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Etologia: nelle femmine dei pesci il cervello più grande è associato ad una maggiore sopravvivenza

FLASH NEWS

In etologia una delle ipotesi è che un cervello più grande consentirebbe migliori performance cognitive. E di conseguenza dovrebbe favorire un più alto potenziale di sopravvivenza.

Per testare questa idea si è fatto riferimento generalmente a studi comparativi che indagavano l’intelligenza e il potenziale di sopravvivenza di specie con diverse dimensioni cerebrali, non essendo tuttavia in grado di dimostrare una relazione causale tra le due variabili.

Un nuovo studio del Konrad Lorenz Institute of Ethology di Vienna ha studiato alcuni piccoli pesci per verificare l’ipotesi secondo cui investire in un cervello di dimensioni maggiori, e dunque più dispendioso da sviluppare e mantenere, avrebbe un effettivo vantaggio in termini evolutivi.
I ricercatori hanno selezionato diversi pesci della specie Poecilia reticulata, ne hanno valutato e diviso i diversi esemplari in due grandi gruppi a seconda della dimensione cerebrale (grande vs. piccolo). In seguito hanno liberato questi 4.800 pesci in un vasto ambiente semi-naturale, tra le cui acque si aggirava un loro predatore, il luccio. Dopo sei mesi, i ricercatori hanno rilevato una significativa maggiore sopravvivenza dei pesci Poecilia reticulata aventi un cervello più grande.

Ma attenzione: questo è vero solo per le femmine. Il vantaggio evolutivo sarebbe significativo solo per gli esemplari femmine, le quali con dimensioni cerebrali maggiori del 12% rispetto ad altre conspecifiche sono risultate in grado di evitare i predatori più frequentemente (mostrando differenti pattern comportamentali) e dunque di avere maggiori chances di sopravvivenza. Un cervello di dimensioni maggiori nel maschio, invece, non darebbe luogo ad alcun vantaggio evolutivo. Secondo gli studiosi questa differenza di genere si spiega considerando che i maschi di questa specie presentano un notevole limite rispetto alle femmine: hanno squame più colorate e più visibili, variabile rispetto alla quale la dimensione cerebrale non sembra compensare il notevole e oggettivo svantaggio evolutivo.

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BIBLIOGRAFIA:

ESSPD: Workshops on Personality Disorders, Estonia, 4-6 Giugno 2015

Il congresso è della ESSPD (European Society for the Study of Personality Disorders). Un formato originale, una conferenza inusuale: tutto centrato sulla pratica clinica. Solo sei keynote speakers e poi workshop esperienziali.

Tallin, Estonia, inizi di giugno. Freddo, ventilato, ma con un sole limpido, luce fino a mezzanotte. La città vecchia è incantevole, case colorate, chiese ortodosse, mura medievali alle basi delle quali magliare venute da chissà quale epoca vendono guanti, cappelli, maglioni pesanti. Installazioni di giardini di fantasia subito fuori le mura, una sorpresa. Per i vicoli, un museo di marionette, dichiaratamente steampunk. Roba mai vista, pieno di bambini, pensato per chi ama Tim Burton. Ristoranti eleganti, una sera ceno in un posto, Manna La Roosa, che sembra un incrocio tra un club Burlesque, un film gotico e una fantasia mescolata di Dalì e Niki de Saint Phalle. È come visitare un museo. Questa è la cornice.

Il congresso è della ESSPD (European Society for the Study of Personality Disorders). Un formato originale, una conferenza inusuale: tutto centrato sulla pratica clinica. Solo sei keynote speakers e poi workshop esperienziali. Ogni speaker aveva un’ora di lettura plenaria per illustrare il proprio modello e poi teneva un workshop di 3 ore, ripetuto il giorno dopo. In questo modo i partecipanti avevano modo di ascoltare tutto e di seguire 4 dei 6 workshop in programma. Una vera esperienza di apprendimento. Lo è stata anche per me.

Congresso ESSPD, Tallinn, 2015

Anthony Bateman parla degli ultimi sviluppi del Mentalization Based Treatment per il disturbo antisociale di personalità. Per loro una nuova frontiera, dopo anni di lavoro sul borderline. Nella plenaria descrive l’adattamento del modello ai pazienti che seguono, si tratta di gente in libertà vigilata. Hanno in corso un trial multicentrico di efficacia, stanno raccogliendo i dati.

Il workshop di Bateman è molto bello. Poca accademia: invita un partecipante a simulare un paziente antisociale e conduce un breve frammento di seduta con lui. Si focalizza subito sul promuovere l’accesso agli stati interni. Ottimo, funziona. Tra l’altro vedo nella pratica clinica la prevalenza dell’attenzione alla mentalizzazione sul sé, mentre di solito insiste sul mentalizzare sull’altro. Visto all’opera, notevole. Poi un video di un gruppo condotto da lui e un co-conduttore con cinque antisociali. Ottima idea, purtroppo tutta gente che parla un inglese con accenti incomprensibili (fate conto di venire dalla Francia e vedere una seduta con un paziente di livello socio-culturale basso della Sicilia o del Veneto). Però si coglie come sia tutto un lavoro sul passare da descrizioni fattuali: dovevo agire così, a comprensione mentalistica finalizzata alla regolazione emotiva.

Arnoud Arntz parla di Schema-Therapy nella plenaria. Poca teoria e poca clinica, molto centrato sui dati di efficacia. Certo, sapeva di auto-promozione in un certo senso, ma accidenti quante ne stanno facendo. Hanno in giro una quantità di trial in corso che mette paura e per una varietà di disturbi. Il suo workshop invece è tutto esperienziale. Fa vedere due video di sedute vere ricostruite con attori. Pazienti gravi, con esperienze traumatiche: si vede molto bene come passino dalla memoria recente, all’esperienza affettiva, all’associazione al passato.

Lacrime e reparenting: la terapeuta entra attivamente nella scena e difende la paziente dalla madre. Mi chiedo, e chiedo ad Arntz: ma così si attiva l’attaccamento alla terapeuta di brutto. E sono terapie a durata limitata. Che succede poi? La risposta è serena, capisco che lui, come quasi tutti gli speaker, sono completamente immersi in una cultura in cui si dà al paziente quello che il sistema sanitario consente. Un anno, punto fine stop. È consapevole del problema e quindi lavorano sulla fine della terapia. Mi sembra di avere capito che dopo un certo intervallo di tempo il paziente può chiedere altra terapia se serve.

Congresso ESSPD, Tallinn, 2015

La plenaria di Ad Kaasenbrood mi vede provato, avevo tenuto la mia poco prima ed ero semi-svenuto. A proposito, c’erano circa 200 iscritti. Comunque interessante: parla del management socio-psichiatrico dei pazienti con disturbi di personalità e solleva temi che spesso vengono ignorati. Coinvolgimento delle famiglie, ricoveri, gestione farmacologica. Vorrei essere più concentrato ma le energie in quel momento sono prossime allo zero. Il rimpianto è che i suoi workshop erano in parallelo al mio e quindi non ho potuto seguirli.

Babette Renneberg, una donna acuta e dallo sguardo tagliente, intelligente, ricercatrice esperta, ha fatto tanto nel campo della rejection sensitivity. Presenta dati di efficacia su terapia di fobia sociale e disturbo evitante, niente di troppo recente in realtà. La relazione è solida, ma un po’ meno nelle mie corde, il modello di terapia per l’evitante reduplica molto quello della CBT per la fobia sociale: esposizione, video-feedback, esperimenti comportamentali. Anche qui il workshop avrebbe aiutato a farmi un’idea più chiara della pratica, ma era in parallelo.

 

La relazione di Martin Bohus, DBT per pazienti borderline con comorbilità con disturbo post-traumatico da stress da abuso sessuale infantile è sorprendente. Spiega perché serviva una nuova terapia, ovvero la DBT adattata. Perché la maggior parte degli studi di efficacia con questi pazienti avevano tra i criteri di esclusione disturbi di personalità e atti suicidari e parasuicidari. Ovvero i pazienti borderline in cui la DBT è specializzata.

Tra me e me penso: cosa risponderebbero quelli della EMDR? A quel punto si chiede: perché adattare la DBT? Non va bene quella classica? No, risponde: perché la DBT non era efficace sui sintomi post-traumatici. Non fa una grinza.

Quello che va a mostrare nei video è impressionante: esposizione ad abuso sessuale infantile, incesto paterno. La paziente su una pedana basculante, il terapeuta le tiene le mani strette mentre lei chiude gli occhi e torna sulla scena. Poi le fa aprire gli occhi. Contatto con il presente. Torna nel passato. Da brividi. Qualcosa di simile a quello che si era visto nel workshop di schema-therapy. L’unico pensiero che resta alla fine della relazione è: questa non è DBT! D’altra parte è lo spirito del seminario, quello che mi è restato: tanti modelli e la possibilità per il clinico di usare in modo intelligente quello che funziona dai vari approcci.

È chiaro che i vari autori negli anni si stanno ispirando o copiando l’un l’altro. E va bene così. È quello che bisogna fare. Scevro da competizione? Neanche per sogno. Ma è la competizione che uno si aspetterebbe: giocata sui dati, sulla ricerca di base e sull’efficacia. Si gioca per vincere, non per segare le gambe all’avversario.

Un siparietto la dice tutta: Bohus dice che presto avranno i dati di efficacia. Chiede a Arntz se anche loro stanno raccogliendo dati di Schema-Therapy per il PTSD. Arntz annuisce sorridendo dalla terza fila: sì sì. Sembra di vedere Bayern-Barcellona. Sfida a viso aperto. Una nota di colore. Bohus descrive come funziona la sua unità. L’esposizione alla memoria traumatica è prescritta dal modello. All’inizio scoprono che solo il 15% dei terapeuti la praticano. Pongono il problema in team, dicono che è necessario esporre il paziente. I terapeuti esprimono 1000 buone ragioni per non farlo. Insiste. Dopo poco il tasso di esposizione passa al 20%. A quel punto, in pieno stile teutonico, cambiano le regole: se il terapeuta non ha esposto il paziente entro le prime quattro sedute, dovrà portare fisicamente il paziente nel team e spiegare di fronte a tutti perché non lo ha esposto. Risultato: il 98% dei terapeuti espone i pazienti. Il pubblico ride. I dati di efficacia arriveranno tra un po’. La lezione comunque è chiara: non abbiate paura di esporre i pazienti al dolore, se avete gli strumenti per gestirlo è la cosa giusta da fare.

Congresso ESSPD, Tallinn, 2015

In mezzo a questa gente ho tenuto la plenaria e il workshop sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale. Vantando per prima cosa la quasi totale assenza di dati di efficacia (che potevo fare di fronte a queste corazzate?). Però zitto zitto, dico la verità. Qualcosa si sta muovendo. Una case-studies serie su tre pazienti sta per essere completata al CTMI. In Danimarca stanno raccogliendo dati di efficacia su pazienti con disturbo evitante che afferiscono alla loro unità per i disturbi di personalità. Si pianifica di arrivare a una ventina e poi si scrive. Presso la Queensland University of Technology di Brisbane sta per partire uno studio pilota di efficacia. Si mira a circa 15 pazienti. La formazione dei terapeuti è già iniziata e con la collega che guida lo studio stiamo scrivendo il manuale di aderenza.

Tengo la mia relazione e per la prima mezz’ora faccio di tutto per ottenere una reazione dall’audience. Mi sento un po’ perso: sono prevalentemente estoni e finlandesi. Io ero abituato a danesi e norvegesi e scopro che le espressioni facciali variano anche al nord. Lì comunicano di meno. Nell’ultima mezz’ora però sono coinvolti. Alla fine, mi diranno, applausi e fischi (di approvazione!). Me lo devono dire, sono talmente nel flow che non me ne rendo conto. Poi arrivano i feedback. La TMI è piaciuta molto. Vado a vedere quanti iscritti ci sono ai miei workshop. Spero di raccattare una ventina di persone al giorno, già andrebbe bene. In fondo mi sto confrontando con i più forti nel settore. Resto di stucco. Un totale di 137 iscritti in due giorni. I workshop TMI sono quelli con più partecipanti. Mi dico, ragionevolmente, che Bateman, Bohus e Arntz li avranno già visti tante volte. Comunque son soddisfazioni.

Il workshop lo tengo come mi riesce meglio. Inizio con un video: una parodia del Trono di Spade, cercate Seth Meyers e Jon Snow insieme e lo vedete.

Lo prendo come esempio degli effetti del fare esporre un paziente prima di avere promosso la metacognizione.

