici ed Emozioni: il Paracetamolo attenua ed offusca l’intensità delle emozioni

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Non sono solo le valutazioni cognitive degli eventi a impattare sulle nostre emozioni. Anche l’antidolorifico più comune, il paracetamolo, avrebbe un effetto indesiderato a livello psicologico: attenua e offusca l’intensità delle emozioni secondo una ricerca pubblicata su Psychological Science.

Nello studio i soggetti che avevano assunto paracetamolo riportavano emozioni di intensità significativamente minore alla vista di stimoli emotigeni (di valenza sia positiva che negativa) rispetto ai soggetti della condizione di controllo. Nello studio (con un campione di 82 soggetti) in una condizione veniva somministrata una dose di 1000 milligrammi di paracetamolo e nella condizione di controllo un’identica compressa placebo. Dopo 60 minuti ai soggetti venivano mostrate alcune fotografie selezionate dal famoso database IAPS (International Affective Picture System) validato come strumento per l’elicitazione emotiva delle emozioni sia a valenza negativa che positiva.

I partecipanti dovevano quindi riportare il proprio vissuto emotivo in termini di valenza (positiva o negativa) e in termini di intensità utilizzando delle scale Likert. I risultati evidenziano che i soggetti che avevano assunto il paracetamolo valutavano le fotografie emotigene – positive e negative-  come “meno intense”, riportavano emozioni di intensità significativamente minore rispetto al campione di controllo.

Una possibile spiegazione alternativa nella lettura dei risultati è che il paracetamolo influenzi il processo di valutazione in senso più ampio di stimoli anche non specificamente a contenuto emotivo. Un secondo studio prende in considerazione questo aspetto, aggiungendo alla procedura precedentemente descritta  un task di valutazione percettiva: i soggetti dovevano valutare cromaticamente le immagini. Ancora una volta, gli individui che avevano assunto il paracetamolo riportavano emozioni di minore intensità, ma non si sono riscontrate differenze significative nella valutazione cromatica delle fotografie. Non si tratterebbe dunque di un generico effetto di offuscamento delle valutazioni cognitive soggettive. Quindi il paracetamolo, influenzerebbe a breve termine l’intensità delle emozioni e la reattività agli stimoli emotigeni.

La ricerca si focalizza sull’assunzione di una dose media di paracetamolo e ne analizza gli effetti a breve termine: per conoscere quali siano le conseguenze emotive (anche in termini di regolazione emotive) a medio e lungo termine di un uso e di un abuso di paracetamolo sono comunque necessari ulteriori studi.

 

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Suicide by cop: l’omicidio indotto dalla vittima

Il termine “Suicide by Cops” (SBC) si riferisce ad una modalità di comportamento suicida iscrivibile all’ interno di una più ampia categoria che in letteratura viene denominata “Omicidio indotto dalla vittima” (Victim Precipitated Homicide): quelle situazioni in cui è la vittima stessa che istiga il soggetto a commettere il reato.

Il fenomeno del suicidio da poliziotto (SBC) è stato a lungo scritto nelle riviste di polizia e delle scienze forensi (Jenet e Segal, 1985): questa espressione fa riferimento a un metodo di suicidio in cui un individuo agisce deliberatamente in modo minaccioso con l’obiettivo di provocare una risposta letale da un funzionario di polizia (o da un altro individuo legittimamente armato), che viene indotto a porre fine alla vita della vittima per salvaguardare la propria o altrui incolumità da quest’ultima minacciata: la presa di ostaggi, la violenza domestica e la violenza sul posto di lavoro sono riconosciute come le situazioni più comunemente utilizzate per provocare o attirare gli agenti di polizia (Geller e Scott, 1992).

I soggetti che scelgono tale modalità suicida, intendono generalmente porre fine alla propria vita per le stesse motivazioni che caratterizzano i suicidi commessi con metodi più convenzionali. La differenza sostanziale consiste nel fatto che nel SBC, e più in generale nell’ omicidio indotto dalla vittima, l’individuo, per realizzare il suo fine, cerca di coinvolgere attivamente altre persone.

Ci sono due grandi categorie di SBC. La prima è il caso in cui qualcuno, dopo aver commesso un reato, viene inseguito dalla polizia e decide che preferisce morire piuttosto che essere arrestato: queste persone possono provocare gli agenti di polizia spinti dalla convinzione che una vita trascorsa in carcere non è degna di essere vissuta. Il secondo caso fa riferimento a persone che stanno già contemplando il suicidio: questi individui possono commettere un crimine con il preciso intento di provocare una risposta delle forze dell’ordine.

Anche se le caratteristiche individuali di un soggetto SBC sono determinate da personalità ed esperienze di vita uniche, la ricerca ha identificato alcune particolarità comuni di questi individui (Feuer, 1998; Kennedy, Homant, e Hupp, 1998; Lord, 2000; Perrou, e Farrell, 2004; Wilson, Davis, Bloom, Batten, e Kamara, 1998). Il tipico soggetto SBC è un uomo bianco con un’età media di 20 anni. Nella maggior parte dei casi ha già avuto un precedente contatto con la legge ma generalmente per reati minori, e questo potrebbe avergli dato una certa familiarità del modo in cui la polizia opera e delle loro reazioni a eventi critici.

Oltre all’abuso di sostanze (droghe, farmaci e alcol), il soggetto da SBC ha sofferto di altri problemi psicologici: i disturbi più comuni associati a tale condotta sono quello schizofrenico e il disturbo bipolare; in almeno uno dei casi documentati dagli studi presi in considerazione, è presente un tentato SBC a seguito di un trauma cranico (Bresler, Scalora, Elbogen, e Moore, 2003). L’episodio critico è comunemente accelerato dalla rottura di alcune importanti relazioni connesse con la sua autostima o il sostegno sociale (come per esempio una crisi famigliare o di lavoro) che induce sentimenti di disperazione, rabbia e angoscia. Naturalmente, a presenza di più episodi critici aumentano la vulnerabilità del soggetto e la probabilità di SBC.

La maggior parte di ciò che conosciamo sulle motivazioni delle diverse forme di suicidio proviene dallo studio di persone che hanno pensato al suicidio e poi cambiato idea, o sono state persuase a non farlo, o da persone che hanno effettivamente tentato il suicidio ma sono sopravvissute. Mohandie e Meloy (2000) hanno delineato una serie di motivazioni SBC che possono essere applicate a più tipi di suicidio, come sentimenti di disperazione, di rabbia, e / o di vendetta. Per tali soggetti, pare che non c’è via d’uscita alla loro disperazione e l’unica soluzione sembra quella di porre fine alla loro vita. Tuttavia, ciò che può essere unico nei casi SBC, è il modo in cui questi sentimenti sono agiti.

Sono diversi gli studi che si sono soffermati sulle motivazioni sottostanti i casi specifici di SBC. In alcuni individui la presenza di forti convinzioni religiose può precludere loro la possibilità di suicidarsi da soli: per questi soggetti risulta pertanto accettabile dal punto di vista religioso, che un altro ponga fine alla loro vita (Pinizzotto et al., 2005). Per altri, il SBC è un tentativo di evitare lo stigma sociale associato al suicidio: in tali casi il “morire per mano della polizia” rappresenterebbe una copertura del proprio intento suicida. Altre volte è la ricerca di una morte “da intrepidi” e/ o “sensazionale” (Van Zandt, 1993). In altri casi, le vittime vogliono assicurarsi una morte certa e, scegliendo un agente di polizia, sono convinti di poter conseguire tale obiettivo considerando il fatto che questi possiede un’arma da fuoco ed è addestrato ad utilizzarla (Hafenback e Nasiripour, 2005; Miller, 2005). Inoltre, l’agente di polizia potrebbe rappresentare una sorta di “coscienza sociale” che permetterebbe di porre fine, in modo definitivo, ad eventuali sensi di colpa provati dal soggetto. (Hutson et al., 1998).

In ogni caso, a prescindere dalle motivazione che induce i soggetti a scegliere tale modalità suicida, gli effetti psicologici e legali per gli agenti di polizia coinvolti sono spesso di notevole rilevanza: subito dopo il conflitto, questi possono manifestare una diminuzione del coordinamento motorio con tremori agli arti o addirittura spasmi incontrollabili, distorsioni percettive relative al tempo ed allo spazio, difficoltà nel recupero delle tracce mnemoniche relative all’evento traumatico a volte rivissuto come fosse al rallentatore e con suoni ovattati. A lungo termine, nei casi più gravi, gli effetti psicologici del conflitto possono far sviluppare un disturbo post traumatico da stress. Sugimoto e Oltjenenbruns (citati in Pietrantoni, Prati, e Morelli, 2003) parlano di una reazione di shock psicologico agli stressor traumatici (direttamente legati alla morte) chiamata “angoscia traumatica” che può divenire patologica e irrisolta e scatenare quindi un DSPT cronico. Studi americani (Parent, e Verdun-Jones, 1998; Hutson et al., 1998; Mohandie, Meloy, e Collins, 2009) dimostrerebbero che, nel contesto statunitense, questo fenomeno avrebbe proporzioni non trascurabili con un conseguente impatto psicologico sul poliziotto.

Anche gli inevitabili aspetti legali e mediatici connessi all’evento traumatico contribuiscono a rinforzare il quadro sintomatologico sopra descritto. A proposito, diversi agenti di polizia hanno dichiarato di aver provato un netto miglioramento al termine dell’inchiesta giudiziaria che automaticamente viene svolta a seguito di questi accadimenti.

