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Il dolore nei bambini e le strategie psicopedagogiche d’intervento

Relativamente al dolore dei bambini, spesso, gli adulti hanno dei preconcetti, primo fra tutti il pensare che esso sia difficilmente misurabile. In realtà, esistono dei parametri e delle scale di valutazione che consentono di quantificarlo. Per lenire il dolore, sia acuto che cronico, dei piccoli, oltre alle terapie farmacologiche, esistono delle strategie psicopedagogiche che possono essere utilizzate da genitori, educatori e insegnanti.

Keywords: bambini, dolore, genitori, insegnanti, educatori, psicologia dell’educazione

 

La percezione del dolore nel bambino

La percezione del dolore nel bambino avviene precocemente. Ciò è confermato da numerose ricerche (Benini, Barbi, Gangemi, Manfredini, Messeri e Papacci, 2013, pag. 206), che hanno dimostrato come tale consapevolezza comincia già nella vita fetale. Infatti, fra i tre e i sei mesi, il feto sviluppa la morfologia anatomica e la funzionalità neurochimica che gli consente di avvertire il dolore. Dalla nascita in poi si crea la cosiddetta memoria del dolore. Laddove questa esperienza è frequente, nel piccolo si hanno delle ripercussioni nell’ambito psicologico e relazionale.

 

I preconcetti degli adulti sul dolore infantile

Frequentemente gli adulti hanno delle idee preconcette relative al dolore infantile. A questo riguardo si possono citare le più comuni.
Molti ritengono che il piccolo esageri nel manifestare il suo dolore e che la sua capacità di percezione sia fluttuante (op. cit., pag. 206).
Sovente alcune manifestazioni, che accompagnano le sindromi algiche del bambino, sono considerate capricci dell’età (op. cit., pag. 206).
Diversi genitori disconoscono la portata negativa che il dolore esercita sulla qualità della vita del minore (op. cit., pag. 206).
Alcuni pensano che non sia possibile quantificare il dolore infantile.
Relativamente a quest’ultimo preconcetto, esso è vero in parte, in quanto esistono dei parametri e delle scale di valutazione che consentono di quantificare l’algia infantile. Anche se, non si può negarlo, esistono delle limitazioni derivanti, in primo luogo, dall’ età stessa del piccolo e, in seconda istanza, dalle componenti affettive ed emozionali che ipotecano la sintomatologia dolorosa.

I parametri per la valutazione del dolore infantile

La valutazione del dolore può basarsi sulla considerazione di alcuni parametri, che possono essere distinti in fisiologici, comportamentali, autovalutativi ed eterovalutativi.
Fra le variabili fisiologiche sono da considerare:
la frequenza cardiaca (il dolore incrementa il numero dei battiti cardiaci);
la frequenza respiratoria, che si implementa;
la pressione arteriosa, che tende ad aumentare;
la sudorazione palmare, che appare più copiosa (op. cit., pag. 208).

Fra le variabili comportamentali sono da annoverare:
la postura: il dolore altera lo schema posturale fisiologico;
la mimica facciale: è nota la ripercussione che il dolore ha sul viso, accentuando le normali pieghe cutanee;
la motricità: il bambino che soffre mostra una certa goffaggine nei movimenti, che sembrano perdere quella fluidità che caratterizza la motricità infantile;
il pianto: il piccolo tende a piangere più frequentemente e per un nonnulla (op. cit., pag. 208).

Fra le variabili autovalutative sono da menzionare le narrazioni che i bambini fanno del proprio dolore, utilizzando il linguaggio verbale. Questa procedura può essere utilizzata con minori con sviluppo tipico, che hanno un’età superiore ai quattro anni (op. cit., pag. 208).
Fra i parametri eterovalutativi sono da citare le osservazioni – descrizioni prodotte dagli adulti di riferimento. Spesso tale modalità si utilizza con bambini con sviluppo atipico, che presentano disabilità cognitive o neuromotorie (op. cit., pag. 208).

 

Le scale di valutazione del dolore infantile

Per quanto riguarda la quantificazione del dolore si utilizzano tre scale di valutazione, a seconda dell’età del minore.
Per i bambini al di sotto dei tre anni, che non possiedono ancora una competenza linguistica completamente strutturata, si usa la scala FLACC, che è basata sull’osservazione degli adulti. In pratica, sono analizzati cinque parametri:
l’espressione del viso;
la posizione delle gambe;
l’attività che l’infante compie;
la presenza o assenza del pianto;
la consolabilità (op. cit., pag. 209).

Ad ognuna di queste variabili è attribuito un punteggio da zero a due, a seconda della presenza o assenza di determinate caratteristiche, in modo tale che il punteggio totale va da zero a dieci. Per esempio relativamente all’ espressione del viso, ad un viso sorridente è assegnato il punteggio zero, ad una mimica facciale corrucciata si attribuisce il punteggio uno e ad una espressione terrorizzata, caratterizzata dalle sopracciglia aggrottate, dalla rima labiale serrata e dal tremore del mento, si dà il punteggio due (op. cit., pag. 209).

Per i piccoli che hanno un’età compresa fra quattro e sette anni, ovvero che possiedono la competenza comunicazionale, si utilizza la scala di Wong – Baker FACES. Essa è composta da una serie di faccine, che vanno da nessun male, con un punteggio pari a zero, rappresentato da una faccina sorridente, al peggior male possibile, che corrisponde a dieci punti, ed è rappresentato da una faccina, che, con un’espressione corrucciata, piange.

Si invita il bambino ad indicare quale faccina esprime il male o il dolore che sente. A questo proposito, si utilizza la parola male per i bambini fino a cinque anni e il termine dolore per i più grandi (op. cit., pag. 209).
Per i minori dagli otto anni in su si usa la scala numerica, ovvero una scala di numeri che va da zero, che esprime l’assenza di dolore, a dieci, equivalente al peggior dolore possibile. Si chiede al bambino di indicare a quale numero può essere paragonato il suo dolore (op. cit., pag. 210).

 

Le strategie per il controllo del dolore infantile

Come affermato da Benini, Barbi, Gangemi, Manfredini, Messeri e Papacci (op. cit., pag. 210), il dolore dei bambini è costituito da una miscela di più fattori, che sono fisiologici, clinici, ambientali, psicologici, sociali e culturali. Questo dà origine a due strategie d’intervento, fra loro complementari, quella farmacologica e quella psicopedagogica.

 

La strategia farmacologica nel controllo del dolore infantile

Nella strategia farmacologica, di stretta competenza medica, a cui si accennerà brevemente, si utilizzano farmaci appartenenti a quattro classi:
gli analgesici, come ad esempio il paracetamolo, l’ibuprofene e il ketoprofene, che si usano prevalentemente nel dolore lieve – medio (op. cit., pag. 211);
i farmaci oppiacei, come la codeina, il tramadolo e la morfina, che sono necessari per il dolore più severo (op. cit., pag. 212);
i farmaci adiuvanti, come l’amitriptillina (un antidepressivo triciclico), il lorazepam (un ansiolitico benziodiazepinico), il desametasone (un cortisonico), che sono impiegati per alcuni tipi particolari di dolore infantile o per diminuire gli effetti collaterali degli altri farmaci adoperati (op. cit., pag. 213);
gli anestetici locali, che, sotto forma di creme, costituiscono il rimedio per piccoli dolori regionali (op. cit., pag. 214).

 

Le strategie psicopedagogiche nel controllo del dolore infantile

Ci sono alcune metodologie che possono essere utilizzate dagli adulti (genitori, educatori e insegnanti) che, a vario titolo, si occupano dei bambini. Tali strategie sono diversificate a seconda dell’età del bambino e possono essere adoperate in abbinamento alle terapie farmacologiche. Esse sono impiegate sia per lenire il dolore acuto che quello cronico.Con gli infanti di età inferiore o uguale ad un anno possono essere usate delle metodiche che hanno la finalità di distrarre il piccolo dal suo dolore. Fra esse si possono citare: i giochi con oggetti colorati; l’attività ludica con giocattoli che si muovono; i giochi con pupazzi di peluche; il gioco delle bolle di sapone (op. cit., pag. 216).

Con i bambini da uno a tre anni si possono adoperare: la narrazione di favole; lo sfogliare libri illustrati; il gioco delle bolle di sapone; i giochi con pupazzi di peluche; la visione di cartoni animati; lo spiegare al bambino le cause del suo dolore; l’inventare delle storie che, sotto forma di metafore terapeutiche, possono aiutare il piccolo a controllare il dolore (op. cit., pag. 216).

Con i bambini di età compresa fra tre e sei anni si possono impiegare: il gioco con i videogame; le tecniche d’immaginazione finalizzate al controllo del dolore; la narrazione di favole; la visione di cartoni animati; lo spiegare al bambino le cause del suo dolore; l’inventare delle storie che, sotto forma di metafore terapeutiche, possono aiutare il piccolo a controllare il dolore; l’utilizzo di esercizi respiratori che servono a regolare il respiro del bambino con la finalità di rendere più lenta la sua frequenza respiratoria (op. cit., pag. 216).

Con i bambini fino ad otto anni si possono utilizzare: gli esercizi di rilassamento; la visione di cartoni animati; il gioco con i videogame; alcune tecniche di ipnosi clinica, adatte ai bambini, come, ad esempio, l’immaginare, ad occhi chiusi, di palleggiare una palla con il palmo della mano (Gorisse, 1988, pag. 64 – 65).
Con i bambini più grandi si possono usare tutte le tecniche psicologiche che si adoperano con gli adulti per controllare il dolore (op. cit., pag. 216).