Ridono per il video. Il messaggio arriva. Poi quindici minuti di teoria. Poi dico: qualcuno di voi vuole simulare un paziente evitante?

La risposta è sì. Il primo giorno una collega norvegese porta una paziente la cui vita sociale è prossima allo zero. Inizio con una relazione terapeutica lacerata: la paziente si sente che deve fare i compiti di esposizione perché il terapeuta se lo aspetta. Riparo la rottura. La paziente si rilassa. Esploriamo le memorie. A fine seduta la paziente sorride e accetta di pensare a forme di esposizione che senta proprie.

Il secondo giorno un collega finlandese porta il proprio caso. Inizia la seduta. Come si sente? Ho paura? Di cosa? Che lei mi possa aggredire? Come? Fisicamente? Fisicamente, Ovvio. Cavolo, mi dico, questo è un disturbo paranoide ed evitante. Era così difatti. Anche qui parto dalla relazione terapeutica. Poi memorie recenti: una costante tensione fisica nelle situazioni sociali. Azzardo: gli chiedo le memorie associate. Piange. Ricorda di essere stato ripetutamente picchiato dal branco quando aveva tredici anni. Si rilassa. Nella seduta emergono le parti sane. La seduta si chiude come il giorno prima: il paziente penserà a momenti in cui si sente più o meno teso e da lì capiremo in che modo può modulare il suo stato. È piacevolmente sorpreso: allora ho potere su questa sensazione? Sì, rispondo. Finita la simulata il collega mi ringrazia. La gente apprezza. Amici norvegesi, alcuni dei quali li seguo regolarmente in supervisione skype, con cui sono al pub a vedere la finale di Champion’s League (mamma mia quanto bevono!) mi dicono che la reazione del pubblico ai miei workshop è stata entusiasta. E che erano loro ad applaudire e fischiare.
Torno in Italia. Ho un quadro più chiaro di come lavorano negli altri approcci, capisco le similitudini, le differenze, sono consapevole dei punti di forza delle TMI. Imparo molto dagli altri.

 

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Advanced training in terapia metacognitiva interpersonale, Firenze, 23 e 24 Maggio – Report (Parte I)

L’accesso alle parti sane del sé include non solo la promozione nel paziente di sentimenti di buona autostima, efficacia, cauto e ragionevole ottimismo, attitudine alla curiosità e all’ esplorazione, ma anche una parte di lavoro legata alle sue inclinazioni.

Il 23-24 maggio si è tenuta la prima parte dell’Advanced Training in Terapia Metacognitiva Interpersonale organizzato da Scuola Cognitiva Firenze e anche questa volta noi di State of Mind non potevamo certo mancare.

Se il corso base si era focalizzato principalmente sulla formulazione del caso e sulla promozione della differenziazione, il corso avanzato è occasione per illustrare ulteriori step della TMI, a cominciare dall’accesso alle parti sane del sé e la promozione del cambiamento.

L’accesso alle parti sane del sé include non solo la promozione nel paziente di sentimenti di buona autostima, efficacia, cauto e ragionevole ottimismo, attitudine alla curiosità e all’esplorazione, ma anche una parte di lavoro legata alle sue inclinazioni. Ciò implica che all’interno della relazione terapeutica si dedichi del tempo ad indagare e discutere quelle che sono le inclinazioni e le passioni che animano il paziente e che magari sono sopite. Ci si può così ritrovare a parlare in seduta di libri, di musica, di automobili… di argomenti che fanno sentire il paziente vivo: “Il modo migliore per mostrare ad un paziente con DP che è capace di provare fiducia, competenza, rilassamento, entusiasmo, è coglierlo nell’atto di sperimentare questi sentimenti” (Dimaggio et Al., 2013). Obiettivo è mantenere il paziente il più a lungo possibile in questo stato mentale positivo che favorisce il cambiamento delle cognizioni e un funzionamento più adattivo; inoltre è terreno fertile per esplorare i desideri del paziente e di conseguenza programmare esperimenti comportamentali volti alla promozione del cambiamento.

Quando si parla di promozione del cambiamento bisogna tenere a mente che il solo cambiamento procedurale non è sufficiente; dopo averlo reso cosciente è necessario in primis un lavoro di risperimentazione in seduta attraverso ciò che accade nella relazione terapeutica o nel lavoro terapeutico (esperimento in seduta) e successivamente fare in modo che diventi base per la sperimentazione tra una seduta e l’altra (homework).

Il cambiamento quindi avviene su più livelli: attraverso la differenziazione si osserva un cambiamento del punto di vista, mentre attraverso l’accesso alle parti sane di sé si osserva un cambiamento dell’esperienza, che attiva il sistema esploratorio (attivazione comportamentale).

Una volta individuati col paziente i suoi desideri e concordato con lui gli obiettivi e le modalità con cui raggiungerli, il terapeuta promuove nel paziente il cambiamento attraverso l’attivazione del sistema cooperativo: “Proviamo a fare INSIEME…”. È da notare come la pianificazione degli interventi non sia finalizzata al loro completamento, ma all’attivazione del paziente, che deve PROVARE a fare una determinata cosa; se poi non ci riesce non è un problema perché ciò che conta è creare uno spazio per tenere la mente aperta alla novità, provare a fare qualcosa di diverso, andando contro all’evitamento esperienziale che mantiene invece gli schemi.

Quando si progetta l’esperimento in seduta con il paziente bisogna considerare che, trattandosi di esposizione comportamentale, il paziente sperimenterà un aumento dell’arousal, della tensione, della paura; pertanto è opportuno concordare con lui cosa si sente di fare e cosa no. Una volta progettato l’esperimento sarà compito del paziente provare ad eseguirlo e monitorare cosa succede (compito di auto-osservazione) per poi discuterne in seduta attraverso una lettura condivisa di quanto successo.

La prima parte dell’Advanced Training è stata condotta da Giancarlo Dimaggio, che anche questa volta non si smentisce e imposta una lezione fortemente esperienziale, riducendo all’essenziale le spiegazioni teoriche. Il “format” è ormai collaudato: due partecipanti volontari assumono i panni uno del terapeuta, che conduce la seduta secondo il modello TMI, l’altro del paziente, che invece porta una propria problematica. A supervisionare i 50 minuti di seduta Dimaggio, pronto ad intervenire per dare eventuali suggerimenti fuori stanza al terapeuta. Al termine la classe ripercorre la seduta, discute gli interventi effettuati, analizza la relazione terapeutica, riflette sulla conduzione del colloquio, dibatte su eventuali mancanze o errori commessi dal terapeuta.

Dato il tema trattato nel corso del weekend, ovviamente le sedute sono state occasione per osservare dal vivo alcune tecniche di promozione del cambiamento. Tra le tecniche mostrate, particolarmente interessante e potente la tecnica delle due sedie, direttamente dalla tradizione gestaltica, in cui il paziente interpreta più volte il dialogo fra sé e un altro personaggio (o fra due sfaccettature del proprio sé) modificando di volta in volta il proprio atteggiamento su suggerimento del terapeuta. La tecnica permette al paziente di provare ad uscire dallo schema e di articolare ulteriormente le parti del proprio sé attraverso una vera e propria esposizione in seduta in cui gli schemi emotivamente carichi emergono in tutta la loro intensità.

Indubbiamente la scelta di abbandonare uno stile didattico frontale a favore di un’impostazione fortemente partecipativa si è rivelata ancora una volta vincente e particolarmente apprezzata dai presenti che hanno potuto nuovamente sperimentare dal vivo cosa vuol dire FARE Terapia Metacognitiva Interpersonale.

 

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Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori – Report dal Convegno (Parte I)

 

Il primo convegno “Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori” si è svolto a Trento, presso il Centro Studi Erickson, nelle giornate del 22 e 23 maggio 2015. Il convegno ha visto la partecipazione di circa un centinaio di partecipanti con 40 relatori che hanno portato il loro contributo.

Dopo una breve introduzione di Giorgio Dossi, presidente Erickson, la prima sessione plenaria del convegno si è aperta con la presentazione della giornata da parte dei due membri del coordinamento scientifico: Gian Paolo Guelfi (Motivational Interviewing Network of Trainers) e Valerio Quercia (Nucleo Operativo Tossicodipendenze e Presidente dell’Associazione Italiana Colloquio Motivazionale). Il discorso introduttivo di Guelfi si è incentrato sulla diffusione del problema dipendenze, che ormai non è solo ascrivibile all’uso di sostanze; inoltre, è stato posto l’accento sulla relazione come tema centrale e filo conduttore del convegno. Valerio Quercia ha introdotto le novità subentrate nella diagnosi delle dipendenze con il DSM-5, dipendenze che ora sono suddivisibili in base alla gravità: lieve, moderata e grave.

Come è noto, è stata inoltre inserita la dipendenza da gioco d’azzardo e in questo senso si assiste alla prima introduzione di una dipendenza comportamentale nel manuale diagnostico. Viene nuovamente posto l’accento sull’importanza della relazione, un fattore aspecifico, e pertanto comune ai diversi approcci, che influisce sulle caratteristiche dinamiche dell’utente (autoefficacia, motivazione, speranza di riuscire, valore del cambiamento) e che quindi lavora nella direzione della collaborazione e dell’alleanza per il successo terapeutico. L’intervento di Quercia si conclude con una citazione: [blockquote style=”1″]Ciò che le persone hanno veramente bisogno è di essere ascoltate bene[/blockquote] M.L. Casey.

Il primo contributo della giornata è di Stefano Canali (SISSA Trieste, area Neuroscienze) e verte sui contributi delle neuroscienze al tema delle dipendenze. Anche Canali sottolinea come nel DSM-5 si assista ad uno slittamento delle dipendenze verso criteri sempre più “comportamentali” (motivazioni, scelte, relazioni e uso del tempo). La dipendenza secondo il relatore è considerabile come un disturbo cognitivo, o meglio, come la perdita del controllo cognitivo volontario del comportamento. Il contributo di Stefano Canali è molto interessante e ricco di spunti provenienti da studi neuroscientifici, che vanno a evidenziare due temi importanti: la dipendenza come scelta e la dipendenza come risultato patologico di un condizionamento operante. Canali sottolinea come: [blockquote style=”1″]per capire le dipendenze bisogna uscire fuori dalla scatola cranica.[/blockquote]

Anche l’intervento di Lorenzo Somaini (SerT Cossato e ASL Biella) è costruito attorno al concetto di relazione. Il relatore definisce la dipendenza come una malattia complessa dell’apprendimento e della memoria, che però coinvolge tutte le strutture cerebrali. Secondo Somaini, non vi è nessuna terapia senza relazione: anche la terapia farmacologica non si ferma alla sola somministrazione ma è veicolata dalla relazione, che ha lo scopo di motivare l’utente e sostenerlo nel percorso di cura. Comunicare con l’utente è molto importante anche per poter definire insieme quali possono essere gli obiettivi del percorso terapeutico: la cessazione dell’uso, la riduzione dei sintomi, avere una vita? L’intervento di Somaini si conclude con alcune “mosse vincenti” per la relazione e per la terapia: la destigmatizzazione del processo terapeutico, la semplificazione delle terapie e lo scopo ultimo dell’autonomia di vita dell’utente. [blockquote style=”1″]Non più una relazione di cura ma una relazione che cura[/blockquote]

L’approccio ecologico sociale secondo il metodo Hudolin è invece presentato da Luigino Pellegrini (Servizio di Alcologia, Rovereto). Si tratta di un tipo di approccio che si focalizza sulla persona, sulla famiglia e sulla comunità, piuttosto che sul concetto di disturbo; sono infatti presenti in gran numero sul territorio le comunità multifamiliari, intese come gruppi di famiglie con difficoltà e fragilità che si sostengono a vicenda. Questo metodo porta avanti due idee importanti: il fatto che la dipendenza sia uno stile di vita appreso, e com’è stato appreso si può anche disapprendere; ed il fatto che il cambiamento sia possibile e anzi sia un’opportunità per tutte le persone. Gli obiettivi dell’approccio ecologico sociale sono così riassumibili: superare i concetti di normale/deviante, demedicalizzare/depsicologizzare, sostituire l’idea di “dipendente da” con quella di “attaccato a”.