Tuttavia, individuare le condizioni che accertano un SBC può essere difficile. Di conseguenza, i poliziotti sono oggi addestrati ad esercitare il controllo imparando a riconoscere le caratteristiche che possono aiutarli ad evitare di coinvolgere persone che hanno tentazioni suicide.

Perrou (2006) ha individuato 15 indicatori che possono aiutare gli operatori delle forze di polizia nel riconoscere quelle situazioni operative nelle quali vi è un’elevata probabilità di esser di fronte ad un tentativo di SBC: 1. Il soggetto si è barricato e rifiuta di negoziare; 2. Il soggetto ha appena ucciso qualcuno, e, in particolare, un familiare; 3. L’individuo dichiara di avere una malattia incurabile; 4. Le richieste del soggetto agli agenti di polizia non includono aspetti relativi alla sua liberazione o vie di fuga; 5. Il soggetto ha da poco vissuto o sta vivendo esperienze di vita traumatiche (lutti, divorzio, gravi problemi economici ecc.); 6. Prima di causare l’episodio critico il soggetto ha donato i suoi beni; 7. Il soggetto ha registrato dichiarazioni relative al suo gesto; 8. Il soggetto dichiara le sue intenzioni 9. L’individuo sostiene di aver pensato di pianificare la sua morte; 10. Il soggetto ha espresso un interesse in una morte da “macho”; 11. L’individuo ha espresso un interesse in una “uscita di scena” sensazionale; 12. Il soggetto ha espresso sentimenti di perdita di speranza e di fiducia nell’aiuto altrui; 13.L’individuo formula l’elenco dei suoi desideri ai negoziatori; 14. Il soggetto dichiara di voler essere ucciso; 15. L’individuo stabilisce una “deadline” per essere ucciso.

L’autore sostiene che, in caso di situazioni operative altamente critiche, qualora dovessero esser presenti alcuni di questi indicatori, gli agenti di polizia dovrebbero esser consapevoli della possibilità di avere a che fare con un soggetto che vuole essere ucciso e che per raggiungere tale obiettivo non esiterebbe a fermarsi di fronte a nulla, compresa la possibilità di far fuoco sui poliziotti stessi.

Perrou ha inoltre individuato potenziali indicatori comportamentali comunemente presenti in caso di soggetto con intenzioni suicida: un atteggiamento iper-vigile (scanning), in cui il soggetto controlla con meticolosità l’intero campo visivo; un cambiamento della frequenza respiratoria riscontrato a livello visivo, uditivo o entrambi, e rappresenta spesso l’ultimo atto prima della morte; il “conto alla rovescia”, un conto cadenzato che spesso può aiutare il soggetto con intenzioni suicide a raggiungere la soluzione fatale, in cui il soggetto concentrerebbe la propria attenzione in larga parte sul conteggio precludendo l’elaborazione e/o l’analisi di soluzioni alternative, oltre che distogliere la propria attenzione dai tentativi di farlo desistere dal proprio intento da parte degli agenti intervenuti.

In tali situazioni di crisi, l’identificazione dei sopraelencati comportamenti pre-suicidio e la loro successiva interruzione attraverso opportune modifiche tattiche d’intervento, hanno spesso permesso agli agenti di impedire al soggetto di commettere l’atto fatale e quindi di farlo arrendere.

 

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Disturbi dell’umore: meno frequenti nelle donne afroamericane che vivono nelle aree rurali degli USA

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Le donne afroamericane che vivono nelle aree rurali degli Stati Uniti avrebbero una minore prevalenza di disturbo depressivo maggiore (MDD) e disturbi dell’umore rispetto alle donne della stessa etnia ma residenti nelle zone urbane.

Secondo JAMA Psychiatry questa differenza non si riscontra – sempre negli USA- in donne di altre etnie, come ad esempio le donne di origine ispanica, che presenterebbero la medesima prevalenza di disturbi dell’umore sia nelle aree urbane che nelle aree rurali.

Alcuni ricercatori della University of Michigan in uno studio epidemiologico statunitense hanno esaminato l’interazione tra il fattore residenza (area urbana vs. area rurale) e il fattore etnia nel’arco di 12 mesi e nel corso del lifetime nelle donne di etnia caucasica, afroamericana e ispanica. In generale, è emerso che rispetto alle donne afroamericane, le donne ispaniche avrebbero una prevalenza significativamente maggiore di disturbo depressivo maggiore (21.3 % vs. 10.1 %) e altri disturbi dell’umore.

Similmente anche le donne caucasiche avrebbero una prevalenza maggiore rispetto alle donne afromericane. Il dato interessante inoltre è che viene evidenziato un fenomeno plausibilmente legato all’urbanizzazione: nelle donne afromericane residenti in aree rurali vi sarebbe una minore incidenza di disturbo depressivo maggiore (10.4 % vs. 5.3%) rispetto a donne della medesima etnia residenti in aree urbane. D’altro canto, nelle donne caucasiche emergono dati opposti: sono le donne caucasiche residenti nelle zone rurali ad avere una maggiore prevalenza di disturbo depressive maggiore (nell’arco di 12 mesi) rispetto alle loro controparti residenti nelle città (10.3% vs. 3.7%).

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Lo stress – Introduzione alla Psicologia Nr. 12

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (12)

 

 

Lo stress deriva da uno stimolo esterno negativo cui segue una risposta sia emotiva negativa sia fisiologica. Lo stress si manifesta quando vi sono delle situazioni esterne o interne al soggetto che richiedono una quantità di risorse per fronteggiare l’evento maggiore rispetto a quelle possedute in quel momento.

 

Cos’è lo stress? Potremmo dire mille cose diverse che portano a definizioni diverse. Infatti, non esiste una definizione di stress su cui tutti convergono, perché chiaramente ciò che può essere stressante per qualcuno potrebbe non esserlo per l’altro, e, oltretutto, è possibile reagire a una situazione stressante con modalità soggettivamente diverse.

Comunemente si è soliti associare il termine stress alla tensione, all’ansia, alla preoccupazione, alle difficoltà in generale, cui seguono manifestazioni negative organiche conseguenze di uno stato mentale negativo. Quindi, in risposta a situazioni stressanti, succede che alcuni reagiscono mangiando di più, c’è chi beve, altri fumano e chi si arrabbia facilmente, etc.

In generale, lo stress deriva da uno stimolo esterno negativo cui segue una risposta sia emotiva negativa sia fisiologica. Lo stress si manifesta quando vi sono delle situazioni esterne o interne al soggetto che richiedono una quantità di risorse per fronteggiare l’evento, maggiore rispetto a quelle possedute in quel momento.

Lo stress determina la messa in atto di una risposta fisiologica aspecifica del corpo a qualsiasi richiesta ambientale e gli stressor sono i diversi stimoli esterni che possono siscitare tale reazione.

La risposta aspecifica, detta anche sindrome generale di adattamento, si compone di tre distinte fasi:

  1. Fase di allarme, aumento della pressione cardiaca, maggiore tensione muscolare, aumento del cortisolo in circolo.
  2. Fase di resistenza, l’organismo si adatta alla situazione stressante attraverso risposte fisiologiche atte a riportare il corpo in uno stato di equilibrio.
  3. Fase di esaurimento, se la condizione stressante continua nel tempo, oppure è troppo intensa, si entra in una fase di esaurimento in cui l’organismo non reagisce più. Si assisterà in questa fase alla comparsa di malattie dall’adattamento rappresentate come le malattie psicosomatiche.

Il cortisolo, ormone rilasciato dalle ghiandole surrenali in fase di allarme, influenza il metabolismo degli zuccheri, delle proteine e dei grassi aumentando l’energia disponibile per l’organismo; tuttavia una azione a lungo termine di questo ormone porta a un abbassamento delle difese immunitarie provocando una serie di disagi fisici: raffreddori ricorrenti, emicranie ricorrenti, mal di pancia ricorrenti, etc.

Lo stress è determinato da processi cognitivi che portano al manifestarsi di emozioni negative che alla lunga diventano patologiche.

Per concludere, lo stress è il risultato di un processo di interazione tra le capacità di fronteggiamento individuali e l’ambiente, e se tali capacità fossero insufficienti allora si manifesta una patologia sia fisica che emotiva.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Dialectical Behavior Therapy (DBT) per il trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione, Firenze, 17-19 Aprile 2015 – Report del workshop, II Parte

 

LEGGI LA PRIMA PARTE

Nel contratto terapeutico viene esplicitato che il disturbo alimentare e i comportamenti maladattivi sono ostacolo al raggiungimento degli scopi esistenziali, la realizzazione dei valori e desideri, il focus è sul disagio personale, i comportamenti restrittivi sono obiettivo secondario e prerequisito, se mettono a rischio la vita del paziente.

L’esperienza italiana

Successivamente alla giornata e mezza trascorsa con Debra Safer ci sono stati tre interventi che ci hanno aggiornato su applicazioni in corso in Italia del protocollo DBT modificato. Caterina Pieraccioli ha illustrato la pratica clinica in corso a Villa dei Pini a Firenze.

Per pazienti con disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e bulima nervosa (BN), con l’esclusione di pazienti con multimorbilità e disturbo bordeline di personalità, viene applicato un protocollo della durata di tre mesi a frequenza settimanale, in regime di ricovero o ambulatoriale. Rispetto al protocollo Safer, Chen e Telch di DBT modificato, c’è con cadenza settimanale un gruppo parallelo di mindful eating aperto, con presenti pazienti nelle diverse fasi del percorso.