 

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Neuroscienze: esiste un legame neurobiologico tra il dolore fisico ed emotivo

 

BIBLIOGRAFIA:

Quando ricordare significa dimenticare – Psicologia

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Il semplice atto del ricordare può essere una delle ragioni che ci porta a dimenticare. Ma che significa? In altre parole il ricordo di qualcosa ci porta a dimenticare altre esperienze che sono interferenti con il processo del recupero mnestico di uno specifico elemento.

Secondo una ricerca pubblicata recentemente su Nature Neuroscience, in tal senso il dimenticare sarebbe un meccanismo adattivo della nostra mente. In particolare le immagini del funzionamento cerebrale evidenziano che tale meccanismo adattivo è legato alla soppressione del pattern di attivazioni corticali di alcune memorie interferenti: quindi ricordare non significa soltanto e semplicemente richiamare e recuperare qualcosa dalla nostra mente ma inevitabilmente comporta l’alterazione dinamica del complesso delle nostre memorie.

Secondo lo studio di neuroimaging, dunque, le memorie e i ricordi individuali attiverebbero specifici circuiti cerebrali legati a una determinata categoria di esperienze; nel prosieguo del processo di recupero mnestico accadrebbe che, mentre rimangono attivi alcuni pattern, conseguentemente se ne sopprimono (in termine tecnico si de-attivano) altri interferenti.

Durante l’esperimento di neuroimaging ai partecipanti veniva richiesto di richiamare alla memoria più volte (almeno 4) specifici ricordi rispetto ad altre memorie simili; con questa semplice procedura, in aggiunta alla tecnica di neuroimaging, è stato identificato dunque il meccanismo neurocognitivo della soppressione di memorie interferenti  e non solo della attivazione di specifici pattern corticali in corrispondenza del processo di recupero mnestico frequente e ripetitivo.

 

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Salvare i documenti ci permette di migliorare la nostra memoria!

 

BIBLIOGRAFIA:

Disfattismo all’italiana: quell’indignazione al sapore di ruminazione rabbiosa

Segnaliamo l’articolo di Annamaria Testa perchè è importante, sia dal punto di vista psicologico che sociale.

Psicologicamente, l’uso indiscriminato dell’indignazione ha forti analogie con uno stato mentale, il rimuginio rabbioso, che è alla base di molte sofferenze emotive.

Queste sofferenze non riguardano solo il singolo, ma anche le sue relazioni con gli altri, che ne vengono danneggiate, finchè il danno diventa sociale.

Si dirà: davanti a ciò che non va è bene indignarsi. In un certo senso si, ma va fatto in maniera fattiva e non compiaciuta. Le cose che non funzionano vanno risolte o modificate.

E modificare le cose presuppone un atteggiamento di consapevolezza distaccata. Il coinvolgimento emotivo dell’indignazione può essere molto gratificante, ma è dubbio che ci suggerisca soluzioni concrete.

 

Prima di presentarvi il mio elenchino di funzioni e vantaggi, però, devo chiarire una cosa: salvo un’eccezione, che vedremo, di norma quella che Magris chiama “autodenigrazione” non viene applicata a se stessi in quanto individui. A essere denigrati, in realtà, sono sempre gli altri. E questo succede perfino quando il denigratore, travestendosi da anima bella che è vittima, suo malgrado di un inestirpabile male collettivo, usa l’artificio retorico di mettere anche se stesso nel mazzo dei denigrati ed esordisce con un ecumenico “noi italiani”.
Quel “noi italiani”, implicitamente, sta però a significare “tutti gli altri italiani tranne me, la mia mamma, i miei amici, le altre anime belle che mi seguono e sono indignate quanto me”. E che parleranno al bar di quello che dico. Metteranno un “mi piace” su Facebook. Twitteranno e diffonderanno il ritornello autodenigratorio, gustandosene le parti più saporite come se fossero caramelle, possibilmente senza azzardarsi a distinguere, ad approfondire, a verificare le fonti, insomma: a evitare la fallacia della generalizzazione…

 

Disfattismo all’italiana: funzioni, vantaggi, rischi e rimediConsigliato dalla Redazione

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Autodenigrazione e disfattismo: perché in Italia sono così diffusi? Denunciare storture è giusto, ma il lamento è deleterio. Eppure offre dei vantaggi… (…)

 

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Autolesionismo negli adolescenti – Introduzione alla Psicologia Nr. 10

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (10)

 

 

Qualunque condotta autolesionistica consente di spostare la propria attenzione sul dolore fisico, non occupandosi di quello emotivo, da cui alla fine genera tutto.

Cutting, Burning, Branding, ovvero autolesionismo. È un fenomeno sempre più diffuso tra gli adolescenti grazie alla divulgazione di una serie di video sui social network come Facebook o su canali come youtube, in cui sono impresse immagini di ragazzi che mettono in atto pratiche di autolesionismo. Vediamo in cosa consiste.

Si tratta di gesti volti contro la propria persona in cui si prova a farsi del male, come tagliarsi la pelle con lamette o qualsiasi altro oggetto affilato, ad esempio chiodi, forbici, coltelli, fermagli, pezzi di vetro, bruciarsi con le sigarette o marchiarsi a fuoco con un laser o un ferro rovente.

Tutto questo non ha niente a che fare con il suicidio, anzi si è ben lontani da esso, ma è una pratica volta a provare dolore.

Qualunque condotta autolesionistica consente di spostare la propria attenzione sul dolore fisico, non occupandosi di quello emotivo, da cui alla fine genera tutto. Di conseguenza, grazie al corpo lesionato si è in grado di comunicare quello che non è possibile fare attraverso le parole.

Queste pratiche sono molto diffuse tra gli adolescenti e le ragazze sono decisamente più avvezze alla messa in pratica di questi comportamenti (rapporto di 9 a 1). Non esistono statistiche certe sulla diffusione di queste pratiche, ma il SIBRIC (Self Harm & Self Injury, il portale dedicato allo studio e all’informazione sull’autolesionismo) riporta dati che parlano di comportamenti autolesionistici nel 42% degli adolescenti tra i 13 ed i 22 anni.

Le condotte autolesive possono verificarsi per:

  • Un senso di profondo vuoto interiore, soprattutto nei gravi disturbi di personalità e negli stati dissociativi dovuti a gravi traumi o abusi. La pratica di ferirsi diventa un’esperienza che riconnette con la vita: la vista del sangue e la sensazione dolorifica del corpo riconduce alla realtà dopo che la mente, ferita e traumatizzata, si stacca dall’esperienza attuale.
  • Il sentirsi soli, non avere un luogo dove rifugiarsi nei momenti difficili, di tristezza, di rabbia o di solitudine, il ferirsi diventa la miglior strategia usata per scaricare la tensione insopportabile provocata da questi stati d’animo, o per illudersi di poterle controllare anziché esserne travolti. Subito dopo essersi feriti, la sensazione provata è di sollievo, di pace, di liberazione. Ma, queste emozioni positive, subito dopo cedono il passo a quelle negative tra cui emergono il rimorso e la vergogna.

Sentirsi sollevati dal dolore emotivo o dal vuoto, anche solo per pochi momenti, induce la persona a ferirsi nuovamente.

Si installa, in questo modo, un circolo vizioso simile a quello della dipendenza, dove l’emozione positiva provata, funge da incipit per il comportamento autolesivo successivo.

Quindi, pensare di smettere di tagliarsi richiede un enorme atto di volontà, derivante indubbiamente da un aiuto proveniente da un esperto, che possa portare a trattare la sofferenza con altre modalità.

Una tra tutte è gestire e tollerare la rabbia provata, la frustrazione e la solitudine, senza agire contro se stessi.

Esistono dei segni inequivocabili, che fungono da campanello d’allarme, e sono:

  • portare maniche lunghe anche fuori stagione o vestiti eccessivamente coprenti anche se non necessari;
  • macchie di sangue sui vestiti;
  • Isolamento, passare molto tempo in camera chiusi o in bagno;
  • avere accesso a molti oggetti acuminati o lamette, pezzetti di vetro o di ceramica, coltellini;
  • eccessiva irritabilità, rabbia frequente, agiti e scarso controllo di forti emozioni.

Aiutare una persona che mette in atto gesti autolesivi è un percorso lungo e doloroso. È fondamentale in questo iter non criticare mai, non colpevolizzare o mortificare. La cosa fondamentale è far capire alla persona che può essere sostenuto e supportato, capito e riconosciuto.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Panico ed Agorafobia: non tutto il male vien per nuocere

Se c’era una cosa secondo me chiara nella modellistica cognitiva dei disturbi d’ansia era il rapporto tra panico ed agorafobia. Con queste poche certezze vedevo pazienti cui spiegavo questi meccanismi, scrivevo libri sui disturbi d’ansia e vivevo dunque in grazia di Dio. Poi per la prima volta nella tarda primavera di tre anni fa un’esperienza di grande timore a ritrovarmi in spazi aperti con conseguente evitamento degli stessi.

Se c’era una cosa secondo me chiara nella modellistica cognitiva dei disturbi d’ansia era il rapporto tra panico ed agorafobia. In sintesi riassumibile così: il panico può essere innescato da qualsiasi paura per una minaccia esterna ma immediatamente dopo la minaccia diviene interna. Il soggetto non riconosce come tali i segni dell’attivazione adrenergica della paura ma li interpreta come una gravissima minaccia interna alla propria salute fisica o mentale (teme di morire o di impazzire) ed entra in quel loop di autorinforzo chiamato circolo di Clark noto anche come la paura della paura. L’esperienza dell’attacco di panico è così brutta che il soggetto inizia ad evitare i luoghi in cui l’ha sperimentata o prevede possa verificarsi e questa è l’agorafobia che si presenta dunque come una sorta di cura fai da te del terribile panico.