Roberta Potente (Sezione Epidemiologia e Ricerca sui Servizi Sanitari, IFC-CNR) incentra la sua presentazione sui dati di due ricerche, IPSAD (Italian Population Survey on Alcohol and other Drugs) e EPSAD Italia (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs). Lo studio IPSAD si basa su un campione nazionale di età compresa tra 15 e 64 anni mentre EPSAD Italia si basa sugli studenti delle scuole medie superiori (15-19 anni). Senza entrare nel merito delle cifre, in generale si può affermare che nell’ambito delle droghe è diminuito l’uso sperimentale delle stesse a favore di un consumo frequente. La cannabis rimane la sostanza maggiormente utilizzata dai giovani, anche se la prevalenza è aumentata dal 2012 ad oggi. Un dato molto interessante riguarda l’aumento del consumo di psicofarmaci senza prescrizione medica che, soprattutto i giovani, acquistano online oppure trovano in casa. E’ stata inoltre indagata la dipendenza da gioco d’azzardo che vede una maggiore prevalenza nei paesi del Sud Italia, di pari passo ad alcuni macroindicatori demografici e sociali legati al territorio in questione (PIL inferiore, maggior tasso di disoccupazione).

L’ultimo intervento della mattinata è quello di Mauro Croce (ASL VCO Verbania e SUPSI, Lugano). Il suo contributo molto interessante parte dall’assunto che la nostra è una società additiva. Croce porta numerosi esempi di pubblicità e spot che vanno nella direzione di favorire l’addiction e di creare disinibizione nelle persone. L’addiction è ormai sdoganata dalla sua connotazione negativa e questo è uno tra i motivi per i quali è avvenuto uno spostamento, negli ultimi anni, dalle vecchie alle nuove dipendenze: da usi illeciti e disapprovati socialmente si è passati ad usi/abusi/dipendenze da comportamenti socialmente approvati e soprattutto incentivanti (sesso, acquisti, internet, gioco, lavoro, amore..). Il relatore prosegue dicendo che ad oggi non esiste più una barriera tra lecito ed illecito, e questo per gli operatori del settore dipendenze deve essere uno spunto per rivedere i paradigmi dell’addiction. L’obiettivo del trattamento delle nuove dipendenze, infatti, non potrà mai essere l’astinenza, come invece poteva accadere per le vecchie dipendenze: com’è possibile astenersi completamente da sesso, amore, acquisti , ecc.?

La mattinata si conclude con un proficuo e partecipato dibattito con il pubblico in quanto purtroppo la partecipazione di Antoni Gual Solé (Unidad de Alcohologia, Hospital Clinic de Barcelona) dal titolo “L’intervento sui problemi alcolcorrelati: una visione europea” non ha avuto luogo a causa di assenza per problemi personali del relatore.

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Disturbi delle condotte alimentari (2014) – Recensione

Loriana Murciano

Nel libro “Disturbi delle Condotte Alimentari” le autrici Adele De Pascale e Paola Cimbolli affrontano la complessa tematica dei DCA seguendo il punto di vista del cognitivismo sistemico post-razionalista, evoluzione del pensiero di V.F.Guidano, e proponendo un raffinato e completo modello di intervento psicoterapico.

Il volume ha una struttura “volutamente didascalica” che permette, sia agli psicoterapeuti in formazione ma anche a tutti coloro che intervengono nella cura di tali disturbi, di comprendere, partendo dalla descrizione degli aspetti sintomatici comportamentali, le idee e le convinzioni che li sottendono fino a poter “cogliere il senso generale delle organizzazioni di significato personale e delle modalità relazionali degli individui che presentano un DCA”.

Partendo dalla considerazione, ormai ampiamente condivisa, che il disturbo alimentare, in qualsiasi forma clinica o subclinica si presenti, esprima sempre un profondo senso di disagio emotivo e di difficoltà di strutturazione della propria identità e del proprio senso di autonomia personale, giocato dal soggetto su un “piano esterno” di rapporto con il cibo e con l’aspetto corporeo, le autrici descrivono nel primo capitolo l’organizzazione di significato personale di tipo D.C.A.:[blockquote style=”1″] la caratteristica distintiva consiste nella percezione vaga ed indistinta di sé che si organizza intorno ai confini antagonisti tra il bisogno assoluto di approvazione da parte delle persone significative e la paura di essere invase, criticate o disconfermate dalle stesse […][/blockquote].

In uno scenario di “reciprocità ambigua e disordinata con le figure di riferimento” durante il periodo evolutivo, il soggetto sviluppa un’incapacità a riconoscere e nominare i propri stati interni, a “gestire e regolare” le emozioni e sensazioni nuove “attraverso un dialogo interno che ne colga il senso ed il significato”, derivandone un profondo senso di vuoto interiore ed una tendenza a “ricercare nell’atteggiamento degli altri significativi una spiegazione di quello che sta succedendo dentro di sé” ed al contempo “una definizione positiva di sé, che sciolga quella terribile sensazione di vuoto esistenziale, col timore di non essere compresi o di essere giudicati negativamente…” (M.A.Reda).

Dal secondo capitolo si entra nel progetto terapeutico: “il compito delle prime sedute è innanzitutto quello di riformulare i temi portati e connessi all’esternalità del giudizio in termini di fenomeni interni al paziente, di attitudini della persona” in un clima terapeutico di relazione empatica e non giudicante; portando così il paziente a stabilire una connessione tra emozioni, cognizioni e significati personali, e “definendo” sin da subito “il contesto terapeutico come un ambito di lavoro, nel quale si dovrà pian piano costruire una diversa comprensione di sé e dei fenomeni significativi della propria vita”.

Il progetto terapeutico è didatticamente proposto dalle autrici, nel corso dei capitoli successivi, muovendoci in una dimensione metaforica mutuata dalla chimica: partendo così dal punto atomico in cui il paziente impara ad individuare le singole unità, si passa poi a cogliere, “con un punto di vista molecolare le connessioni e l’organizzazione degli stati d’animo con i pensieri, le immagini, le aspettative, giungendo alla fine ad apprezzare, ad un livello di astrazione molare, quei nessi che rendono coerenti gli aspetti affettivi, cognitivi e comportamentali di una persona in quell’unicità e stile di vita a cui è attribuibile l’originalità e l’individualità di ogni essere umano”.

Quindi, col procedere delle sedute, il terapeuta insegna al paziente (ed al lettore terapeuta in formazione!) la capacità di autosservazione (applicazione della tecnica della moviola), prendendo poi in considerazione i suoi comportamenti alimentari e di altre aree ad essi correlati (lo stile comunicativo, interpersonale, verbale e non verbale, il comportamento sessuale, etc.), “procedendo verso livelli sempre più astratti ed integrati della loro osservazione mentre apprendono un metodo ed una procedura” di lavoro terapeutico “ordinata e coerente”.

Si arriva così, nella fase ulteriore della terapia, ad approfondire l’analisi delle determinanti interne, personali, dei comportamenti finora descritti fornendo al paziente “quei mezzi e metodi di autosservazione” che lo portano a “rileggere la sua esperienza in termini di maggiore responsabilità ma anche di autonomia”. L’abilità del terapeuta di assumere in seduta l’atteggiamento del “perturbatore strategicamente orientato”, in termini post-razionalisti, consente di “utilizzare indirettamente le emozioni per sviluppare una riorganizzazione di significato” e di muovere nel paziente un diverso modo di vedersi come risultato di “nuove tonalità emotive” inducendo nella persona un processo di cambiamento sicuramente più stabile.

A questo punto della terapia viene affrontato il tema dell’affettività attraverso la ricostruzione dello stile affettivo ossia della “carriera” affettivo/sentimentale della persona a partire dall’adolescenza: “in questa fase avviene la ristrutturazione emotiva di secondo livello” (Guidano). “Le unità emotive principali, distinte sin dall’inizio della terapia, ora vanno messe insieme, fino a riuscire a vedere come queste unità siano sempre state accoppiate in sequenze in un insieme più complesso: si passa così ad un punto di vista molecolare nel quale il reframing (nuovo inquadramento) delle storie affettive rende più chiaro il significato personale del soggetto” ed in cui “gli aspetti fondanti sono e vanno messi sempre in relazione al vissuto emotivo prima ed ai comportamenti alimentari poi”.

L’ultima fase della terapia proposta si focalizza sulla ricostruzione della storia di sviluppo ossia sul comprendere come un soggetto con DCA “abbia imparato a privilegiare il giudizio degli altri e come abbia costruito la sua coerenza organizzativa intorno al tema della inadeguatezza. Con la storia di sviluppo possiamo ottenere una riorganizzazione del range emotivo ancora più intensa (di terzo livello la chiama Guidano)”. Alla fine, quindi, si ripercorre ed analizza il processo dell’alimentazione del paziente, si descrivono e comprendono le dinamiche delle sue relazioni familiari e le caratteristiche dei genitori, dello stile affettivo e sessuale, il momento cruciale del break adolescenziale: tutto questo con l’obiettivo di accompagnare il paziente nel suo progressivo processo di differenziazione e di autonomia.

Nella seconda e terza parte del libro, le autrici descrivono la complessità e criticità di intervento nei soggetti con DCA sia su un piano puramente clinico che su un piano di difficoltà pratico-organizzative confrontandosi con la realtà delle risorse e strutture attualmente disponibili in cui poter intervenire attuando programmi di cura con un’ottica di intervento multidisciplinare integrato, raccomandata dalle linee guida internazionali.
In ultimo Adele De Pascale e Paola Cimbolla propongono una descrizione pratica di cosa ha significato, per loro, lavorare anche nel servizio pubblico secondo una prospettiva cognitivista post-razionalista.

Il libro “Disturbi delle Condotte Alimentari, l’approccio del cognitivismo postrazionalista” rappresenta un originale “manuale post-razionalista” altamente consigliato ai giovani psicoterapeuti, e non solo, vista la capacità, da parte delle autrici, di essere riuscite ad esprimere, con una notevole chiarezza didattica, una metodologia di intervento psicoterapico nell’approccio ai pazienti con DCA, arricchita dalla densità e complessità dei contenuti espressi, dai continui riferimenti alla letteratura internazionale contemporanea e dalla integrazione con le determinanti neurobiologiche nel corso dello sviluppo.

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La vergogna e la colpa nei disturbi del comportamento alimentare (DCA). Cicli emotivi e patologia

BIBLIOGRAFIA:

Occhio per occhio o porgi l’altra guancia? Perdono e vendetta a confronto

Martina Lattanzi – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Quando subiamo un’offesa, un insulto o un’ingiustizia proviamo immediatamente emozioni negative di rabbia, risentimento, disappunto e il comportamento che più frequentemente viene messo in atto è quello di vendicarsi per il torto subito.

 La motivazione a vendicarsi è presente e radicata nell’animo umano da un punto di vista biologico, psicologico e culturale. Nel regno animale diversi studi condotti su primati hanno messo in evidenza il comportamento della vendetta tra scimpanzé dimostrando la primordialità del sentimento vendicativo (McCullough et al., 2009). Anche nella storia dell’uomo, anticamente, possiamo rintracciare il comportamento della vendetta codificato nella Legge del taglione secondo la quale chi subisce un danno ha il diritto di rispondere a sua volta con il medesimo comportamento che sia uguale all’offesa ricevuta.

A un’analisi più approfondita vediamo però che la vendetta e la volontà di rivalsa anche se sono sentimenti naturali e istintivi non portano ad un effettivo risarcimento dal torto subito: la vendetta, contrariamente a quanto si possa pensare non aiuta ad alleviare il dolore provato nell’aver subito un’ingiustizia in quanto la vittima si troverà a rimanere focalizzata sull’evento negativo accaduto, a pensare e ripensare continuamente a come potrebbe farla pagare al suo trasgressore, alimentando ulteriormente le emozioni negative sperimentate (rabbia, ostilità, risentimento). Inoltre se anche la vittima risponde a sua volta con un torto verso il trasgressore, per riparare e pareggiare i conti, difficilmente la vittima si sentirà ripagata come sperava ma si andrà invece ad innescare un circolo vizioso sena fine: con la vendetta il trasgressore iniziale si trasforma a sua volta in vittima che, a prescindere da quali sono state le azioni precedenti che possono avere in qualche modo giustificato la reazione vendicativa, sentirà la punizione come eccessiva, poiché il dolore soggettivo è sentito come maggiore rispetto al torto di cui si era reso responsabile inizialmente, innescando così in un circolo vizioso senza fine e inconcludente.

La vendetta quindi non determina una soluzione di un problema né comporta un sollievo ma acuisce ulteriormente la sofferenza psicologica. Un modo per uscire da questa spirale negativa potrebbe essere il perdono.

Cosa significa perdonare?

Definire il perdono non è semplice. Innanzitutto viene definito in relazione a ciò che non è: non si tratta di negare, minimizzare, scusare l’altro o dimenticare (Toussaint et al., 2012).  Si tratta di un costrutto complesso che implica aspetti emotivi, cognitivi e comportamentali (Worthington et al., 2007).