Sono state aggiunte e cambiate delle schede, utilizzando le variazioni apportate dal nuovo manuale della terapia dialettico-comportamentale di Marsha Linehan, uscito negli USA a novembre 2014. Si è condotto uno studio pilota su 31 schede raccolte negli ultimi due mesi e mezzo per analizzare abilità non messe in atto dai pazienti, attraverso la revisione delle catene comportamentali.

Carmelo La Mela ha presentato il modello Radically Open Dialectical Behaviour Therapy (RO-DBT) di Thomas Lynch modificando la DBT standard di Marsha Linehan per applicarlo a pazienti anoressiche, resistenti alla terapia cognitiva-comportamentale (CBT). E’ un programma ambulatoriale inizialmente individuale e poi anche di gruppo. Sono stati aggiunti ulteriori moduli, che si inseriscono successivamente in 8 settimane arrivando a 15 moduli. Su questo modello sperimentale è stato condotto uno studio dal gruppo anglo-americano di Lynch (2013) su un campione terapeutico di 70 pazienti, con una riduzione del drop out all’8% e un aumento di indice di massa corporea (IMC) di 2.

L’anoressia nervosa (AN) di tipo restrittivo è caratterizzata da un rigido e inflessibile controllo inibitorio. Nel BED e BN sono centrali la disregolazione emotiva, nell’AN la solitudine emotiva e il distacco dagli altri; l’esterno è vissuto come minaccioso, la risposta adottata è l’ipercontrollo emotivo e comportamentale per evitare errori e quindi criticismi, queste pazienti hanno una bassa consapevolezza delle proprie emozioni e stati somatici, una ridotta espressione delle emozioni soprattutto negative e difficoltà nel riconoscimento delle stesse negli altri.

L’obiettivo della terapia è il miglioramento della sicurezza sociale e della consapevolezza somatica degli stati interni. Nel contratto terapeutico viene esplicitato che il disturbo alimentare e i comportamenti maladattivi sono ostacolo al raggiungimento degli scopi esistenziali, la realizzazione dei valori e desideri, il focus è sul disagio personale, i comportamenti restrittivi sono obiettivo secondario e prerequisito, se mettono a rischio la vita del paziente.

Stefano Lucarelli ha portato l’esperienza di un ambulatorio dell’USL 11 a Empoli. Il protocollo DBT è stato adattato in setting individuale a cadenza settimanale a pazienti anoressiche restrittive, con una lunga storia di malattia, ipercontrollanti, egosintoniche, pluritrattate. Caratterizzate da scarsa motivazione al trattamento, isolamento sociale e coartazione affettiva.

Il percorso previsto è di 1 anno, ogni 15 giorno c’è l’incontro con la dietista/nutrizionista, ci sono consultazioni telefoniche con le pazienti e supervisioni. Gli obiettivi sono facilitare l’ingaggio e motivare al trattamento, diminuire i comportamenti di grave ipercontrollo e l’isolamento sociale. I moduli sostanzialmente sequenziali sono l’apertura radicale, regolazione emotiva, efficacia interpersonale, tolleranza della sofferenza emotiva. Non è previsto un modulo di mindfulness, però sono inseriti degli esercizi nell’apertura radicale e tolleranza della sofferenza emotiva. Le emozioni tipiche dell’AN su cui lavorare sono paura, vergogna, invidia e rancore, elicitate dal confronto sociale.

In conclusione sono stati tre giorni ricchi di contenuti, buone prassi e spunti per applicare la DBT ai disturbi della nutrizione ed alimentazione.

 

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Il ruolo della paura nei disturbi d’ansia

 

Una possibile spiegazione di alcuni fenomeni legati all’‪‎ansia‬, quali per esempio l’ipervigilanza‬, ‪e l’‎iperallarme‬, potrebbe essere legata all’attivazione automatica dell’amigdala, in seguito alla percezione di uno stimolo spaventoso.

Mediante la percezione visiva identifichiamo ed assegniamo significati agli oggetti nello spazio ed è in base ad essi che reagiamo. La percezione della paura consente una risposta adattiva a situazioni di minaccia, attraverso una reazione automatica d’attacco/fuga, attivando una specifica area cerebrale: l’amigdala. Una lesione di quest’area determina una diminuzione della capacità di riconoscere la paura mentre una sua stimolazione, negli esseri umani, porta a sperimentare ansia e paura (Bear, et al.2005).

Una possibile spiegazione di alcuni fenomeni legati all’‪‎ansia‬, quali per esempio l’ipervigilanza‬, ‪e l’‎iperallarme‬, potrebbe dunque essere legata all’attivazione automatica dell’amigdala, in seguito alla percezione di uno stimolo spaventoso. È questa la conclusione a cui sono arrivati alcuni studiosi ed, ancora più interessante, è il fatto che la percezione dello stimolo non debba essere obbligatoriamente consapevole.

Nello studio di Whalen e colleghi (1998), infatti, i partecipanti percepivano espressioni facciali in assenza di conoscenza esplicita. Venivano loro presentate delle espressioni di ‪paura‬ e felicità sovrapposte ad espressioni neutre, che dunque le mascheravano, impedendo così la percezione consapevole delle emozioni sottostanti. Mentre le espressioni facciali venivano proiettate su uno schermo, si registravano i segnali di attivazione cerebrale, mediante risonanza magnetica funzionale. Al termine della presentazione degli stimoli veniva poi chiesto ai partecipanti di descrivere qualsiasi aspetto dei volti presentati; commentare le espressioni emotive dei volti; e se avessero visto o meno qualche espressione di felicità o qualche volto spaventato.

I risultati dello studio dimostrarono che, nonostante i partecipanti dichiaravano di non aver percepito le espressioni facciali della paura in modo esplicito, si verificava comunque in essi un’attivazione dell’amigdala. Questa parte del ‪cervello‬, dunque, risultava essere implicata anche nel monitoraggio di stimoli emotivi inconsapevoli. Inoltre, il livello di attivazione dell’amigdala era influenzato in modo differenziale dalla valenza emotiva degli stimoli: l’intensità del segnale aumentava per gli stimoli di paura e decresceva per quelli di felicità.

Dunque entrambe le espressioni, paura e felicità, forniscono informazioni sul potenziale di minaccia in un dato ambiente, e incidono differentemente sul livello di attività dell’amigdala.

Tali risultati sarebbero in linea con l’ipotesi che considera le prime risposte agli stimoli affettivi, automatiche; esse non richiederebbero pertanto consapevolezza. L’attivazione dell’amigdala, dunque, potrebbe rappresentare il substrato neurobiologico del primo step, automatico, dell’elaborazione degli stimoli emotivi. Da tale step il processo potrebbe evolvere verso un’analisi più differenziata, da cui emergerebbe la distinzione tra le varie emozioni.

Per Whalen e colleghi (1998), dunque, l’amigdala potrebbe giocare un ruolo principale nei fenomeni clinici che si osservano nei disturbi d’ansia. Infatti, in questi soggetti, l’attivazione di quest’area cerebrale potrebbe commettere errori nel processare le informazioni a livello implicito e dare origine a fenomeni tipici quali: ipervigilanza, iperallarme e mancata abituazione agli stimoli.

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La paura nel cervello: nuove scoperte sul circuito cerebrale salva-vita – Neuropsicologia

BIBLIOGRAFIA:

Buddha’s Brain: cambia il tuo cervello – Recensione

Il libro indica le possibili pratiche che possono associarsi al lavoro psicologico con il terapeuta: il paziente sa che possono agire aumentando la sua speranza.

Rick Hanson, neuropsicologo e Richard Mendius neuroscienziato, sono gli autori di un libro dal titolo esotico, “il cervello di Buddha”. Di esotico c’è, però, solo il titolo, il resto è un appassionante viaggio guidato nei rapporti tra neuroscienza, psicoterapia e tradizione spirituale della scuola buddhista Theravada. Di R. Hanson sono stati tradotti in italiano due libri sullo stesso argomento. Buddha’s brain li supera per completezza e utilità.

  • Completezza: nel libro viene esaminato, sulla base delle recenti acquisizioni neuroscientifiche, il rapporto tra mente e cervello. Il cervello si sa che cosa sia, definire la mente è più complesso. Gli autori intendono con questo termine tutte le attività cognitive, emozionali, relazionali che fanno parte dell’esistenza. Quale rapporto hanno con il funzionamento cerebrale? Grande questione al pari di quella “cosa c’era prima del big bang”. Certo senza un cervello non ci sarebbe mente ma come questa influisce sul cervello? Gli autori partono da diversi assiomi oggi dimostrati dalla neuroscienza: per esempio, il cervello è plasmabile, può modificarsi in risposta ad azioni esterne veicolate dalla mente. E’ una buona notizia. Possiamo sperare che certe aree celebrali responsabili di stati di benessere possano essere “allevate” e “allenate” attraverso opportune pratiche. Le grandi tradizioni sapienziali ci indicano alcune di queste pratiche, in particolare quella buddista; la scuola Theravada in particolare indica nella meditazione di consapevolezza ( vipassana) la via per agire sulla mente. Non a caso tra i pionieri della mindfulness ,numerosi sono gli psicologi e psichiatri i praticanti di questa scuola buddista.

  • Utilità: il conoscere cosa succede nel nostro cervello quando si pratica è un ottimo appoggio alla psicoterapia. Avere consapevolezza che la meditazione agisce modificando aree cerebrali responsabili dell’umore e della cognizione può rafforzare la fiducia nella possibilità di cambiamento.