Con queste poche certezze vedevo pazienti cui spiegavo questi meccanismi e prescrivevo ottime pilloline preventive (SSRI) ed altre ancora più miracolose da tenere in borsa (BZD), scrivevo libri sui disturbi d’ansia e vivevo dunque in grazia di Dio. Poi per la prima volta nella tarda primavera di tre anni fa un’esperienza di grande timore a ritrovarmi in spazi aperti con conseguente evitamento degli stessi. Non mi dilungo sui possibili motivi (ambientali e psicologici) dello scompenso né sui secondari facilmente immaginabili per uno che da trenta anni deve mettere insieme il pranzo con la cena in gran parte proprio grazie a Notre dame de la peur protettrice dei cognitivisti.

Quello che è interessante e può aprire ad una maggiore comprensione del disturbo è piuttosto la sintomatologia, il mio vissuto.

 Non avevo alcun timore di morire e tanto meno di impazzire e nessun parametro fisiologico era alterato. L’unica cosa che sperimentavo era l’assoluta impossibilità di muovermi, avviarmi verso spazi aperti. I muscoli (anche quelli che ancora sanno farlo) non rispondevano alla mia volontà. Ero costretto a costeggiare dei confini anche senza appoggiarmici. Non avevo timore di cadere sapendo che non sarebbe successo nulla di grave né tanto meno di fare brutta figura.

Allora cercai in tutti i modi di risolvere la situazione, soprattutto forzando gli evitamenti, senza impegnarmi in speculazioni filosofiche (Primum vivere deinde philosophare, come diceva Seneca). La vita riprese normalmente seppure una volta persa la verginità e sperimentata quella brutta sensazione il pensiero ci torna ed ho ad esempio rinunciato al progetto che avevo di traversata dell’antartico in solitaria.

Poi qualche mese fa ho letto un libro, l’unico che cito in bibliografia di questo articoletto (Archeologia della mente di J. Pankseep) che si occupa di neuroscienze affettive ed in particolare dei sette sistemi affettivi di base delle regioni sottocorticali degli uccelli e dei mammiferi. Più avanti lo spiegherò meglio. Mi ha messo la pulce nell’orecchio e quando qualche settimana fa a Milano nel museo del novecento ho riavuto un vissuto iniziale analogo a quello di tre anni fa ho colto l’occasione per cercare di capire meglio cosa mi stava accadendo con i nuovi costrutti fornitimi da Pankseep e, per così dire, me la sono andata a cercare traversando Piazza del Duomo.

In effetti ho riprovato tutto quello che avevo messo da parte tre anni fa. Stesso malessere e stessa ricerca di un confine, stessa incapacità a muoversi. Si può discutere su che nome dare a quell’esperienza. Attacco di panico? Panico paucisintomatico? Crisi agorafobica? Angoscia abbandonica? Crisi dissociativa? Depersonalizzazione e/o de realizzazione? In attesa di decidere la chiamerò B.B. (Brutto Blocco). Quello che è certo è che se appartiene alla grande famiglia della paura somiglia più al freezing che alla fuga/attacco.

Soggettivamente non mi sarei descritto come spaventato ma piuttosto come sperso, sperduto.

Per fare solo un piccolo passo nella teoria e tirarmi fuori da Piazza del Duomo mi viene da dire che se nell’attacco di panico vero e proprio il soggetto teme di perdere se stesso e la sua identità con la morte o la follia, nel B.B. il timore è di perdere l’altro: in ballo c’è l’angoscia di separazione (peraltro a me da sempre molto più familiare). Il secondo passo teorico di allontanamento da Piazza del Duomo è quello di ipotizzare i rapporti tra queste due diverse sindromi: Panico e B.B. Dunque la seconda non è la terapia fai da te della prima. Sono entrambi disturbi di ansia in cui si fugge da qualcosa, la perdita di sé e/o la perdita dell’altro, ed ognuno si può complicare, come è frequente nei disturbi d’ansia con l’evitamento delle situazioni temute che procura un sollievo immediato ed un danno grave a medio termine.

La seconda domanda è quale possa essere il legame tra le due che evidentemente spesso si presentano in comorbidità:

  • Ipotesi 1: L’esperienza dell’attacco di panico per la sua minacciosità estrema attiva il comportamento di attaccamento e dunque si diventa più sensibili ai segnali abbandonici: per cui la partenza è panicosa e poi si complica con il vissuto agorafobico.
  • Ipotesi 2: l’esperienza del B.B. inconsueta e inaspettata può essere a sua volta attivante la volgare ansia che non riconosciuta dal candidato al panico innesca il circolo di Clark. In questo caso il percorso è inverso dal B.B. al panico.

 Infine un’ulteriore annotazione su cui riflettere. Situazioni per me attivanti sono i musei con ampie sale ed in particolare il momento in cui resto improvvisamente fermo in piedi e il mio accompagnatore si allontana improvvisamente. Dimenticavo prima che il senso di B.B. si sperimenta soprattutto quando il movimento deve partire e molto meno quando si è già in movimento (in questo c’è qualche affinità col Parkinson?) per cui una soluzione, ad esempio è non fermarsi mai.

I motivi che possono spiegare il mio trigger museale possono essere due:

  • Un museo è uno dei pochi posti in cui si resta in piedi fermi anche per un tempo prolungato e non ti puoi appoggiare alle pareti che scattano gli allarmi.
  • Gli architetti si sbizzarriscono con gli spazi museali che sono spesso irregolari (anche i pavimenti non sono sempre piani) dunque estranei e inconsueti tanto più per il mio danneggiato emisfero cerebrale destro che dovrebbe occuparsi di informarmi dello spazio e della posizione del mio corpo in esso. Chissà che Stendhal a Santa Croce a Firenze non abbia avuto proprio un B.B.

Torno brevemente alle concettualizzazioni dell’illuminante Pankseep di cui consiglio vivamente la lettura. Pankseep con un occhio sempre attento alle ripercussioni cliniche delle sue osservazioni di neuroscienziato dei sistemi affettivi sottocorticali identifica 7 sistemi affettivi di base tutti interessantissimi per la nosografia psichiatrica e la clinica che tralascio per soffermarmi ad accennare a quelli più implicati nel tema dell’articolo quello della paura e quello della cura.

I sette sistemi sono:

  • Ricerca
  • Paura
  • Collera
  • Desiderio sessuale
  • Cura
  • Panico sofferenza
  • Gioco

Il sistema della paura garantisce la sopravvivenza attivandoci percettivamente e comportamentalmente di fronte alle minacce alla nostra integrità.

La paura inizialmente nei processi affettivi primari nasce senza oggetto, poi con l’apprendimento si connette nei processi secondari a singoli oggetti. L’evoluzione ha creato la possibilità di aver paura, di cosa va poi appreso.

Gli umani sono gli esseri più paurosi (forse a questo dobbiamo in parte il nostro successo evolutivo come specie è meglio aver paura che buscarle e professionale come cognitivisti) e possiamo esserlo di tutto nonché della paura stessa.

Il dolore attiva la paura ma non il contrario anzi può diminuirlo o farlo ignorare per scappare dai predatori. La paura è diversa dal panico/sofferenza. L’attacco di panico è riferibile piuttosto all’ansia di separazione del sistema della cura.

Il sistema della cura è decisivo per la sopravvivenza e connesso con l’attaccamento. La separazione genera panico.

Nel panico si è come un bambino che si è perso e che ha un pianto inconfondibile. Non fugge e non si congela, non c’è un pericolo da cui fuggire o difendersi ma richiama l’attenzione del care giver. Il panico è un dolore psicologico sviluppato sui circuiti del dolore fisico.

Pankeep a pagina 369 e seguenti argomenta perché gli attacchi di panico sono attacchi di separazione e dunque perché gli AD siano più efficaci delle BZD.

 

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Agorafobia: la paura dell’Attacco di Panico nella grande città

BIBLIOGRAFIA

Consigliata:

  • Panksepp, J, Biven, L.. (2014) Archeologia della mente. Ed. Cortina

Sconsigliata:

  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (1987) La paura della paura: riconoscere e curare le proprie fobie. La nuova Italia Scientifica, Roma
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (1991) Quando la paura diventa malattia: come riconoscere e curare le proprie fobie. Ed. Paoline, Milano
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (1992) Cuando el miedo se vuelve enfermedad. Ed. Paulinas, Caracas Venezuela
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (1993) L’uomo nero : ansie, paure e fobie. La Nuova Italia Scientifica, Roma
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (1998) Paure e Fobie. Il Saggiatore, Milano

Agorafobia: la paura dell’attacco di panico nella grande città

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del giorno 4/04/2015

 

È che forse la grande città moderna riproduce la giungla arcaica in cui ci si poteva improvvisamente perdere, non conoscere più i punti di riferimento, i sentieri per tornare al proprio villaggio, allo stesso modo in cui nelle metropoli prendendo la volta sbagliata possiamo all’improvviso non sapere dove siamo e quali pericoli stiamo correndo.

Esistono fobie e follie urbane? Tra tutte, l’agorafobia potrebbe essere la più adatta a descrivere la moderna angoscia di vivere in spazi metropolitani, il sentirsi dispersi in uno spazio impersonale ed estraneo, senza nessun punto di riferimento sicuro.

L’agorafobia è proprio il desiderio di fuggire via dalla pazza folla? È anche questo, ma forse è qualcosa di più.

Etimologicamente, il termine proviene dal greco “αγορά” (piazza) e “φοβία” (paura): “paura della piazza”. Ovvero degli spazi aperti e/o affollati. E fin qui ci siamo: piazza, agorà. Ci sono i soliti greci, antichi, ma già cittadini e quindi modernamente angosciati quasi come noi. E questo basti per la parola. La storia del concetto psicologico che sta dietro questa parola ha il suo fascino, e vedremo che esso ci parla non solo di angosce moderne, ma anche di paure arcaiche.