Il perdono è un complesso fenomeno affettivo, cognitivo e comportamentale, nel quale le emozioni negative e il giudizio verso il colpevole vengono ridotti, non negando il proprio diritto di sperimentarli, ma guardando al colpevole con compassione, benevolenza e amore (McCollough & Worthington, 1995).

Da questa definizione si può capire come il perdono è un processo che implica la consapevolezza da parte della vittima di aver subito un’ ingiustizia ma si sceglie volontariamente di superare la vendetta e di porsi in una posizione diversa.

Secondo Worthington (2007) due sono le tipologie di perdono: da un lato vi è il perdono decisionale ovvero la presa di decisione da parte del soggetto di controllare i propri comportamenti (aspetto cognitivo), dall’altro il perdono emotivo ovvero le emozioni che entrano in gioco durante il perdono in quanto nel perdonare si attiva una trasformazione delle emozioni: da negative come l’ostilità e la rabbia a positive quali compassione e empatia. Tutto ciò si ripercuote nel comportamento che verrà messo in atto.

La capacità di perdonare in ognuno di noi cambia nel corso della vita e non si mantiene stabile negli anni. Kohlberg (1976) distingue tre stadi di sviluppo del perdono in cui le ragioni per cui una persona è motivata a perdonare si diversificano a seconda del momento di vita (McCullough et al., 2009):

  • il perdono è possibile solo dopo che la vittima ha ottenuto vendetta, quindi ci deve essere prima una restituzione del torto subito che rende possibile il perdono;
  • il perdono è possibile in quanto ci sono delle regole morali, religiose e sociali che creano pressione e condizionano il soggetto nel modo di reagire a un’ingiustizia;
  • il perdono è utile in quanto permette di vivere in armonia nel contesto sociale e perdonare significa esprimere il proprio amore in modo incondizionato.

Quando si parla di capacità di perdonare non si fa riferimento solamente a quel comportamento, atteggiamento di compassione e benevolenza che la vittima di una ingiustizia decide volontariamente di riservare al trasgressore, ma riguarda anche il comportamento e l’atteggiamento che una persona può avere verso se stesso qualora sia il responsabile di un’azione dannosa verso altre persone. Bisogna distinguere infatti il perdono in relazione alla fonte della trasgressione: si può essere vittime di un torto e quindi in questo caso il perdono sarà rivolto verso terzi, ma si può anche essere i responsabili di un torto e sentirsi colpevoli del proprio comportamento, in questo caso il perdono deve essere rivolto a se stessi.

Non bisogna dimenticare che il responsabile di un comportamento dannoso per altri è una persona con emozioni e sentimenti, e spesso ci si può rendere responsabili di arrecare dolore ad altri in modo non intenzionale. In questi casi il trasgressore può sentirsi in colpa per quanto commesso e non perdonarsi di aver causato dolore. Esempi di questi casi si rintracciano proprio nei veterani di guerra i quali al rientro da una missione continuano a rimanere focalizzati sugli orrori della guerra di cui essi stessi sono i responsabili, anche se in maniera indiretta. L’incapacità di perdonare se stessi per aver commesso una trasgressione si associa a sentimenti molto dolorosi di colpa, vergogna, rammarico e imbarazzo mentre nella vittima che subisce un’ingiustizia le emozioni più frequenti sono rabbia e ostilità. Secondo alcuni studi queste due forme di perdono sarebbero connesse ovvero l’incapacità di perdonare gli altri sarebbe legata a una incapacità di perdonare se stessi (Berit et al., 2010).

A prescindere dalla fonte del perdono, diversi studi hanno messo in evidenza gli effetti del perdono e del non perdono sia sulla salute fisica che mentale.

L’interesse della psicologia per il perdono è andato aumentando negli ultimi decenni, in particolare a patire dagli anni ‘90 del secolo scorso quando diversi studi hanno iniziato a rilevare una stretta relazione tra perdono e benessere psicologico e per questo l’attenzione si è sempre più concentrata proprio sulla comprensione dei possibili benefici del perdono sulla salute psico-fisica. Saper perdonare potrebbe essere un mezzo per favorire il benessere psicologico, riducendo la spirale di emozioni negative che intervengono quando si subisce un torto, ovvero riducendo la ruminazione, il rancore, la rabbia e tutte quelle emozioni negative che non aiutano a superare positivamente un’ingiustizia subita ma al contrario ne peggiorano la salute psico-fisica.

Ovviamente non tutti sono disposti a perdonare. Perché ci sia vero perdono devono essere coinvolti tutti i sistemi: cognitivo, emotivo e comportamentale.

Dal punto di vista cognitivo ed emotivo, il perdono può avvenire solo dopo che vi sia stato un processo mentale capace di far tacere il risentimento, la rabbia, il desiderio di vendetta o di punizione della persona che ha perpetrato l’offesa. Il gesto del perdono è solo l’ultimo atto che riguarda questo lungo e complesso processo di elaborazione di un evento negativo accaduto.

Essere capaci di perdonare si associa a minori livelli di depressione e di ansia (Touissaint et al., 2012), di ideazione paranoide, di psicoticismo, di senso di inferiorità o di inadeguatezza. L’incapacità di perdonare se stessi si associa invece a un peggior benessere psicologico, disturbo da stress post-traumatico, depressione, ansia (Witvliet et al., 2004; Dixon et al., 2014).

Perdonare l’altro di quanto accaduto aiuterebbe la vittima a superare veramente la trasgressione e il dolore connesso, evitando la ruminazione ossessiva sull’evento accaduto (Thompson et al., 2012). La ruminazione infatti è una strategia di fronteggiamento dello stress maladattiva, che si associa negativamente al perdono, sia di sé che degli altri (Dixon et al., 2014).

Un interessante modello sulla relazione tra incapacità di perdonare, ruminazione e sintomi depressivi è stato avanzato da Touissant & Webb (2005) in cui si suggerisce una relazione indiretta tra non-perdono e scarsa salute psicologica, mediata appunto dalla ruminazione. La ruminazione, il pensare continuamente al passato e ai propri errori gioca quindi un ruolo centrale nel mediare il rapporto negativo tra capacità di auto-perdono e benessere psicologico (Touissaint et al., 2001).

Secondo il modello l’incapacità di perdonare se stessi si associa, in modo indiretto, a maggiori sintomi depressivi, alienazione sociale e mancanza di sostegno da altre persone (Berit et al., 2010) e aumenterebbe il rischio di mortalità (Hirsch et al.,2011).

Tra i meccanismi che sembrano mediare questo rapporto vi sarebbe il perfezionismo e l’incapacità di accettare le proprie imperfezioni. Due forme di perfezionismo, una maladattiva (autovalutazione di se negativa) e una invece adattiva (coscienziosità, scrupolosità), possono essere presenti e associarsi in modo diverso alla psicopatologia. La forma maladattiva si associa a depressione, mentre la seconda è una forma di perfezionismo più positiva e adattiva, ovvero quella che sostiene, ad esempio, la motivazione a raggiungere successi scolastici (Dixon et al., 2014). Il perfezionismo è un costrutto molto complesso che presenta diverse dimensioni e non può essere considerata in modo univoco come una caratteristica totalmente positiva o totalmente negativa.

 Lo studio di Dixon (2014) ha indagato in modo particolare la possibile relazione tra perfezionismo, ruminazione e benessere/malessere psicologico rilevando che la forma di perfezionismo maladattiva correla in modo indiretto con la capacità di perdonarsi, mediato oltre che dalla ruminazione anche dalla accettazione di sé: maggiore è la tendenza al perfezionismo (nel senso di autovalutazione negativa), maggiori saranno i livelli di ruminazione, associato a una minore capacità di auto-accettarsi e auto-perdonarsi.

Come già detto l’incapacità di perdonare se stessi è stata rilevata in diversi studi su soggetti reduci di guerra, veterani che non riuscivano a perdonarsi di aver commesso delle violenze verso altre persone legate al loro impegno in scenari di guerra. Tra i soldati che avevano sviluppato un Disturbo Post Traumatico da Stress si sono riscontrati infatti livelli molto bassi di auto-perdono (Berit et al., 2010), oltre a livelli elevati di depressione e ansia (Witvliet et al., 2004).

La capacità di perdonare oltre a mostrare benefici sul benessere psicologico, sembra avere effetti positivi anche sulla salute fisica. Diversi studi hanno infatti dimostrato come lo sperimentare per lungo tempo emozioni negative quali rabbia, ostilità, risentimento aumenti l’incidenza di disturbi cardiovascolari (Friedberg et al., 2009). Friedman e Rosenman (1974) furono i primi a notare come le persone con un disturbo cardiovascolare fossero accomunate da un aspetto caratteriale, ovvero una ostilità liberamente fluttuante, ostilità pervasiva e duratura che si attiva in risposta anche a stimoli banali in diverse situazioni quotidiane (Grandi et al., 2011). Il modo in cui il perdono potrebbe promuovere la salute psicologica è proprio attraverso la riduzione di rabbia e ostilità favorendo emozioni positive quali compassione, benevolenza e amore.

Se da un lato pensare continuamente la possibile vendetta, rimanendo per lungo tempo focalizzati sull’evento negativo può aiutare il soggetto a nascondere il sentimento di perdita e di depressione che possono emergere quando si viene lesi moralmente, nel lungo termine non aiuta il soggetto a superare il trauma (Stoia-Caraballo et al., 2008).

La depressione infatti può emergere proprio in conseguenza dei sentimenti di perdita e di tristezza provati successivamente la trasgressione, come risultato di valutazioni cognitive negative sull’evento.

La rabbia e l’ostilità rappresentano importanti fattori di rischio per la mortalità a causa dell’aumento della pressione sanguigna che si registra durante tali emozioni negative, aumentando la probabilità di sviluppare, nel lungo termine ipertensione e malattie coronariche. In uno studio sperimentale condotto da Witvliet et al. (2001) sono stati messi a confronto due gruppi di soggetti e a entrambi è stato chiesto di immaginare quale sarebbe stata la loro reazione, la loro risposta ad un torto subito. Nello specifico è stato chiesto loro se avrebbero perdonato o meno il trasgressore: coloro che immaginavano di perdonare colui che li aveva offesi mostravano livelli di stress fisiologici più bassi (frequenza cardiaca e pressione arteriosa) rispetto a chi invece non perdonava il torto subito (Worthington et al., 2007).

La ruminazione continua su un evento in cui si è sperimentato rabbia comporta anche un cambiamento nella qualità del sonno: diversi studi hanno messo in evidenze come tra le persone con disturbi del sonno vi fossero livelli di ruminazione alti (Stoia-Caraballo et al., 2008). Anche una qualità del sonno scarsa va ad incidere negativamente sullo stato di salute generale del soggetto.

Dagli studi analizzati emerge coma la capacità di perdonare rappresenta una modalità positiva e adattiva di affrontare situazioni di vita dolorose ed evitare che tali situazioni intrappolino il soggetto in un vortice di emozioni negative che compromettono poi la salute e il benessere della persona.

Attraverso un percorso di psicoterapia il soggetto può essere aiutato nel modo di affrontare le situazioni e di reagire ad esse: non necessariamente di fronte a un torto subito si deve reagire con la vendetta, così come non necessariamente il soggetto colpevole di avere arrecato dolore deve continuare a colpevolizzarsi e autocriticarsi continuamente. E’ possibile prendere un’altra strada: da un lato cercare di empatizzare e di essere benevoli con il trasgressore, così da superare l’ingiustizia subita e interrompere il circolo vizioso della ruminazione rabbiosa. Dall’altro accettare di essere imperfetti e che nella vita si possono commettere degli errori. Non si può tornare indietro ed evitare quanto accaduto, è possibile solo accettarsi nella propria vulnerabilità e perdonarsi (Petrocchi et al., 2013).

 

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Teoria e Clinica del Perdono: intervista a Francesco Mancini su Rai 1

BIBLIOGRAFIA:

Le 4 motivazioni per mangiare carne – Psicologia

Daniela Sorzogni

 

FLASH NEWS
I ricercatori sostengono che i mangiatori di carne, che giustificano le loro abitudini alimentari, si sentono meno in colpa e sono più tolleranti alla disuguaglianza sociale.

Un team di ricercatori della Lancaster University ha esaminato i modi in cui le persone considerano il mangiare carne. Essi hanno scoperto che la maggior parte degli onnivori difendono il loro consumare carne razionalizzando il proprio comportamento ed etichettandolo. I ricercatori sostengono che le relazioni tra le persone e gli animali sono complicate: mentre la maggior parte delle persone godono della compagnia degli animali, e ogni anno spendono milioni di dollari per la loro cura e il loro mantenimento, un’altra parte di persone continua a mangiare carne animale.

