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L’ansia e le sue manifestazioni – Introduzione alla psicologia NR. 14

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (14)

 

 

L’ansia è un’emozione preventiva, poiché ci mette in guardia circa i possibili pericoli che potrebbero verificarsi da un momento all’altro. L’ansia, però, è anche una emozione reattiva, perché prepara all’azione aumentando i livelli di performance.

 

Esistono periodi di vita in cui si è assaliti costantemente dalla tensione al punto da terminare le risorse fisiche e cognitive disponibili, note fonti di fronteggiamento di situazioni a forte stress. Quando viviamo queste situazioni siamo costantemente in allerta, quindi siamo in ansia.

L’ansia è un’emozione preventiva, poiché ci mette in guardia circa i possibili pericoli che potrebbero verificarsi da un momento all’altro. Per questo è necessario essere guardinghi di fronte agli eventi ritenuti pericolosi, presunti o reali, che potrebbero palesarsi anche senza nessun preavviso.

L’ansia, però, è anche una emozione reattiva, perché prepara all’azione aumentando i livelli di performance.

Quindi, se l’ansia dura il tempo necessario ad affrontare una prestazione, è funzionale e adattiva e ci aiuta a perseguire al meglio l’obiettivo. Quando, invece, l’ansia perdura, supera una certa soglia e comincia ben prima di effettuare un compito mantenendosi nel tempo, allora diventa problematica o patologica. Succede che l’eccessiva ansia porta a superare il proprio autocontrollo, passando a una situazione altamente disfunzionale, perché si rimugina costantemente.

La sintomatologia con cui l’ansia si manifesta, può essere:

  • Fisica: tachicardia, aritmie, bocca asciutta, nausea, diarrea, stipsi, vampate di calore, vertigini, tensioni muscolari, nodo alla gola, palpitazioni, sudorazione, dispnea, sensazione di soffocamento, tosse, gonfiore addominale, difficoltà di minzione, perdita di desiderio sessuale, astenia, eruzioni, assenza di appetito, affaticamento e macchie cutanee, prurito;
  • Psichica o Cognitiva: disturbi dell’addormentamento, Insonnia, difficoltà di concentrazione, irritabilità, nervosismo, paure di non riuscire a farcela, di morire, di perdere il controllo, apprensione, incapacità a rilassarsi, emicrania, perdita di equilibrio e incoordinazione motoria.

Le persone affette da ansia patologica, invasiva in ogni campo, sono costantemente tese e impaurite, perché si preoccupano anche di un nonnulla e pensano che la catastrofe sia sempre dietro l’angolo.

Per questo evitano impegni relazionali, sociali, lavorativi e sentimentali, fino a rinunciare a vivere.

L’ansia, a questo punto, diventa insostenibile e angosciante limitando gravemente la vita quotidiana.

L’ansia è l’emozione comune a molti disturbi, ognuno dei quali ha caratteristiche sintomatologiche proprie. I principali sono:

  • Disturbo d’attacco di panico
  • Disturbo d’ansia generalizzata
  • Disturbo ossessivo-compulsivo
  • Disturbo di ansia sociale
  • Fobie specifiche
  • Disturbo da stress post-traumatico
  • Disturbi dell’alimentazione

Per concludere, i disturbi d’ansia possono essere curati ottenendo ottimi risultati che si mantengono stabili nel tempo. I trattamenti più diffusi sono la psicoterapia cognitivo-comportamentale coadiuvata, in alcuni casi, dall’assunzione di una terapia farmacologica con ansiolitici e antidepressivi.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Effetti persistenti del trauma: i meccanismi ormonali e molecolari – Report dal Convegno SOPSI

Il trauma è la reazione ad un evento che interrompe la continuità esistenziale, un’esperienza in cui il soggetto avverte una minaccia alla propria vita o alla vita di quelli che lo circondano, senza la possibilità di fronteggiarla.

Ormai è noto che trauma e stress sono due fenomeni distinti. Nella vita quotidiana viviamo molti eventi stressanti, sono parte della nostra esistenza, ad esempio un trasloco o il matrimonio, ma le conseguenze sull’ organismo sono a breve termine, gli effetti dello stimolo stressante (stressor) terminano quando cessa lo stimolo. Diversamente il trauma è la reazione ad un evento che interrompe la continuità esistenziale, un’esperienza in cui il soggetto avverte una minaccia alla propria vita o alla vita di quelli che lo circondano, senza la possibilità di fronteggiarla. Gli effetti del trauma non terminano quando l’esperienza traumatica si conclude e possono durare anche tutta la vita.

La ricerca negli ultimi trent’anni ha cercato di rispondere alla domanda se gli effetti a lungo termine siano una continuazione della risposta o qualcosa di diverso. Dall’esperienza clinica sappiamo che il trauma opera una trasformazione profonda nel superstite, di tipo persistente e perdurante. I paradigmi classici dello stress non sono d’aiuto per spiegare questi processi. Grazie alla biologia molecolare e all’epigenetica ovvero lo studio delle alterazioni genetiche che modificano il funzionamento del gene stesso, abbiamo scoperto che il trauma influenza il DNA, l’espressione genica, la struttura cerebrale, gli ormoni, la cognizione, la personalità, il comportamento e le future risposte allo stress.

E’ solo a partire dagli anni Ottanta che si incomincia a parlare di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD): un disturbo in cui gli effetti dello stress perdurano in assenza dello stressor. Le conoscenze che si hanno sul trauma fino a quel momento provenivano dalla cura dei reduci del Vietnam. Con l’apertura dell’ambulatorio per il trattamento dei PTSD presso il Mount Sinai Hospital di New York nel 1983, iniziano ad arrivare all’attenzione clinica della dr.ssa Yehuda e della sua equipe, i superstiti dell’Olocausto, ma anche i loro figli, questi ultimi presentavano sintomi riconducibili a un trauma come flashback, incubi, problemi relazionali e la pressione a dover compensare le perdite subite dai genitori. I sintomi, non venivano collegati direttamente, dai soggetti, con l’ Olocausto. Al contrario, riferivano che l’argomento era spesso oggetto di tabù nelle famiglie. Secondo i pazienti l’origine dei loro problemi era attribuibile all’ essere stati allevati da persone “danneggiate”, con problemi mentali.

Gli studi condotti sui superstiti e la loro prole confermano l’esperienza clinica: se è vero che non tutti quelli esposti al trauma sviluppano un PTSD è ormai accertato che gli effetti di un trauma possono essere intergenerazionali. Fino al 1983 la letteratura su ebrei e olocausto non si soffermava sulle conseguenze che l’esperienza aveva sulle generazioni successive, pochi erano gli studi in cui si sottolineava un legame tra l’essere sopravvissuti all’Olocausto e lo sviluppo di un PTSD, dalla letteratura emergeva solo la resilienza di questi superstiti e il successo sociale e lavorativo delle generazioni successive. La professoressa Yehuda ipotizza che, per gli ebrei, condividere quel dolore e i danni psicologici derivanti dall’internamento, avrebbe potuto costituire un’altra vittoria per il nazismo, la cosiddetta “politica della vittimizzazione”. Ma non si può lodare SOLO la resilienza, minimizzando le cicatrici che il trauma lascia.

Da allora sono state condotte diverse ricerche sui figli dei superstiti all’Olocausto. I quesiti a cui hanno cercato di rispondere la professoressa Yehuda e la sua equipe sono diversi: i figli dei superstiti vanno incontro a più disturbi mentali rispetto la popolazione generale? La vulnerabilità ai disturbi psichiatrici è qualcosa che viene trasmesso ai figli biologicamente oppure è il comportamento di questi genitori che ha modificato il genotipo dei figli rendendoli più vulnerabili verso le malattie mentali? Un trauma può portare modificazioni biologiche nel figlio, anche se non sono manifestate nel genitore?

I risultati delle ricerche sembrano confermare che i figli dei sopravvissuti all’Olocausto sono stati influenzati in molti modi dall’esperienza dei genitori.

Da uno studio condotto dalla dr.ssa Yehuda nel 1998 la probabilità di PTSD nei figli dei superstiti risulterebbe tre volte maggiore e presenterebbero una probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia maggiore del 50% rispetto alla popolazione generale. In un altro studio condotto in Ohio, su un gruppo di superstiti all’Olocausto, è stata rilevava una prevalenza del 50% di PTSD a 50 anni dall’evento, ma diversamente ai risultati del 1998, i figli di questi sopravvissuti presentavano il disturbo solo se uno dei due genitori aveva la stessa diagnosi, con un tasso di corrispondenza del 100%.

Per cercare di capire se le risposte acute al trauma sono universali o dipendono anche da caratteristiche soggettive, la dr.ssa Yehuda ha studiato i livelli di cortisolo in soggetti con PTSD. Il cortisolo è un ormone glucocorticoide, prodotto dalle ghiandole surrenali ed è coinvolto nel contenimento della risposta allo stress di tipo adrenalinico. Le ricerche hanno effettivamente mostrato una disregolazione in soggetti con PTSD dell’asse ipotalamico, da cui dipende il rilascio di questo ormone. In uno studio del 1998 è emerso che più bassi livelli di cortisolo dopo un trauma correlano con l’esordio del PTSD, perché non essendo contenuto l’arousal dal cortisolo, lo stato di eccitazione del sistema nervoso perdura nel tempo. I livelli di cortisolo nei campione testato sono stati significativamente più bassi, rispetto al campione di controllo (soggetti che avevano subito un trauma, ma non avevano sviluppato il PTSD). Nel 2000 lo stesso studio è stato replicato sui discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto: anche questi soggetti mostravano livelli più bassi di cortisolo anche senza PTSD, ma solo nel caso in cui il genitore aveva avuto un PTSD.

I soggetti testati nelle interviste cliniche riferivano di essersi sentiti trascurati durante l’infanzia, un dato che in letteratura risulta essere associato a livelli di cortisolo più bassi. Per stabilire quanto i livelli di cortisolo siano influenzati dall’esposizione all’ambiente (cioè un genitore con disturbo mentale) o siano dovuti ad un’alterazione biologica, la dr.ssa Yehuda ha condotto uno studio dopo la caduta delle Torri Gemelle su un campione di donne incinte. In follow up a 7 mesi dal parto i neonati di madri che avevano sviluppato un PTSD dopo l’11 settembre, avevano più bassi livelli di cortisolo. Ne deriverebbe che secondo questo studio il trauma influenza i figli prima della nascita.

Nel 2015 uno studio prospettico su superstiti dell’Olocausto e sopravvissuti all’11 settembre ha cercato di stabilire se il fenotipo per il PTSD sia trasmesso solo dalla madre o anche dal padre. I risultati mostrerebbero che effettivamente il fenotipo è diverso a seconda che il PTSD lo abbia la madre o il padre.

Le conclusioni a cui i ricercatori sono arrivati è che nello sviluppo di un PTSD abbiano un ruolo preponderante i meccanismi epigenetici, più che quelli genetici, non essendovi differenze a livello cromosomico, ma solo nella programmazione dei glutocorticoidi e che la programmazione epigenetica avvenga già nell’utero. Da ciò, conclude la dr.ssa Yehuda, non si sottintende che la madre abbia tutte le responsabilità, ma che anche il padre influisce nella trasmissione epigenetica, solo in maniera diversa, tramite meccanismi di modellamento durante lo sviluppo del bambino.

Questi studi si sono rivelati essenziali per la comprensione dei meccanismi alla base del trauma, mettendone in luce la natura epigenetica. Riuscire a capire l’interazione tra biologia ed esposizione ambientale potrebbe essere la chiave per definire il trattamento del disturbo in maniera più efficace.
Non possiamo cambiare il nostro DNA, ma possiamo cambiare il modo in cui funziona.

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Burnout: Stress lavorativo cos’è, da cosa è causato e quali conseguenze comporta

OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Cosa si intende con la parola “Stress”?
Una completa definizione potrebbe essere la seguente: “Reazione interna a stimoli interni ed esterni che producono un’attivazione fisiologica e uno sforzo emotivo, che mettono in moto risposte cognitive o comportamentali” (Westen, 2002).

Non si tratta di qualcosa di piacevole in quanto lo stress viene dalla persona percepito come qualcosa dalla difficile gestione, che compromette tranquillità ed equilibrio, causando poi una reazione sgradevole.
La cosa potrebbe essere anche abbastanza gestibile se lo stress facesse la sua comparsa in situazioni impreviste o comunque isolate dal quotidiano. Questo perché in tali casi si tratterebbe di fenomeni sporadici, e che stressano raramente. Di contro viene generalmente percepito come un autentico problema se a stressarci fossero le situazioni di routine, quegli eventi che fanno parte della quotidianità, che si è costretti ad affrontare per forza, dai quali diviene difficile sottrarsi.

Una di queste situazioni (di routine, frequenti e necessarie) potrebbe essere il lavoro.
Osservando le statistiche degli ultimi anni emerge che circa un lavoratore su quattro dell’Unione Europea soffre di stress legato all’ attività lavorativa (Eurostats Statistics, 2004).
Questi dati non sono trascurabili, e infatti tale questione è stata considerata meritevole di una regolamentazione negoziale definita a livello europeo e nazionale.