Infine, ma meno importante, le diverse teorie e scuole che, non raramente, si accapigliano tra loro, potrebbero trovare alcuni punti di appoggio in queste antiche pratiche senza considerarsi esclusive.

I comportamentisti nel vedere sottolineato nel libro che i cambiamenti di comportamento agiscono sullo stato psichico dei pazienti; i neuroscienzati riduzionisti vedendo che è la pratica che cambia il cervello e non solo viceversa. E ancora gli psicologi del profondo (o psicodinamici) ritrovano nel libro che la psiche può essere ristrutturata attraverso le relazioni, e infine i cognitivisti possono trovare conferma dell’importanza dei modelli cognitivi costruiti nella prima infanzia.

Si potrebbe continuare ma chi scrive non è né psicologo, né psicoterapeuta e tanto meno psicanalista.

E’ però un paziente e qui sta molta dell’utilità del libro. Gli autori sostengono, grazie alla loro esperienza, che l’adottare pratiche già presenti nella storia della ricerca dell’uomo, possa ridurre la sofferenza del vivere. Sono pratiche che agiscono sulla mente principalmente: la meditazione di consapevolezza che oggi possiamo chiamare mindfulness, il cambiamento di abitudini oggi paragonabile agli esercizi che agiscono sulle modificazioni nella vita pratica quotidiana, dal prendersi cura di sé al coltivare empatia, accettazione, etc.. Infine si può sottolineare l’importanza dell’esercizio fisico (ad esempio, hatha yoga) non competitivo ma come strumento di consapevolezza e di non identificazione con i nostri pensieri.

Il libro indica le possibili pratiche che possono associarsi al lavoro psicologico con il terapeuta: il paziente sa che possono agire aumentando la sua speranza. Naturalmente ci si guarda bene dal voler convertire a una fede o visione del mondo e della natura. Non occorre né essere buddisti, credenti o atei o altro ancora, ma solo essere aperti e avere fiducia. Ingredienti necessari sia al terapeuta che a chi cerca di alleviare la sua sofferenza, spesso non solo incomprensibile ma assurda.

T.F.

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BIBLIOGRAFIA:

Si preferisce l’apprendimento sociale rispetto a quello individuale!

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E’ apprendimento sociale quell’ insieme di processi unicamente umani che consentono agli individui di appropriarsi, di apprendere, in una relazione esperto-novizio non solo delle conoscenze ma anche dei modelli culturali e delle pratiche condivise per vivere la quotidianità.

Così come impariamo per trials and errors oppure osservando ciò che accade nel mondo accanto a noi, indipendentemente dalle interazioni, ad esempio osservando le associazioni di eventi e/o oggetti che co-occorrono con regolarità (apprendimento individuale).

Un nuovo studio pubblicato su PLOS one ha elegantemente analizzato due processi tipici della specie umana: da una parte l’apprendimento per osservazione e per associazione degli eventi, sganciato dalla relazione con l’altro, dall’ altra l’apprendimento del “novizio” attraverso l’interazione con un proprio consimile “esperto”, significativo interlocutore comunicativo.

Nello studio bambini di 18 mesi osservavano nella condizione di baseline un adulto alle prese con una scatola con due pulsanti e una luce a forma di cuore. Entrambi i pulsanti erano in grado di far illuminare il cuore ma con una frequenza diversa: il pulsante di destra con maggiore frequenza (due terzi delle volte in cui veniva pigiato) rispetto al pulsante di sinistra (un terzo delle volte in cui veniva pigiato).

Nella condizione sperimentale l’adulto, al posto di rimanere neutrale come nella condizione di controllo, interagiva con il bambino attraverso sia i canali non verbali (ad esempio, il contatto oculare), sia attraverso il canale verbale parlando al bambino nel cosiddetto “motherese” per sottolineare il significato delle proprie azioni. In seguito, i bambini venivano valutati per le loro prestazioni alle prese con la scatola che si illumina.

Quello che è emerso è una prova empirica della rilevanza delle interazioni umane tanto semplice quanto affascinante: nella condizione di baseline, ciò che conta è il criterio dell’efficienza, cioè il bambino impara e riproduce il comportamento per cui è conveniente pigiare il pulsante di destra poichè è più probabile che illumini il cuore, rispetto al pulsante di sinistra che ha mostrato una probabilità più bassa.

Ma nella condizione sperimentale, in cui si aggiunge l’ingrediente interattivo e relazionale tutto cambia: rispetto alla condizione neutrale in cui prevale il criterio dell’efficienza, nella condizione comunicativa i bambini preferivano di gran lunga il pulsante a bassa efficienza se accompagnato dai segnali comunicativi interattivi rispetto al pulsante ad alta efficienza (ma in assenza dell’interazione significativa con l’adulto).

Dunque sembrerebbe che gli umani abbiano una marcata preferenza per l’apprendimento dall’interazione con l’altro, anche a scapito delle performance in certe condizioni, quale il setting sperimentale qui utilizzato. D’altro canto è già noto in letteratura il vantaggio dell’apprendimento sociale nelle fasi culturali stabili: risulta più affidabile e meno soggetto ad errori, accelerando il processo dell’apprendimento individuale; viceversa, in ambienti culturali variabili l’apprendimento individuale può essere più efficace per trovare nuove soluzioni più adatte ai cambiamenti dell’ambiente (Boyd, Richerson, 2005).

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BIBLIOGRAFIA:

Dialectical Behavior Therapy (DBT) per il trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione, Firenze, 17-19 Aprile 2015 – Report

 

Il primo obiettivo della terapia è interrompere il comportamento alimentare problematico, attraverso l’insegnamento delle abilità adattive: mindfulness, regolazione emotiva, tolleranza della sofferenza mentale.

Debra L. Safer. Abbiamo trascorso un giorno e mezzo con la co-autrice, insieme a Eunice Y. Chen e a Christy F. Telch, del libro “Binge eating e bulimia. Trattamento Dialettico-Comportamentale”, che ha  adattato ai pazienti con disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e bulima nervosa (BN) la terapia dialettico-comportamentale (DBT) di Marsha Linehan, sviluppato per la cura del disturbo borderline di personalità.

La DBT è, attualmente il trattamento che presenta la più alta efficacia “evidence based” per il BED e la BN. Le abbuffate e le condotte di eliminazione sono strategie disfunzionali di regolazione emotiva, la gestione delle emozioni dolorose è il focus dell’intervento terapeutico con questi pazienti, che hanno avuto esperienza di ambienti invalidanti e sviluppato una vulnerabilità alle emozioni.

Il trattamento è indicato in setting ambulatoriali e di ricovero, il protocollo DBT modificato, dove è stato tolto il modulo di efficacia interpersonale, è stato applicato dalla Safer e da altri ricercatori escludendo pazienti suicidari, diagnosi di psicosi, dipendenze da sostanze, disturbo borderline di personalità, multiproblematici, dove è più indicato il modello DBT standard.

Prevede la psicoterapia individuale per incrementare la motivazione e incontri settimanali di gruppo per acquisire e consolidare le nuove abilità. Il primo obiettivo della terapia è interrompere il comportamento alimentare problematico, attraverso l’insegnamento delle abilità adattive: mindfulness, regolazione emotiva, tolleranza della sofferenza mentale.

La relatrice ha illustrato i contenuti delle 20 sedute di gruppo soffermandosi sui concetti più significativi, facendo esempi, analizzando insieme delle catene comportamentali e lavorando su delle simulate.

Mi soffermo su alcuni passaggi della Safer che mi hanno colpito:

L’astinenza dialettica, che presuppone una rigorosa richiesta ad abbandonare le condotte disfunzionali e nel contempo è accettazione dei fallimenti dei pazienti;

La mente saggia, che coglie intuitivamente gli obiettivi personali;

Mindful eating, che porta la consapevolezza nell’automatismo del mangiare

Sono state ore intense, ricche di domande del pubblico e coinvolgimento da parte della docente dei presenti.

 

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Disturbo Borderline di Personalità: la Dialectical Behaviour Therapy – Report dal workshop di Reggio Calabria

Autismo: Le regole non scritte delle relazioni sociali – Recensione

Nonostante le loro differenze, gli autori hanno concordato un elenco di dieci “regole d’oro” che a parer loro ogni bambino autistico dovrebbe apprendere attraverso le modalità più consone al suo schema di pensiero, visivo o verbale, e alle caratteristiche fisiche e mentali che lo caratterizzano. Entrambi ci raccontano attraverso quali risorse e ostacoli personali sono riusciti ad apprenderle e non si può rimanere indifferenti all’impegno e all’enorme fatica che traspare dalle loro parole.

Questo libro è un viaggio alla scoperta del regno del “pensiero diverso”. Ci fanno da guida Temple Grandin, zoologa, e Sean Barron, giornalista, entrambi autistici. Attraverso la narrazione di episodi di vita reale, ci raccontano il loro percorso di apprendimento del funzionamento sociale, basato su una fitta rete di regole e soprattutto di eccezioni ad esse.

A differenza della maggior parte dei neurotipici, che apprendono le fondamenta delle relazioni sociali in modo spontaneo fin dai primi mesi di vita, per gli autistici sapersi destreggiare nel mondo delle relazioni richiede  uno studio attento e sistematico, in accordo con il loro specifico funzionamento mentale. Le modalità di pensiero di Temple e Grandin, seppur diverse, hanno avuto ed hanno tuttora importanti ripercussioni nelle loro interazioni con le persone, ma grazie a quanto hanno deciso di condividere con noi in questo libro diventa più semplice comprendere i loro comportamenti, le loro emozioni e di conseguenza il loro funzionamento sociale.