Nella cultura popolare il termine sembra essere usato per indicare una generica paura di uscire fuori casa. Ad esempio, nella letteratura gialla il detective Nero Wolfe risolve i casi senza uscire dalla sua villa.

La definizione tecnica usata dagli psichiatri è però differente: è il timore di trovarsi in luoghi dove – secondo il giudizio della stessa persona agorafobica – potrebbe avvenire un attacco di panico.

È una definizione meno intuitiva e immediata di quella popolare. In parole più semplici, si ha paura degli spazi aperti perché si teme che sia probabile avere degli attacchi di panico. E perché negli spazi aperti o affollati sarebbe più probabile avere attacchi di panico? È un errore di valutazione della persona che soffre o c’è qualcosa di vero? E il panico? È solo una grande paura, o qualcosa di diverso? E cosa c’entra il panico col timore degli spazi aperti e delle folle? E, infine, questi spazi aperti e queste folle temute dall’agorafobico sono gli spazi e le folle della metropoli moderna?

Il panico è una condizione emotiva di paura e terrore, in cui però prevalgono gli aspetti corporei e fisiologici della paura: il cuore palpita, il corpo trema e suda, si percepisce un malessere al petto o all’addome. Inoltre ci si può sentire bizzarramente estraniati dalla realtà e perfino da se stessi. Si ha paura, ma non si capisce bene di cosa. Forse del proprio star male, in una condizione che è terrificante, in cui si tocca con mano la sensazione di impazzire.

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Queste sensazioni corporee corrispondono a un preciso assetto fisiologico che è uno dei tre sistemi biologici innati (gli altri due sono la fuga e l’attacco) che abbiamo a disposizione per reagire a un pericolo o a una minaccia: il “freezing”, ovvero il raggelarsi a imitare la freddezza della morte.

Questa reazione è qualitativamente diversa dalla paura che porta alla fuga ed è innescata da un pericolo terrificante in cui non vi sono vie di fuga. In questi casi tanto vale paralizzarsi in una condizione di estremo rallentamento delle funzioni vitali, che è l’assetto fisico migliore (o meno peggiore, a essere realistici) per affrontare situazioni estreme, che siano disgrazie naturali o anche attacchi di predatori, che magari potrebbero risparmiarci proprio perché ci scambiano per cadaveri. A volte si scampa in questa maniera alle fucilazioni di massa: svenendo e –naturalmente- avendo la fortuna di non essere colpiti dalle sventagliate di proiettili e di non essere seppelliti subito vivi ma lasciati li, morti apparenti in compagnia dei veri cadaveri.

Quello che è interessante è che la maggior parte degli animali posti in un ambiente non familiare mostrano immediatamente un incremento di indicatori di freezing, a dimostrazione che lo spazio aperto e gli ambienti non familiari racchiudono in sé un’informazione emozionalmente significativa. Che significa? Come si spiega l’attivazione di un sistema emotivo così arcaico e primitivo in questa condizione modernissima, come il sentirsi dispersi in una grande città?

È che forse la grande città moderna riproduce la giungla arcaica in cui ci si poteva improvvisamente perdere, non conoscere più i punti di riferimento, i sentieri per tornare al proprio villaggio, allo stesso modo in cui nelle metropoli prendendo la volta sbagliata possiamo all’improvviso non sapere dove siamo e quali pericoli stiamo correndo.

Un momento però: stiamo parlando di panico. Non di agorafobia. Quindi cosa c’entra la grande città e le sue follie con il panico? Il panico è questa reazione arcaica a un pericolo estremo. Qual è la connessione con una paura moderna come l’agorafobia? E qui torna utile la storia accidentata del termine agorafobia. Vi è a discrepanza tra il significato popolare della parola e il significato tecnico.

La psichiatria lega panico e agorafobia: l’agorafobia non è solo paura degli spazi aperti, ma timore di poter aver il panico in quegli spazi aperti.

Unendo insieme tutto quello che abbiamo detto sul panico come senso di disorientamento in situazioni di pericolo, la relazione tra panico e agorafobia e quella tra perdita di direzione sia in situazioni antichissime che modernissime, ecco che tutto assume un senso.  E spiega gli aspetti cittadini e urbani delle varie forme di agorafobia; la nevrosi da strada (street neurosis) o la fobia del supermarket.

Questo significa che lo sgomento che proviamo quando siamo perduti (in tutti i sensi) nella foresta urbana o quando lo eravamo nelle foreste inurbane è un’esperienza emotiva fortissima, che è elaborata da circuiti neuronali pre-consci (ma mai del tutto inconsci). È l’ipotesi di Jaak Panksepp (LEGGI: Archeologia della Mente di Jaak Panksepp e Lucy Biven – Recensione), che ha immaginato la mente come un fenomeno evolutivo con multipli livelli di emergenza, da quello semplice e immediato della sensazione/azione pura, ovvero la paura/fuga, la rabbia/attacco e il panico/freezing, per passare alla capacità di rappresentarsi queste esperienze motorie e percettive in termini di immagini, fino ad approdare alla forma più evoluta di coscienza che coincide con la capacità di rappresentazione simbolica-linguistica dell’esperienza.

Questa evoluzione però non elimina le forme emotive precedenti. Viviamo nelle grandi città, ma la nostra prima reazione è ancora quella della foresta. Quindi non ci limitiamo a essere un po’ preoccupati di perderci in città, o essere un po’ a disagio in un ambiente impersonale in cui non si conoscono i passanti e non si hanno rapporti con i condomini.

Percepiamo tutto questo come una minaccia terrificante, simile a quella che coglieva il nostro antenato quando si allontanava dal villaggio. Con il paradosso però che questa angoscia noi la viviamo il villaggio e non al di fuori, ovvero nella città, diventata ignota come un tempo lo erano gli spazi aperti oltre la palizzata del villaggio.

A questo punto potremmo avere nostalgia del villaggio, del vecchio “tutti conoscono tutti” e così via. Nostalgia in parte fondata, naturalmente. Non dimentichiamo però che anche dietro quel “tutti conoscono tutti” c’erano altri problemi: l’assenza di privacy, il forte controllo sociale, i limiti che le società tradizionali ponevano alla libertà del singolo. Sono questi limiti cui abbiamo rinunciato volentieri che, improvvisamente, ci rendono con la loro mancanza vulnerabili all’angoscia urbana.

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BIBLIOGRAFIA:

Sulla fine e sull’inizio. Di Isca Salzberger-Wittemberg (2014) – Recensione

Se ci rifiutiamo di cambiare, nella pretesa di rimanere fedeli al “vecchio sé”, resteremo sempre lontani dal “vero sé”, perché la vita, nel suo continuo divenire, ci porta sempre un passo più in là rispetto a dove eravamo; non cambiare significa ostacolare il flusso vitale, condannarsi alla stagnazione, alla ripetizione di abitudini che non ci rappresentano più, come un bambino che, per paura di nascere, vuole rimanere per sempre nel grembo materno, anche quando ormai  esso non è più adatto a contenerlo.

La fine e l’inizio sono esperienze universali che appartengono alla vita di ciascuno di noi, alla mia, che sto scrivendo questa recensione, alla vostra, che state leggendo,  a quella dell’autrice.

Isca Salzberger-Wittemberg è una psicoterapeuta di origine tedesca che vive a Londra. Attingendo alla sua pluriventennale esperienza presso la Tavistock Clinic ci racconta di come dobbiamo continuamente confrontarci con le fini e con gli inizi, che sembrano due poli antitetici, ma che, a ben guardare, sono le due facce della stessa medaglia: la fine di qualcosa non è che l’inizio di qualcos’altro. Di conseguenza, parlare di come le cose iniziano e finiscono è un modo per parlare di come tutto cambi e si trasformi continuamente, di come noi cambiamo e ci trasformiamo nel corso della nostra vita.

Cos’è il percorso terapeutico stesso altro se non un viaggio di cambiamento, caratterizzato da un inizio e una fine, un viaggio dal quale sia il terapeuta che il paziente vengono trasformati? Solo che cambiare può fare molta paura, perché significa accettare la perdita di qualcosa, di una parte di noi, della nostra “vecchia” vita, per far sì che qualcosa di nuovo cominci.

Scrive il poeta portoghese Fernando Pessoa: “C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se poi non osiamo farlo, resteremo sempre lontano da noi stessi”. Pessoa esprime il paradosso del cambiamento: se ci rifiutiamo di cambiare, nella pretesa di rimanere fedeli al “vecchio sé”, resteremo sempre lontani dal “vero sé”, perché la vita, nel suo continuo divenire, ci porta sempre un passo più in là rispetto a dove eravamo.

Non cambiare significa ostacolare il flusso vitale, condannarsi alla stagnazione, alla ripetizione di abitudini che non ci rappresentano più, come un bambino che, per paura di nascere, vuole rimanere per sempre nel grembo materno, anche quando ormai  esso non è più adatto a contenerlo.

E proprio partendo con l’esperienza della nascita l’autrice passa in rassegna, facendo riferimento alle proprie personali esperienze e a numerose storie di vita incontrate nel corso della pratica professionale, le caratteristiche dei momenti di transizione che le persone possono trovarsi ad attraversare; vengono presi in esame i mesi successivi alla nascita, la fase di svezzamento, i primi compleanni, l’ingresso all’asilo, le esperienze di inizio e fine e scuola nell’arco dell’infanzia e l’adolescenza, l’inizio degli studi universitari, l’ingresso nel mondo del lavoro, il matrimonio, la nascita dei figli, l’invecchiamento, il confrontarsi con i lutti, il pensionamento, il prepararsi alla morte.