La normativa di riferimento, riguardante la valutazione dei rischi da stress, è il nuovo D. lsg 81 introdotto nell’Aprile 2008, il quale sancisce l’obbligo per il datore di lavoro, a tutela della salute dei lavoratori, di valutare i rischi da stress lavoro – correlato (Deitinger e all, 2009).
Questo però non sempre avviene, o meglio non avviene in misura articolata e soddisfacente, soprattutto nel contesto della nostra nazione (Galli, Mencarelli, 2011).
Ciò è in parte anche dovuto al fatto che, una volta appurato che il personale lavorativo è stressato, si tende spesso a intervenire al fine di risollevarsi dalle tensioni presenti, senza analizzare bene quelle che sono le reali cause che determinano stress. Detto in termini più semplici: non vi è un’adeguata prevenzione.

È inoltre da tener presente che spesso il cosiddetto stress viene concepito come un qualcosa di positivo, uno stimolo insomma. Questo perché lo stesso lavoratore, osservandosi a posteriori dopo aver superato la fase stressante, percepisce lo stress come un elemento importante che gli è in parte servito ad avere la carica giusta per dare il meglio di sé.
Di certo lo stress è fondamentalmente una stimolazione, e in termini di adattamento è funzionale e necessario; è la forza motrice che ci porta all’ azione senza la quale saremmo inermi e passivi (Galli, Mencarelli, 2011).
Ciò che invece è nocivo è lo stress prolungato, il cosiddetto “stress cronico”.
Volendo fare un’accurata analisi è possibile asserire che lo stress è un vero processo, e si articola in fasi (Bonetti, 2011). Tre passaggi, e nello specifico:

Allarme: l’organismo viene stimolato e si attivano dunque una serie di processi psicofisiologici (quali potrebbero essere la tachicardia, l’affanno).
Resistenza: l’organismo, percepiti i campanelli d’allarme, tenta di adattarsi e prova a normalizzare i sintomi fisiologici.
Esaurimento: se lo stimolo stressante persiste, nonostante i tentativi di fronteggiarlo, ne viene fuori uno squilibrio psicofisico, e la naturale capacità di adattamento viene a mancare.

In ambito lavorativo lo stress viene considerato come una difficoltà di adattamento reciproco, tra l’individuo e l’organizzazione, che comporta uno squilibrio tra le richieste organizzative e le risorse personali del soggetto di affrontarle.
Volendo dare una definizione più precisa, lo stress dovuto al lavoro è un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore (Minchie, 2002).

Quali potrebbero essere le cause che scatenano tale processo sul luogo del lavoro?
Non vi sono dei veri e propri fattori causali, in quanto ogni situazione va considerata in relazione con le peculiarità personologiche di ogni singolo individuo, poiché ciascuno di noi attribuisce ad ogni evento un significato soggettivo.
Comunque varie ricerche hanno messo in luce una serie di fattori scatenanti (Falco e all, 2010). Questi i principali:
Mole di lavoro eccessiva: se la quantità di lavoro è massiccia, il tempo per svolgere le varie mansioni è di conseguenza insufficiente. Ciò potrebbe causare stato di tensione o compiti svolti in modo sommario.
Incertezza nei ruoli ricoperti: ciò riguarda soprattutto quei casi in cui vi sono più persone a lavorare tra loro. Un’incertezza nei ruoli assunti potrebbe causare un’assenza di punti di riferimento a cui rivolgersi per le varie evenienze. Se gli incarichi non sono ben definiti la situazione lavorativa potrebbe non essere chiara, e l’andamento lavorativo risulterebbe poco lineare. A risentire poi le conseguenze di ciò sarebbe l’efficienza dell’intero gruppo di lavoro.
Pressione da parte dei superiori: spesso in un ambiente lavorativo c’è qualcuno al vertice che assume un certo potere e che non sostiene i propri dipendenti, bensì li critica incrementando stati conflittuali. Le critiche potrebbero essere nocive al lavoratore, in quanto potrebbero condurre a un calo dell’autostima, poiché viene in questo modo sminuito il valore personale.
Conflittualità con i colleghi: ciò incrementa tensioni relazionali sul luogo del lavoro che ostacolano la cooperazione. Senza tralasciare il fatto che i lavoratori potrebbero assentarsi o incrementare assenteismi al fine di evitare litigi.
Ambiente di lavoro inadeguato e poco confortevole: le attrezzature lavorative poco adatte sono scomode e rallentano il lavoro. Tenendo inoltre presente che abbassano il tono dell’umore del personale.
Inadeguatezza del ruolo assunto: magari a rivestire un ruolo di responsabilità è una persona con buone doti organizzative; tuttavia potrebbero però mancargli quelle capacità di leadership. Ciò potrebbe generare nel soggetto interessato inadeguatezza, in quanto egli è costretto ad assumersi responsabilità dalla difficile gestione, a causa di una personalità poco idonea al ruolo rivestito.
Mobilità, trasferimenti: non consentono una stabilità personale e potrebbe venirne fuori una conseguente disorganizzazione extralavorativa, con possibili difficoltà nell’ attuare progetti di vita.
Mobbing: prepotenze, da parte di chi ha in qualche modo “il potere”, verso chi è più debole e non è in grado di difendersi. Una corretta definizione di Mobbing potrebbe essere la seguente: “Forma di terrore psicologico esercitata sul luogo del lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori” (Bartalucci, 2010). Si tratta di un fenomeno ripetuto nel tempo, verso una medesima vittima.
È opportuno ricordare che i fattori sopra elencati non sono degli elementi causali di per sé, bensì dei fattori di rischio che vanno sempre analizzati in relazione alle peculiarità esistenziali e personali del soggetto.
Inoltre i fattori extralavorativi hanno la loro importanza, in quanto fanno sì che l’individuo trascini con sé, sul luogo del lavoro, le tensioni personali, rendendo i propri compiti carichi di nervosismo e per nulla soddisfacenti.

Si crea dunque un circolo vizioso, nel senso che tale squilibrio stressante che l’individuo avverte sul luogo del lavoro porta con sè delle conseguenze, le quali pesano in primo luogo a livello personale, sull’ individuo stesso, ed in secondo luogo sull’ organizzazione lavorativa.

Quali sono dunque le principali conseguenze generate dallo stress lavorativo?
Molte di esse potrebbero essere di tipo fisico o organico, ad esempio mal di testa, digestione difficile, gastrite, dolori muscolari senza grosso affaticamento fisico.
Inoltre le manifestazioni dello stress, soprattutto se sono prolungate nel tempo, possono determinare nella persona una compromissione delle funzioni emotive, che comprendono delle reazioni d’ansia, depressione, senso di impotenza e di disperazione. E tutto ciò aumenta la propensione del lavoratore a considerare le condizioni lavorative come pericolose per la propria salute (Frascheri, 2009).
Alle conseguenze emotive si affiancano quelle cognitive, ossia la difficoltà di concentrazione e di memoria, le quali tendono sovente a perdurare anche al di fuori dell’ambiente lavorativo. La cosiddetta “stanchezza mentale”, o “sovraccarico cognitivo”.
Senza tralasciare gli effetti comportamentali. Molti lavoratori stressati lamentano di essere facilmente irritabili e aggressivi. Altri si descrivono come “asociali” o con una tendenza a estraniarsi o evitare le situazioni di confronto (Falco e all, 2010).
In alcuni casi vi potrebbe essere il ricorso all’alcol o al tabagismo o una ricerca di conforto nel cibo (Richardson, Rothstein, 2008).

Queste considerazioni fanno riflettere e introducono un concetto già noto: quello del burnout.
È un termine inglese, la cui traduzione letterale è “Bruciato”, e sta ad evidenziare una sindrome derivante da un processo stressogeno che colpisce le persone in ambito lavorativo e porta con sé una perdita della motivazione, ossia un disamoramento verso il proprio lavoro, con conseguente impedimento di vedere il reale obiettivo delle proprie mansioni (Lloyd e all, 2002).
Una definizione corretta e condivisa è la seguente: “Sindrome complessa, a componente prevalentemente psichica, che si instaura come risposta a una condizione di stress lavorativo prolungato” (Tomei, Tomao, Sancini, 2003).

Ad approfondire esaustivamente questo processo è stata la Maslach, la quale ha descritto il burnout come una malattia professionale specifica degli operatori impegnati in professioni di aiuto, ossia infermieri, medici, psicologi, assistenti sociali, ma anche poliziotti, insegnanti e via dicendo. Pare che queste figure professionali siano caratterizzate da una duplice fonte stressante: il proprio stress personale e quello della persona aiutata (Maslach, Leiter, 1997).
Sembrerebbe che questi soggetti si facciano carico dei problemi delle persone con cui si rapportano, e di conseguenza hanno una certa difficoltà nel discernere tra la propria vita e la loro.
Con l’andare avanti degli anni si sono susseguite varie definizioni di burnout: insoddisfazione, nervosismo, senso di svuotamento, perdita di entusiasmo e di impegno personale, sensazione di fallimento e disamoramento verso il proprio lavoro.

Analizzando le cause che potrebbero contribuire all’insorgere della sindrome è stato possibile classificarle in tre categorie (Anchisi, Gambotto, 2009):
Eccesso di aspettative precedente all’entrata nel mondo del lavoro;
Mansione lavorativa frustrante rispetto alle aspettative;
Disorganizzazione lavorativa.

Il burnout è una fonte di stress che rende insostenibile la situazione lavorativa, per un soggetto che si percepisce come sempre più distante dai suoi personali obiettivi iniziali.
Edelwich e Brodsky (cit. in Anchisi, Gambotto, 2009) hanno messo a punto quattro stati progressivi che caratterizzano l’evolversi della sindrome del burnout:
Stadio dell’entusiasmo: gli operatori sono motivati dal proprio lavoro e ne percepiscono di esso soprattutto i lati positivi.
Stadio della stagnazione: inizia a sentirsi il peso dell’impegno lavorativo, vi è un calo dell’entusiasmo con conseguenti sentimenti di noia e preoccupazione. Il proprio lavoro viene percepito come banale, non più entusiasmante.
Stadio della frustrazione: sorge la rabbia per l’eccessiva discrepanza tra le aspettative del lavoratore e la realtà. Vi è una percezione di inutilità e di impotenza.
Stadio dell’apatia: disimpegno emotivo – affettivo verso la propria situazione lavorativa. Il desiderio di aiutare l’altro scompare. Si diventa apatici.
Tutto ciò porterebbe il lavoratore a comportarsi in maniera meccanica, senza il giusto entusiasmo. I compiti vengono visti come un obbligo e portati avanti per necessità.

Le varie ricerche che hanno investigato le cause che conducono un soggetto verso la sindrome del burnout hanno messo in luce numerose variabili (Maslach, Schaufeli, Leiter, 2009) raggruppabili nei tre seguenti insiemi:
Variabili organizzative: ossia ambienti di lavoro sfavorevoli (poco confortevoli), orari inadeguati, retribuzione non soddisfacente, prospettive di lavoro limitate, rapporti poco costruttivi con i colleghi, prestazioni lavorative troppo routinarie.
Variabili socio – culturali: ossia tutti i fattori relativi all’organizzazione sociale collettiva, alla storia politica e culturale, all’ evoluzione dei costumi che risultano essere dannose per i lavoratori. Soprattutto negli ultimi anni si è assistito ad una riduzione delle spese per sanità, assistenza e educazione. Senza dimenticare che, conseguentemente a ciò, molti utenti hanno scarsa fiducia in tali servizi, e ciò pesa gravemente sull’autostima dei lavoratori coinvolti.

Variabili individuali: anche fattori quali età, sesso, titolo di studio, motivazione lavorativa, soddisfazione extralavorativa hanno rilievo sul possibile rischio burnout. Inoltre problemi emotivi non risolti, seppur non legati all’ ambito lavorativo, possono interagire con esso in modo non costruttivo.

Talvolta la sindrome del burnout potrebbe scaturire anche dall’interazione di più variabili correlate tra loro.
Studi recenti hanno sottolineato che non si tratta di un fenomeno circoscritto solo alle professioni di aiuto, bensì può verificarsi in qualsiasi tipo di contesto organizzativo (Lloyd e all, 2002).
Attualmente oggi si sente spesso parlare di Job Burnout, in un’ottica dove il burnout può riguardare effettivamente tutte le professioni, dove le help profession saltano maggiormente all’occhio per via del forte impegno emotivo a cui si trovano sottoposti i lavoratori che esercitano tali professioni.
Quindi il burnout può definirsi l’esito di un processo stressogeno a cui i lavoratori sono sottoposti qualora questi non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il proprio lavoro li porta ad assumere.

Ma è pur vero che un semplice squilibrio tra richieste organizzative e capacità personali di gestione delle stesse causano stress, il quale a sua volta porta con sé la perdita della soddisfazione lavorativa (Rothmann, 2008).
E un lavoratore insoddisfatto pesa sull’organizzazione, in quanto non opera con lo spirito giusto, ed è principalmente questo “spirito giusto” che consente al sistema lavorativo di funzionare adeguatamente.

