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Politica: le promesse mancate ce le andiamo a cercare?

In politica e nel calcio spesso capita di avere delle aspettative e di ricevere dall'altro delle promesse che poi non vengono mantenute. Che si fa allora?

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 22 Apr. 2015

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta del 19 Aprile 2015.

 

Forse chi crede nelle promesse è anche qualcuno che promette troppo a se stesso. Come nelle relazioni patologiche in cui il ruolo è il rovesciamento del ruolo speculare dell’altro.

In politica e nel calcio e forse nella vita le promesse mancate, le bombe inesplose, sono la regola. Nel calcio rimangono dei nomi nella memoria che raccontano sogni mancati: Comandini, Ventola, Morfeo, Gascoigne e Denilson. E poi Recoba. Ancora più lontano nel tempo ricordo un uruguayano, tale Ruben Paz. Perfino per un distratto orecchiante di calcio come me questi nomi significano qualcosa in cui si era molto sperato e poi molto disperato. E nel calcio la promessa mancata è in genere un ricordo malinconico. 

In politica la promessa mancata si carica invece di risentimento e rancore. Leggo sui quotidiani che in Brasile la presidentessa Dilma è una delusione, una promessa mancata. Sono pessimista, credo che tutta la politica sia sempre una promessa mancata e che quel poco che c’è di buono in essa consista nella capacità comunque di apprezzare i pochi risultati positivi che talvolta ci regala, sempre ben inferiori rispetto alle promesse. Ogni capo politico, ogni eroe è anche il punto di convergenza di speranze, aspettative, delusioni e infine rancori (https://www.stateofmind.it/2015/04/capro-espiatorio-violenza-societa-2/). Ovvero di odio. Questa parabola è inevitabile. Ed effettivamente, se ci pensiamo bene, ancor oggi è così. Pensiamo a Obama: dopo le speranze eccessive la disillusione, altrettanto eccessiva. 

In un tempo antichissimo, la promessa mancata dei politici preludeva al loro linciaggio, inizialmente spontaneo e bestiale, poi ritualizzato. E se nel momento della crisi e della disillusione il legame sociale e la solidarietà di gruppo si erano deteriorati in una diffidenza di tutti contro tutti a rischio di diventare una guerra civile, nel linciaggio del capo, spontaneo o rituale, la solidarietà si ricomponeva. In molte società tribali era previsto che il re regnasse per un periodo predeterminato, dopo il quale era ritualmente ucciso (Fornari, 2006; Girard, 1982).

Questa cerimonia aveva sostituito i precedenti scoppi periodici di guerre civili, faide e vendette reciproche. In seguito, anche l’uccisione del capo andò incontro a una progressiva civilizzazione. Inizialmente un sacrificio umano sostituì quello del re in carica. Poi si passò a sacrifici animali fino ad arrivare a cerimonie di morte e resurrezione solo metaforiche.
Naturalmente, nulla è superato per sempre. Eliminazioni più o meno formalizzate di capi politici sono avvenute anche dopo l’istituzione e l’estinzione dei sacrifici umani. Da Cesare a Luigi XVI fino a Gheddafi fare il capo politico è sempre un mestiere ad alto rischio. Per comandare occorre promettere, e se si promette prima o poi si delude, scatenando la reazione di chi abbiamo illuso.

Si può sfuggire a questo intreccio perverso di promessa e delusione? Di idealizzazione e svalutazione? Si può sfuggire a schemi rigidi o pervasivi che prevedono sempre lo stesso tipo di relazione? In cui i comportamenti relazionali tendono a diventare ripetitivi e stereotipati? (https://www.stateofmind.it/2012/05/dimaggio-intervista-tmi-cicli-interpersonali/) In cui l’eterna attesa di promesse meravigliose porta a un’eterna disillusione? Cosa è rimasto dell’atmosfera messianica che circondò la campagna elettorale di Barack Obama, fino ad arrivare al video che diffondeva su youtube la canzone intonata da Will.i.am dei Black Eyed Peas e ispirata dal discorso ‘Yes We Can’?
Forse chi crede nelle promesse è anche qualcuno che promette troppo a se stesso. Come nelle relazioni patologiche in cui il ruolo è il rovesciamento del ruolo speculare dell’altro. Come accade nel caso classico dei ruoli di abusato e abusante, descritto in alcuni disturbi di personalità, in cui persone che sono state vittime di maltrattamenti tentano di raggiungere una transitoria tranquillità rispetto al timore di essere oggetto di violenza o sopraffazione esercitando sugli altri una violenza preventiva.