Temple e Sean sono entrambi autistici ma soprattutto sono due individui diversi e attraverso presupposti e strumenti diversi hanno saputo apprendere le regole sociali necessarie a fare di loro due adulti professionalmente soddisfatti e capaci di gestire le relazioni che desiderano. Nonostante le loro differenze, gli autori hanno concordato un elenco di dieci “regole d’oro” che a parer loro ogni bambino autistico dovrebbe apprendere attraverso le modalità più consone al suo schema di pensiero, visivo o verbale, e alle caratteristiche fisiche e mentali che lo caratterizzano. Entrambi ci raccontano attraverso quali risorse e ostacoli personali sono riusciti ad apprenderle e non si può rimanere indifferenti all’impegno e all’enorme fatica che traspare dalle loro parole.

Se conoscete un autistico provate infatti a immaginarlo impegnato nell’apprendimento di queste regole sotto descritte.

1. Le regole non sono assolute, dipendono dalle situazioni e dalle persone. Per le persone autistiche la difficoltà più grande non è imparare le regole, ma pensare in maniera flessibile, poichè ogni regola sociale presenta in realtà un’infinità di eccezioni.

2. Non tutto ha la stessa importanza nel grande disegno delle cose. Gli autistici spesso reagiscono con molta ansia al cambiamento anche di un piccolo dettaglio della situazione, che un neurotipico riterrebbe assolutamente irrilevante. Anche in questo caso un buon allenamento alla flessibilità, può offrire loro delle categorie capaci di creare una struttura logica all’interno della loro mente.

3. Nel mondo tutti commettono errori. Questo non ti deve rovinare la giornata. Alcuni autistici pretendono un mondo perfetto, prevedibile, come se fosse diretto da un piano rigoroso. Per chi fatica ad assumere la prospettiva altrui, qualsiasi errore, qualsiasi deviazione dalla perfezione, non può che essere per propria colpa e generare elevati livelli di ansia e stress. Ecco che allora è importante, anche in questo caso, aiutarli a capire che non tutti gli errori che si verificano dipendono da loro e anche quando questo accade, gli altri avranno reazioni sociali diverse a seconda che attribuiscano l’esito per esempio a mancanza di volontà piuttosto che a diffficoltà di attenzione. C’è da dire che per un neurotipico non è affatto facile comprendere gli antecedenti del comportamento autistico e questo può essere davvero l’ostacolo più grande a impedire l’interiorizzazione di questa regola.

4. La sincerità è diversa dalla diplomazia. Per genitori di bambini autistici insegnare una regola rigida può essere una scorciatoia allettante perchè sanno che, con molta probabilità, i loro bambini autistici, a differenza dei neurotipici, non la infrangeranno mai. Ma questa strategia potrebbe essere fuorviante e causare problemi nel destreggiarsi in quelle situazioni che richiedono diplomazia o l’utilizzo, per esempio, di bugie bianche. Accompagnare passo per passo il bambino nell’apprendimento delle abilità sociali è l’unica strada che può condurre al successo sociale.

5. Essere educati è adeguato in qualsiasi situazione. I bambini dello spettro autistico faticano a imparare tramite l’osservazione, hanno bisogno di un insegnamento diretto e di esperienza diretta. Se negli anni in cui sono cresciuti Temple e Sean (tra gli anni sessanta e ottanta) i diversi ambienti sociali mostravano una rassicurante uniformità circa le aspettative sociali in materia di educazione, oggi l’idea di comportamento adeguato è talmente legata alle varie sfumature del contesto da rendere l’insegnamento di questa materia molto complicato. Tuttavia il primo passo per essere accettati in un gruppo sociale è essere educati, per questo dovrebbe essere insegnata facendo leva sul rapporto di causa-effetto, senza mirare alla comprensione emotiva che potrebbe richiedere diversi anni prima che affiori nella mente autistica o addirittura non comparire mai.

6. Non tutti quelli che sono gentili con noi sono nostri amici. Anche in questo caso Temple e Sean hanno imparato in modo diverso a giudicare gli scopi e le intenzioni altrui, anche quando esse sono in contraddizione con quanto è sotto i loro occhi. Non importa che si faccia uso della logica, piuttosto che della comprensione emotiva, l’importanza di acquisire una tale abilità è ovvia. Tuttavia per molti autistici questa resterà un’impresa impossibile ed è anche per questo che, per esempio, ogni scuola dovrebbe avere un buon programma contro il bullismo.

7. In pubblico le persone si comportano diversamente che in privato. La logica che guida molti autistici nella ricerca di indizi evidenti nell’ambiente per migliorare la propria comprensione sociale, tralascia  spesso degli elementi intangibili fondamentali per capire fino in fondo il contesto. Aiutarli a prestare attenzione anche a ciò che è assente in una determinata situazione in questo caso è cruciale.

8. Impara a capire quando infastidisci gli altri. Uno degli aspetti più interessanti su cui a questo punto si richiama l’attenzione del lettore è il fatto che a volte un autistico, pur essendo consapevole di come dovrebbe comportandosi e pur desiderandolo dal punto di vista pratico o emotivo, semplicemente non può farlo. Questo può dipendere da difficoltà sensoriali così intense da innescare un cortocircuito comportamentale.

9. “Integrarsi” è spesso legato all’apparire integrati nell’aspetto e nelle parole. Uniformarsi socialmente apre le porte all’interazione sociale. La vera sfida per i genitori è insegnare ciò nel rispetto di quello che è il figlio perché come dice Sean “per essere accettati nel lungo termine bisogna piacersi abbastanza da far sì che la propria personalità unica possa comunque risplendere“.

10. Ciascuno è responsabile dei propri comportamenti. Forse questa, tra tutte, è la regola che faremmo meglio a ripassare tutti.

Un libro interessante, che forse farà venire anche a voi  mal di testa come a me, ma se questo contribuirà a farvi anche solo lontanamente immaginare quanto sia complicato per un autistico orientarsi nel nostro confuso e ambiguo mondo sociale, ben venga e che sia da incoraggiamento per fare dei passi nella loro direzione e iniziare a mettere in discussione alcune delle nostre regole non scritte delle relazioni sociali.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il bisogno di appartenenza e il difficile rapporto con gli altri

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta di Domenica 26 Aprile 2015

 

Il rapporto con gli altri, con i migranti, con i diversi tira sempre in ballo i nostri peggiori pensieri più o meno xenofobi e che più o meno non condividiamo (en passant: battuta di Pino Caruso prima ancora che di Altan).

La reazione chimica tra la novità dell’incontro e il bisogno di appartenenza che pur nutriamo rischia di infilarci in un vicolo cieco. Troppi massacri del secolo scorso sono avvenuti in nome del bisogno di appartenenza nazionalistico. Ed è ancor più vero che nella sua forma estrema, il nazismo, il bisogno di appartenenza si è mostrato in una forma definitivamente bestiale e distruttiva. Che sia giusta quindi una lunga penitenza è desiderabile.

Tuttavia il bisogno di appartenenza, come tutti i bisogni psicologici, tende a ripresentarsi in forma camuffata quando è negato.

Il problema è che si è indebolito anche il senso di appartenenza politica e ideologica (e questo potrebbe spiegare certe conversioni da sinistra al leghismo). Un tempo –e io c’ero- l’affiliazione politica era anche una comunità che si caratterizzava non solo per le idee condivise ma anche per segni di riconoscimento che, decifrati, riscaldavano il cuore. Ci si riconosceva tra comunisti con lo steso trasporto con il quale si riconosce immediatamente un compatriota che s’incrocia casualmente nelle strade di un lontano paese straniero, con il quale si scambia una rapida occhiata affettuosa nella folla estranea di una città che non è la nostra, in una di quelle sere in cui si è fuori casa per lavoro e ci si sente particolarmente a disagio e privi delle solite piccole cose che accompagnano la nostra vita nei luoghi che ci sono familiari.

Cose che magari una volta tornati a casa reputeremo fastidiose e perfino odiose, ma la cui mancanza in quel pub così estraneo al nostro gusto, le cui pareti sono rivestite fino all’angolo più lontano di un legno fin troppo caloroso mentre fuori il tempo è umido e inclemente e tutto questo ci ricorda che il clima soleggiato e i baretti dalle pareti imbiancate del nostro paese mediterraneo non appartengono a quelle atmosfere nordiche; tutto questo ci affligge il cuore.

Roy F. Baumeister e Mark R. Leary (1995) sono stati coloro che hanno dedicato i propri sforzi scientifici a studiare il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto, indipendente da altri bisogni e dotato di funzioni proprie (https://www.stateofmind.it/2014/05/essere-sestessi-identita-sociale/). Certo, come tutti i bisogni può anche produrre danni quando ricercato in maniera pervasiva e distorta. Ma rimane un bisogno umano che va compreso e controllato, ma non eliminato.

Il bisogno di appartenenza è una componente fondamentale del più ampio bisogno di socializzazione dell’uomo. Di questo bisogno la nostra -più che giusta- mentalità progressista favorisce soprattutto la componente di apertura agli altri, di costruzione dei legami. Tuttavia la socializzazione è fatta anche di un bisogno –se vogliamo più emotivo- di sicurezza e di ragionevole prevedibilità del comportamento e delle intenzioni altrui. Per capirci: è verissimo che, da un punto di vista strettamente logico è irrazionale la tendenza comune a fidarsi di più di coloro che classifichiamo come culturalmente affini; o peggio: etnicamente affini. Si tratta di una di quelle scorciatoie emotive che la mente utilizza per tirare avanti in un mondo complesso e difficile. Tuttavia fingere che sia possibile eliminare all’istante le barriere culturali può essere un piacere sterile e la vera apertura, quando è genuina e fruttifera è fatta anche di disagio, non di superficiale amichevolezza.