Senza dimenticare che è proprio il sentirsi soddisfatti e gratificati del proprio mestiere che garantisce quella spinta in più, che permette all’individuo di impegnarsi perseguendo i propri obiettivi con la giusta motivazione.
Sono queste considerazioni che nell’ultimo periodo hanno stimolato varie ricerche e interventi in materia di stress lavoro – correlato (Galli, Mencarelli, 2011).
Perché lo stress non è una malattia, ma “una situazione prolungata di tensione”, e non è difficile trovarvi un rimedio, se anzitutto non viene sottovalutato e minimizzato.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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  • Deitinger P., Nardella C., Bentivenga R., Ghelli M., Persechino B., Iavicoli S.(2009), “D. Lgs. 81/2008: conferme e novità in tema di stress correlato al lavoro”, G Ital Med Lav Erg; 31: 2, pp 154 – 162.  DOWNLOAD
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  • Falco A., Dal Corso L., Sarto F., Vianello L., Girardi D., Marcuzzo G., Magosso D., De Carlo N. A., Bartolucci G. B. (2010), “Il ruolo degli indicatori oggetti e intersoggettivi nella valutazione del rischio stress lavoro – correlato: il Metodo di Valutazione per gli Indicatori di Stress”, Italian Journal of Occupational and Environmental Hygiene, n. 1 (3 – 4).
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  • Rothmann S. (2008), “Job satisfaction, occupational stress, burnout and work engagement as components of work-related wellbeing: empirical research”, SA journal of industrial psicology, Vol. 34, N. 3, pp 11 – 16.
  • Richardson K. M., Rothstein H. R. (2008), “Effect of Occupational Stress Managements Intervention Programs: A Meta – Analysis”, Journal of Occupational Healt Psicology, Vol. 13, N. 1, pp 69 – 93.
  • Tomei C., Tomao G., Sancini A. (2003), “Burn – Out”, Giornate Romane di Medicina del Lavoro “Antonello Spinazzola” Sezione regionale Laziale – Abruzzese della S.I.M.L.I.I. – Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
  • Westen D. (2002), “Psicologia. La storia , i metodi, i meccanismi fisiologici e cognitivi del comportamento”, Volume 1, Bologna: Zanichelli.

Quelle camminate che fanno bene al cervello!

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

La capacità cardio-respiratoria si presenta come un fattore protettivo rispetto ai processi di invecchiamento cerebrale, oltretutto potenziabile attraverso l’esercizio aerobico, come quello che possiamo fare con una semplice camminata, un’attività facilmente accessibile e gratuita.

È ormai ampiamente documentato che all’avanzare dell’età si verifica una riduzione progressiva del volume della sostanza grigia cerebrale. Solo recentemente, grazie agli ultimi sviluppi nel campo delle neuroimmagini, è stato possibile studiare l’effetto dell’invecchiamento anche sulle fibre di sostanza bianca, che trasmettono le informazioni da una regione all’altra del cervello. Dai risultati ottenuti emerge una chiara riduzione età-correlata anche dell’integrità microstrutturale delle connessioni cerebrali.

Questo progressivo declino neurale, tuttavia, non interessa tutti gli anziani allo stesso modo; alcuni di essi mostrano una maggiore resistenza agli effetti dell’età. Perché? Questa è la domanda che sta canalizzando sempre più l’interesse dei neuroscienziati che si occupano di invecchiamento cognitivo. Uno dei fattori potenzialmente implicati in queste differenze individuali è il cardiorespiratory fitness (CRF), ossia la capacità dell’apparato cardiaco e respiratorio di fornire ossigeno ai vari distretti corporei durante un esercizio sostenuto.

In uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Annals of Clinical and Translational Neurology, dei ricercatori statunitensi hanno indagato, in giovani adulti e anziani, la relazione tra CRF e integrità microstrutturale della sostanza bianca, rilevata per mezzo di una tecnica di neuroimmagine chiamata Diffusion Tensor Imaging. Per ottenere un indice quantitativo del CRF, i partecipanti sono stati sottoposti ad un test da sforzo al tapis roulant, durante il quale è stato misurato il consumo massimale di ossigeno (VO2max). Dai risultati ottenuti è emersa una chiara associazione tra CRF e integrità della sostanza bianca, osservata tuttavia soltanto negli anziani e limitatamente alle regioni cerebrali posteriori.

Il CRF pare dunque esercitare un’influenza minima sulla struttura cerebrale del giovano adulto, ma fortemente positiva su quella dell’anziano, le cui funzioni cognitive si trovano tipicamente in una condizione di progressivo declino. In alcune regioni, addirittura, le differenze età-correlate nell’integrità della sostanza bianca sono risultate pressoché del tutto annullate negli anziani con più alti indici di CRF.

Il CRF, tuttavia, non può certo essere considerato una panacea contro l’invecchiamento neurale, in quanto non ha presentato alcuna associazione con l’integrità delle connessioni anteriori, che subiscono solitamente un importante declino all’avanzare dell’età. Il meccanismo che sottostà a questa specificità regionale rimane un mistero, che probabilmente terrà impegnati ancora per lungo tempo i ricercatori. “[blockquote style=”1″]Questo studio, evidenziando l’impatto positivo del CRF sull’integrità neurale, ravviva in ogni caso la possibilità, spesso ipotizzata, che l’attività fisica, specie se di natura aerobica, possa essere in grado di ridurre il rischio di demenza o rallentarne la progressione[/blockquote], conclude Scott M. Hayes, primo autore del lavoro.

La capacità cardio-respiratoria si presenta dunque come un fattore protettivo rispetto ai processi di invecchiamento cerebrale, oltretutto potenziabile attraverso l’esercizio aerobico, come quello che possiamo fare con una semplice camminata, un’attività facilmente accessibile e gratuita. Forse, specie con la bella stagione alle porte, può davvero valere la pena lasciare un po’ più spesso la macchina in garage.

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BIBLIOGRAFIA:

La rivista italiana Psicoterapia cognitiva e comportamentale: cos’è?

Psicoterapia cognitiva e comportamentale nasce nel 1995 dall’ esigenza riscontrata da tempo e da più parti di una rivista scientifica nel panorama italiano che potesse fornire un luogo d’incontro e un punto di riferimento a quanti fossero interessati alla psicoterapia cognitiva e comportamentale.

Scopo della rivista è pubblicare articoli originali che contribuiscano allo sviluppo delle conoscenze teoriche e al progresso della prassi clinica. L’ambito di interesse della rivista si allarga all’intero spettro delle applicazioni e dei principi, delle metodologie e delle tecniche cognitive e comportamentali all’individuo, alla famiglia, al gruppo e alle organizzazioni. In tale ambito di interesse sono incluse le problematiche epistemologiche e metodologiche, le ricerche di base e le ricerche interdisciplinari rilevanti per la psicoterapia, l’intero processo della valutazione clinica (assessment), la medicina comportamentale nelle sue varie ramificazioni e la riabilitazione.

Psicoterapia cognitiva e comportamentale segue alcune linee programmatiche:
– Garantire un alto profilo scientifico e, nel contempo, valorizzare quanto di originale ed innovativo si sta facendo in Italia e all’estero nei vari settori;
– Avvicinare la comunità scientifica italiana alla più ampia comunità internazionale;
– Esprimere effettivamente l’intera gamma di interessi scientifici e culturali presenti nella scena italiana e non identificarsi con l’una o l’altra delle molteplici tendenze presenti al suo interno;
– Garantire efficienza organizzativa, in particolare regolarità della uscita nei vari numeri della rivista e celerità dei tempi di pubblicazione.

La rivista, rispetto alle principali società italiane di terapia cognitiva e comportamentale, si contraddistingue per la massima autonomia e il pieno rispetto della sua collocazione esclusivamente scientifica; Psicoterapia cognitiva e comportamentale non rappresenta pertanto l’organo ufficiale di associazioni, ma l’espressione di tutti coloro che in Italia coltivano la comune area scientifica e professionale.

Relativamente ai contenuti, la rivista pubblica:
– contributi di ricerca;
– brevi sintesi di protocolli di ricerca che vengono trasmessi sia al fine di favorire le collaborazioni e ricerche poliedriche sia al fine di far sapere alla più vasta comunità degli interessati le ricerche in corso;
– articoli rivolti allo sviluppo teorico della nostra disciplina;
– rassegne critiche;
– casi clinici;
– brevi comunicazioni.

Oltre a ciò, Psicoterapia cognitiva e comportamentale tende a stimolare il confronto critico, dando spazio ai dibattiti, e vuole inoltre promuovere l’attenzione per le radici anche remote dell’approccio cognitivo e comportamentale riproponendo, in una apposita sezione denominata “Archivio storico”, la ristampa di lavori di rilievo storico.

Scopo preminente della rivista è diffondere i molteplici aspetti e le diverse ramificazioni della psicoterapia cognitiva e comportamentale italiana; parimenti Psicoterapia cognitiva e comportamentale accoglie occasionalmente rappresentativi contributi internazionali.

Psicoterapia cognitiva e comportamentale è una rivista quadrimestrale; il direttore è il professor Ezio Sanavio, professore ordinario di Psicologia clinica dell’Università degli Studi di Padova e Past President dell’AIAMC.

Ogni articolo sottoposto alla rivista viene indirizzato a due referee indipendenti ed anonimi, sia per filtrare i lavori proposti per la pubblicazione sia per educare alla comunicazione scientifica i più giovani, offrendo loro feedback e consiglio ed aiutandoli ad avvicinarsi agli standard delle riviste internazionali.

Psicoterapia cognitiva e comportamentale è presente in rete; sono disponibili tanto in italiano quanto in inglese gli indici di ogni fascicolo e i sommari degli articoli pubblicati.

La rivista è indicizzata su PsycINFO, EBSCO, EMBASE, Psychological abstracts, PsycSCAN, PsycLIT, ClinPSYC.

 

GLI ABSTRACT DEI CONTENUTI DELL’ULTIMO NUMERO:

PER ACQUISTARE LA RIVISTA: Edizioni Centro Studi Erickson

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Come funziona la psicoterapia cognitiva?

Self Mirroring Therapy per disturbo da attacchi di panico e disturbo ossessivo-compulsivo: due incontri formativi a Genova

Si terranno a Genova, nei mesi di giugno e luglio, i due incontri formativi sull’utilizzo della Self Mirroring Therapy in caso di Disturbi da Attacchi di Panico e in caso di Disturbo Ossessivo Compulsivo.

La Self Mirroring Therapy (SMT) è una nuova metodica che, integrandosi con i vari approcci clinici, ne incrementa l’efficacia terapeutica. Tale metodologia nasce dall’esigenza di integrare nel setting terapeutico le più recenti conoscenze neuro-scientifiche, in particolare quelle sul sistema dei neuroni specchio, con lo scopo di migliorare l’efficacia del trattamento. La SMT utilizza come principale strumento terapeutico la videoregistrazione di se stessi durante alcuni momenti emotivamente  significativi della seduta terapeutica, al fine di incrementare in un modo diverso le capacità metacognitive del soggetto  

Infatti, con la SMT il paziente, osservandosi come se fosse il personaggio di un film, riconosce le proprie emozioni non attraverso le sue capacità autoriflessive (spesso alquanto deficitarie), ma dal di fuori, ossia attraverso l’osservazione diretta della propria espressione emotiva. In questo modo la SMT fa sì che il paziente sfrutti verso se stesso quella capacità innata, mediata principalmente dal  sistema dei neuroni specchio, che normalmente usa per comprendere in modo automatico, intuitivo e inconscio l’emozione altrui. Tale tecnica terapeutica nasce anche a partire da recenti studi di neuroimaging, che dimostrano come il sistema dei neuroni specchio si attivi in misura maggiore proprio quando osserviamo il nostro volto rispetto a quello altrui (Uddin et al 2005, 2007; Kaplan et al 2008; Iacoboni 2008).

Inoltre la visione di sé attraverso il video permette al paziente di evidenziare e rendere esplicite anche a se stesso le discrepanze tra il contenuto verbale e le sue espressioni  emotive, svelando così i propri meccanismi di autoinganno che contribuiscono al mantenimento delle convinzioni disfunzionali correlate ai vari quadri psicopatologici.  

Per il paziente l’effetto terapeutico finale è duplice: da una parte, una sorta di insight sulle convinzioni che ha sviluppato nel tempo su di sé e sugli altri, dall’altra l’attivazione di sentimenti empatici di accudimento, compassione e di perdono verso se stessi; tutto ciò gli consente di entrare più in sintonia e di migliorare il rapporto con quel personaggio che osserva nel video e, quindi, in ultima analisi, di raggiungere in tempi relativamente brevi un maggior livello di benessere psichico.   

Durante il workshop introduttivo i partecipanti sperimenteranno, utilizzando il protocollo della Self Mirroring Therapy, come l’auto osservazione da una posizione esterna faciliti la comprensione empatica delle proprie emozioni. Impareranno inoltre ad applicare la Self Mirroring Therapy per incrementare l’efficacia dei protocolli già esistenti per il trattamento del disturbo da Attacchi di Panico. Al termine di ogni corso sarà rilasciato un attestato di frequenza.

 

1° Incontro:

La self mirroring therapy  applicata al trattamento del

disturbo da attacchi di panico

Genova, sabato 20/6/2015

 

Programma del corso – sabato 20/6/2015:

  • 09.00-10.00: Psicopatologia e psicoterapia del disturbo da attacchi di panico secondo la psicoterapia cognitivo comportamentale
  • 10.00-11.00: La  Self Mirroring Therapy: basi teoriche
  • 11.00-13.00: La Self Mirroring Therapy nella pratica clinica, esercitazioni pratiche
  • 14.00-18.30: La Self Mirroring Therapy applicata al trattamento del disturbo da attacchi di panico: teoria ed applicazioni pratiche su casi clinici

Docenti:

Dott. Piergiuseppe Vinai, medico, psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, didatta di Studi Cognitivi di Milano,  socio didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, direttore del Self Mirroring Therapy Institute

Dott. Maurizio Speciale, psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, docente di Studi Cognitivi di Milano, socio ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, responsabile del Self Mirroring Therapy Institute

Dott.ssa Michela Alibrandi, psicologa, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, responsabile del Centro Clinico Genovese di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

Modalità di iscrizione:

Il costo del corso è di 120€ IVA compresa, da pagare secondo le modalità indicate nella scheda di iscrizione. Per rendere effettiva la propria iscrizione occorre inviare la scheda d’iscrizione e una copia del bonifico di pagamento effettuato alla mail [email protected]

Scarica la brochure informativa con la scheda di iscrizione.