Nello studio realizzato da questo gruppo di ricercatori è stato chiesto a degli studenti e a degli adulti degli Stati Uniti se era giusto mangiare carne. Dai dati sono emerse 4 categorie o etichette usate per giustificare questo comportamento:

-Naturale: “Gli essere umani sono carnivori naturali”
-Necessario: “La carne fornisce nutrienti essenziali”
-Normale: “Sono stato cresciuto mangiando la carne”
-Gustoso: “ E’ deliziosa”

Ne risulta che la categoria più utilizzata per giustificare questa scelta è stata quella di considerare “necessaria” questa decisione.
Moralmente i vegetariani motivati, anche se in numero minore, possono servire come fonte di rimprovero morale implicito per molti onnivori, suscitando comportamenti di condanna morale.

Gli uomini approvano maggiormente le quattro categorie rispetto alle donne, mentre le persone che hanno rifiutato queste etichette hanno mostrato una maggiore attenzione per il benessere degli animali.
Le persone che si giustificano attraverso le 4 categorie condividono anche altre caratteristiche: tendono a includere un minor numero di animali nel loro cerchio di preoccupazione morale, e questo era vero indipendentemente dalla dominanza sociale. Sono stati anche meno motivati dalle preoccupazioni etiche nel fare scelte alimentari, meno attivi in rappresentanza degli interessi animali.

Le 4 categorie sono un potente strumento pervasivo utilizzato dagli individui per evitare di diffondere il senso di colpa che si potrebbe sperimentare quando si consumano prodotti animali.
Tuttavia tra le 4, i maggiori livelli di disaccordo sono stati raggiunti su “necessario” e “gustosa”, e questo suggerisce che le credenze sulla necessità di mangiare carne e sul piacere che ne deriva sono le meno convincenti per persuadere un pubblico vegetariano.

L’approvazione della naturalità di mangiare carne (ad esempio, negli esseri umani si sono evolute strutture corporee adatte a mangiare carne) era la più uniforme tra i gruppi alimentari, anche tra i vegetariani. Potremmo ipotizzare che le credenze circa la naturalezza di mangiare carne può essere la più persistente e la più difficile da modificare.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Amare gli animali e mangiare gli animali: come riduciamo la dissonanza cognitiva del “meat paradox”

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Piazza, J., Ruby, M.B., Loughnan, S., Luong, M., Kulik, J., Watkins, A.M., Seigerman, M. (2015). Rationalizing meat consumption. The 4Ns. Appetite; 91: 114

Ridiamoci un po’ su…quanto è utile l’umorismo per far fronte alle avversità?

Sono molte le caratteristiche di una persona che, secondo gli esperti, si associano a una maggiore capacità di mostrarsi resilienti, ma una in particolare è stata oggetto di visioni contrapposte: l’umorismo. Una persona ironica è anche una persona resiliente?

Una vecchia canzone recitava: Riderà, riderà, riderà, tu falla ridere perchè… ha pianto troppo insieme a me … Ma davvero le basterà ridere per stare finalmente meglio?

La ricerca in materia di psicologia del benessere ha cambiato rotta dopo l’ingresso in campo del concetto di resilienza. Prima, soprattutto nello studio sulla qualità della vita e sulla percezione del benessere, si tendeva a focalizzare l’attenzione soprattutto sui fattori di rischio che gli individui incontrano nella loro vita e dell’ovvio impatto negativo sul benessere della persona. Negli ultimi vent’anni il concetto di resilienza ha permesso di studiare anche quale sia l’impatto di fattori e aspetti di vita positivi, ma soprattutto protettivi, sugli individui, in particolare nei momenti di difficoltà.

Con il concetto di resilienza, infatti, si indica quella particolare capicità di far fronte agli eventi negativi e traumatici, in maniera positiva. Non significa infatti solo subire le situazioni stressanti, ma implica una capacità di andare avanti, crescendo e ricostruendosi un nuovo percorso di vita.

Sono molte le caratteristiche di una persona che, secondo gli esperti, si associano a una maggiore capacità di mostrarsi resilienti, ma una in particolare è stata oggetto di visioni contrapposte: l’umorismo. Una persona ironica è anche una persona resiliente? Come si legano questi due costrutti?

Nell’articolo consigliato ci si interroga su quale sia l’effettivo ruolo dell’umorismo nel miglioramento della qualità di vita del soggetto e se questo possa dirsi effettivamente associato all’essere resilienti.

Gli autori hanno studiato il fenomeno analizzando dati di ogni tipo: da indagini statistiche a ricerche qualitative, da meta-analisi a descrizione di casi clinici, con l’intento di comprendere meglio se l’umorismo possa dirsi una strategia funzionale alla crescita e al fronteggiare le avversità o se invece, come altri modelli teorici sostengono, sia una forma di evitamento e dunque non sia funzionale nell’affrontare e superare il problema.

Lo studio è molto interessante e ricco di spunti per future ricerche. 

 

This article considers how humor may fit within a resiliency perspective. Following a brief overview of resiliency approaches, including selected work on positive psychology, several lines of research that provide initial support for resiliency effects of humor on stress and trauma are highlighted. This work ranges from anecdotal case report descriptions of facilitative humor use in extremely traumatic situations (e.g., paramedics), to more rigorous studies examining moderator and cognitive appraisal effects of humor on psychological well-being.

Ridiamoci un po’ su…quanto è utile l’umorismo per far fronte alle avversità?Consigliato dalla Redazione

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Nell’articolo consigliato ci si interroga sul quale sia l’effettivo ruolo dell’umorismo nel miglioramento della qualità di vita del soggetto e se questo possa dirsi effettivamente associato all’essere resiliente. (…)

Tratto da: Psych Open

 

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Tracce del Tradimento nr. 12: Diffidenza e gelosia

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – (Diffidenza e gelosia – Nr. 12) 

 

Il geloso in alcuni casi non dubita del proprio valore e della propria amabilità ma sperimenta una sostanziale incertezza circa la relazione perché ritiene l’altro sostanzialmente inaffidabile: in questo caso non è il geloso a non andare bene ma l’amato.

Ogni suo segno di indecisione o dubbiosità è colto, amplificato e percepito come minaccioso. Se l’amato si mostra incerto sullo stare insieme, se ininterrottamente spera per sè di meglio, se guarda tutte le donne che passano con occhi attenti, se manda segnali di insoddisfazione e umilia, se paragona (e dal paragone esce sempre perdente), allora la gelosia trova costante alimento anche se contemporaneamente si accresce la critica per il comportamento dell’altro.

È una gelosia che, almeno in superficie, salva l’autostima. Ma sarebbe interessante chiedersi cosa conduce alla scelta di un partner giudicato inaffidabile e colmo di difetti. Ci si può innamorare della persona che si ritiene affidabile e con il quale si pensa sia possibile costruire un progetto comune oppure del bello della compagnia, quello che è stato il fidanzato di tutte lasciandole sempre tra immense sofferenze. La scelta della persona da amare in qualche modo indica anche quanto si è destinati a soffrire in un rapporto per la minaccia che esso venga chiuso.

La scelta del partner deve essere inestricabilmente connessa con le esperienze precoci di legame con le proprie figure di attaccamento; non sono i partner “perfetti in teoria” ad attirarci: altrimenti tutti desidererebbero persone buone, comprensive, affidabili, generose, gentili, attente, oblative, fedeli, e così via. Mentre invece hanno grande successo anche le persone egoiste, arroganti, violente, inaffidabili, bugiarde, ingannatrici, insomma in una parola i “mascalzoni”.

Questo avviene perché al di là delle intenzioni di scelta consapevoli ed esplicite siamo attratti irresistibilmente da coloro che ci ripropongono schemi relazionali conosciuti e sperimentati precocemente. Talvolta la persona è consapevole di questa trappola e si accorge che nonostante sia corteggiato da una persona che sarebbe un partner “sulla carta” ideale non prova alcuna emozione verso di esso ed è attratto da persone che assomigliano terribilmente a tutti i precedenti partner con i quali ha avuto relazioni di grande sofferenza e senza speranza.

Dopo la chiusura della terza storia consecutiva con due compagni alcolisti e violenti e con un tossicodipendente con gravi disturbi di personalità, una insegnante trentaduenne rimase per circa una anno da sola riflettendo sul perché del ripetersi di quelle circostanze. Ogni volta si ripeteva la stessa storia in cui lei era attratta da persone evidentemente disturbate che tuttavia sentiva il desiderio e il compito di dover accudire e salvare: era certa che le avrebbe redente con il suo amore e la sua dedizione. Inizialmente la sua illusione veniva rinforzata e la persona sembrava rispondere positivamente alle sue cure, ma ben presto i comportamenti disturbati riemergevano.

A questo punto pensava che fosse colpa sua, che non facesse abbastanza perché in lui le possibilità di cambiamento c’erano come aveva dimostrato. Si colpevolizzava e cercava di fare sempre di più e tanto meno i suoi sforzi avevano successo, tanto più li intensificava. Sempre la stessa cosa, sempre di più. Anche quando l’altro mostrava evidenti segni di disinteresse nei suoi confronti e attenzioni esterne alla coppia, lei si impegnava ancora di più nel tentativo di recuperarla e contemporaneamente l’importanza di lui cresceva sempre di più. Il disperato tentativo di salvare qualcuno che era certamente perduto e di farsi amare nonostante il manifesto disinteresse dell’altro faceva parte della sua storia infantile con un padre inconsolabilmente vedovo e divorato dalla depressione e dall’alcol.

Giunta a trentatré anni incontrò un intelligente e garbato vice direttore di banca di trentotto anni, senza storie strazianti alle spalle e disposto a sposarla, proteggerla e a fare una famiglia e dei figli con lei. Si rendeva perfettamente conto che si trattava di una occasione unica e forse irripetibile di dare una svolta diversa alla sua vita e tuttavia per quest’uomo che anche ai suoi occhi appariva ideale e con pochi difetti non provava alcuna reale attrazione. Si diceva che avrebbe dovuto, che era proprio la persona giusta e ci prova anche a stare con lui ma lo sentiva come un amico, non c’era modo di far scattare la scintilla. Poi un giorno arrivò un nuovo collega nella sua scuola: un insegnante di educazione fisica di 57 anni, allontanato dalla sua famiglia e dalla precedente scuola per traversie giudiziarie per questioni di pedofilia e una evidente depressione mal contenuta dai farmaci. Bastò un attimo e la passione si accese.

Una paziente di 40 anni aveva passato gli ultimi otto anni con un ragazzo più giovane di lei che le aveva ininterrottamente detto “ di te mi piace la testa, ma te come donna ti trovo francamente brutta, ma cerco di abituarmi” mentre stava con lui aveva passato serate e giornate intere a cercare tracce dei tradimenti con donne migliori di lei, fantasticava su donne famose, su vicine attraenti, su colleghe, indagava nella posta elettronica, ovunque senza trovare nulla di interessante che le confermasse il suo peccato originario. Questo comportamento ossessivo lei lo aveva sempre avuto su tutto coglieva gli elementi negativi, si fissava su questi e non riusciva a staccarsi da queste situazioni. Solo al momento di lasciarlo alla fine lui le disse che non era vero, che era il suo modo di stare con le donne per sentirsi più coccolato e sicuro, per tenerle sulla corda.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Che sapore avrà questo articolo? Un viaggio alla scoperta della Sinestesia

La sinestesia è una contaminazione sensoriale, è quel fenomeno sensoriale- percettivo in cui due sensi, percepiti dal soggetto come distinti, si manifestano contemporaneamente seppur in condizioni in cui un solo canale sensoriale è stimolato.

La psicologia, e le neuroscienze in particolare, si occupano a volte dello studio di fenomeni di cui non si può assolutamente negare il fascino: uno di questi, a mio avviso, è la sinestesia.

La sinestesia è una contaminazione sensoriale, è quel fenomeno sensoriale- percettivo in cui due sensi, percepiti dal soggetto come distinti, si manifestano contemporaneamente seppur in condizioni in cui un solo canale sensoriale è stimolato: e così, all’ascolto di un suono per esempio, i soggetti con sinestesia possono vedere anche dei colori prodotti dallo stesso suono.

Vi sono diverse forme di sinestesia, tra le più comuni vi è la sinestesia grafema-colore: le lettere e i numeri si tingono di colore e anche intere parole possono avere una propria tonalità di colore. Esiste poi una sinestesia tattile: alla vista di qualcuno che prova determinate sensazioni fisiche in alcune parti del corpo, si associa un vero e proprio sentire la stessa sensazione nelle stesse parti del corpo. Un’altra forma conosciuta di sinetstesia è quella lessicale-gustativa: il soggetto che presenta questo tipo di sinestesia, nel momento in cui legge determinate parole, prova specifici gusti, a volte molto anche forti.