Le varie storie sono accomunate dalla necessità di affrontare un cambiamento, di andare incontro all’ignoto, terminare un qualcosa per iniziare qualcos’altro, cosa che comporta l’elaborazione di emozioni forti, complesse e contrastanti. La gioia per qualcosa di nuovo che sta iniziando si associa al dispiacere per qualcosa che si conclude. Poco importa se stiamo parlando del neonato che lascia la sicurezza del grembo materno, del bambino che inizia l’asilo, uscendo per la prima volta dai confini del nucleo familiare per incontrare il mondo “fuori di casa”, del primo giorno di scuola elementare, di scuola superiore, di università o del primo giorno di lavoro, dello sposarsi, del mettere al mondo un figlio o dell’andare in pensione: la persona si ritrova ogni volta a ricominciare, ridisegnando il confini del proprio sé per dare inizio ad una nuova esperienza del mondo.

La capacità di vivere positivamente il cambiamento si basa sulla fiducia di potercela fare, di essere in grado di affrontare la nuova avventura, vivendo con pienezza l’entusiasmo di un nuovo inizio; non meno importante è il sapere prendere congedo con la realtà precedente, vivendo il dispiacere che nasce dal distacco.

Come scrive l’autrice “Possiamo cercare di sfuggire al dolore della perdita, ma se non riusciamo ad elaborare il lutto per ciò che abbiamo perduto o stiamo per perdere, non saremo in grado di interiorizzare/preservare dentro di noi ciò che ha avuto valore nel passato”. Ciò implica lo svalutare ciò che siamo stati, privando di valore la nostra esperienza precedente.

Se, invece, rimaniamo tenacemente attaccati al passato, rifuggendo dai cambiamenti e dall’incertezza da cui essi sono caratterizzati, rischiamo di rinchiudere noi stessi in una prigione di certezze, che ci mettono al riparo dai rischi a patto di soffocare il nostro naturale percorso di evoluzione personale, bloccando le nostre potenzialità e soffocando la nostra identità in limiti troppo angusti.

 

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Narcisismo: da dove origina? Attenti ai genitori!

FLASH NEWS

La sovrastima dei propri figli predice le tendenze narcisistiche, mentre la vicinanza emotiva tra genitori e figli predice maggiori livelli di autostima.

Ecco come i genitori contribuiscono far crescere i loro piccoli narcisisti. Così uno studio recentemente pubblicato su PNAS si è occupato delle origini del narcisismo a partire dall’infanzia. Si è riscontrato che i figli di genitori che – all’inizio dell’indagine- tendevano a sovrastimarli, al termine dello studio longitudinale presentavano punteggi più elevati nella valutazione del narcisismo.

Cosa si intende per sovrastimare? Ad esempio, i genitori descrivevano i propri figli come “più speciali di altri” oppure come “bambini che meritano qualcosa di straordinario dalla vita”.

Gli studiosi hanno valutato i genitori e i loro figli (circa 500 bambini, di età compresa tra I 7 e gli 11 anni) per quattro volte, ogni sei mesi nel corso di un anno e mezzo; in particolare la tendenza dei genitori a sovrastimare i figli è stata misurata attraverso un questionario self-report costruito ad hoc e altri strumenti self-report per la misurazione del narcisismo e dell’autostima nei bambini.

Chiaramente è frequente che siano i genitori con le migliori intenzioni coloro che sovrastimano i loro figli, credendo di facilitare il difficile percorso di costruirsi una solida autostima; ma inavvertitamente le pratiche di sovra-valutazione possono avere l’effetto collaterale di far aumentare i livelli di narcisismo.

DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’

Lo studio è interessante perchè coinvolgendo un campione non clinico getta luce in ottica prospettica sullo sviluppo nel tempo di tendenze narcisistiche anche se non necessariamente ancora patologiche. Quindi dai dati è emerso che la sovrastima genitoriale correla con maggiori punteggi di narcisismo (“Io sono migliore degli altri”) e non con maggiori livelli di autostima (“Mi piaccio come persona”, “Sono bravo e valgo tanto quanto altri”). Invece sarebbe proprio la presenza di vicinanza emotiva dei genitori nei confronti dei figli, e non la loro sovrastima, a correlare con maggiori livelli di autostima nel corso del tempo.

Quindi la sovrastima dei propri figli ne predice le tendenze narcisistiche, mentre la vicinanza emotiva tra genitori e figli predice maggiori livelli di autostima.

La sovrastima genitoriale sarebbe predittiva del narcisismo successivo dei figli anche tenendo conto dei livelli di narcisismo dei genitori in quanto variabile interveniente: quindi la sovrastima dei figli non è solo un problema dei genitori narcisisti.

I risultati vanno letti comunque in un’ottica integrata e secondo una prospettiva più complessa: non possiamo ridurre le radici del narcisismo ad un solo fattore – la sovrastima genitoriale. Così come altri tratti di personalità, sono le  complesse dinamiche di interdipendenza tra fattori genetici, temperamentali e ambientali-esperienziali che possono tentare di spiegare le radici del narcisismo nelle sue svariate sfaccettature e manifestazioni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Brummelman, E., Thomaes, S., Nelemans, S.A., Orobio de Castro, B., Overbeek, G., Bushman, B.J. (2015). Origins of narcissism in children. Proceedings of the National Academy of Sciences, 201420870 DOI: 10.1073/pnas.1420870112

Personalità manipolatrice e bugiardi patologici secondo George K. Simon – Recensione

George K. Simon, psicologo clinico, ha studiato e lavorato con i manipolatori e le loro vittime per molti anni. Ha prodotto più di 250 contributi tra lavori e seminari, così come contributi in radio e televisione, riguardanti il tema su come comportarsi con le persone manipolative e altre personalità difficili. 

Alcuni sostengono che mentire fa parte dell’essere umano, tutti noi almeno una volta siamo stati non totalmente sinceri con gli altri, e a volte non c’è veramente nessun intento “malato” dietro le nostre intenzioni.

Secondo Simon è possibile identificare due obiettivi principali dietro l’utilizzo della bugia:
– prevenire qualcosa che desideriamo non accada;
– aiutarci ad ottenere qualcosa di desiderato ma che non sarebbe ottenibile in maniera onesta (un esempio è quando si mente ad un test).

Ma al di fuori di questi casi, alcuni individui sembrano essere bugiardi ostinati, calcolando continuamente come abbindolare e manipolare in ogni momento gli altri, e quasi sempre con intenti malevoli. Una parte di loro è stata definita “bugiardi patologici”, ma non solo perché sembra che mentano ripetutamente, ma soprattutto perché mentono su questioni che appaiono irrilevanti e in situazioni in cui la verità sembra essere la miglior via possibile (quando insomma non è per nulla necessario mentire).
Ma è possibile che queste persone, definite come “bugiardi patologici”, siano realmente così irrazionali come si possa pensare? Simon sostiene di no: [blockquote style=”1″]Mentre qualche volta sembra che non ci sia nessuna ragione per loro di mentire, c’è in realtà un metodo nella loro apparente pazzia.[/blockquote]

Così quello che sembra a volte un mentire senza senso, irrazionale o patologico è in realtà, per loro, funzionale, e la motivazione è quasi sempre la stessa: quella di mantenere una posizione di vantaggio.

Simon racconta inoltre di avere sentito centinaia di individui riportare esempi di questi comportamenti soprattutto nelle relazioni amorose in cui uno, o addirittura entrambi i partners, conducevano “doppie vite”.

Alla fine di una relazione le vittime di questi comportamenti ambigui arrivano a chiedersi come hanno fatto a farsi ingannare per così tanto tempo. Le tipiche domande possono essere: il mio partner era realmente differente all’inizio ma è cambiato per qualche ragione sconosciuta? Ero così affascinata/o dal mio/a partner da non vedere la verità? Ma la cosa che tengono in considerazione è che alcune persone di natura non permettono a loro stessi quella vulnerabilità che potrebbe derivare da una relazione di pari livello.

Sfortunatamente queste vittime, quando realizzano di essere state raggirate, si imbattono in vissuti di vergogna, colpa e mettono in discussione di continuo la loro abilità nel giudicare correttamente le persone per quello che realmente sono. Superato questo momento queste persone arrivano poi a capire la natura del disturbo e accettano il fatto che semplicemente alcuni individui mancano della capacità, o della voglia, di relazionarsi sullo stesso piano di eguaglianza con gli altri; sebbene situazioni più rispettose possano portare queste “vittime” a riguadagnare un senso di integrità personale e di rispetto per se stesse.

 

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Hungry Hearts (2014): due cuori e una condanna – Cinema & Psicologia

“Siamo soli al mondo, io e te, ma ti prometto che io mi prenderò sempre cura di te, che ci sarò sempre, per te, e che veglierò su di te affinché non ti possa mai accadere niente di male.”

Hungry Hearts è uno spunto di riflessione su quanto sia difficilmente comprensibile la mente umana. Anche chi fa un lavoro come il nostro e quotidianamente abita un punto di vista “privilegiato” dal quale osservare il misterioso mondo della mente umana, non può non rimanere stupito di quanto ancora e ancora si possa sempre scoprire da ogni nuova persona, da ogni nuova storia e nuovo paziente che si siede sulla poltrona del nostro studio.

E allora chi lavora in questo ambito non può smettere di farsi domande una volta che esce da quello studio, non può smettere di cercare di comprendere, non può non appassionarsi a film o libri che sviscerano problematiche psicologiche, non può finire di fare ipotesi e di cercare delle risposte. Ed ecco che anche una serata al cinema diventa una nuova occasione per ricordarti quanto difficile, cioè appassionante, è il tuo lavoro.