 

2° Incontro:

La self mirroring therapy  applicata al trattamento del

del disturbo ossessivo compulsivo

Genova, sabato 11/7/2015

 

Programma del corso – sabato 11/7/2015

  • 09.00-10.00: Psicopatologia e psicoterapia del disturbo ossessivo compulsivo secondo la psicoterapia cognitivo comportamentale
  • 10.00-11.00: La  Self Mirroring Therapy: basi teoriche
  • 11.00-13.00: La Self Mirroring Therapy nella pratica clinica, esercitazioni pratiche
  • 14.00-18.30: La Self Mirroring Therapy applicata al trattamento del disturbo ossessivo compulsivo: teoria ed applicazioni pratiche su casi clinici

Docenti:

Dott. Piergiuseppe Vinai, medico, psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, didatta di Studi Cognitivi di Milano,  socio didatta della SITCC, direttore del Self Mirroring Therapy Institute

Dott. Maurizio Speciale, psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, docente di Studi Cognitivi di Milano, socio ordinario della SITCC, responsabile del Self Mirroring Therapy Institute

Dott.ssa Michela Alibrandi, psicologa, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, responsabile del Centro Clinico Genovese di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

Dott.ssa Ursula Catenazzi, psicologa, psicoterapeuta cognitiva e terapeuta EMDR. Co fondatrice del centro Mente e Corpo di Bologna.

Modalità di iscrizione:     

Il costo del corso è di 120€ IVA compresa, da pagare secondo le modalità indicate nella scheda di iscrizione. Per rendere effettiva la propria iscrizione occorre inviare la scheda d’iscrizione e una copia del bonifico di pagamento effettuato alla mail [email protected]

Scarica la brochure informativa con la scheda di iscrizione.

 

 

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I Neuroni Specchio: dalla ricerca alle applicazioni in Psicoterapia – Congresso SITCC 2014

Droghe, impulsività e dipendenza: cannabis e cocaina a confronto

La cannabis è la droga maggiormente utilizzata nell’Unione Europea, seguita subito dopo dalla cocaina. Sebbene la cannabis indebolisca le funzioni neurocognitive nei consumatori occasionali, questi indebolimenti appaiono meno prominenti nei consumatori abituali, a causa della possibile tolleranza sviluppata.

 È proprio su queste premesse che si basa uno studio abbastanza recente, pubblicato nel 2013, dei ricercatori di Psicologia e Neuropsicologia dell’università di Maastricht in Olanda. L’obiettivo era infatti quello di indagare se gli effetti indebolenti del THC, il principio attivo della cannabis, in consumatori abituali, si fossero presentati in un ampio spettro di funzioni neuropsicologiche oppure selettivamente in specifici aspetti.

Lo studio è stato condotto in Olanda su 61 consumatori regolari sani di cannabis e cocaina, i quali hanno partecipato all’esperimento assumendo sia una dose di cannabis che una di cocaina, sia un placebo, il tutto svoltosi in condizioni controllate di laboratorio. In seguito hanno poi completato un test che li portava a riflettere prima di fare un’azione. Infine i partecipanti allo studio sono stati osservati anche in situazioni nelle quali dovevano compiere un’azione e poi fermarsi.

In questo pacchetto di test le persone impulsive generalmente fanno più errori e hanno tempi più lenti per fermarsi nei compiti, come afferma infatti la responsabile della ricerca Janelle van Wel:

Se la tendenza di una persona ad essere impulsiva aumenta, tenderà a prendere decisioni affrettate, con l’aumento della probabilità di errore da parte sua.

I risultati di questo studio sono decisamente interessanti, sia la cannabis che la cocaina sembrano aumentare la risposta impulsiva, ma in maniera opposta. Sotto l’influenza della cannabis, i soggetti erano più lenti nel rispondere ai compiti e facevano più errori. La somministrazione di cocaina invece causava una risposta più veloce al compito, ma se il partecipante era messo nella condizione di dover controllare il suoi impulsi, faceva comunque più errori.

Come afferma Janelle van Wel, i risultati indicano che i consumatori abituali di cocaina e cannabis si mostrano più impulsivi sotto l’effetto delle due droghe rispetto a quando gli vengono somministrati dei placebo.

Ma qual è quindi il rischio? La stessa vanWell afferma che quest’aumento dell’impulsività dopo l’utilizzo di droga può aumentare la probabilità di sviluppare una dipendenza, con evidenti implicazioni e conseguenze per il soggetto utilizzatore.

 

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L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) di Oliver Sacks – Recensione

Francesca Rigobello

Parlare delle malattie è un intrattenimento da Mille e una notte: in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Oliver Sacks professore di Neurologia alla Albert Einstein College of Medicine di New York, racconta le sue esperienze cliniche affrontando la malattia mentale sotto l’aspetto umano più profondo.

Nella prefazione l’autore si descrive:

Mi sento infatti medico e naturalista al tempo stesso; mi interessano in pari misura le malattie e le persone; e forse sono anche insieme, benché in modo insoddisfacente, un teorico e un drammaturgo, sono attratto dall’aspetto romanzesco non meno che da quello scientifico, e li vedo continuamente entrambi nella condizione umana, non ultima in quella che è la condizione umana per eccellenza, la malattia: gli animali si ammalano, ma solo l’uomo cade radicalmente in preda alla malattia. 

 Nelle 24 storie di cui si compone l’opera, viene posta l’attenzione sulla realtà del paziente, non solo in quanto sofferente, bensì come individuo in lotta per conservare la propria identità. L’autore riflette in maniera intima e alle volte ironica e surreale l’aspetto più profondo della malattia, creando situazioni paradossali.

Il saggio è diviso in quattro sezioni: Perdite, Eccessi, Trasporti e Il mondo dei semplici, le cui storie sono accostate a particolari sindromi e disfunzioni quali sindrome di Tourette, di Korsakov, di Conard, atassie, agnosie, afasie, amnesie.

La prima storia, che dà il titolo al libro, racconta del dottor P., musicista affetto da prosopagnosia, ovvero l’ incapacità di dare significato visivo alle cose, confondendo la testa di sua moglie per il suo cappello. Qui viene a crearsi una situazione quasi comica, il dottor P, ignaro del suo problema, conduce le sue attività quotidiane canticchiando…

Penso che la musica avesse preso per lui il posto dell’immagine. Invece di un’immagine corporea aveva una musica corporea: ecco perché era in grado di muoversi e agire con tanta disinvoltura, ma si bloccava completamente, confuso, se s’interrompeva la musica interiore.

Così anche in Ray dai mille tic, si descrive il caso particolare di un ragazzo di ventiquattro anni affetto dalla sindrome di tourette i cui tic, movimenti incontrollati, e le improvvise esclamazioni, avevano reso la sua vita molto difficile. La terapia indicata dal Dottor Sacks aveva previsto l’utilizzo dell’aloperidolo, portando il paziente ad un notevole miglioramento ma imponendolo a dei ritmi troppo ponderati, privandolo di energia ed entusiasmo, di esuberanza e di gioia. Così Ray decise, insieme al medico, di sospendere l’utilizzo del medicinale durante il fine settimana per potersi sfogare:

Voi normali che nel vostro cervello avete sempre i trasmettitori giusti al posto giusto, e al momento giusto, avete sempre a disposizione tutti i sentimenti tutti gli stili: gravità, esaltazione, tutto quello che il momento richiede. Noi tourettici no: siamo costretti all’esaltazione della nostra sindrome e costretti alla serietà quando prendiamo l’aloperidolo. Voi siete liberi, avete un equilibrio naturale: noi dobbiamo cavarcela come meglio possiamo con un equilibrio artificiale.

 Molto intensa è la storia della disincarnata, Christina una donna colpita da un’ infiammazione alle radici dei nervi cranici e spinali perde completamente la propriocezione ovvero la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio. La donna mantenne la capacità di muoversi attraverso la vista; osservandosi infatti riusciva a compiere piccoli spostamenti goffi:

Questa propriocezione è come se fosse gli occhi del corpo, il mondo in cui il corpo vede se stesso. E se scompare, come è successo a me, è come se il corpo fosse cieco. Il mio corpo non può ‘vedere’ se stesso se ha perso i suoi occhi , giusto? Così tocca a me guardarlo, essere i suoi occhi. Giusto?

L’utilizzo del linguaggio scientifico accompagna il lettore alla scoperta delle malattie nuerologiche e dei comportamenti che ne derivano, stimolando la curiosità del lettore e allo stesso tempo mantenendo scorrevole la lettura.

 

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Comprendere i figli con disturbi alimentari: grande successo al primo incontro Fuori-Expo dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia

Il primo evento pubblico del cartellone psicologico Fuori-EXPO ‘Comprendere i figli con disturbi alimentari’, organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia, ha aperto la stagione culturale 2015 OPL-Alimentare la mente.

comprendere i figli con disturbi alimentari

Il ciclo di eventi in programma quest’anno verterà sui contributi della psicologia verso ciò che nutre e ciò che danneggia la mente e, più in generale, il contributo della psicologia verso alcuni aspetti rilevanti per il benessere della società. Un buon numero tra professionisti e cittadini hanno quindi avuto la possibilità, in questa prima serata, di ascoltare due relatori di caratura internazionale rispetto al dramma contemporaneo dei disturbi alimentari e ai relativi interventi professionali. 

Milano, 11 maggio 2015 – Un incontro interessante e ricco di spunti quello organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia nell’ambito del cartellone ‘OPL – Fuori Expo’, realizzato lo scorso 8 maggio presso la Sala Falck Fondazione Ambrosianeum a Milano. Protagonista la patologia del comportamento alimentare, di cui si è discusso nel panel denominato “Comprendere i figli con disturbi alimentari”.

Di primissimo livello i relatori messi in campo: l’apertura è stata affidata a Gianluca Lo Coco, Professore Associato presso l’Università di Palermo, che ha presentato una panoramica sul problema analizzando l’aspetto clinico e generale, mettendo in evidenza i cambiamenti diagnostici nell’analisi dei disturbi alimentari con la nuova edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V). Lo Coco ha sottolineato come oggi le manifestazioni sintomatiche delle ‘spie alimentari’ siano sempre più diffuse e più difficili da classificare in maniera oggettiva.

comprendere i figli con disturbi alimentari

Altro ospite di caratura internazionale è stata la Prof.ssa Janet Treasure, specializzata nella ricerca e nel trattamento dei disturbi alimentari, Direttore dell’Eating Disorder Unit e Prof.ssa di Psichiatria presso l’Institute of Psychiatry del King’s College di Londra. Il suo intervento ha mostrato come un intervento di supporto con i genitori dei pazienti, in base al modello del New Maudsley di Londra, possa ottenere dei risultati clinici significativi sia nella riduzione della sintomatologia del paziente sia nel benessere psicologico del familiare stesso, divenendo quest’ultimo capace di gestire lo stress della patologia del figlio in maniera più adattiva. Al termine delle relazioni si è aperto un dibattito nel pubblico circa l’efficacia di tali interventi e la possibilità di un loro utilizzo diffuso anche nella realtà sanitaria italiana.

[blockquote style=”1″]Divulgare, far conoscere una ‘buona psicologia è l’obiettivo dichiarato di questo ciclo di incontri. La società spinge sempre più persone a ricercare contenuti e informazioni del mondo psicologico, purtroppo però, questo bisogno non incontra sempre professionisti e contenuti qualificati. L’impegno centrale della comunità lombarda degli psicologi per questo 2015 sarà proprio quello di mostrare il grande valore scientifico e culturale del proprio contributo. L’incontro dell’8 maggio, primo di molti, ha fatto focus verso un problema drammatico e in continua espansione sul quale era necessario sensibilizzare e avviare un processo virtuoso in grado di mettere in contatto la cittadinanza con i migliori esperti in materia[/blockquote] ha dichiarato Riccardo Bettiga Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

comprendere i figli con disturbi alimentari

Per tutte le informazioni sulle attività dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia e sui prossimi incontri www.opl.it

Prossimo appuntamento il 28 maggio alle 20,00 presso la Sala Falck Fondazione Ambrosianeum a Milano: Massimo Cirri, psicologo e conduttore radiofonico e Gianrico Carofiglio, noto scrittore e magistrato, parleranno della creazione del ‘racconto’ nell’ambito della relazione terapeutica.

Ordine degli Psicologi della Lombardia
Corso Buenos Aires 75 – 20124 Milano
tel. 02/67071596 – fax 02/67071597
[email protected] – www.opl.it
C.F. 97134770151

UFFICIO STAMPA
Laboratorio Comunicazione Srl
Marco Giannatiempo
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+39 340 4081942

 

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La madre-drago delle pazienti anoressiche – Disturbi alimentari

Solitudine & livello di fame: quale relazione? – Psicologia

Daniela Sonzogni

FLASH NEWS

Recenti studi suggeriscono che la disregolazione dell’appetito fornisce una potenziale via attraverso la quale la solitudine o altre forme di disconnessione sociale influenzano la salute.