Tutti noi abbiamo bisogno del contatto con gli altri, e negli altri si cerca una giusta contemperanza di differenza e somiglianza. Quel tanto di differenza necessaria per non annoiarsi, qual tanto di somiglianza necessaria per non disorientarsi. Tutti noi, scrivono Baumeister e Leary, cerchiamo nel contatto con l’altro sia la novità e lo stimolo che un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi.

È proprio la possibilità di riconoscere nell’ altro sia dei tratti nuovi che dei tratti prevedibili che ci fornisce l’energia di incontrare il diverso e di esserne stimolati. Non c’è incontro senza barriera. Il problema è che la barriera è inevitabilmente eretta con materiale poco nobile: i mattoni della barriera sono i segnali più primitivi di appartenenza al gruppo, segnali che sono spesso stereotipi, luoghi comuni, semplificazioni e semplicismi culturali. Quel popolo è reputato chiassoso, caloroso, inaffidabile e portato alla musica, e quell’altro invece schivo, riservato e così via.

Inoltre, la capacità di convivere con culture straniere è diventata il test con le quali le società occidentali verificano la propria capacità di rispettare il valore liberale della tolleranza. Ma a questo test sono sottoposti anche i migranti, le persone che vengono a vivere nei paesi occidentali. Test che include la tolleranza per stili di vita che in paesi non occidentali sono invece attivamente repressi. Questi stili di vita incomprensibili per molti migranti comprendono, lo si è capito, soprattutto i comportamenti sessuali. E in particolare le libertà sessuali. E ancora più in particolare, le libertà sessuali delle donne, dei gay e in generale del mondo LGBT.

Per Mark Sedgwick (2011) al momento questi stili di vita possono essere in tal grado inaccettabili per chi proviene da culture non occidentali da determinare un dilemma per i governi europei: come tollerare la possibile intolleranza altrui verso stili di vita occidentali? Una ricerca effettuata in Danimarca ha mostrato come il sentimento di appartenenza per la loro nuova patria dei giovani immigrati sia basso, per non dire insoddisfacente (Kühle, Lindekilde, 2010).

In passato ci si è illusi che il processo di secolarizzazione potesse, per virtù sua propria, eliminare i conflitti religiosi e culturali riducendoli a problemi economici, risolvibili sull’arena del mercato senza utilizzare la violenza se non quella sublimata della concorrenza economica.
Purtroppo si sta scoprendo che il cosiddetto “ritorno di Dio” non è affatto un fenomeno che si oppone alla secolarizzazione, ma che la accompagna. È vero che nelle società secolarizzate all’occidentale si assiste a una diminuzione del numero di persone che partecipano a forme di vita comune dotate di senso rituale e religioso. Ma è anche vero che questo numero diminuito di devoti fa di costoro dei militanti molto più agguerriti e organizzati, con l’effetto paradossale di un aumento della loro partecipazione incisiva alla vita sociale e culturale (Casanova, 1994). Il che può essere un contributo prezioso alla vitalità della vita sociale. Ma non quando ci sia la tendenza a coltivare nel proprio milieu gruppi di azione terroristica (Achterberg, Houtman, Aupers e coll., 2009).

La speranza è che sia proprio questo accompagnarsi di secolarizzazione e rinnovato bisogno simbolico di appartenenza in minoranze attive, militanti e agguerrite a generare una felice dialettica tra libertà liberale e conservatorismo comunitario. In fondo, perfino le democrazie occidentali più laicizzate comunque si poggiano su un armamentario simbolico che è comunitario: il mito della rivoluzione in Francia è una simbologia che è anche profondamente nazionale. I festeggiamenti annuali del 14 luglio -presa della Bastiglia- possono esprimere un valore universale e proponibile all’intera umanità, ma sono anche la commemorazione sacra di un evento leggendario e fondante della Francia. Allo stesso modo gli Stati Uniti hanno una loro mitologia non facilmente esportabile altrove e che fornisce carne e sangue ai principi liberali di quel paese. Il cittadino americano non è un astratto utente di diritti, ma l’uomo della frontiera americana. Si può ammirare o rifiutare questa mitologia, ma è indubbio che essa è un mastice che unisce i singoli individui in una storia e una narrazione, fornendo contenuto storico ai principi liberali.

In conclusione, ogni singolo paese e ogni singola cultura deve riuscire a personalizzare nella propria storia il contenuto universale della modernità, pena l’eterna e inquietante sensazione di scimmiottare usanze altrui, malgrado tutto il loro nobile contenuto universale. Non è un mistero che oggi tutte le varie sensibilità culturali debbano fare i conti con la potente pervasività simbolica dell’immaginario americano, della mitologia individualistica americana. Mitologia che fa sì che le situazioni, gli ambienti e le usanze tipiche del popolo americano siano percepite come un “grande ovunque” in cui ognuno può identificarsi, salvo poi scoprire che però permane una barriera che fa sì che le riproposizioni locali suonino imitative. Di qui un sottile disagio universale, un’attrazione verso il centro della civiltà che è al tempo stesso un timore e una repulsione. E che ci rende poi più difficile proporre un discorso di integrazione a chi viene a vivere da noi. Però, dobbiamo provarci.

 

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Lucy e la rabbia: quanto è difficile esprimere le emozioni! – Rubrica Peanuts (02)

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA 02

Quanto è difficile esprimere le emozioni!

Lucy esprime la sua rabbia - Peanuts 02

Lucy e la rabbia

La piccola e impetuosa Lucy tenta di esprimere il suo stato emotivo attraverso il linguaggio ma, trovandosi in difficoltà, opta per una strategia più immediata e risolutiva: sferza un bel pugno in faccia al malcapitato Linus.

Dalla reazione fisica è intuibile che Lucy sia dominata dall’emozione di rabbia nei confronti del fratello minore, forse per un senso di ingiustizia subita o per non sentirsi al centro delle attenzioni genitoriali. Chi conosce le vicissitudini dei personaggi sa che Lucy accusa spesso il fratello di averla declassata, con la sua nascita, a un ruolo di secondo piano. Per vendicare il torto subito, Lucy non perde occasione per nascondere a Linus la sua amata coperta o per impartirgli compiti e doveri.

Esprimere verbalmente la rabbia o in generale le emozioni, può essere molto faticoso, sia per gli adulti che per i bambini. Un approccio psicoterapeutico che mira all’autoregolazione delle emozioni è la Terapia Razionale-Emotiva-Comportamentale (REBT, dalla dizione inglese rational- emotive behavior therapy) ideata dallo psicologo statunitense A. Ellis (1913).

L’assunto di base della REBT è che le reazioni emotive non siano direttamente influenzate dagli eventi esterni, ma che derivino dal significato che noi attribuiamo agli eventi (Di Giuseppe et al., 2014). L’approccio clinico è stato adattato all’ambito educativo, soprattutto con finalità preventive, e ha preso il nome di Educazione Razionale Emotiva (Knaus, 1974). In Italia esistono molte scuole che hanno applicato questi principi e attualmente l’ERE è tra i più diffusi programmi di educazione socio-affettiva nel nostro Paese (Di Pietro, 19

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Effetto “cooties”: l’amigdala e la repulsione dei bambini nei confronti dei pari di sesso opposto?

FLASH NEWS

L’effetto “cooties” consiste nella squisita repulsione che in certi momenti i bambini hanno, intorno ai sette-otto anni di età, nei confronti dei loro pari del sesso opposto.

Si tratta dei confini della propria identità sociale, tale per cui il genere diventa una delle prime categorie cui riferirsi: di conseguenza si preferisce di gran lunga condividere il tempo e le attivita’ con amici dello stesso genere. Crescendo i bambini divengono anche piu’ flessibili, ma verso la pubertà di nuovo si assiste a questo noto  fenomeno di esclusione. Questo effetto tende infine a eclissarsi intorno all’età dell’adolescenza in cui si inizia ad avere un certo interesse nonchè attrazione sessuale per i coetanei dell’altro sesso.

Un nuovo studio di neuroimaging ha identificato una specifica area cerebrale deputata alla regolazione dell’effetto cooties: di nuovo, la grande protagonista emotiva, e cioè l’amigdala.

I ricercatori hanno valutato l’effetto cooties sia a livello comportamentale valutando gli atteggiamenti nei confronti dei pari di sesso opposto in un campione di 93 soggetti in via di sviluppo di età dai 7 ai 17 anni. Di questi soggetti 52 sono stati inoltre sottoposti a risonanza magnetica funzionale mentre venivano loro presentati volti di coetanei di entrambi i generi.

Secondo i dati dello studio, solo i bambini più piccoli hanno esplicitamente dimostrato un sex bias valutando i coetanei del medesimo genere in modo piu’ positivo (maggiori caratteristiche positive) rispetto ai pari del sesso opposto. Di fatto nei bambini di 10-12 anni non è stato riscontrato questo effetto nè a livello soggettivo nè a livello neurocognitivo: l’amigdala in questa fascia d’età non risponde in modo differenziale al genere dei propri pari.