I due protagonisti sono un concentrato di problematiche psicologiche, alcune sottili e difficili da cogliere, altre talmente tanto evidenti da spaventare. Mina, con un’accennata storia di vita caratterizzata da neglect, lutti e forse anche traumi, sprigiona fragilità da ogni parola che pronuncia e sicuramente anche dal suo aspetto fisico. Si sente “piccola” ed indifesa in un mondo minaccioso e pericoloso ed è alla ricerca di protezione e sicurezza. Sembra trovare quello che cerca in Jude, un ragazzo dolce e premuroso, con una madre che deve essere tenuta a distanza per non subirne l’invadenza, pronto e forse anche bisognoso di donarle non solo amore ma anche l’attaccamento che le è mancato. Questi reciproci bisogni inizialmente sembrano combaciare perfettamente, addirittura troppo perfettamente.

E’ come se osservando l’evoluzione della storia di Mina e Jude si avvertisse la costruzione di un loro nido nel quale nessun altro può entrare, comprendere e agire se non loro due.  La notizia della gravidanza praticamente li costringe ad uscire dal loro nido per relazionarsi con il resto del mondo ma Mina non è pronta, non desidera, non accetta questa uscita vissuta da lei come una violenza e non appena le è possibile si rintana nuovamente nel loro nido a questo punto con suo figlio.

La sua fragilità e la sua paura del mondo esplodono sotto al peso della responsabilità di una creatura con ossessioni e deliri che minacciano la sua vita e quella di tutta la sua famiglia. Jude, inizialmente accudente, successivamente incredulo e infine spaventato, sembra non avere le risorse per sbloccare la situazione, non sa a chi rivolgersi (di certo non a sua madre che non capirebbe e si intrometterebbe con aggressività) e forse ha troppa paura di fare del male a Mina nel tentativo di aiutarla. Ma lasciamo la parola ai due protagonisti così, cercando di immedesimarsi in loro, proviamo a capire meglio i loro pensieri e le loro emozioni.

[blockquote style=”1″]

 

Il mio unico obiettivo nella vita è proteggerti, figlio mio, per me non conta altro, non sono importanti le amicizie, il lavoro, i parenti, mio marito… io desidero solo stare con te, accarezzarti, parlarti, lavarti e prendermi cura di te tenendoti lontano dai vari pericoli a cui il mondo può esporti: il freddo, lo smog, il cibo infettato, i medicinali velenosi, le persone spietate e cattive! Ricordo ancora quando seppi di essere incinta… Non riuscivo a credere che una piccola creaturina sarebbe potuta crescere dentro di me e che poi sarebbe stata un prolungamento di me.

La tua salute, la tua tranquillità e la tua felicità, da quel momento, sarebbero dipese da me. Era necessario che il mio corpo si purificasse da tutto ciò che di sporco, malato, inquinato vi risiedeva, per poterti trasmettere solo purezza. Sono andata contro tutto e contro tutti per portare avanti questo obiettivo – non è stato facile, perché quando sei nato eravamo entrambi molto deboli, ma ne è valsa la pena!

Non appena ti ho visto, ho capito quanto era stato importante perseverare, quanto eri unico, speciale… quanto eri incredibilmente frutto del mio amore… e allora ho trovato la forza di lottare ancora e con più forza per tutelarti! Nessuno, durante la mia vita, mi ha protetta, mi ha fatta sentire accudita e speciale. Non voglio che questo accada anche a te.

Il primo pensiero la mattina, appena mi sveglio, sei tu, ti salvo dallo sporco che tuo padre vorrebbe trascinare in casa ogni volta che rientra in casa, facendogli lavare le mani, non ti porto fuori perché potresti prendere freddo; se hai un po’ di febbre, ti curo da sola senza condurti da quei medici che vogliono solo avvelenarci; ti proteggo dalle altre persone tenendoti al sicuro in casa, ma soprattutto (questa che sto per dirti è la cosa di cui vado più fiera) ho creato un orto sul nostro terrazzo dove coltivo personalmente tutti gli alimenti di cui hai bisogno: solo così posso avere il totale controllo di quello che entra nel tuo organismo.

Non mi fido di nessuno, mi posso fidare solo di me stessa, non mi fido nemmeno di tuo padre… solo io ho tutte le attenzioni e le premure che meriti! Tuo padre non capisce. Penso che non ci ami abbastanza. Non ci protegge come dovrebbe fare. Ho paura che appena mi distraggo un attimo ti dia da mangiare delle cose che potrebbero farti male, che ti contamini con lo sporco del mondo là fuori, che ti faccia ammalare portandoti al freddo. Siamo soli al mondo, io e te, ma ti prometto che io mi prenderò sempre cura di te, che ci sarò sempre, per te, e che veglierò su di te affinché non ti possa mai accadere niente di male.

Ma che sta succedendo a tua madre? Non capisco, mi sembra un incubo. La notizia più bella che una coppia possa ricevere è diventata un’autentica ossessione per lei. Durante la gravidanza non ha mangiato praticamente niente e tu, povero amore mio, non hai avuto le energie necessarie per crescere. È come se l’intero mondo intorno a lei fosse sparito, non avesse più alcuna importanza per lei… Conta solo la sua paura che tu possa ammalarti, contaminarti, infettarti! I giorni passano e la situazione peggiora sempre più: tu non cresci, hai spesso la febbre, io esco soltanto per lavorare perché poi voglio correre a casa per vedere come state, non incontriamo più nessuno, non usciamo mai, mangiamo solo cibi dell’orto di mamma. Non so davvero come fare ad aiutarla, a farle capire che sta male, che ha un problema e che dev’essere aiutata. Devo riuscire a farla ragionare, devo convincerla ad andare da un medico.

Ho paura che si senta incompresa, non amata da me, tradita, ma allo stesso tempo sento che devo fare qualcosa, non possiamo più andare avanti così. Ha solo noi due al mondo, non può e non deve perderci, siamo la sua vita. La mia paura più grande è che tu possa ammalarti o addirittura morire… È incredibile, se ci penso: il suo desiderio è quello di proteggerti, mentre quello che sta ottenendo col suo comportamento è esattamente il contrario: ti sta uccidendo.

 

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Valutazione psicologica di pazienti con sindrome di Takotsubo in fase di quiescenza clinica: ricerca pilota

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

VALUTAZIONE PSICOLOGICA DI PAZIENTI CON SINDROME DI TAKOTSUBO IN FASE DI QUIESCENZA CLINICA: RICERCA PILOTA

Autori: Andreello, S., Garofalo, G., Pelosi, A., Ciracì, C.

 

INTRODUZIONE

 La scoperta della sindrome di Takotsubo risale a quando, dal primo articolo del 1990, gli autori giapponesi Dote, Sato, Tateishi, Uchida e Ishihara, incuriositi dalla forma insolita del ventricolo sinistro, che somigliava al “tako-tsubo”, ossia il cestello utilizzato dai pescatori giapponesi per catturare i polipi (Kawai et al. 2000; Kurisu et al., 2002; Tsuchihashi et al., 2001), per primi la descrissero chiamandola appunto “sindrome di Takotsubo” (Dote, Sato, Tateishi, Uchida e Ishihara, 1991). Nel 2001 fu pubblicata la prima serie giapponese e la sindrome apparve come una nuova entità nosologica (Tsuchihashi et al., 2001). Da quel momento, l’interesse scientifico per questa condizione è aumentato costantemente e drammaticamente negli ultimi anni: dalle due pubblicazioni registrate nel 2000, si è passati a quasi 300 nel 2010 (Sharkey, Lesser, Maron, M. S. e Maron, B. J., 2011). Questa sindrome è stata descritta con più di 75 nomi diversi in letteratura, tra i quali Cardiomiopatia da Stress (Stress Cardiomyopathy, SC) o Sindrome di Takotsubo (ST), che enfatizzano le caratteristiche della malattia che sono state più impressionanti per i singoli ricercatori (ibidem).
La presentazione clinica di questa particolare sindrome può spesso simulare un Infarto Miocardico Acuto (IMA). I sintomi tipici e più comuni sono, infatti, dolore toracico acuto e/o dispnea, associato ad alterazioni elettrocardiografiche (Pilgrim, e Wyss, 2008; Prasad, Lerman, Rihal, 2008; Wittstein et al., 2005), quali un sopraslivellamento del segmento ST nelle derivazioni precordiali per il 90% dei soggetti associato a modesti innalzamenti dei markers di necrosi miocardica (Cocco e Chu, 2007). In letteratura sono segnalati anche sintomi non specifici, tra cui sincope, debolezza e nausea (Hurst, Prasad, Askew, Sengupta, Tajik, 2010) e casi asintomatici (2-20%: Castillo Rivera, Ruiz-Bailén e Rucabado Aguilar, 2011).
L’ecocardiografia e la ventricolografia sinistra permettono di evidenziare le anomalie caratteristiche della sindrome Takotsubo, cioè una disfunzione sistolica reversibile del ventricolo sinistro (Pilgrim, e Wyss, 2008; Prasad et al., 2008; Wittstein et al., 2005): la ballonizzazione apicale.
Questo particolare disturbo si distingue dalla Sindrome Coronarica Acuta (ACS) in quanto le anomalie transitorie accennate si estendono prevalentemente al di là di un unico territorio vascolare (Dote et al., 1991; Sato, Tateishi e Uchida, 1990), in assenza di compromissione rilevante dell’albero coronarico.
Una maggiore consapevolezza di questa sindrome ha portato, nel 2006, alla sua incorporazione nella classificazione americana della Heart Association tra le forme di cardiomiopatie primarie di tipo acquisito (Kapoor e Bybee, 2009; Maron et al., 2006). La Sindrome di Takotsubo è quindi oggi sempre più riconosciuta come una nuova forma di cardiomiopatia ischemica acuta (Hafiz, Jan, Paterick, Allaqaband e Tajik, 2012).
Oltre alla forma “tipica” che coinvolge l’apice ventricolare sinistro e rappresenta quella più comune in tutte le casistiche, esistono alcune forme “atipiche”: attualmente, un terzo dei pazienti presentano una forma variante della malattia (Haghi et al., 2007). Nello specifico in letteratura vengono classificate diverse forme di ST in base alla sede di disfunzione contrattile ventricolare (Castillo Rivera et al., 2011):
Tipo I: Cardiomiopatia Takotsubo con ballooning apicale
Tipo II: Balloning Medio-ventricolare
Tipo III: Cardiomiopatia con ipercontrattilità apicale (forma invertita)
Tipo IV: Mongolfiera basale
Tipo V: Coinvolgimento di altri segmenti.