Sono state esaminate le relazioni tra solitudine e livelli di grelina postprandiale e la fame testando se tali collegamenti differivano per le persone con più alto o basso indice di massa corporea (BMI).

La solitudine è stata testata tramite questionario mentre la grelina è stata campionata sia prima che dopo il pasto. La fame autoriferita è stata misurata prima e immediatamente dopo il pasto e poi dopo 2, 4 e 7 ore più tardi. Le donne più sole avevano più alto livello di grelina postprandiale e la fame aumentava rispetto alle donne meno sole e solo tra i partecipanti con un indice di massa corporea più basso.
La solitudine, la grelina postprandiale e la fame non erano legate tra i partecipanti con un più alto indice di massa corporea.
Gli effetti sono stati coerenti in entrambi i pasti.

I dati suggeriscono che la grelina ( importante ormone della regolamentazione dell’appetito) e la fame possono collegarsi alla solitudine, ad un aumento di peso e ad un corrispondente effetto negativo sulla salute tra le persone non obese. Il desiderio e la necessità di relazioni strette probabilmente deriva dall’ importanza della vita di gruppo per la sopravvivenza dell’uomo nel suo passato evolutivo. Poiché la necessità di connessione sociale è fondamentale per la natura umana, il mancato sviluppo di questa esigenza dovrebbe avere un effetto mentale negativo e conseguenze sulla salute fisica.

Una questione chiave è quello di determinare quali meccanismi sono alla guida di questi effetti negativi sulla salute. Uno studio recente ha dimostrato che le donne non obese che hanno sperimentato fattori di stress interpersonali avevano maggiori livelli di grelina rispetto a chi aveva sperimentato un numero minore di agenti stressanti interpersonali.

L’attuale ricerca dimostra che i livelli di grelina ampliano la fame autoriportata, inoltre i dati suggeriscono che le diverse forme di disconnessione sociale ( come fattori di stress interpersonali o solitudine) hanno condiviso le caratteristiche che influenzano i livelli di grelina e di fame. Queste forme di distacco sociale minano il bisogno fondamentale di appartenenza degli essere umani e può essere il nucleo sottostante questi effetti.

Un’ ipotesi del motivo per cui la solitudine influenzi i livelli di grelina e di fame sta nel fatto che la sensazione di fame in risposta allo stress interpersonale sia socialmente adattivo. La necessità di connessione sociale è fondamentale per l’uomo e di conseguenza sentirsi isolati socialmente dovrebbe motivare le persone a legarsi con gli altri e ripristinare il senso di appartenenza.

Inoltre mangiare era un’attività altamente sociale in tutta l’evoluzione umana, di conseguenza le persone possono sentirsi più affamate quando si sentono socialmente distaccate perché hanno implicitamente o esplicitamente imparato che mangiare li aiuta a rimanere in contatto con gli altri e fornisce loro una possibilità di connessione sociale. Questo discorso viene meno tra le persone obese forse perché l’obesità mette le persone a rischio per la stigmatizzazione sociale e depressione.

Questi dati, in sintesi, suggeriscono che la grelina, un ormone che regola l’appetito e la fame può collegare lo stress interpersonale all’aumento di peso e al suo corrispondente effetto negativo sulla salute tra le persone non obese.

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Isolamento sociale, solitudine e longevità: gli effetti sulla salute

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Disturbo di dismorfismo corporeo (2015) di Scarinci e Lorenzini

Una rapida ricognizione tra le librerie presenti online permette di capire rapidamente che non esistono in italiano manuali sul disturbo di dismorfismo corporeo. Il volume di Scarinci e Lorenzini copre dunque una lacuna importante. Il disturbo in oggetto è esplorato nei dettagli e al tempo stesso è trattato con concisa semplicità, un bel segno di rispetto nei confronti del lettore.

Scarinci Lorenzini - DISMORFISMO CORPOREO - COPERTINAIl volume inizia con un’analisi dello sviluppo del disturbo nell’adolescenza, età di grandi cambiamenti e crisi che può essere vissuta con disagio proprio per quanto riguarda la valutazione del corpo e può portare a idee del tutto distorte e patologiche. Gli autori applicano il modello dello stile cognitivo al disturbo di dismorfismo corporeo. Esso appare come una generale difficoltà a fare i conti con una discrepanza tra i propri scopi, aspettative, bisogni e i desideri e la realtà sia interiore sia esterna. Questa discrepanza viene espressa in un aspetto molto concreto: come si pensa sia il proprio corpo e come si vorrebbe che fosse. Tale discrepanza può essere così forte da far percepire al soggetto imperfezioni e mal- formazioni inesistenti.

Dopo aver definito e spiegato il disturbo, gli autori proseguono illustrando il processo di assessment, e passano in esame gli strumenti di valutazione più utilizzati, per poi proporre una terapia cognitivo comportamentale, qui illustrata attraverso schede a uso del terapeuta e numerosi casi clinici.

Al centro dell’intervento viene posta la rielaborazione cognitiva delle di- storsioni, la critica degli errori più gravi di valutazione del proprio corpo, accanto a un processo di accettazione del sé che costituisce il vero problema sottostante all’espressione sintomatologica.

I due autori danno molto rilievo agli interventi di ristrutturazione cogni- tiva e alla ricostruzione e rilettura della storia di vita, intesa come sequenza di esperienze dolorose in cui si apprende a evitare, a controllare e a iper compensare patologicamente stati mentali ritenuti insopportabili. Nel caso del dismorfismo, il luogo mentale insopportabile è l’immagine di un sé imperfetto, che viene metaforicamente espresso come malformazione corporea. La consapevolezza che l’immagine corporea non rappresenta l’unica qualità che definisce l’identità e l’accettazione dell’identità stessa costituiscono il passo decisivo della terapia. Scarinci e Lorenzini offrono numerosi strumenti al terapeuta per accompagnare i pazienti lungo questo difficile percorso.

 Giovanni Maria Ruggiero

 

 

INTRODUZIONE

Il dottor Carlo Biagioli, giovane psichiatra, inizia a lavorare nel servizio pubblico. Siamo negli anni Ottanta, il cammino verso la terra promessa da Basaglia è appena iniziato. Come per gli ebrei provati dall’esodo, c’è il rischio di rimpian- gere il periodo della schiavitù in Egitto. Per non cedere ai momenti di fatica e di sconforto e rendere i nuovi arrivati consapevoli di quale fosse l’inferno da cui si cercava di scappare, il primario faceva visitare loro il manicomio di Siena dove aveva lavorato. Il giro dei reparti dedicati a famosi psichiatri del passato era una consuetudine (la fama dello psichiatra cui era dedicato il reparto era direttamente proporzionale alla gravità dei pazienti che conteneva, e il verbo «contenere» non è utilizzato a caso).

Personaggi bizzarri, comportamenti stranissimi attirano l’attenzione e l’inte- resse di un giovane entusiasta, convinto che riuscirà a spiegare tutto e tutto guarirà. Biagioli nell’attraversare corridoi lunghi e tenebrosi resta sorpreso nel vedere tra i pazienti «pericolosi» un ragazzetto di una ventina d’anni. Sembrava un collegiale, curato nel vestire, educato nel comportamento, assorto in pensieri filosofici o forse in preghiere. Nulla faceva sospettare violenza, pericolosità e neppure follia.

«Perché sta qui? E come mai non è stato ancora dimesso», pensò tra sé il giovane psichiatra e chiese al primario il motivo della sua presenza in quel reparto. Si sentì rispondere che Marcellino era tra i pazienti più gravi. In quel momento in realtà non stava pregando. Osservava il suo mignolo destro e lo confrontava con il sinistro perché era certo che fosse storto. Si era fissato così da quando la fidanzatina lo aveva lasciato. Secondo il primario erano state tentate tutte le cure e non c’era nulla da fare. Prima o poi Marcellino si sarebbe ucciso. Questa sì che suonava come una follia alle orecchie del giovane psichiatra.

Tre anni dopo, durante un soggiorno sul lago di Bolsena, mentre gli altri — pazienti, operatori e bagnanti — stavano chiassosi sulla riva, Marcellino si incamminò deciso verso il largo, camminando senza nuotare. Il corpo fu ritrovato tre giorni dopo a Capodimonte, l’antico borgo che si protende verso il lago.

Sono passati alcuni decenni, il dottor Biagioli è ormai in pensione, ma il disturbo di dismorfismo corporeo sovente conduce ancora al suicidio e la sua diffusione e gravità sono tutt’oggi sottovalutate.

I pazienti chiedono aiuto a specialisti diversi da coloro che si occupano di salute mentale e i casi trattati, non sempre con successo, non sono numerosi.

Anche la letteratura internazionale, che solo negli ultimi anni è cresciuta, non fornisce indicazioni univoche sull’eziologia e il trattamento.

A conferma di questi dati, di recente, Wilhelm, Phillips e Steketee (2013) hanno pubblicato un interessante e pregevole manuale di trattamento, dove vengono evidenziate le criticità che si incontrano con questi pazienti, segnalate, peraltro, da molti altri autori (Mian e Gerbino, 2009).

Il retroterra teorico e clinico dell’approccio utilizzato per analizzare le di- namiche psicopatologiche è quello cognitivo comportamentale. L’importanza dei contributi forniti sia dal modello standard, sia dagli ultimi sviluppi di terza generazione ha ricadute significative nell’approccio clinico e nell’intervento terapeu- tico, anche se va sottolineato il limite di una mancanza di adeguate e sistematiche verifiche empiriche per il disturbo di dismorfismo corporeo in grado di raccogliere e unificare le osservazioni cliniche.

Ci auguriamo, pertanto, che i contenuti di questo lavoro suscitino vivaci reazioni, anche critiche, e interesse, così che il faticoso cammino della scienza, che procede per ipotesi e confutazioni, possa essere avviato per formulare se non altro alcune linee guida per l’intervento, basate su studi clinici randomizzati.

La prima parte del volume è dedicata al momento esistenziale, con partico- lare riferimento all’adolescenza, periodo in cui è più frequente lo scompenso, e alla cultura dell’apparire, che è terreno fertile per lo sviluppo del disturbo. Ampi sono i riferimenti alla letteratura internazionale e alla ricerca. Vengono analizzati inoltre gli ingredienti cognitivi ed emotivi che caratterizzano il disturbo e com- promettono il funzionamento sociale, lavorativo e di altre aree importanti della vita dei soggetti che intrattengono il disturbo.

Il problema diagnostico assume un ruolo di particolare rilievo, dal momento che si tratta di un disturbo situato al crocevia nosografico tra i disturbi somatoformi, i disturbi alimentari, le ossessioni e il delirio. Il disturbo di dismorfismo corporeo prende qualcosa da ciascuno di essi e lo ricombina in una forma assolutamente caratteristica. Pertanto, la diagnosi differenziale, il decorso e la comorbidità sono considerati con particolare attenzione.

La valutazione del disturbo è l’argomento della seconda parte del volume, che presenta, oltre a una panoramica degli strumenti più diffusi e utilizzati, al- cune nostre proposte originali. L’assessment rappresenta una fase fondamentale in ogni trattamento, per capire il funzionamento del paziente, la dinamica dello scompenso, i fattori di mantenimento della patologia e per costruire una buona alleanza terapeutica. In modo particolare, l’assessment assume notevole rilevanza proprio nel trattamento del paziente con BDD (body dysmorphic disorder), che arriva spesso in terapia senza una grande motivazione e senza consapevolezza di malattia.

Viene poi preso in considerazione l’intervento psicoterapeutico, definito in termini strategici e con ampi riferimenti alle tecniche da utilizzare. Questa parte contiene anche degli strumenti, concepiti ad uso del terapeuta, destinati al supporto sia del paziente sia dei suoi familiari.

Infine, un ultimo capitolo riporta alcuni casi clinici in cui emerge lo sforzo, spesso solo parzialmente efficace, di lenire il dolore e la sofferenza di persone ec- cessivamente preoccupate da difetti nell’aspetto fisico, che vengono percepiti come orribili e che procurano disagio e menomazioni nel loro funzionamento sociale e lavorativo. A volte gli altri cercano di attribuire a questi difetti il significato di piccole anomalie, ma così facendo non comprendono fino in fondo l’importanza che invece rivestono per chi vede queste piccole anomalie come il segno di una drammatica deformità.

 

ARTICOLI E RISORSE SUL DISMORFISMO CORPOREO / DISMORFOFOBIA

PROFILO DI ANTONIO SCARINCI

PROFILO DI ROBERTO LORENZINI

Come NON smettere di fare sesso – Video –

All’inizio di una relazione il desiderio sessuale è alle stelle. La voglia di conoscere e possedere l’altro ci porta alla continua ricerca del suo corpo, ogni gesto è vissuto con intensità e totale appagamento dei sensi e della mente. Perché, a un certo punto del rapporto, la magia è destinata a svanire?

Ce lo racconta in questo video Alain De Botton, saggista e imprenditore culturale, spiegandoci i dettagli delle fasi di una relazione di coppia, i desideri inespressi e le trappole auto-ingannevoli che minano il desiderio sessuale.

Che cosa ci spinge, ci chiede l’autore, a varcare i confini dell’altro mettendo fine alla nostra e altrui indipendenza? Perché ci costringiamo a perdere i sostegni della nostra autonomia?