E’ stato inoltre osservato come la sinestesia si associ spesso a una buona memoria e ad alti livelli di creatività: non è ancora chiaro come tale correlazione si manifesti e se dunque una memoria (o una creatività) superiore alla norma porti alla sinestesia o viceversa, è questo che spinge ancora molti ricercatori, tra cui il dottor Nicolas Rothen, a studiare il fenomeno e le implicazioni, positive e/o negative, che questo può avere in chi lo manifesta.

Tra le ricerche più importanti, ad oggi, vi è quella di Witthöft e Winawer (2013): su 11 soggetti con sinetstesia grafema-colore, 10 di questi mostravano abbinamenti tra lettere e colori sorprendentemente molto simili. La spiegazione che hanno dato gli autori è ancor più sorprendente: i colori abbinati alle lettere erano gli stessi  di un ben noto gioco di magneti Fisher-Price, che 10 partecipanti su 11 hanno ricordato di possedere in infanzia.

Quale implicazione ha dunque questo studio? E’ chiaro che vi sia un collegamento con l’apprendimento, ma, si chiedono ora i ricercatori, è possibile creare in soggetti che non presentano delle sinestesie, delle associazioni sensoriali, dopo aver dato modo a questi di apprenderle?

E’ chiaro, come detto in anticipo, che questo argomento offre interessanti spunti di ricerca e riflessione, per saperne di più e per leggere annedoti di persone che manifestano i vari tipi di sinestesie sopra elencate, vi rimandiamo all’articolo consigliato.  Buon gusto…ops…Buona lettura!

 

As a boy growing up in London, James Wannerton (below) would travel by the underground to school. He could taste his way along the route. ‘Piccadilly Circus tasted of the peanuts and goo you get inside a Picnic bar. Bond Street tasted of a tangy aerosol spray. I liked Tottenham Court Road; it tasted of breakfast. The word ‘Tottenham’ tasted of sausage, the ‘Court’ tasted of egg and the ‘Road’ tasted of toast,’ he tells me.

Che sapore avrà questo articolo? Un viaggio alla scoperta della SinestesiaConsigliato dalla Redazione

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La sinestesia è una contaminazione sensoriale, è quel fenomeno sensoriale- percettivo in cui due sensi, percepiti dal soggetto come distinti, si manifestano contemporaneamente. (…)

Tratto da: The Psychologist

 

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Che sapore avrà questo articolo? Un viaggio alla scoperta della Sinestesia
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Psicopedia - Immagine: © 2011-2014 State of Mind. Riproduzione riservata
Sinestesia – Definizione da Psicopedia
La sinestesia è un processo percettivo (non cognitivo) inconsueto che consiste nell’interazione e sovrapposizione spontanea e incontrollata di più sensi.

So quel che fai. I neuroni specchio e il cervello che agisce – Recensione

Francesca Rigobello

In questo libro gli autori ci accompagnano passo dopo passo alla scoperta dei neuroni specchio, cellule motorie del cervello che si attivano sia durante l’esecuzione di movimenti finalizzati, sia osservando movimenti eseguiti da altri individui.

Come comprendiamo le azioni degli altri? A darci una risposta è il lavoro dello scienziato Giacomo Rizzolatti, docente di neurofisiologia all’Universià degli studi di Parma e del suo collega Corrado Senigaglia filosofo della scienza di impronta fenomenologica all’Università di Milano.

Attraverso i loro studi si sono poste le basi per una spiegazione di come l’uomo comprenda le azioni, le intenzioni e le emozioni altrui trovando un punto d’incontro tra pensare e agire.

In questo libro gli autori ci accompagnano passo dopo passo alla scoperta dei neuroni specchio, cellule motorie del cervello che si attivano sia durante l’esecuzione di movimenti finalizzati, sia osservando movimenti eseguiti da altri individui.

Grazie agli studi condotti sulle scimmie si è scoperto che questi neuroni non solo si attivano quando l’animale esegue un’ azione, ad esempio il semplice gesto di afferrare del cibo con una mano, ma anche quando è nell’atto di osservare gli stessi movimenti eseguiti da un’altra scimmia o da un uomo, dimostrando la correlazione tra l’osservazione e l’esecuzione.

Ciò che risulta è che vi sia un legame tra le aree del cervello dedite alla realizzazione degli atti motori e quelle che ci consentono di dar loro un significato: Il cervello che agisce è innanzi tutto un cervello che comprende.

In tale situazione non vi è alcuna partecipazione cosciente dell’individuo al meccanismo dei neuroni specchio, è qualcosa di naturale che gli permette di comprendere le intenzioni degli altri soggetti.

La stessa funzione avviene anche per la comprensione degli stati d’animo altrui, infatti i neuroni specchio della corteccia premotoria consentirebbero di comprendere le espressioni facciali di un individuo rimandandoci alle emozioni fondamentali quali la paura, il dolore, l’angoscia, ecc.

Gli studi e le analisi degli autori riportano anche il tema del rapporto dei neuroni specchio con il linguaggio, incentrato nell’area di Broca, la quale sembra possedere proprietà motorie non solo per funzioni verbali. Da qui la convinzione che l’informazione gestuale sia passata attraverso la comprensione dei neuroni specchio a linguaggio verbale.

Il libro, nonostante la lettura un pò tecnica, rappresenta un valido strumento per approfondimenti per professionisti del settore, quali psicologi, filosofi e antropologi, un viaggio alla scoperta dei meccanismi che implicano molti dei nostri comportamenti, in grando di arricchire il nostro sapere nei campi della medicina e non solo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Rizzolatti, G. e Sinigaglia, C. (2006). So quel che fai. I neuroni specchio e il cervello che agisce. Raffaello Cortina Editore.

Jules e Jim: un triangolo amoroso tra guerra e arte… – Cinema & Psicologia

Il film Jules e Jim tratto da un romanzo, una storia vera, fu uno dei più grandi successi dell’allora giovane regista François Truffaut e fu anche uno dei primi film a destare scandalo e scalpore.

Era il 1962, una Helen Grund di 75 anni scriveva commossa al regista François Truffaut:

Seduta nella sala buia, temendo delle somiglianze mascherate, delle analogie più o meno irritanti, sono stata subito conquistata, afferrata, dal potere magico, vostro e di Jeanne Moreau, di ridar vita a ciò che era stato vissuto ciecamente….

Il film Jules e Jim tratto da un romanzo, una storia vera, che vede protagonisti appunto Helen Grund (la Catherine del film) , Franz Hessel ( il Jules del film ) ed  Henri-Pierre Roché (il Jim del film) e interpretati nel grande schermo rispettivamente da Jeanne Moreau, Oskar Werner e  Henri Serre, fù uno dei più grandi successi dell’allora giovane regista e fù anche uno dei primi film a destare scandalo e scalpore.

La storia, che si attiene strettamente al romanzo è quella di due amici, Jules e Jim e di una donna Catherine e di molte cose: del loro triangolo d’amore, di guerra, di arte. Ci porta ad abbandonare il pensiero aut-aut e prendendoci per mano apre questioni sulla moralità, su ciò che si potrebbe ritenere ammissibile o meno, ci fà abbandonare i preconcetti, ci pone quesiti, soprattutto sull’amore.

Non volendomi soffermare strettamente sul cinema di Trouffat e vedendo il film senza troppe congetture mi sono chiesta: come si può spiegare l’amore? L’attrazione? Tutti quei comportamenti che siamo portati ad avere quando solo udire il nome della persona amata ci fa accelerare il battito cardiaco, tremare le mani, affannare il respiro? Amare due persone contemporaneamente poi, si può?

L’amore muove tutto e tanti hanno cercato di spiegarlo. Cosi nell’ambito scientifico un libro interessante scritto da Helen Fisher Perché amiamo – Essenza e chimica dell’innamoramento (2005) vuole spiegare l’amore mediante un analisi neurochimica e tramite mappatura cerebrale. Attraverso diversi studi ci spiega letteralmente come un cervello innamorato sia il risultato di impulsi, coinvolga i circuiti di ricompensa e astinenza e le aree deputate al calcolo del guadagno e delle perdite, come quindi, dopamina, norepinefrina e serotonina siano i veri afrodisiaci dell’eros.

Entrando in un ambito più evoluzionistico troviamo teorie che lo vogliono spiegare come necessità inconscia volta alla preservazione della specie  oppure quelle più prettamente psiconalitiche dove:

  • si relega l’amore ad una mera compensazione di ferite infantili – M.S.Bergmann
  • teorie dell’amore narcisitico dove il soggetto è chiuso su se stesso e ricerca nell’altro solo il rispecchiamento gratificante dell’idea che ha di sé – S. Freud
  • teorie dell’amore anaclitico dove l’amante cerca nell’amato l’oggetto della sua mancanza –J. Lacan.

Chimica, evoluzione, psicoanalisi, non potranno mai spiegare fino in fondo la poetica dell’amore e soprattutto quelle dinamiche che esulano dall’ordinarietà. Come può essere possibile? Il turbinio di emozioni, questo sentimento è solo la miscela di tutte le ragioni riportate fin’ora?

Nel film ad un certo punto Jeanne Moreau canta: Le tourbillon de la vie ovvero Il vortice della vita il testo tradotto dice:

Portava un anello per ciascun dito
una montagna di braccialetti ai polsi
e poi cantava con una certa voce
che pure mi acchiappava
Aveva certi occhi certi occhi d’opale
che mi affascinavano, o se mi affascinavano
e poi c’era l’ovale di quel pallido viso
di donna fatale che fatale mi fu.
 
Ci siamo conosciuti e riconosciuti
ci siamo persi di vista, ci siamo ripersi di vista
e ci siamo ritrovati e poi riattizzati
e poi ci siamo separati
 
Ciascuno è ripartito per fatti suoi
nel vortice della vita
e poi l’ho rivista una volta di sera trallallalla
e’ un ballo famoso
 
Al suono del banjo l’ho riconosciuta
quel curioso sorriso m’aveva invaghito
la voce fatale sul viso bello e pallido
mi emozionarono più che mai
 
Mi sono stordito mentre l’ascoltavo
l’alcool fa dimenticare
mi sono svegliato e sentivo
dei baci sulla mia fronte ardente
 
Ci siamo conosciuti e riconosciuti
ci siamo persi di vista, ci siamo ripersi di vista
e ci siamo ritrovati e poi riattizzati
e poi ci siamo separati
E abbiamo continuato a girare
allacciati insieme
allacciati insieme
ci siamo riattizzati
 
Ciascuno è ripartito per fatti suoi
nel vortice della vita
E poi l’ho rivista una sera
trallallla
e mi è ricaduta tra le braccia
 
Quando ci siamo conosciuti
quando ci siamo riconosciuti
perché perdersi di vista,
perdersi ancora di vista?
 
Quando ci siamo ritrovati
quando ci siamo riacchiappati
perché separarsi?
 
Allora tutti e due siamo ripartiti
nel vortice della vita
E abbiamo continuato a girare
allacciati insieme
allacciati insieme

L’amore, la vita sono forse una serie di  momenti mancati, persone non ancora incontrate, continuo rinnovamento, rinunce, opportunità, storie belle, storie finte, illusione? Scarsa consapevolezza, contesti diversi o no, sguardi e turbamenti, dolore, felicità, rabbia, quello che mi chiedo è se davvero è cosi importante dare significato a tutto questo?

Helen Grund dice …vissuto ciecamente… e coglie nel segno, perché infondo l’amore è cieco, si affida ad altri sensi e magicamente ci fa muovere nel vortice della vita.

 

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Rubrica Tracce del Tradimento

Disturbi del sonno nell’infanzia: possibili fattori di rischio per la comparsa di futuri sintomi psicotici

FLASH NEWS

La ricerca degli ultimi anni ha messo in evidenza come il legame tra i fattori di rischio della schizofrenia e la reale comparsa di sintomi psicotici non è così forte come si pensava un tempo. Nonostante questo comunque, nell’ottica di promuovere degli interventi preventivi, è utile individuare le possibili condizioni subcliniche.