 

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La felicità è di destra o di sinistra? – Psicologia e Politica

Veronica Iazzi

FLASH NEWS

Cosa vuol dire essere felici? Ed esiste una differenza tra quanto si dice di essere felici e quanto si mostra di essere felici? Secondo dati raccolti in ricerche passate, le persone con tendenze conservative dichiarano di essere maggiormente felici. 

Tuttavia, gli psicologi dell’UCI Irvine hanno scoperto che le persone con tendenze politiche di sinistra si esprimono in modo più positivo ed hanno espressioni facciali maggiormente felici.

Il cosiddetto happiness gap tra conservatori e liberali è in effetti più complicato di quello che sembra. Ricerche precedenti avevano avvalorato l’ipotesi per cui i primi sarebbero più felici, basandosi sulla somministrazione di questionari self-reports. Tuttavia, dichiarazioni in merito alla propria felicità –così come alla propria intelligenza o moralità – sono spesso influenzate dal desiderio di voler vedere se stessi in una luce positiva.  Dice Peter Ditto, docente di psicologia e comportamento sociale all’UCI e coautore della ricerca:

Se si vuole scoprire quanto una persona sia felice, il primo modo per farlo è chiederglielo, e questa è stata una tecnica ampiamente utilizzata negli studi finora effettuati ma un altro possibile modo di affrontare la questione è quello di studiare in che modo la felicità agisce direttamente sulle persone.

Per studiare le differenze esistenti tra liberali e conservatori riguardo al tema della felicità, Wojcik e i suoi colleghi si sono serviti delle informazioni fornite da alcune banche dati, come ad esempio Linkedln o Twitter. Specificatamente, i ricercatori hanno analizzato milioni di parole provenienti dalla trascrizione di interventi all’interno del Congresso e le fotografie di ciascun membro del Congresso; gli studiosi hanno inoltre analizzato 47.000 tweets e 500 foto provenienti da Linkedln. Wojcik afferma:

Siamo stati sorpresi di scoprire quando sia consistente la relazione tra il livello di felicità direttamente espresso e la preferenza politica dei soggetti

Tali risultati contraddicono quelli precedentemente utilizzati tramite l’utilizzo della metodologia self-report, e Wojcik propone una spiegazione: le persone tendono a riportare ogni genere di capacità o tratto personale nel modo più positivo possibile. Se chiedete loro di valutare un qualsiasi tratto positivo – intelligenza, abilità sociali, persino la capacità di guidare – essi tenderanno ad attribuirsi i punteggi più alti.

Questo effetto sembra essere più forte e più diffuso tra i conservatori, rispetto ai liberali. Ciò non è necessariamente da interpretare come un fatto negativo: secondo alcune ricerche, questa forma di percezione auto-migliorata di se stessi aumenterebbe di fatto le proprie relazioni sociali, il lavoro produttivo e creativo, e porterebbe con sé altri benefici ancora, in una sorta di profezia su se stessi che si auto-avvera.

 

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Sintomi depressivi: poco riconosciuti in pazienti afro-americani affetti da cancro

FLASH NEWS

Pazienti Afro-Americani affetti da cancro potrebbero trarre beneficio da misure della depressione maggiormente sensibili alla loro specificità culturale,  che considerino l’irritabilità, l’isolamento sociale e la sensazione di “sentirsi giù” come modalità differenti di esprimere il concetto di depressione.

Amy Zhang, docente associato presso la Case Western Reserve’s Frances Payne Bolton School of Nursing, ha approfondito a lungo la questione della qualità della vita di pazienti affetti da cancro, chiedendosi infine se sia possibile che i sintomi depressivi in soggetti Afro-americani siano sempre stati scarsamente riconosciuti.

In linea generale, effettuare una diagnosi precisa di depressione in pazienti affetti da cancro è una questione particolarmente complicata, dal momento che i sintomi fisici di depressione e cancro sono molto simili (scarse energie, tendenza all’insonnia ed all’inappetenza). Inoltre, identificare e trattare i sintomi depressivi in questi pazienti è particolarmente critico anche alla luce del fatto che coloro che reagiscono alla malattia con un atteggiamento ed una mentalità più positivi tendono a vivere più a lungo.

In particolare, afferma Zhang: “I soggetti Afro-Americani affetti da cancro sono spesso più gravi e mostrano sintomi più severi. Per questo ho pensato di approfondire tale questione e comprendere se e cosa ci stesse sfuggendo nella cura di queste persone”.

Zhang e le sue colleghe hanno studiato 74 pazienti affetti da cancro, di cui 34 Afro-Americani con diagnosi di depressione, 23 Afro-Americani che non presentavano sintomi depressivi e 17 Caucasici con sintomatologia depressiva. Ai partecipanti era stato diagnosticato un cancro al seno o un tumore alla prostata al massimo entro i tre anni precedenti allo studio, ed erano passati almeno 6 mesi dall’ultimo trattamento ricevuto. Per identificare i sintomi depressivi sono state utilizzate domande aperte.

I pazienti Afro-Americani con diagnosi di depressione riportavano di essere di umore irritabile e di sentire la necessità di stare soli molto più dei pazienti Afro-Americani non depressi; sintomi non facilmente identificabili tramite l’utilizzo di una batteria standard per la depressione. Riportavano inoltre più frequentemente insonnia, fatica e crisi di pianto. Dai dati emerge inoltre che i pazienti Afro-Americani depressi dichiarano meno spesso di sentirsi tristi rispetto ai pazienti Caucasici. La prima tipologia di soggetti, infatti, non usava la parola “depresso” per descrivere come si sentiva, ma più spesso espressioni quali “sentirsi giù” o “a terra”, “essere pessimisti” o “malinconici”. “Dal momento che non usiamo tali parole nei test standard per la depressione, è possibile che non abbiamo correttamente identificato i sintomi depressivi tra le persone Afro-Americane”, dice Zhang.

Tali dati hanno portato la ricercatrice ed il suo team a concludere che i test psico-diagnostici standard siano perlopiù tarati su soggetti bianchi. Di conseguenza, pazienti Afro-Americani affetti da cancro potrebbero trarre beneficio da misure della depressione maggiormente sensibili alla loro specificità culturale, che considerino l’irritabilità, l’isolamento sociale e la sensazione di “sentirsi giù” come modalità differenti di esprimere il concetto di depressione.

Dare definizioni differenti di quest’ultima tramite domande che identifichino specificatamente tali sintomi potrebbe aiutare i clinici ad effettuare una diagnosi più accurata e a trattare il disturbo in modo più appropriato. Infine, Zhang si augura che testare un largo numero di partecipanti al fine di verificare se usare domande più sensibili alle differenze culturali conduca alla messa in atto di strategie più funzionali a sostegno dei pazienti Afro-Americani affetti da cancro.

 

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Psicologia crossculturale: le espressioni facciali non sono universali

 

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Genitori “Bestia” – La separazione vista con gli occhi di un bambino

Il video mostra il punto di vista di un bambino che si trova nella condizione di prendersi cura dei propri genitori, in particolare della madre, dopo una separazione.

Il fenomeno della trasformazione che subiscono i genitori viene definito dal bambino con il termine “bestializzazione”. Oltre a essere premuroso, eccessivamente responsabile e accudente, il bambino diventa parte attiva del processo di “umanizzazione” della madre, stimolandola a uscire, a riprendere i contatti con vecchie amicizie e a prendersi cura di sé.

Dal punto di vista psicologico, viene esposto in modo chiaro e diretto il fenomeno dell’accudimento invertito, nel quale il sistema di attaccamento subisce una distorsione patologica: i ruoli della madre e del figlio si invertono ed è la madre che riceve cure e protezione dal figlio.

Il video tratta l’argomento della separazione (o del divorzio), ma la dinamica può essere generalizzata anche ad altre situazioni nelle quali uno o entrambi i genitori vivono condizioni di sofferenza psicologica tale da ridurre la capacità di prendersi cura dei figli, come può accadere nel disturbo depressivo, nel disturbo bipolare o nella dipendenza da sostanze.

Il tipo di animazione e il ruolo del bambino come voce narrante fanno sì che il video si presti molto bene anche per un utilizzo psico-educativo per i professionisti che operano nell’ambito dello sviluppo.

 

VIDEO:

 

Sigmund Freud University MIlano - Corso di Laurea in Psicologia 

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Come ben rappresentato dal musical Next to Normal, i caregivers di pazienti bipolari mostrano elevato stress per le responsabilità che devono sostenere
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Cambiamenti neuropsicologici nei pazienti depressi dopo la terapia cognitivo-comportamentale e la terapia metacognitiva

Uno studio recente (Groves et al., 2015) ha mostrato come la Terapia Metacognitiva riesce a ridurre l’umore depresso e favorisce il cambiamento positivo di funzioni neuropsicologiche come la memoria di lavoro e le funzioni esecutive. Questo risultato positivo è superiore a quello ottenuto in un gruppo di controllo sottoposto a terapia cognitivo-comportamentale.