Limitare la libertà dell’altro crea l’illusione di diminuire le possibilità di perderlo, ma questa strategia ha un costo molto alto che si paga nella camera da letto. Come fare dunque per tornare all’eccitazione dei primi tempi, senza dover arrivare al doloroso processo della separazione?

SOTTO AL VIDEO TROVATE LA RISPOSTA (traduzione della voce narrante):

Perché perdiamo interesse per il sesso?

Lo sanno tutti che all’inizio succede di continuo. E che poi, man mano che la relazione va avanti, non più. Diciamo che è perché siamo troppo indaffarati o stanchi, o solo che non siamo “dell’umore”. Ma perché questo importante umore sparisce? Per capire l’eccitazione dobbiamo tornare ai primi tempi, quando eravamo profondamente “dell’umore” quasi ogni ora.

La cosa eccitante era la nostra possibilità di toccare, stringere, accarezzare, in breve, di possedere una persona che non era completamente raggiungibile, una persona che era indipendente e libera di allontanarsi da noi e che tuttavia decideva miracolosamente di non farlo. Per dirla con un’equazione: Erotismo = possesso + libertà.

L’elettrizzante desiderio di varcare i confini del corpo di un’altra persona deriva dall’attiva e incantata meraviglia del fatto che lei ci ha autorizzati a esserle così vicini e, in qualche angolo della nostra mente non del tutto cosciente, dalla preoccupazione che potrebbe non farlo per sempre.

Purtroppo, desiderare qualcuno significa quasi sempre voler ridurre la sua capacità di sopravvivere senza di noi: nel modo più carino, cerchiamo incessantemente di erodere la libertà della persona che amiamo.

E così, gradualmente, uccidiamo proprio lo spirito di indipendenza che ha sostenuto il nostro desiderio fin dall’inizio. C’è un’altra cosa che logora l’impulso sessuale: la paura. Per quanto possa sembrare strano, chiedere a una persona di fare sesso con noi di solito porta con sé un elemento di rischio.

L’altra persona potrebbe dire no o persino, al limite: “Questo non lo farei mai!”. Il sesso è una richiesta e, per fare una richiesta, dobbiamo sentirci ragionevolmente sicuri rispetto a un rifiuto. All’inizio proviamo quella sicurezza perché, anche se non conosciamo così bene il nostro amante, siamo indipendenti. Abbiamo le nostre routine, le nostre alternative e la nostra autonomia. Se non funzionasse, potremmo andare via.

Per amore, gettiamo i sostegni della nostra vita indipendente, ci intrecciamo all’altro, non ci rimane più molto che possa essere considerato esattamente nostro. Inoltre, abbiamo continuamente delle richieste da fare all’altro: vogliamo che compri il divano che ci piace, vogliamo davvero tanto non andare a trovare i suoi genitori a Natale. Dipendiamo dal suo reddito quando ci rimettiamo a studiare per prendere un nuovo titolo di studio. In queste circostanze, un’ulteriore richiesta potrebbe sembrare eccessiva, per questo non parliamo davvero di quello che vorremmo fare con la maschera o con gli stivali che arrivano alla coscia.

Non abbiamo più voglia di perdere la faccia di fronte a un partner con cui negoziamo ogni giorno. Sembra più facile lasciare le cose come stanno.

Stranamente, c’è una cosa pressoché garantita per rianimare il sesso: una lite furiosa, con una reale possibilità di separazione.

Le peggiori litigate hanno la curiosa abitudine di concludersi in camera da letto, perché riportano alla luce due aspetti la cui apparente assenza ha gravemente minato il sesso: primo, l’idea che in teoria potreste allontanarvi entrambi; secondo, l’idea che entrambi potreste, anche se non è detto che sarebbe facile, sopravvivere l’uno indipendentemente dall’altra. Potreste, se voleste davvero, ricostruire il vostro castello, recuperare il vostro destino e salutare l’esistenza come anima indipendente.

Il buon sesso ha bisogno di tutto questo, si fonda su un senso di libertà e di ottimistica fiducia in se stessi, due cose che possono diventare molto scarse con il passare del tempo.

Per tornare all’eccitazione dei primi tempi, dobbiamo imparare le migliori lezioni del separasi, senza dover passare attraverso il tristissimo e doloroso processo di una vera separazione.

 

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Schema di sé, confronto sociale e prestazioni cognitive: i paradigmi sociali del processo di insegnamento – apprendimento

L’insegnamento e l’apprendimento sono influenzati dalle variabili sociali che si creano fra docente e discente. Affinché ogni alunno possa apprendere nella maniera ottimale, non deve sentire minacciato lo schema di sé dall’alta competenza dell’insegnante.

Abstract

L’insegnamento e l’apprendimento sono influenzati dalle variabili sociali che si creano fra docente e discente. Affinché ogni alunno possa apprendere nella maniera ottimale, non deve sentire minacciato lo schema di sé dall’alta competenza dell’insegnante. È compito, quindi, di chi insegna far sentire il discente portatore di una ricchezza culturale, derivante dai precedenti apprendimenti, dai processi biografici e dalle esperienze di vita.

Keywords: psicologia sociale, insegnamento, apprendimento, psicologia dell’educazione

La dinamica insegnamento – apprendimento

Nell’ambito della dinamica insegnamento – apprendimento esistono una serie di variabili psico-sociali che possono influenzare entrambi i processi, come sottolineato da Monteil e Huguet (2002), citati in Carugati (2011, pag. 44).

Importante a questo riguardo è lo schema di sé che ciascun alunno costruisce nel corso della propria storia sociale. Tale percezione è alimentata anche dalle esperienze scolastiche che il bambino compie nell’ambito della sua scolarizzazione (Carugati, op. cit., pag. 44). Paradigmatico, in questo campo, è il confronto sociale che il minore effettua, paragonando se stesso agli altri scolari della classe che frequenta (Carugati, op. cit., pag. 47).

La valutazione

Un posto di rilievo nella vita quotidiana dei contesti scolastici lo occupa la valutazione che ogni scolaro riceve per le sue prestazioni. Questo giudizio è una variabile sociale che concorre alla costruzione dello schema di sé. In altri termini, il voto che ciascun alunno riceve assume significato non in rapporto al suo valore assoluto, ma in funzione di un relativismo sociale endemico alla classe. In pratica, avere la sufficienza in un ambiente dove tutti gli altri sono stati valutati con giudizi ottimi ha un significato sociale particolare per il soggetto, che trascende la votazione in sé.

L’autovalutazione

Il confronto sociale è alla base di un processo caratteristico di ogni persona che è l’autovalutazione, come messo in evidenza da Festinger (1954) a partire dalla metà del secolo scorso. Secondo lo psicologo sociale, citato in Carugati (op. cit., pag. 50), l’autovalutazione è un bisogno fondamentale dell’essere umano che ha la finalità di agevolare l’adattamento all’ambiente, dirigendo le azioni dell’individuo. Il confronto sociale, alla base dell’autovalutazione, avviene con persone che si sentono vicine a sé per estrazione sociale, storia personale, ma che raggiungono delle prestazioni migliori. Una ricerca fatta agli inizi del ventunesimo secolo (Huguet, Dumas, Monteil e Genestoux, 2001) in una scuola media francese dimostra che gli alunni tendono a confrontarsi …con compagni dello stesso livello sociale, ma con dei voti leggermente superiori ai propri… (Carugati, op. cit., pag. 51).

L’influenza sociale dell’insegnante

Nell’ambito delle dinamiche sociali, che si creano negli ambienti scolastici, il binomio insegnamento – apprendimento è anche frutto dell’influenza sociale che l’insegnante (fonte d’influenza) esercita sull’alunno (bersaglio) (Carugati, op. cit., pag. 52).

Affinché tale processo sia il più proficuo possibile, il bersaglio non deve sentire minacciato lo schema di sé e questo avviene nella misura in cui percepisce come non pericolosa per la sua autostima l’alta competenza della fonte d’influenza. Infatti, come sostiene Carugati ( op. cit., pag. 53)

una minaccia per il sé del bersaglio fa sì che il suo funzionamento cognitivo sia focalizzato sul confronto sociale, lasciando poche risorse socio-cognitive per la comprensione e l’elaborazione del compito…In altre parole, se due partner non riescono a riconoscere la reciproca complementarietà e si focalizzano sulla minaccia che per ciascuno rappresenta la competenza dell’altro, producono un rendimento cognitivo inferiore al potenziale di ciascuno, malgrado la loro competenza individuale…

L’alunno come portatore di una ricchezza individuale

Alla luce di queste considerazioni, il docente deve far sentire l’alunno portatore di una sua competenza individuale, frutto dei suoi apprendimenti, dei processi biografici e delle esperienze di vita. In pratica, latore di una perizia che si adatta in maniera complementare a quella dell’insegnante e che insieme ad essa concorre a formare un’unità globale. Questa sintesi è frutto di un processo cooperativo che lascia ad entrambi una certa libertà d’azione, che diventa la base della cultura dell’impegno. Con il termine di impegno si intendono …le condizioni in cui la realizzazione di una condotta può essere imputata soltanto a colui che la mette in atto… (Carugati, op. cit., pag. 59).

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Attività ludico – motorie e sviluppo delle competenze cognitive nell’età evolutiva

 

BIBLIOGRAFIA:

Quoziente di empatia e di sistematizzazione: uno studio casistico tra gli studenti di Medicina e Psicologia

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Quoziente di empatia e di sistematizzazione: uno studio casistico tra gli studenti di Medicina e Psicologia

Autrice: Ariane Bevacqua (Università degli Studi di Messina)

Abstract

Lo psicologo Simon Baron-Cohen nel suo famoso best-seller “Questione di cervello. La differenza essenziale tra uomini e donne”(2004) intende dimostrare attraverso un’analisi ben documentata, che il cervello femminile è programmato per l’empatia mentre il cervello maschile è programmato per la comprensione ed elaborazione di sistemi. L’autore ci tiene a specificare che queste differenze sono comunque differenze medie perchè può benissimo esistere una donna più votata alla sistematizzazione rispetto a moltissimi uomini come può esistere un uomo più empatico di moltissime donne. In pratica possiamo aspettarci da una donna che sia molto empatica e poco sistematica ma per esserne certi dobbiamo comunque verificare le sue attitudini.(Baron-Cohen,2004). Il test per la valutazione del quoziente di empatia e di sistematizzazione, è stato costruito come strumento per testare la teoria E-S ( Empatizzazione-Sistematizzazione) ( Baron-Cohen et al., 2003; Baron-Cohen & Wheelwright, 2004). È un questionario self-report, costituito da 120 item ( 60 inerenti all’empatia e 60 inerenti alla sistematizzazione) riguardanti esempi che possono verificarsi nella vita quotidiana e che richiedono lo sviluppo di queste abilità. Al soggetto viene richiesto di rispondere a ciascuna affermazione indicando la sua preferenza tra quattro alternative di risposta ( V, aV, aF, F). L’empatia è la capacità di percepire e riconoscere i pensieri e le emozioni degli altri e di reagire con sentimenti e comportamenti adeguati. È caratterizzata da una componente affettiva ( reazione affettiva nei confronti dello stato psichico ed emozionale delle persone con le quali si interagisce), una componente cognitiva ( comprendere e predire reazioni e azioni), una componente mista ( cognitività e affettività interagiscono). Baron-Cohen descrisse tre tipi cerebrali: 1. Il tipo femminile o empatizzante; 2. Il tipo maschile o sistematizzante 3. Il tipo bilanciato. I risultati di queste osservazioni, hanno portato  l’autore a pensare che esistano nel cervello “empatie tipo”, più comuni tra le donne, e “sistemi tipo”, più diffusi tra gli uomini. Ma naturalmente le differenze non stanno tutte qui. Tutto ciò  può scaturire soprattutto da cause biologiche, più che culturali, e dimostra come ogni tipo di cervello contribuisca in vari modi a formare ciò che noi intendiamo per intelligenza. Sicuramente non tutti gli uomini hanno un cervello tipicamente maschile, così come non tutte le donne ne possiedono uno tipicamente femminile. Esistono donne che hanno migliore capacità di sistematizzazione e sono eccellenti scienziati, ingegneri, architetti, avvocati, e uomini più empatici che si dimostrano ottimi psicologi, insegnanti, terapeuti, esperti in risorse umane. Certo un organo cerebrale assolutamente equilibrato sembra essere molto raro perché alcune ipotesi sostengono che più si diventa sistematici, meno si è empatici e viceversa. Baron-Cohen afferma che le donne nella popolazione generale, in media hanno una più forte unità di empatia, e maschi nella popolazione generale, in media hanno una  più forte unità per sistematizzare. Le persone con le condizioni dello spettro autistico hanno una bassa empatia ma hanno un quoziente di sistematizzazione superiore. Secondo Baron-Cohen (2004), l’empatia è l’unità di individuare emozioni e pensieri di un’altra persona e di rispondere ad esse con un emozione del caso. L’empatia permette di sintonizzarsi in maniera naturale e spontanea con qualsiasi pensiero e sentimento altrui. Essere empatici non significa reagire a un numero limitato di emozioni, come il dolore o la tristezza; significa leggere il clima emotivo che si stabilisce tra le persone, mettersi facilmente nei panni degli altri, essere così sensibili da comprendere a fondo il loro stato d’animo e interagire con loro senza ferirli né offenderli. Il soggetto empatico capisce subito se nel suo interlocutore si è verificato un cambiamento di umore, quale potrebbe esserne la causa e che cosa servirebbe a rasserenarlo o incupirlo ulteriormente. Egli reagisce al mutato stato d’animo dell’altro in maniera intuitiva, mostrando sollecitudine, comprensione, solidarietà, incoraggiamento o qualunque sentimento sia adatto alla circostanza. La sistematizzazione è  la tendenza ad analizzare, vagliare ed elaborare sistemi. “Chi sistematizza capisce in maniera intuitiva il funzionamento delle cose e deduce le regole fondamentali di un sistema per poter comprendere e predire il suo comportamento o per inventarne uno nuovo”. Come l’empatia è in grado di gestire le centinaia di emozioni umane, la sistematizzazione può gestire un numero enorme di sistemi ma sicuramente, è inadeguata a comprendere il mutare dei sentimenti. Il quoziente empatico (QE) ci permette di rilevare come le persone si sentono, la cura e  la sensibilità nei confronti degli altri, mentre il quoziente di sistematizzazione come funzionano le cose o quali sono le regole di base sotto il controllo di un sistema. Per alcuni individui, l’empatia è più forte della sistematizzazione ( cervello di tipo E  o cervello femminile), per altri la sistematizzazione è più forte dell’empatia ( cervello di tipo S o cervello maschile) mentre per altri individui entrambi i quozienti sono bilanciati ( cervello bilanciato o cervello di tipo B). Secondo le teorie dell’autore, un’interazione di fattori biologici e culturali spiegherebbe perché le persone di sesso femminile sono in media più empatiche dei maschi e viceversa. Differenze psicologiche tra i sessi possono essere rilevate attraverso la verifica delle regioni cerebrali che presiedono all’empatia e alla sistematizzazione. Tra le regioni che costituirebbero il cervello sociale vi è l’amigdala ( lesioni a quest’area conducono una perdita dell’empatia), la corteccia orbito-frontale e quella mediale frontale, soprattutto nell’emisfero sinistro, il solco temporale superiore. Quando cerchiamo di entrare nella mente di qualcuno per intuire le sue intenzioni e il suo stato d’animo, si illuminano, cioè presentano un maggior flusso sanguigno le connessioni che vanno dal solco temporale superiore all’amigdala. Altra struttura encefalica importante è il corpo calloso in quanto da alcune indagini risulta che nelle donne la sua sezione posteriore sia più ampia. Il presente lavoro intende valutare il Quoziente di Empatia e di Sistematizzazione descritto da Baron-Cohen, in un campione di studenti universitari di Psicologia e di Medicina dell’università di Messina, con l’obiettivo di valutare queste dimensioni dal punto di vista descrittivo e correlazionale.