A questo proposito si è osservato come siano labili i confini tra gli incubi notturni e le esperienze psicotiche e quindi come i disturbi del sonno infantili possano essere dei potenziali fattori di rischio per la schizofrenia: difficoltà durante il riposo sono spesso riportate come segni prodromici nella storia dei pazienti con schizofrenia e rappresentano elementi predittivi dello sviluppo della psicosi nella popolazione a rischio; le allucinazioni ipnagogiche e ipnopompiche tipiche rispettivamente dell’addormentamento e del risveglio sono simili alle allucinazioni psicotiche, gli incubi e i terrori notturni sono spesso associati alla propensione alla schizotipia ed in generale alla psicopatologia.

Sulla base di tali evidenze la presente ricerca, utilizzando un campione di 4720 bambini inglesi, ha tentato di studiare la relazione tra le difficoltà del sonno, come incubi, terrori notturni e sonnambulismo nella prima infanzia (2-9 anni) e a 12 anni e la presenza di sintomi psicotici sia a 12 che a 18 anni. In particolare i disturbi del sonno tra i 2 e i 9 anni sono stati rilevati sulla base dei racconti delle madri mentre quelli a 12 anni sono stati individuati tramite l’utilizzo di un intervista semi-strutturata.

Un’ intervista semi-strutturata è stata utilizzata anche per indagare la presenza di sintomi psicotici a 12 e a 18 anni; più precisamente l’intervista ha considerato le esperienze psicotiche classiche (allucinazioni, deliri e pensiero interferente), escludendo quelle legate propriamente al sonno e agli stati febbrili, dando vita così alle condizioni “nessuna” cioè nessun sintomo psicotico né a 12 né a 18 anni, “presente” quando i sintomi psicotici sono rilevati a 18 ma non a 12 anni, “remissione” che si riferisce alla condizione in cui i sintomi erano presenti a 12 anni ma non a 18 ed infine “persistente” in cui invece le esperienze psicotiche sono descritte sia a 12 che a 18 anni. Lo studio ha inoltre considerato alcune variabili intervenienti come il QI dei bambini, la familiarità, la co-occorenza di altri disturbi psichiatrici, la presenza di depressione, l’eventualità di abusi fisici e sessuali e l’enuresi .

I risultati sostengono le ipotesi dei ricercatori, infatti hanno permesso di osservare come i bambini che presentano alterazioni del sonno nella prima infanzia e a 12 anni sono anche quelli che più degli altri manifestano esperienze psicotiche a 18 anni; tale relazione è stata rilevata in particolare nel caso di incubi e terrori notturni mentre sembra essere molto debole se non addirittura assente nel caso del sonnambulismo.

Questi risultati sono in linea con quelli ottenuti da altri studi, tuttavia rispetto ad essi la ricerca in questione presenta alcuni vantaggi come ad esempio il fatto di essere longitudinale e di prendere in considerazione un campione molto ampio di soggetti. Inoltre essa cerca di controllare alcune variabili, tra cui ad esempio le allucinazioni ipnagogiche e ipnopompiche o quelle legate agli stati febbrili, che possono viziare il legame tra le alterazioni del sonno nell’infanzia ed il rischio di sviluppare sintomi psicotici. Naturalmente la ricerca presenta anche dei limiti, infatti non considera disturbi del sonno più comuni come l’insonnia, né prende in esame altri disturbi del sonno simili agli incubi e ai terrori notturni come l’epilessia e l’apnea notturna. Dall’analisi sono escluse anche le condizioni organiche che possono causare difficoltà nel riposo, così come le esperienze psicotiche derivanti dall’uso di sostanze.

Gli autori hanno cercato anche di spiegare i risultati ottenuti. Una prima ipotesi riguarda il fatto che i confini tra lo stato di veglia e di sonno in alcuni pazienti psicotici possono essere labili, in quanto essi mentre sono svegli spesso vivono dei brevi intervalli di sonno REM e, poiché il sonno REM è la fase del sonno in cui normalmente compaiono gli incubi, la conseguenza è che i pazienti vivono delle esperienze allucinatorie durante la veglia. Inoltre tra gli incubi e i sintomi positivi della schizofrenia sembrano esserci dei pattern neurochimici e neurofisiologici simili, infatti i livelli di dopamina aumentano sia durante gli incubi sia durante i cicli del sonno dei pazienti psicotici.

Infine un’altra possibile spiegazione riguarda le esperienze traumatiche, infatti si è osservato che vivere degli eventi particolarmente stressanti possa causare la comparsa sia di incubi notturni (gli incubi ricorrenti che ripropongono il trauma vissuto è uno dei sintomi caratteristici del disturbo post traumatico da stress) che di sintomi psicotici. Tuttavia solo un soggetto tra quelli considerati dalla ricerca aveva ricevuto una diagnosi di DPTS, per cui quest’ultimo aspetto non è stato sufficientemente approfondito.

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BIBLIOGRAFIA:

Un bambino in “overdose” – VIDEO –

Il protagonista del video è un bambino di dieci anni che esegue quotidianamente un programma serrato di attività extra-scolastiche: lezione di tennis, nuoto, pittura, pianoforte. Le attività sono tutte individuali, il bambino è ritratto sempre da solo e non ha la possibilità di coltivare relazioni amicali, poiché non sono contemplati momenti di gioco libero non strutturato.

Il bambino si reca ai vari appuntamenti in modo ripetitivo e automatico, spinto dalle aspettative genitoriali che lo ritraggono in un futuro di successi e premiazioni.

I giorni scorrono velocemente e a un ritmo sempre più incalzante, tanto da portare il bambino in una sorta di stato confusionale: si presenta sul trampolino della piscina con la racchetta da tennis e a scuola con un casco sulla testa.

Nel video non sono presenti dialoghi tra i personaggi, ma le immagini sono così esplicite da far risaltare la condizione di esaurimento fisico e mentale in cui si ritrova il bambino.

Il titolo del video, “Overdose”, è significativo e fa riferimento alla condizione estrema che rischiano di raggiungere i bambini quando vengono stimolati in modo esasperato.

 

Per la realizzazione del cortometraggio, l’autore francese Cloude Cloutier si è ispirato agli articoli 12 e 31 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, tra i quali sono considerati imprescindibili il diritto al riposo e ai piaceri del divertimento.

 

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Dal senso di colpa alla colpa – Introduzione alla Psicologia Nr. 17

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (17)

 

 

Esattamente per colpa si intende il continuo ripensare a come sarebbe potuto andare una situazione diversamente da come si è svolta. Quindi, è un continuo riportare il passato nel presente.

 

Spesso si è addolorati da cose che avremmo potuto fare e che per varie vicissitudini non abbiamo fatto. In questi casi l’emozione che si prova è la colpa. La colpa è un’emozione che scaturisce da un evento passato, di conseguenza il processo che la determina e la mantiene è la ruminazione. Coloro che sono afflitti da senso di colpa cronico sono inglobati totalmente in questo stato negativo fino a inficiare la propria vita relazionale e sociale.

Esattamente per colpa si intende il continuo ripensare a come sarebbe potuto andare una situazione diversamente da come si è svolta. Quindi, è un continuo riportare il passato nel presente tramite immagini e pensieri legati all’evento. Tutto questo ruminare porta a staccarsi dalla realtà e a non godere a pieno della quotidianità.

Chi prova colpa prende decisioni importanti sulla scia di questa emozione negativa e relega la propria vita a sottostare a questa emozione. I pensieri di chi è in colpa sono del tipo: non riesco a perdonarmi per quello che ho fatto, per questo mi sento una brutta persona e non merito nulla di buono.

La colpa è un’emozione, avente come scopo il mettere in guardia dagli eventi. Se si cronicizza, diventa patologica e a questo punto bisogna mettere in discussione il modo di affrontare le situazioni e, soprattutto, i pensieri e i comportamenti, assumendosi se necessario le proprie responsabilità.

Spesse volte, però, non si tratta di vera e propria colpa, ma di un qualcosa che si chiama senso di colpa. Il senso di colpa si distingue dalla colpa perché ci annuncia che le cose potrebbero non andare come vorremmo, ma ancora non si è certi di come possano concludersi. È una sorta di stato anticipatorio della colpa vera e propria. Mentre, la colpa si manifesta a cose avvenute, quando non c’è più nulla da fare.

Solo a questo punto, quando il senso di colpa si trasforma in colpa vera e propria e non è possibile rimediare all’accaduto, l’emozione negative invade e pervade tutto.

In ogni caso si tratta di emozioni che hanno a che fare con la sfera della moralità, e potrebbe in estrema ratio sfociare in vergogna fino a quando non si pone rimedio al fattaccio. Molto spesso, non è possibile rimediare e a quel punto l’unica cosa da fare è accettare quanto accaduto senza ulteriori ruminii.

Prima di arrivare all’accettazione, però, è necessario gestire l’emozione negativa familiarizzando con essa, conoscendola e cercando di capire cos’è e come agisce.

Tutto questo, è indubbiamente molto difficile da attuare, perché riconoscere la colpa significa prendere atto delle proprie debolezze e quindi mettere in dubbio il proprio senso di autoefficacia.

Inoltre, la colpa può celare un senso di onnipotenza o perfezione (è tutta colpa mia!), attuata attraverso un eccessivo controllo sulla realtà. Tutto questo induce gli altri a esercitare potere perché facendo leva sul senso di colpa tengono sotto scacco fino a portare il mal capitato nel baratro della colpa.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La dipendenza dalla pornografia e le conseguenze sul cervello

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 31/05/2015

 

L’individuo porn addicted, lungi dall’avere più desiderio, è desensibilizzato e abbisogna di stimoli erotici più forti e intensi del normale per eccitarsi davvero. Cosa lo spinge, allora? Una vera dipendenza tutta mentale nella quale la persona sente dolorosamente la mancanza di eccitazione e se la procura artificialmente.

L’evoluzione non ci ha preparato alla pornografia di massa, alla larga disponibilità online di video erotici e pornografici raggiungibili con un clic, e gratuitamente. È tutto a portata di mano (dato l’argomento, arriva inevitabile il volgare gioco di parole) e non è più necessario nemmeno pagare, iscriversi e rilasciare il numero della propria carta di credito a inaffidabili fornitori. Tutto è gratuito.

Meglio sarebbe dire, però che l’evoluzione non ci prepara mai a qualcosa. C’è questa visione teologica dell’evoluzione come una divinità buona che ci ha forgiato nell’abisso del tempo. Singolare teleologia in cui l’evoluzione prende il posto di Dio e ci crea perfetti e capaci di affrontare tutti i pericoli della natura, ma non quelli della tecnologia. Meglio sarebbe dire che in sé l’evoluzione non prepara nessun animale a un bel nulla ed è semmai essa stessa il frutto della selezione operata dagli ostacoli del passato, che sono diversi da quelli del futuro, i quali opereranno a loro volta le loro selezioni ed evoluzioni.

Detto questo, torniamo al porno. La sua diffusione di massa è un fenomeno nuovo. Sicuramente non siamo preparati, reagiamo in maniera imprevedibile a questa larga offerta di corpi nudi e atti sessuali filmati in tutte le fogge possibili.

Reagisce in maniera imprevedibile il nostro cervello, e i risultati non sono piacevoli. Regredisce la materia grigia nel corpo striato, dove risiede la nostra facoltà di provare soddisfazione nonché quella di prendere decisioni. Diventiamo così confusi, indecisi e desensibilizzati. Diventano necessarie dosi sempre più massicce di stimoli erotici per eccitarci, e preferiamo sempre di più che queste dosi siano somministrate nella forma virtuale del porno a scapito dell’eccitazione reale e corporea, che avviene in maniera tattile e non solo visiva.

Questi dati avvalorano l’ipotesi che la dipendenza da sesso, la sex addiction, esista davvero. Non si tratta soltanto di desiderio più elevato, ma di vera droga: ci sono fenomeni di abituazione e assuefazione. L’individuo porn addicted, lungi dall’avere più desiderio, è desensibilizzato e abbisogna di stimoli erotici più forti e intensi del normale per eccitarsi davvero. Cosa la spinge, allora? Una vera dipendenza tutta mentale nella quale la persona sente dolorosamente la mancanza di eccitazione e se la procura artificialmente.

Le capacità di autocontrollo, la cosiddetta willpower, in italiano semplicemente forza di volontà, ovvero la capacità di decidere dove concentrare la nostra attenzione e di spostarla su obiettivi diversi da quelli più immediatamente attraenti a favore di altri che ci offrono vantaggi meno subitanei ma alla lunga più appaganti, ne rimane a sua volta danneggiata. Diventiamo dei topolini impazziti incapaci di fare scelte sensate e che non siano rapide e impulsive.