Invece nei bambini più piccoli sarebbe proprio l’amigdala a reagire diversamente, e cioè ad essere maggiormente attivata, nel momento in cui si visualizzano i volti di coetanei di sesso opposto. E’ l’amigdala che si attiva non solo ai segnali di “allerta – minaccia” ma anzitutto a quelli di rilevanza, e cioè non appena l’individuo identifica qualcosa di significativo per sè (legge della rilevanza emotiva).

E di nuovo, l’effetto cooties mostrerebbe un secondo picco nell’età della prima pubertà: scansare quelli del sesso opposto, nel momento in cui il corpo inizia a modificarsi, in transizione dall’infanzia all’adolescenza; l’effetto cooties puo’ avere la funzione di ridefinire nuovamente di confini di genere prima di avventurarsi verso l’attrazione sessuale in adolescenza. E di nuovo, il cervello e l’amigdala, rispondono in modo coerente a questa nuova fase di sviluppo.

 

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I litigi dei bambini e l’intervento degli adulti: tecniche psicopedagogiche di mediazione dei conflitti infantili

 

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Rivista Italiana di Costruttivismo – è online il quarto numero

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E’ online il quarto numero della Rivista Italiana di Costruttivismo.

La Rivista Italiana di Costruttivismo nasce dall’interesse di un gruppo di psicologi nel diffondere il Costruttivismo, nelle sue varie applicazioni, in lingua italiana. È un semestrale scientifico scaricabile gratuitamente in formato pdf previa iscrizione al sito – nel quale sono ospitati articoli di autori italiani e stranieri, oltre a interviste e book review.

ARTICOLI/ARTICLES
 

Scienza sospetta e scienziato sospetto. Il danzatore, o la danza?, di David Green
Dodgy Science and Dodgy Scientists. The Dancer or the Dance? (English original version), by David Green

Comprendere la colpa, approfondire la vergogna, di Bernardette O’Sullivan
Embracing guilt, excavating shame (English original version), by Bernardette O’Sullivan

Didattica costruttivista in psicoterapia costruttivista: il modello dell’Institute of Constructivist Psychology. Quando il post-moderno incontra l’antico, di Francesca Del Rizzo
Teaching psychotherapy in constructivist psychotherapy: the model of the Institute of Constructivist Psychology. When the post-modern meets the ancient, by Francesca Del Rizzo

Attraverso gli occhi di una figlia: uno sguardo sulla vita e sul lavoro di Gregory Bateson. Intervista a Nora Bateson, a cura di Elena Bordin e Carlo Capuzzo
Through daughter’s eyes: a glance on life and work of Gregory Bateson. Interview to Nora Bateson, by Elena Bordin and Carlo Capuzzo

Recensione “Ambienti di apprendimento e nuove tecnologie. Nuove applicazioni della didattica costruttivista nella scuola” a cura di Anna Carletti e Andrea Varani, di Giovannio Stella
Book Review “Ambienti di apprendimento e nuove tecnologie. Nuove applicazioni della didattica costruttivista nella scuola” edited by Anna Carletti and Andrea Varani, by Giovanni Stella

Recensione ai Video “Introduction to Qualitative Grids” con il Professor Harry Procter, PhD, a cura della Personal Construct Psychology Association (PCPA), di Chiara Centomo
Video Review “Introduction to Qualitative Grids” with Professor Harry Procter, PhD, edited by Personal Construct Psychology Association (PCPA), by Chiara Centomo

 

Sezione speciale: la dissertazione di Hinkle
Special section: Hinkle’s dissertation
 

La lunga marcia verso una teoria della personalità. Struttura e cambiamento alla luce della teoria delle implicazioni costruttive, di Simone Cheli
The long march towards a theory of personality. Structure and change in the light of theory of constructive implications, by Simone Cheli

Tradurre Hinkle, di Francesca Del Rizzo
Translating Hinkle, by Francesca Del Rizzo

Il cambiamento dei costrutti personali dal punto di vista di una teoria delle implicazioni di costrutto. Dissertazione presentata a parziale completamento dei requisiti per il dottorato in filosofia nella Graduate School della Ohio State University, di Dennis Neil Hinkle, B.A., M.A.
The change of constructs from the viewpoint of a theory of construct implications. Dissertation presented in Partial Fulfillment of the Requirements for the Degree of Doctor of Philosophy in the Graduate School of The Ohio State University, by Dennis Neil Hinkle, B.A., M.A.

 

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COSTRUTTIVISMO

AIPPC 2015 SLIDER
IV Congresso Nazionale AIPPC – Psicologia e Psicoterapia Costruttivista

Disturbo Borderline di Personalità: che ruolo ha la ruminazione mentale?

L’eccessiva ruminazione mentale è ormai riconosciuta come uno dei principali responsabili dei disturbi depressivi (Caselli, Giovini, Giuri & Rebecchi, in press) e uno dei principali bersagli della psicoterapia. Recentemente alcuni autori hanno suggerito che questo stile di pensiero può essere responsabile della difficoltà nel gestire le emozioni negative tipica dei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BDP). 

La ruminazione mentale è uno stile di pensiero caratterizzato dalla continua e ripetitiva analisi delle cause e delle conseguenze dei propri problemi e del proprio malessere (es: Perché mi capita? Perché reagisco sempre in questo modo).

L’eccessiva ruminazione mentale è ormai riconosciuta come uno dei principali responsabili dei disturbi depressivi (Caselli, Giovini, Giuri & Rebecchi, in press) e uno dei principali bersagli della psicoterapia. Recentemente alcuni autori hanno suggerito che questo stile di pensiero può essere responsabile della difficoltà nel gestire le emozioni negative tipica dei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BDP). 

Gli individui con BDP provano emozioni negative particolarmente intense e durature e ciò può portarli a mettere in atto comportamenti disregolati e impulsivi, che vanno da aggressività verbale a comportamenti compulsivi (es: abbuffate) a gesti autolesivi.

Le teorie psicologiche suggeriscono che questi comportamenti abbiano lo scopo di eliminare la sofferenza emotiva (cercando di influenzare il comportamento degli altri o anestetizzandosi attraverso l’uso di sostanze). Tuttavia queste strategie nascondono conseguenze negative e non sempre sono efficaci.

Una recente ricerca (Selby et al., 2009) ha dimostrato che la ruminazione mentale può essere responsabile di questa rapidissima ‘cascata’ emotiva verso stati di intensa sofferenza.

In situazioni di comune disagio, la ruminazione mentale agisce come una pompa che intensifica le emozioni negative producendo uno stato di disagio talmente intenso che diventa difficile sostenerlo senza reagire in modo impulsivo.

Se questi risultati verranno confermati dalla futura ricerca, allora interventi sulla gestione del proprio stile di pensiero e sul controllo della ruminazione mentale potranno essere molto utili anche nel psicoterapia del Disturbo Borderline di Personalità.

 

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Neurobiologia e aggressività reattiva e strumentale

La scienza criminologica e la psicopatologia forense pongono in questi ultimi anni sempre maggiore enfasi sullo studio del rapporto tra atto aggressivo-violento e funzionamento di determinate aree cerebrali.

In questo cotesto, Stracciari, Bianchi e Sartori (2010) notano come le funzioni psichiche riconducibili alle categorie giuridiche della capacità di intendere e di volere rispetto all’atto aggressivo-violento siano tutte in qualche modo legate alla funzionalità del lobo frontale. Più specificamente, Blair e collaboratori hanno osservato che gli psicopatici, caratterizzati da una scarsa capacità empatica, sono predisposti a forme di “aggressività strumentale” e non a quelle di tipo “reattivo” (Blair, Mitchell e Blair, 2005); una distinzione questa, da tempo accettata dalla comunità scientifica, su cui è il caso di spendere qualche parola in più.

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Nell’aggressività reattiva è un evento frustrante o minaccioso ad attivare il soggetto suscitando frequentemente rabbia. Per contro, l’aggressività strumentale è quella finalizzata a uno scopo, che in genere non riguarda la sofferenza della vittima ma, piuttosto, il dominio su quest’ultima, o l’ascesa nella gerarchia di un gruppo.

Aggressività reattiva e strumentale sembrano mediate da due differenti sistemi neurocognitivi. L’aggressività reattiva è l’esito della risposta animale a una minaccia percepita come ineludibile. Infatti, in generale, se la minaccia è modesta, l’animale risponderà col cosiddetto freezing, ossia paralizzandosi come se fosse istantaneamente congelato. Se la minaccia è più grave e pericolosa, l’animale tenterà la fuga.

A livelli estremi, quando la minaccia è imminente e la fuga impossibile, l’animale attiverà una risposta aggressiva di tipo, appunto, reattivo. Anche l’uomo può aggredire reattivamente perché percepisce uno stato di minaccia reale o perché è insufficiente la regolazione dei sistemi neuronali che mediano questa forma di aggressività.

Una terza possibilità è che la minaccia non sia reale ma sia percepita come tale, in associazione con un’iperattivazione dei sistemi neurali a base filogenetica che mediano la risposta alla minaccia percepita. Come già detto, invece, la maggior parte delle condotte antisociali (frodare, rubare, rapinare, nonché procurare lesioni o uccidere) è di carattere strumentale, e quando un soggetto le mette in atto è probabile che attivi gli stessi sistemi neurocognitivi chiamati in causa per ogni altro agire finalizzato a raggiungere uno scopo (Blair, Mitchell e Blair, 2005; Ceretti e Natali, 2009).

Per approfondire ulteriormente le differenze tra violenza reattiva/impulsiva e strumentale e i loro correlati neurobiologici occorre fare una breve digressione sulle cosiddette capacità di regolazione emotiva, limitando il campo a come questo aspetto viene analizzato nell’ambito più prettamente criminologico.