English abstract

Psychologist Simon Baron-Cohen in his famous best-seller “A matter of the brain. The essential difference between men and women “(2004) will demonstrate through an analysis of well-documented that the female brain is programmed for empathy, while the male brain is programmed to the understanding and development of systems. The author is at pains to specify that these differences are, however, mean differences may well exist because a woman devoted to systematization than many men as there may be a more empathetic man of many women. In practice we can expect from a woman who is very empathetic and unsystematic but to be sure we still have to test his abilities. (Baron-Cohen, 2004). The test for the assessment of empathy and systemizing quotient, was built as a tool to test the theory ES (Empatizzazione-Systematic) (Baron-Cohen et al., 2003, Baron-Cohen & Wheelwright, 2004). It is a self-report questionnaire consisting of 120 items (60 and 60 relating to empathy inherent in the systematization) on examples that can occur in everyday life and which require the development of these skills. The subject is asked to respond to each statement by indicating his preference among four possible answers (V, aV, aF, F). Empathy is the ability to perceive and recognize the thoughts and emotions of others and to respond with feelings and behaviors. It is characterized by an affective component (affective reaction against the mental and emotional state of the people with whom you are interacting), a cognitive component (understand and predict reactions and actions), a component of mixed (cognition and emotions interact). Baron-Cohen described three types brain: 1 The type or female empatizzante; 2 The type male or systematizing 3 The balanced type. The results of these observations have led the author to think that there are in the brain “empathy type”, the most common among women, and “type systems”, the most popular among men. But of course the differences are not all here. All this can result mainly from a biological, rather than cultural, and shows how each type of brain contributes in various ways to form what we mean by intelligence. Certainly not all men have a typically male brain, just as not all women own one typically female. There are women who have better ability to systematize and are excellent scientists, engineers, architects, attorneys, and more empathetic men who show excellent psychologists, teachers, therapists, experts in human resources. Certainly a very balanced cerebral organ seems to be very rare because some hypotheses argue that you become more systematic, less is empathetic and vice versa. Baron-Cohen says that women in the general population on average have a stronger drive to empathize, and males in the general population on average have a stronger drive to systemize. People with autism spectrum conditions have low empathy but have a higher quotient of systematization. According to Baron-Cohen (2004), empathy is the drive to identify another person’s emotions and thoughts, and to respond to them with an appropriate emotion. Empathy allows you to tune in a natural and spontaneous with whatever thoughts and feelings of others. Being empathetic does not mean to respond to a limited number of emotions such as grief or sadness; means reading the emotional climate that is established between people, easy to get in the shoes of others, be sensitive enough to fully understand their state of mind and interact with them without offending them or hurt them. The subject of empathy in his interlocutor understands immediately if there is a change in mood, which may be the cause and what would serve to cheer him or incupirlo further. He reacts to the changing mood of the other in an intuitive manner by showing concern, understanding, solidarity, encouragement or whatever feelings is suitable for your circumstances. The systematization is the tendency to analyze, examine and process systems. “Who systematizes understand intuitively how things work and figure out the basic rules of a system in order to understand and predict its behavior or to invent a new one.” How empathy is able to handle hundreds of human emotions, the systematization can handle a huge number of systems but surely, is inadequate to understand the changing feelings. The empathy quotient (EQ) allows us to detect how people feel, care and sensitivity towards others, while the quotient of systematization how things work or what are the basic rules under the control of a system. For some individuals, empathy is stronger than the systematization (brain type E or female brain), for others the systematization is stronger than empathy (the brain of type S or male brain), while for other individuals both ratios are balanced (brain or balanced brain type B). According to the theories of the author, an interaction of biological and cultural factors explain why female persons are on average more empathic than males and vice versa. Psychological differences between the sexes can be detected by testing the brain regions that govern empathy and systematization. Among the regions that constitute the social brain is the amygdala (lesions in this area lead to a loss of empathy), the orbitofrontal cortex and the medial frontal, especially in the left hemisphere, the superior temporal sulcus. When we try to get into the mind of someone to guess his intentions and his mood, light, ie, have an increased blood flow connections ranging from the superior temporal sulcus to the amygdala. Another important brain structure is the corpus callosum as from some surveys show that women in its rear section is larger. The present work intends to evaluate the Empathy Quotient and Systematization described by Baron-Cohen, in a sample of university students of Psychology and Medicine. With the aim to assess these dimensions in terms of descriptive and correlational.

 

Napoli in treatment #NIT la Psico Fiction: un’intera città in Psicoterapia

Pietro Crescenzo

Napoli è la prima Città al mondo ad andare in psicoterapia con Napoli in Treatment, inedito format di video-comunicazione, ideato da Roberta De Martino.

Ebbene sì, attenzione cari colleghi psicologi e psicoterapeuti che prima o poi potrebbe bussare alla porta del vostro studio un’intera Città. E’ quello che accade al dottor Cimone, protagonista di Napoli in treatment, nuovo format ideato dalla psicologa psicoterapeuta e giornalista Roberta De Martino, promosso dall’associazione di promozione sociale Le Leggi del Mondo e finanziato dalla Fondazione Banco di Napoli.

La psico-fiction, scritta dalla stessa De Martino, insieme alla psicologa e psicoterapeuta Annalisa Cocozza, va in onda sui canali televisivi di Videometrò news network (in onda nelle metropolitane, cumane e funicolari di Napoli) e sul sito internet www.napolintreatment.it e le relative pagine fb e twitter, create ad hoc per il progetto.

D'Errico e Borruto Pierfrancesco Napoli in Treatment

Nelle venti puntate, che andranno in onda in quattro flash di un minuto circa ciascuno, si “vedrà” la signora Partenope (interpretata dall’attrice Rosaria De Cicco) arrivare affannata nello studio dello psicologo psicoterapeuta Antonio Cimone (interpretato da Francesco Mastandrea) in preda a mille ansie e lamentele. Toccherà al saggio Cimone allargare lo sguardo della sua paziente mostrandole, attraverso una psicoterapia di gruppo, accanto alle sue tante problematiche (affrontate con le metafore dei sintomi) legate all’emergenza rifiuti, l’inquinamento, la precarietà, i trasporti ecc., le tantissime risorse che, già attive in Città, si stanno occupando della risoluzione dei suoi disagi.

L’obiettivo, ambizioso, di questo progetto è di costituire un nuovo modo di fare comunicazione che, seguendo i principi dell’approccio sistemico-relazionale, provi a dare rilevanza non solo all’out-put del processo informativo ma anche e soprattutto al feed-back: una comunicazione circolare che cura le relazioni creando connessioni. La “struttura che connette” (Bateson, 1977) fa da sfondo e da organizzatore del processo psicologico di Napoli in Treatment, che si pone come raccordo e link tra realtà differenti e, spesso, mal comunicanti.

Coniugando psicologia, giornalismo e arte il giovane staff di NIT –variegato e multidisciplinare –si propone di ampliare e rafforzare le reti dei sistemi di convivenza, supportando e collegando le realtà virtuose del territorio napoletano e aiutando la difficile “paziente” a guardare da diversi punti di vista problemi vecchi e nuovi.

Francesco Mastandrea alias Cimone sul set

Il processo psicologico che è alle fondamenta di Napoli in Treatment ha visto il coinvolgimento di diversi noti professionisti psicologi e psicoterapeuti tra cui il direttore del Corso di Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica e professore alla Sapienza, Renzo Carli (supervisore esterno al progetto), il presidente dell’Ordine degli Psicologi della Campania, Antonella Bozzaotra e il didatta e direttore della sede di Napoli dell’ IIPR (Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale), Giovanni Madonna che hanno monitorato la creazione del format fin dai suoi primi passi supervisionando la costruzione del copione della dottoressa De Martino e della dottoressa Cocozza, entrambe psicoterapeute e allieve didatte dell’I.I.P.R.

La psico-fiction, girata dai talentuosi fratelli Angelo e Pierfrancesco Borruto (BBros Production), sta avendo già un ottimo successo di pubblico. Ad incuriosirsi non solo gli “addetti ai lavori” ma tanti cittadini napoletani e non solo che sembrano essere attratti da questo nuovo modo di prendersi cura dei sistemi di convivenza con ironia e il coinvolgimento della cittadinanza tutta. Partenope, come capita spesso a ognuno di noi, oscilla costantemente tra un’immagine di sé come “bellissima cartolina” o di “bruttissima spazzatura”.

Toccherà al dottor Cimone, secondo il modello teorico dell’ecologia della mente, tenere affianco immagini tanto frammentate in nome di una più salutare immagine integra.

[blockquote style=”1″]Napoli non va in psicoterapia perché è una Città più bisognosa delle altre ma perché Città autentica e forse maggiormente disposta a mettersi in discussione non negando le proprie criticità[/blockquote] sottolinea la dottoressa De Martino. Sarà forse proprio per questo che il cast di NIT, costituito anche dalla psicologa Serena Ripa e dalla dottoressa in storia e filosofia Stefania Cangiano, è riuscito a confrontarsi con più di 25 “pazienti” (cittadini, associazioni e rappresentanti delle Istituzioni) per riflettere con loro su come migliorare le proprie pratiche di lavoro per il benessere della Città. NIT mira a promuovere il “senso di appartenenza” (Carli R., 2003) come memoria della propria identità e come fattore indispensabile dalla cura, come motore della cultura locale per promuovere convivenza.

Mastandrea(Cimone) e P. Borruto

Napoli in treatment è una vera e propria rivoluzione d’amore che ha mobilitato tante energie e talenti gratuitamente per il solo benessere di Partenope. Tra di essi vanno menzionati il web designer Josè Compagnone, il grafico Carlo Manna, il segretario di produzione Davide D’Errico dell’associazione Addà Passà ‘a nuttata e le giornaliste Adele Brunetti e Caterina Piscitelli.

[blockquote style=”1″]Il messaggio che Napoli in Treatment vuole inviare ai napoletani, ma anche a chi napoletano non è, è di reimparare a desiderare, assieme, in una relazione che si allontani dall’invidia individualista e chiusa in se stessa[/blockquote] spiega saggiamente il professor Renzo Carli. Penso che il messaggio di Napoli in Treatment aiuti a pensare emozioni, aiuti a desiderare. Desiderio, nel suo etimo, vale de-sidera, in altri termini “togliere lo sguardo dalle stelle”, o se si vuole dall’onnipotenza, per accettare il limite della nostra dimensione reale. Ma a ben vedere, desiderare, nella sua accettazione del limite, significa un allontanamento dalla falsità perversa che segna la nostra cultura attuale. Significa recuperare utopia e follia. 

 

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Alessia Galucci

FLASH NEWS

I risultati hanno dimostrato che i soggetti che durante la sessione sperimentale hanno sviluppato una risposta condizionata di paura più forte riportano un numero maggiore di pensieri intrusivi e uno stato più elevato di distress.