C’è di peggio. Il tutto può sfocare in ipofrontalità, in una riduzione delle dimensioni e delle funzioni della corteccia cerebrale frontale, la sede delle nostre funzioni più consapevoli e razionali. La capacità di valutare i rischi, di concepire piani d’azione a lungo termine e controllare gli impulsi sono tutte funzioni frontali. La corteccia prefrontale è l’elemento cerebrale che maggiormente ci differenzia dagli animali senzienti ma non raziocinanti. In essa trova sede la capacità di mediare tra pensieri in conflitto, regolare il comportamento, scegliere tra il bene e il male. È la sede del pensiero astratto, dell’azione motivata, dell’attenzione prolungata e consapevole, del pensiero riflessivo e dell’inibizione delle risposte impulsive. Danneggiare questa corteccia non sembra precisamente un buon affare.

Il quadro è abbastanza deprimente e pericolosamente vicino a quello dipinto da qualche signora bene e un po’ bigotta che ci ammonisce sul rischio di diventare ciechi se ci abbandoniamo alla masturbazione. Fatto sta che questa è la scienza, signori, e non la ristretta saggezza borghese della zia zitella. La quale non ha peraltro del tutto torto. Non diventiamo ciechi ma sicuramente un po’ impotenti.

Insomma gli occhi continuano a funzionare, ma chi funziona un po’ meno è “lui”, probabilmente condannato a pendere triste come una biscia innocua e priva di mordente. I dati ci dicono che c’è una correlazione diretta tra abuso di pornografia online e disfunzione erettile. Meglio andarci piano col porno.

 

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Neuroscienze e pornografia: le scansioni cerebrali di come si modifica il cervello

 

BIBLIOGRAFIA:

Indagine su un’epidemia. Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci – Recensione

Robert Whitaker si distingue da altre voci, compiendo un’analisi davvero attenta della pratica clinica psichiatrica americana, studiando a fondo la letteratura scientifica e intervistando medici e pazienti.  Al centro dell’inchiesta, come principali indiziati, ci sono loro, gli psicofarmaci, croce e delizia di ogni psichiatra.

Durante la specializzazione in psichiatria, mi ci è voluto un po’ di tempo per rendermi conto che è raro che gli psichiatri facciano una qualche lettura critica. 

E’ quanto sostiene nell’introduzione di un capitolo il Professore di Psichiatria texano Colin Ross.

Credo che il termine lettura critica sia particolarmente azzeccato per questo libro scritto da un giornalista americano (una sorta di Gabanelli d’Oltreoceano…), specializzato in inchieste sulla salute mentale. Non che nel mondo manchino le critiche alla psichiatria (si pensi ai tentativi di sabotaggio a scopo di lucro di Scientology o ai più romantici movimenti antipsichiatrici), ma Robert Whitaker si distingue da altre voci, compiendo un’analisi davvero attenta della pratica clinica psichiatrica americana, studiando a fondo la letteratura scientifica e intervistando medici e pazienti.  Al centro dell’inchiesta, come principali indiziati, ci sono loro, gli psicofarmaci, croce e delizia di ogni psichiatra.

Il libro parte proprio con la storia della scoperta e della diffusione delle medicine per la psiche. Chi lavora in psichiatria sa che per valutare ogni intervento terapeutico è assolutamente necessario conoscere la storia del paziente e, allo stesso modo, conoscere la storia delle armi usate nella cura può avere sicuramente un suo senso.

Viene messo in evidenza come gli effetti psicotropi delle principali medicine utilizzate nella pratica clinica (neurolettici, benzodiazepine, antidepressivi) siano state scoperte più o meno per caso (come gli antibiotici in realtà) e non da una ricerca basata su ipotesi precise sul funzionamento o malfunzionamento del cervello. Questo fatto getta un’ombra sulla reale possibilità di conoscere davvero a fondo il loro meccanismo d’azione, gli effetti terapeutici e i possibili effetti collaterali a lungo termine, ma soprattutto fa fortemente traballare il modello meramente biologico della malattia mentale, che prevede che i disturbi siano il frutto di squilibri biochimici completamente correggibili farmacologicamente.

In base all’analisi compiuta sulla letteratura, l’autore non nega che gli psicofarmaci siano utili o addirittura indispensabili nelle fasi acute del disagio psichico, ma mostra come un loro uso troppo prolungato possa contribuire alla cronicizzazione del quadro morboso, con una paradossale maggiore facilità di ricaduta nella malattia.

Su questo punto si potrebbe obiettare che l’autore è un giornalista e non è un ricercatore specializzato nell’analisi di studi sull’efficacia dei farmaci, ma i dati che presenta sono comunque impressionanti, soprattutto per quanto riguarda la risposta al placebo negli studi controllati randomizzati, che non si discosta poi di molto dall’efficacia del farmaco (tipo risposta al placebo 31%, risposta al farmaco 41%). Nel libro viene anche raccontata la strana epidemia del disturbo bipolare che si è manifestata negli ultimi anni (anche da noi in Italia ha colpito alcune prestigiose Scuole di Specializzazione in psichiatria).

L’aumento di queste diagnosi potrebbe essere legato ad un uso eccessivo di antidepressivi (soprattutto tra gli anni ottanta e novanta, sull’onda dell’entusiasmo per l’immissione sul mercato degli SSRI), ma non si può neanche escludere che le stesse case farmaceutiche, per favorire la prescrizione di neurolettici di nuova generazione (che chiaramente trovano indicazione nel disturbo bipolare) abbiano incoraggiato tramite laute ricompense e regalini vari gli opinion leaders della psichiatria a divulgare l’epidemia, che non risparmia neanche i minorenni. Alcuni capitoli sono infatti dedicati all’aumento esponenziale delle diagnosi di disturbo bipolare e depressione nei bambini e negli adolescenti, diventati forti consumatori di antidepressivi, e alla dilagante epidemia dell’ADHD, per il quale si prescrive il metilfenidato (amfetamina stimolante), che può indurre a sua volta stati psicotici e maniacali.

L’autore racconta poi alcune storie di pazienti che testimoniano come abbiano tratto beneficio dalla sospensione dei farmaci e parla ampliamente degli studi del dottor David Healy, controverso psichiatra gallese, che tra i primi ha giustamente lanciato l’allarme del possibile aumento del rischio suicidiario legato all’assunzione di antidepressivi (minando una sfolgorante carriera accademica, ma ottenendo che il rischio sia stato segnalato sul bugiardino).

Certi estremismi prescrittivi e altri aspetti della situazione clinica descritta da Whitaker (come il sistema sanitario assicurativo e la questione dell’invalidità dilagante per disturbi depressivi) paiono comunque molto legati alla realtà americana, tanto che alla fine del libro come esempio di psichiatria più umana viene portato quello di una comunità terapeutica finlandese, in cui i farmaci vengono usati quando servono e si lavora molto a livello psicoterapico e interpersonale. Una volta tanto che non dobbiamo imparare tutto dagli americani!

 

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BIBLIOGRAFIA:

Binge Eating Disorder: il grasso come mezzo di comunicazione

 Giorgia Vacchini

Il BED, Binge Eating Disorder (American Psychiatric Association). Traducendo il termine in italiano facciamo riferimento al comportamento delle abbuffate, di un’alimentazione che è quindi incontrollata.

Si tratta di una condizione di grave sovrappeso causato da fattori psicologici in assenza di cause mediche o genetiche.

Quando parliamo di Disturbi del Comportamento Alimentare siamo soliti pensare all’anoressia, a corpi magri ed emaciati per le eccessive restrizioni ed esercizi fisici che mirano alla perdita di peso, difficilmente ci vengono in mente corpi enormi e grassi.

All’interno della categoria rientra però anche un altro tipo di disturbo: il BED, Binge Eating Disorder (American Psychiatric Association). Traducendo il termine in italiano facciamo riferimento al comportamento delle abbuffate, di un’alimentazione che è quindi incontrollata. Si tratta di una condizione di grave sovrappeso causato da fattori psicologici in assenza di cause mediche o genetiche.

Che cosa fanno in concreto coloro che soffrono di questo problema? Possiamo dire che mangiano in un periodo di tempo circoscritto, in mezz’ora circa, una quantità di cibo molto superiore a quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso periodo di tempo. I soggetti perdono il controllo sull’atto di mangiare, riferiscono ad esempio di non riuscire a smettere, di non riuscire a controllare cosa e quanto stiano mangiando.

Gli episodi di abbuffate compulsive sono associati ad almeno tre dei seguenti caratteri:

– Mangiare molto più rapidamente del normale;

– Mangiare fino ad avere una sensazione dolorosa;

– Mangiare grandi quantità di cibo pur non sentendo fame;

– Mangiare in solitudine a causa dell’ imbarazzo per le quantità di cibo ingerite;

– Provare disgusto di sé, intensa colpa o disagio dopo aver mangiato troppo;

Non vengono usati comportamenti compensatori come ad esempio il vomito autoindotto.

I pazienti che ho incontrato e che lamentano questo comportamento raccontano ovviamente storie diverse, sofferenze diverse che li portano ad abbuffarsi e a stare male, a vivere emozioni contrastanti.

 

Ma quale significati assume il grasso del quale si caricano?

Per alcuni è un mezzo di difesa, un muro oltre il quale non si può andare, rappresenta quindi una sorta di barriera protettiva per il soggetto che si sente al riparo dagli altri. Spesso un corpo grasso e poco attraente viene evitato, le persone si privano così anche di aspetti legati alla sfera relazionale e sessuale.

In situazioni diverse il cibo viene usato per colmare un vuoto, per riempirsi e sentire di esistere, attraverso di esso ci si può finalmente sentire “una persona di peso” che ha una posizione e un ruolo, che grazie alla sua massa enorme finalmente viene vista dagli altri.

Ancora, il cibo può essere usato come strumento di autoaggressione, di punizione: l’iperalimentazione suscita fantasie distruttive, si mangia fino a voler scoppiare e stare male.

Se le storie sono diverse e il grasso viene “usato” per motivi diversi ho potuto constatare che c’è qualcosa che ritorna all’ interno delle narrazioni di questo tipo di persone. Si definiscono perdenti e non hanno stima di sé, all’interno delle proprie famiglie sono etichettati e si percepiscono come falliti e succubi, davanti alle sfide della vita preferiscono scegliere la resa, le emozioni che li caratterizzano sono la vergogna e l’inadeguatezza (Ugazio, 2012).

Due sono le idee che guidano quotidianamente il mio lavoro:

La prima è l’idea che ogni comportamento sia una comunicazione, un messaggio per qualcuno (Watzlawick, Beaven, Jackson, 1971).

In questo caso il corpo è il mezzo di comunicazione per eccellenza. Coloro che soffrono di un disturbo del comportamento alimentare come quello che ho descritto assumono il peso di una posizione che li ha resi visibilmente invisibile, in altri termini ciò che si vede è sempre più il grasso e sempre meno la persona.

La seconda idea che guida il mio lavoro è che i sintomi, o comportamenti definiti problematici, siano la soluzione migliore che la persona ha trovato per poter risolvere un altro problema (Gandolfi & Martinelli, 2008).

Per meglio comprendere questo aspetto faccio riferimento ad alcuni studi pionieristici nell’ambito dell’obesità infantile (Molinari, Genchi,Valtorta, Compare,2012).

I bambini obesi con condotte di alimentazione incontrollata provengono spesso da famiglie in cui è avvenuta una separazione difficile o un lutto, ad esempio di un genitore. Il bambino con il suo corpo grasso, se da una parte presentifica il genitore assente (nella maggior parte dei casi anche esso obeso), dall’altra parte sposta l’attenzione su di sè e la distoglie dal problema della separazione o lutto del quale non si può parlare.

Nella maggior parte dei casi i contesti dai quali provengono questi bambini sono poveri dal punto di vista comunicativo, l’unico modo per comunicare è quindi attraverso il corpo. Mentre per l’anoressia e la bulimia l’età di insorgenza è intorno ai 12-18 anni, i dati ci dicono che si sta abbassando in riferimento al BED; è possibile trovare già bambini di 7 anni con questo problema.

Che cosa fare?

Come gli altri Disturbi del Comportamento Alimentare, anche il BED, necessita di un intervento multidisciplinare che coinvolga medico, dietista e psicologo. Trascurare l’importanza della psicoterapia è un grave errore, perché l’attenzione si concentra sugli effetti invece che sulla causa del problema e le ricadute in questo caso non sono infrequenti.

La terapia della famiglia sembrerebbe il trattamento d’elezione per le problematiche di minori: i bambini non chiedono aiuto a uno psicologo, il loro universo affettivo è rappresentato dalla famiglia, dipendono in tutto dai genitori; la scelta più ovvia sarebbe affrontare i problemi nel loro contesto familiare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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