Oppure immaginiamo una persona, un elettore, che percepisce tendenzialmente se stesso come qualcuno cui è stata promessa una palingenesi o almeno un qualche cambiamento sostanziale nella sua vita e vede l’altro, il politico, come colui che ha promesso questa palingenesi, o questo possibile cambiamento. Forse alla base di queste aspettative redentive di molti elettori, aspettative che si rinnovano periodicamente all’ emergere di nuove figure politiche, vi è una memoria dolorosa d’insoddisfazione o di esclusione. Ed ecco che la psicologia ci suggerisce che chi davvero promette un cambiamento profondo non è tanto il politico, l’aspirante eletto ma l’elettore stesso, desideroso di trovare nella politica un compenso alle sue insoddisfazioni. È quindi l’elettore stesso che ha fatto a se stesso una promessa che non è in grado di mantenere.

Questa però suona un po’ troppo come il classico parere dello psicologo, che va a dire al paziente che egli stesso contribuisce a causare i problemi di cui soffre. E questo genera colpevolizzazione, perché è come dire al paziente: “Te la vai a cercare”, facendo sentire il paziente giudicato (https://www.stateofmind.it/2012/05/dimaggio-intervista-tmi-cicli-interpersonali/). Interventi del genere frequentemente generano un potenziamento dell’immagine negativa di sé, che a sua volta può generare depressione o ostilità. Lo psicologo viene così percepito come un giudice critico, dominante, ostile.

Che fare, allora? Seguiamo Giancarlo Dimaggio, psicoterapista che si è occupato di come rendere le persone consapevoli dei loro schemi senza colpevolizzarle, e vediamo se la sua saggezza è applicabile a noi che cadiamo vittime di eterne promesse, elettorali e non. Dimaggio raccomanda di partire non dalla colpevolizzazione, ma dall’accesso al desiderio: “Lei desidera realizzare quello e si aspetta che gli altri reagiscano così e a causa di questo tende a cadere. La terapia tenta di darle una luce nuova nella vita”. Questo già di suo dà speranza, è progettuale e genera un’attitudine positiva (https://www.stateofmind.it/2012/05/dimaggio-intervista-tmi-cicli-interpersonali/).

Cosa desidera realizzare l’elettore votando? Che si realizzino i suoi sogni. Il che è buono e giusto. Occorre però che si sia coscienti di questo enorme investimento personale su una persona che, pur sembrandoci sincera e intima come Obama sapeva esserlo mentre pronunciava il suo celebre discorso, in realtà nulla sa di noi ed è costretto da noi stessi a non essere del tutto sincero, a non dirci francamente c’è poco da promettere e ancor meno da sperare e quello che si può realizzare sarà sempre molto meno di quanto atteso. Nessuno lo voterebbe. Quegli stessi elettori pronti a indignarsi davanti alle promesse non mantenute, presumibilmente non voterebbero un politico che facesse solo promesse certamente realizzabili, ovvero minimali.

Che si fa allora? Ci si rassegna a questo gioco delle parti, a questa doppia menzogna? Forse si. Però possiamo iniziare a vivere tutto questo con maggiore consapevolezza, con leggerezza più distaccata, non cadere vittime né dell’entusiasmo facile delle promesse e nemmeno della sterile saggezza di chi non sa dare fiducia negli altri.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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