Molte persone nel corso della loro vita sperimentano eventi traumatici, come la morte violenta di un amico o di una persona cara o l’essere coinvolti in gravi incidenti stradali. Alcune di esse non riportano delle particolari conseguenze psicologiche, altre sviluppano dei sintomi da stress post traumatico, mentre il 9% mostra un vero e proprio disturbo post traumatico da stress (PTSD) che si caratterizza soprattutto per il rivivere frequentemente ed in modo intrusivo l’evento traumatico e per la percezione di un aumentato stato di ansia ed angoscia.

Il fatto che le persone con disturbo post traumatico da stress, in seguito all’esposizione al trauma, manifestino una maggiore reattività non solo agli stimoli connessi all’evento negativo vissuto ma anche a stimoli neutri può essere in parte spiegato dalla teoria del condizionamento della paura.

Quest’ultimo è un meccanismo di apprendimento fortemente adattivo e consiste nel fatto che uno stimolo neutro (stimolo condizionato) diviene capace di evocare uno stato di paura (risposta condizionata) dopo che è stato ripetutamente associato ad uno stimolo avverso (stimolo incondizionato).

In particolare non è tanto lo stimolo neutro, che poi diventa condizionato, che determina la risposta condizionata, quanto piuttosto la valutazione dello stimolo incondizionato. Per questo l’idea è che trasformando la rappresentazione dello stimolo avverso sia possibile modulare la forza della risposta condizionata.

Quindi la presente ricerca in primo luogo ha tentato di verificare se differenze individuali nel meccanismo di condizionamento della paura possano influenzare la comparsa dei sintomi del disturbo post traumatico da stress; in secondo luogo ha confrontato l’efficacia degli effetti di due tecniche che normalmente vengono utilizzate durante la finestra di consolidamento del ricordo traumatico in pazienti con PTSD, l’esposizione alla memoria del trauma e la riformulazione verbale del significato dell’evento negativo vissuto. Ciò è particolarmente importante in quanto, benché gli interventi più efficaci nei casi di PTSD si basino su tecniche verbali, nessuna ricerca finora le ha usate per alterare la memoria del trauma.

Lo studio ha coinvolto 115 soggetti sani i quali, dopo una prima fase di screening, sono stati sottoposti ad un meccanismo di condizionamento della paura, infatti venivano mostrati loro sei spezzoni di film paurosi ed angoscianti, preceduti da delle brevi narrazioni (stimolo incondizionato) ripetutamente associati a stimoli neutri (stimolo condizionato) come immagini di cerchi e quadrati.

La risposta condizionata veniva misurata attraverso l’alterazione della conduttanza cutanea. Successivamente, i soggetti venivano casualmente abbinati a tre diversi gruppi sperimentali, il primo in cui veniva applicata la tecnica dell’esposizione per cui i partecipanti rivedevano i sei spezzoni di film, il secondo in cui si faceva ricorso alla tecnica della riformulazione verbale per cui ai soggetti venivano ripresentati gli stessi film ma le narrazioni iniziali fornivano delle informazioni aggiuntive su cosa accade ai protagonisti ed infine il terzo, cioè il gruppo di controllo, in cui i soggetti vedevano filmati con contenuti neutri.

Al termine della sessione sperimentale ai partecipanti veniva chiesto di tenere un diario per una settimana in cui annotare i pensieri intrusivi e l’esperienza di angoscia ad essi connessa.

I risultati hanno dimostrato che i soggetti che durante la sessione sperimentale hanno sviluppato una risposta condizionata di paura più forte riportano un numero maggiore di pensieri intrusivi e uno stato più elevato di distress.

Ciò è in linea con l’idea che le differenze individuali nel meccanismo di condizionamento possano spiegare perché alcune persone, in seguito ad un evento traumatico, manifestano sintomi tipici del PTSD ed altri no e la gravità degli stessi.

Inoltre l’alterazione maggiore della conduttanza cutanea è stata osservata nel caso dei soggetti che facevano parte del gruppo in cui veniva applicata la tecnica della riformulazione verbale; l’aumento dell’arousal permetteva ai partecipanti di spostare l’attenzione sulle informazioni verbali aggiuntive contenute nelle narrazioni e ciò dava loro la possibilità di modificare la valutazione negativa dei contenuti dei film e quindi la memoria del trauma.

Questi soggetti riportavano di conseguenza un numero minore di pensieri intrusivi e di sintomi simili a quelli del PTSD.
I risultati della ricerca sono in linea con le ipotesi sperimentali e mettono in luce come le tecniche verbali possano rappresentare un valido e non invasivo strumento di intervento con i pazienti affetti da PTSD. Tuttavia si sottolinea la necessità di altri studi dati i diversi limiti che caratterizzano quello in questione.

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Triglie alle arance nella Sicilia dei pugili – Taste of Mind Nr.02

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Triglie marmellata d’arance e ….

 

Davide Enia - Così in terra. COPERTINAHo trovato grazie a una amica, Cristiana, un libro, che altrimenti non avrei letto e che ho trovato bellissimo, di Davide Enia, Così in terra. Scaricato su Kindle, letto di corsa con commozione, ammirata della scrittura siciliana della storia, una storia orgogliosamente “non di mafia”, ma di povera gente che nel corso delle generazioni sa diventare grande.

Tre generazioni di pugili inseguono il successo in nazionale pesi medi, in una Sicilia amara, ma non senza speranza, non priva di vitalità.

Un vero romanzo di formazione, i protagonisti si muovono, cambiano, si evolvono, le storie non sono scontate e il finale è inaspettato. Il protagonista Davidu’ tiene il filo principale della storia con forza, consapevolezza e insieme ingenuità. E’ impulsivo e saggio. Un ragazzo guarito.

Il motivo per cui oggi vi parlo di questo libro è che nel bel mezzo del racconto, in modo generoso e inaspettato, l’autore ci regala una chicca, una ricetta di pesce che ho provato e che mi ha lasciato incantata.

Il pesce fa bene, (proteine nobili, grassi polinsaturi, omega3) e non solo al corpo ma anche allo spirito. E il fatto che prevenga l’osteoporosi ci aiuta a invecchiare bene. Invecchiare bene è soprattutto accettare di invecchiare cogliendo nel tempo che passa tutte le occasioni di pensiero saggio che ci occorre per vivere questa fase della vita in pace.

Poi personalmente non esagero neanche con il pesce perchè è animale vivo e tutte le volte che si può sostituire con legumi facciamo un piccolo dono al pianeta. Ma di legumi parleremo un’altra volta. Ora torniamo alla Sicilia. Nella ricetta il pesce sono le triglie, ma vanno bene anche i filetti di cernia, o qualsiasi pesce non enorme ma dalla carne dolce e buona, proverei le mustine o lo scorfano.

 

 

Gli ingredienti sono pochissimi:

  • il pesce
  • la marmellata di aranci
  • la mollica di pane
  • pistacchi e mandorle tritate

 

Le triglie si spalmano bene di marmellata di arancio, (direi senza esagerare, altrimenti troppi zuccheri), si impana con mollica di pane, trito di pistacchi e mandorle (piene di proteine, vitamine A e E, sali minerali come manganese e fosforo, e grassi benefici monoinsaturi), Si aggiunge poco sale e poco pepe. Si inforna e si cuoce. Il giusto.

Punto, Ricetta perfetta.

Sia dal punto di vista del sapore (dolce amaro l’arancio, poco salato il pesce, grasso e morbido l’impasto di frutta secca e mollica) che dei nutrienti. Basta una verdura lieve e il pasto non ha bisogno d’altro.

Forse il punto forte della ricetta è proprio questo alternarsi di sapori diversi, questa scelta di non divenire mai un sapore unico e ben amalgamato, ma il saper conservare un certo stridore, una disarmonia di fondo, che rende il tutto degno di essere provato.

Più mangio siciliano e più penso che questa cucina sia coraggiosa fino alla sventatezza per la sua capacità di mettere insieme sapori acidi e dolci, amari e salati, calmi e irruenti. Perché sa muoversi con sapienza nel disordine dei sapori creando una musica che ci stupisce.

Si, la Sicilia sa rischiare. In cucina almeno.

 

CONSIGLI PER L’USO:

Questa ricetta è consigliabile se siete annoiati, se accusate la monotonia o se sentite che il vostro pensiero ha voglia di volare più libero…

 

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La terapia cognitivo comportamentale per il perfezionismo clinico Report dal Workshop di Firenze

Il 7 e 8 maggio l’Istituto di psicologia e psicoterapia cognitivo-comportamentale (Ipsico) ha organizzato a Firenze un workshop sulla terapia cognitivo-comportamentale (CBT) del Perfezionismo Clinico, condotto dalla Prof.ssa Roz Shafran, autorità mondiale in campo scientifico, Professor of Translational Psychology at Univesity College London and founder of the Charlie Waller Institute of Evidence-Based Psychological Treatment.

“La Tirannia dei dovrei…”. Con questa espressione Horney già negli anni ’50 del ‘900 descriveva un costrutto come quello del Perfezionismo, che è divenuto oggi, all’ interno della psicoterapia cognitiva, uno dei terreni di confronto e dibattito più accesi da parte di clinici e ricercatori di tutto il mondo.

Allettato dall’idea di poter venire a contatto con una grande esponente della CBT anglosassone, mi reco a questo corso di formazione specialistico. La partecipazione a questo evento ha fornito all’uditorio la possibilità di assaporare un prezioso spaccato di internazionalità: una lente di osservazione e un modello di lavoro con il paziente che è spesso lontano dallo stile del terapeuta cognitivista italiano.

La docente ha mostrato gli aspetti teorici del suo costrutto di perfezionismo e le implicazioni cliniche sul trattamento. Il perfezionismo infatti invade trasversalmente molti quadri clinici quali ad esempio i Disturbi d’ansia, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC), i Disturbi Alimentari, la Depressione ecc.

Shafran accenna inizialmente al dibattito scientifico in corso sul perfezionismo chiedendosi: [blockquote style=”1″]Cosa è il veramente il perfezionismo?[/blockquote] Nella sua risposta, l’autrice, a partire dal funzionamento cognitivo del DOC, definisce il suo modello di perfezionismo clinico come di tipo non multidimensionale, ma più “lineare”, come [blockquote style=”1″]la dipendenza eccessiva dalle autovalutazioni, dalle aspettative molto esigenti che sono autoimposte, in più di un campo, pur nella loro persistenza delle conseguenze spiacevoli[/blockquote] e sottolinea, differenziandosi da altri modelli psicologici e ribadendo con la sua aderente alla CBT, che il perfezionismo non è un tratto di personalità (“non tutti gli ambiti infatti sono invasi….esistono aree libere”).

Entrando più nel dettaglio, a partire dall’idea di “autostima eccessivamente centrata sul risultato”, a seguito della quale i soggetti definirebbero i loro alti standard da perseguire (“Devo e Dovrei…”), partirebbe un modello a due vie: da una parte il caso del fallimento degli obiettivi autoimpostisi (“Mai abbastanza”, Egan & Wad, 2012) con conseguenti emozioni sgradevoli e la messa in atto di comportamenti di contrapposizione (es. comportamenti di controllo nel DOC), evitamento oppure procrastinazione. Dall’altra parte è previsto un percorso più flessibile e adattivo, in cui esiste la possibilità di modifica e ridefinizione degli standard perseguiti dal soggetto.

La Shafran definisce pertanto la differenza tra perfezionismo “sano” e perfezionismo clinico prendendo come modello di funzionamento non patologico quello dell’atleta, un individuo capace – in caso di insuccesso – di ridefinire gli obiettivi e modificare i propri scopi. Diversamente, nel perfezionismo patologico, il fallimento degli alti e rigidi standard, sommato alle tipiche distorsioni cognitive (“biases”) e associato ad una valutazione non corretta della prestazione porterebbe l’individuo all’ autosvalutazione di sé e di conseguenza ad autorinforzare gli aspetti di autocritica.

Il protocollo illustrato da Roz Shafran è breve (6-10 sedute previste nel Sistema Sanitario Inglese) e caratterizzato dalla somma di interventi ben definiti: l’assessment e il monitoraggio dei comportamenti perfezionistici, la formulazione del caso, la psicoeducazione e gli esperimenti comportamentali finalizzati alla disputa delle credenze disfunzionali. Infine, nel processo terapeutico che affronta il perfezionismo clinico, l’autrice sottolinea l’importanza della relazione terapeutica e del rischio di droup-out, consigliando di rassicurare il soggetto che l’obiettivo della terapia non sarà quello di abbassare i suoi standard, bensì di partire dalle aree libere da questo “meccanismo perverso”.

Dal workshop quindi emergono, come linee guida di intervento, la necessità di fornire un trattamento limitato nel tempo, evidence-based e pertanto molto focalizzato sull’ obiettivo. La docente ha saputo fornire molti esempi clinici, con la visione di sedute in cui la terapeuta indagava le “regole di vita” del paziente proponendo interventi di distanziamento e ristrutturazione. Da queste due intense giornate di lavoro teorico, clinico ed esperienziale emergono pertanto come elementi cardine della CBT del perfezionismo, l’importanza sia della rigorosità nella formulazione del caso, sia dell’utilizzo di un modello teorico e di intervento che venga applicato con empatia, così da non perdere il contatto clinico con il paziente e con il suo mondo interno.

 

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