Dazzi e Madeddu (2009) riportano la fondamentale suddivisione delle capacità di regolazione emotiva in processi involontari e volontari. Nel primo caso si tratta delle risposte automatiche del soggetto agli stimoli emozionali. I processi volontari si riferiscono invece all’abilità del soggetto di utilizzare risorse percettive (come l’attenzione) e di inibire risposte comportamentali al fine di regolare comportamenti ed emozioni. È ovvio che processi involontari e volontari si integrano in una capacità regolatoria complessa: soggetti con alta reattività (quindi con bassa soglia di eccitabilità neurovegetativa) possono bilanciare questa vulnerabilità se in grado di esercitare funzioni volontarie di controllo.

Tornando ora alla distinzione tra aggressività reattiva e strumentale, è possibile affermare che il deficit delle funzioni regolatorie e di controllo emotivo rappresenti il substrato biologico dell’aggressività reattivo-impulsiva, tipico dei disturbi di personalità “esplosivi”, delle patologie da discontrollo degli impulsi episodico e di parte dei disturbi antisociali (Dazzi e Madeddu, 2009). Un deficit nell’area dell’apprendimento e della capacità di comprensione mentalistica della mente altrui sarebbe invece il substrato per l’aggressività strumentale, non reattiva, tipica della psicopatia.

I correlati neuropatologici dell’aggressività prevalentemente reattiva trovano sempre maggiore conferma nei dati di neuroimaging funzionale. Si è visto per esempio che due pazienti con danno a livello della corteccia prefrontale subìto nella prima infanzia mostravano comportamenti apertamente violenti (Anderson et al., 1999). Le regioni cerebrali compromesse in questi soggetti includevano più specificamente le aree ventrale, mediale e aspetti polari della corteccia prefrontale.

Similmente, Grafman e collaboratori (1996) hanno valutato 279 veterani della guerra del Vietnam riscontrando che il danno frontale è correlato con reazioni violente e aggressività. Anche Raine e collaboratori (2000) hanno rilevato che soggetti con personalità aggressiva impulsiva presentavano una riduzione dell’11% della sostanza grigia a livello della corteccia prefrontale. Il danno alla corteccia orbito-frontale correlerebbe quindi con l’aggressività di tipo reattivo, principalmente attraverso una disregolazione dei sistemi del tronco cerebrale, normalmente regolati dalla corteccia orbito-frontale, coinvolti nella mediazione delle risposte di base alla minaccia; questo danno quindi potenzialmente accresce il rischio di violenza reattiva alla minaccia/frustrazione. I pazienti con lesione orbito-frontale mostrano in effetti un rischio elevato di aggressività reattiva (Dazzi e Madeddu, 2009).

Così come le disfunzioni frontali hanno dimostrato la loro significatività nella disregolazione, disinibizione e inclinazione alla reattività, le disfunzioni a livello del sistema limbico, e in particolar modo dell’amigdala, hanno acquistato rilevanza come correlato neurale delle forme aggressive in cui prevale l’assenza di considerazione per l’altro o la disfunzione nella percezione della sofferenza altrui; elementi questi particolarmente chiamati in causa nell’aggressività strumentale (Dazzi e Madeddu, 2009).

A quanto pare quindi l’amigdala sarebbe chiamata in causa non solo, come è noto, nell’attivazione della paura, ma anche nel riconoscimento della paura e della sofferenza della vittima. L’ipoattivazione dell’amigdala impedirebbe quindi il controllo del comportamento basato sul riconoscimento della sofferenza dell’altro, ossia l’aggressività di tipo prevalentemente strumentale.

Non è pero forse possibile tagliare con l’accetta i correlati neurobiologici dell’atto aggressivo-violento. Sarebbe troppo semplicistico affermare che la violenza reattiva e impulsiva, una sorta di violenza “calda”, sarebbe il frutto del fattore A, e quindi del sistema neurale A1 (ipoattivazione o lesione della corteccia orbito-frontale), mentre la violenza strumentale, orientata a uno scopo, una sorta di violenza “fredda”, è il frutto del fattore B e quindi del sistema B1 (ipoattivazione o lesione dell’amigdala).

A conferma di questa necessità di avere uno sguardo più orientato al riconoscimento della complessità che al bisogno di semplificazione (anche a costo di una sincera ammissione del limite intrinseco delle ricerche), stanno alcuni studi di neuroimaging funzionale, che hanno studiato l’attivazione dei circuiti amigdalo-orbitofrontali durante l’information processing in pazienti con storia di aggressività impulsiva e reattiva, e non strumentale (Coccaro, McCloskey, Fitzgerald e Phan, 2007).

Amigdala e corteccia orbito-frontale condividono connessioni bidirezionali dirette e indirette, la cui efficienza è necessaria per la regolazione emotiva e il controllo dell’aggressività che si fonda, almeno in parte, sulla corretta decodifica del valore degli stimoli in entrata al fine di pianificare il comportamento più adeguato alla situazione.

Nei soggetti studiati l’amigdala reagiva eccessivamente in risposta alle facce rabbiose ma non ad altre espressioni emotive, mostrando che questi soggetti danno risposte aberranti in relazione a contesti minacciosi. L’iperattività amigdalica è “minaccia dipendente”, per cui l’iperarousal limbico non è generalizzato per tutti gli stimoli emotivi, a differenza di quanto avviene in altri disturbi di personalità come il borderline, nei quali si è visto che l’amigdala iper-reagisce a una varietà di espressioni facciali emozionalmente positive, negative e neutre.

Questi risultati suggeriscono che la disfunzione dell’amigdala sia da collegarsi anche all’aggressività reattiva, che si attiva in circostanze di provocazione sociale reale o percepita. Lo stesso studio ha mostrato che diverse regioni delle aree prefrontali risultavano ipo-responsive nei soggetti con aggressività reattiva. Una spiegazione possibile è che, nell’ambito del circuito orbitofronto-amigdaloideo, la corteccia orbitofrontale non veniva impegnata sufficientemente nell’interazione regolatoria con l’amigdala (sinistra), che era iperattiva nei soggetti aggressivi.

Tre tipologie di disfunzioni sono possibili: un’esagerata reattività dell’amigdala e una diminuita reattività orbitofrontale alle immagini visive che trasmettono minaccia; un’insufficiente connettività amigdalo-orbitofrontale durante un compito di riconoscimento; una correlazione diretta e positiva tra la reattività dell’amigdala ai volti rabbiosi e il grado di aggressività manifestata in passato. Nella sostanza, l’ipotesi di fondo sarebbe quindi che lo scollamento del circuito amigdala-corteccia orbitofrontale possa rappresentare il focus fisiopatologico nelle forme di aggressività e violenza di tipo reattivo (Dazzi e Madeddu, 2009).

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BIBLIOGRAFIA:

Fattori predittivi di dropout in una comunità per doppia diagnosi – Psicoterapia

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Personality structure predicts early dropout in patients with substance-related disorders and comorbid personality disorders

Autori: Emanueli Preti, Chiara Rottoli, Serena Dainese, Rossella Di Pierro, Fabio Rancati, Fabio Madeddu (Università degli Studi di Milano-Bicocca)

 

Abstract

Questo studio si propone di indagare i fattori predittivi di un precoce dropout in pazienti con doppia diagnosi, prendendo in esame variabili socio-demografiche, diagnostiche e di struttura della personalità. Abbiamo ipotizzato che la struttura di personalità del paziente dimostrasse capacità predittive migliori rispetto alle variabili descrittive per ciò che concerne l’abbandono precoce del trattamento. A quarantasette pazienti ricoverati consecutivamente in una comunità residenziale per doppia diagnosi sono stati somministrati la Structured Interview of Personality Organization (STIPO), la Structured Clinical Interview for Axis II Disorders (SCID II), la Response Evaluation Measure 71 (REM71), la Symptom Check List 90–R (SCL90-R) e infine la Borderline Personality Disorder Check List (BPDCL). Differenze significative sono emerse tra il gruppo dropout (coloro che hanno abbandonato la comunità) e il non-dropout: problemi negli investimenti e nella corenza del sè (STIPO) erano più elevati nel gruppo dropout; nello stesso gruppo un numero significativamente alto di pazienti mostra un’organizzazione di personalità borderline (88.9%). I risultati sostengono l’uso di interviste che indagano la struttura della personalità nella valutazione di pazienti con doppia diagnosi.

English Abstract

This study aims at investigating the predictive factors of early dropout in dual diagnosis patients, considering socio-demographic, diagnostic and personality structure variables. We hypothesized that the personality structure of the patient will show better predictive properties on dropout compared with descriptive variables. Forty-seven patients consecutively admitted in a dual diagnosis residential treatment unit were administered the Structured Interview of Personality Organization (STIPO), the Structured Clinical Interview for Axis II Disorders (SCID II), the Response Evaluation Measure 71 (REM71), the Symptom Check List 90–R (SCL90-R) and the Borderline Personality Disorder Check List (BPDCL).  Significant differences emerged between the dropout and no-dropout group: investments and self-coherence problems (STIPO) were higher among dropouts; moreover, in the dropout group a significantly higher number of patients showed a borderline personality organization (88.9%). Results support the use of structural interviews in the assessment of dual diagnosis patients.

Keywords: disturbi di personalità; disturbi correlati alle sostanze; doppia diagnosi; assessment; struttura di personalità.

ALLEGATO 1ALLEGATO 2 ALLEGATO 3

 

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