La Terapia Metacognitiva (MCT; Wells, 2008) è una nuova forma di psicoterapia che ha lo scopo di sviluppare nuovi modi di reagire a pensieri ed emozioni negativi. È particolarmente efficace nel trattamento dei Disturbi d’Ansia e della Depressione e, nonostante le ricerche di efficacia siano ancora limitati, i primi risultati sono molto incoraggianti. Una recente meta-analisi ha mostrato come l’efficacia sia superiore a quella della terapia cognitivo comportamentale (Norman, van Emmerik & Morina, 2014).

In particolare, MCT mira ad aumentare la capacità di governare volontariamente la propria attenzione ostacolando la tendenza a focalizzarsi su segnali negativi come pensieri (es. non ce la faccio più) o sensazioni (es. senso di stanchezza) e la propensione a ruminare sulle proprie difficoltà e il proprio malessere.

Difficoltà a staccare la mente da stati mentali negativi è una delle caratteristiche principali della depressione. La depressione conduce nel tempo a maggiori difficoltà in attività cognitive come le funzioni esecutive e la flessibilità cognitiva, inclusa soprattutto la capacità di concentrarsi su qualcosa di diverso dal proprio malessere. L’esito è la tendenza a finire bloccati in un circuito depressivo.

Uno studio recente (Groves et al., 2015) ha mostrato come la Terapia Metacognitiva riesce a ridurre l’umore depresso e favorisce il cambiamento positivo di funzioni neuropsicologiche come la memoria di lavoro e le funzioni esecutive. Questo risultato positivo è superiore a quello ottenuto in un gruppo di controllo sottoposto a terapia cognitivo-comportamentale.

Questa ricerca preliminare suggerisce che MCT potrebbe avere un vantaggio su terapia cognitivo-comportamentale nel miglioramento delle funzioni esecutive, probabilmente legato al fatto di focalizzare l’intervento sull’incremento della flessibilità mentale.

 

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Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’ansia e della depressione (A. Wells)

 

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Tracce del Tradimento III: Ossessioni d’amore e perdita dell’amore

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – 03

Ossessioni d’amore e perdita dell’amore

Il dolore che arriva nei nostri studi dovuto al tradimento cercato e fatto è sicuramente ciò che ci ha portato a scrivere. La quantità e la durata della sofferenza che troviamo nelle relazioni d’amore ci colpisce sempre e -quasi- ci spezza il cuore.

Le sofferenze del sentimento rappresentano una parte importante del racconto terapeutico. Se la gelosia patologica rientra nella nosografia psichiatrica solo marginalmente (delirio di gelosia), la sofferenza d’amore, la sofferenza dovuta alla impossibilità di essere in pace in una relazione reciproca è al centro dell’intervento dei terapeuti. Anche se non è diagnosticata.

L’ossessione per la minaccia di perdita del partner è un punto importante della passione d’amore e del nostro lavoro quotidiano. La passione è sinonimo di ossessione, e dipende dalla minaccia della perdita di controllo sul partner. Solo se non c’è sicurezza, se c’è minaccia di perdita può esservi ossessione d’amore. Tuttavia non tutti di fronte alla minaccia di abbandono d’amore reagiscono allo stesso modo. Alcuni soffrono di più, sono colti da uno stupore straziante e temono di morire di questo dolore, non lo ritengono neanche affrontabile e si prestano a qualsiasi umiliazione pur di procrastinare o annullare l’abbandono del partner.

Non crediamo che la differenza sia tanto nella quantità della sofferenza e nemmeno che sia dovuta alla grandezza o alla potenza del sentimento in gioco.

Crediamo semmai che essa stia tutta nella rappresentazione che di fronte alla separazione le persone fanno di se stesse. Se essi si raccontano l’abbandono come la fine dell’esistenza o come un fallimento irrimediabile, sarà molto più difficile affrontarlo.

 

 

Da dove derivano queste diverse posizioni di fronte al vedersi abbandonato o tradito?

Gli studi sulla relazioni familiari suggeriscono che una relazione con i propri genitori, calda, emotivamente appagante e rispettosa (in termini tecnici: un attaccamento sicuro; Bowlby, 1988), sia un protettivo generico dalla costruzione di se come incapace o poco amabile o fallito di fronte al tradimento. Aver avuto dei genitori non critici, non esageratamente invadenti o trascuranti o maltrattanti non garantisce né il benessere psicologico né la felicità, ma facilita in genere la costruzione di una rappresentazione di se come persone decenti e capaci e degne di essere amate e una rappresentazione dell’altro come qualcuno con cui si possa entrare in rapporto in modo reciproco e non spaventosamente minaccioso. Un buon attaccamento non garantisce dalle sofferenze dell’amore, dalle ossessioni amorose, ma le rende curabili e superabili.

 

L’ossessione amorosa

In realtà l’esperienza dell’ossessione amorosa è pur sempre un’esperienza squisitamente umana, formativa e molto ricca. Aver mancato nella vita questa esperienza non è proprio vantaggioso. Ma sappiamo anche che questa sofferenza può essere estremamente distruttiva quando al dolore d’amore si aggiunge una idea di sé come incapace a sopravvivere, una percezione della propria fine, di incapacità ad affrontare il dopo, a ricostruirsi un’esistenza, così come può essere tragico se di fronte all’abbandono d’amore si reagisca con rabbia e ostilità e incolpando il partner dell’abbandono interpretato come un atto malevolo.

Può improvvisamente nascere un sentimento d’impossibilità alla guarigione e alla ricostruzione del futuro. Questo accade per una propria incapacità emotiva e psicologica (e nei casi estremi si può arrivare al suicidio) o per una ostilità mortale verso l’altro che abbandonandoci, non amandoci ci distrugge (e nei casi estremi si può arrivare a ucciderlo).

Di solito le cose non sono però così tragiche e quello che vediamo in terapia è una tendenza alla ripetizione di scelte sentimentali e comportamenti che procurano dolore a se stessi o al partner in modo ripetitivo ma non mortale. Chi ha imparato da qualche parte questa attitudine tende a ripeterla.

Il problema non è quindi la quantità di sofferenza per l’ossessione amorosa ma la sua ossessività correlata insieme a una costruzione di sé come privi di senso e di futuro, al di là dell’ossessione che si sta vivendo.

 

Serena era cresciuta in una famiglia di diplomatici russi che vivevano a Parigi. Un padre esplosivo e anaffettivo aveva da sempre avuto verso di lei un comportamento squalificante e umiliante, la ignorava e se lei si avvicinava per chiedere affetto si allontanava da lei con un viso pieno di disgusto. Egli non aveva però lo stesso comportamento verso sua sorella che invece amava con dolcezza e che riempiva di lodi. Serena era una persona razionale e molto contenuta, così aveva presto imparato a non contare sulla famiglia arrivando a chiedere, al momento delle iscrizioni alle scuole medie, di essere mandata in collegio. La vita di collegio l’aveva rassicurata, anche se sempre più si vedeva capace di affidarsi a se stessa più che ad altri. Aveva vissuto in collegio da sola fino alla laurea. E durante questo periodo i genitori non erano mai andati a trovarla. Si era laureata ed era andata a vivere a Roma dove aveva incontrato un uomo di cui si era infatuata, dopo un breve periodo di seduzione. Egli aveva molto spinto perché lei lasciasse le sue difese e si fidasse di lui lasciandosi andare al rapporto. Lei con grande fatica, illudendosi di aver trovato un grande amore e finalmente un appoggio nella sua vita solitaria, si era lentamente lasciata andare. Improvvisamente, però, quest’uomo, senza alcun motivo comprensibile, era divenuto fisicamente violento e aveva cominciato a tradirla con le poche amiche che lei si era fatta. Lasciando tracce dei tradimenti esplicite e indiscutibili. Tracce di rossetto sulla camicia, messaggi al cellulare. Serena aveva letto questo comportamento come una conferma del suo destino di solitudine e dell’impossibilità di “non essere soli” e aveva fatto, una sera di novembre, un tentativo di suicidio. Soltanto l’ostinazione di un lontano conoscente che non si era spiegato il suo mancato arrivo a una cena di lavoro -lei così scrupolosa e attenta a tenere con tutti rapporti formalmente ineccepibili- le aveva salvato la vita.

 

  • BOWLBY, J. (1988), A Secure Base. Routledge, Londra. Una base sicura. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1989.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Sindrome di Prader Willi (PWS) – Definizione Psicopedia

Con una presa in carico precoce e mirata, i soggetti con Sindrome di Prader Willi riescono a raggiungere discreti livelli di benessere e una buona qualità di vita. Nei casi di discontrollo elevato della condotta alimentare, esistono comunità residenziali specifiche per il trattamento cognitivo e comportamentale.

Malattia genetica rara caratterizzata da sintomi eterogenei sia dal punto di vista clinico che comportamentale. Venne individuata per la prima volta nel 1856 da A. Prader e H. Willi dell’Università di Zurigo, dai quali prende il nome.
La causa accertata viene annoverata ad una delezione sul braccio lungo del cromosoma 15 di derivazione paterna, ovvero a un difetto di copiatura di una parte di DNA.

GENETICA & PSICHEDISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

L’anomalia genetica è responsabile delle disfunzioni ipotalamiche-pituitarie e dell’alterazione delle funzioni cognitive, da cui derivano diversi sintomi: iperfagia e mancanza del senso di sazietà, squilibrio ormonale con importante impoverimento dell’ormone della crescita (GH), discontrollo degli impulsi e vulnerabilità emotiva, disturbi dell’apprendimento e ritardo mentale generalmente lieve-moderato.

La caratteristica fisica principale della sindrome è l’ipotonia, già presente alla nascita, che provoca difficoltà di suzione e successivamente ritardo nello sviluppo motorio. Tende a diminuire intorno ai 3-4 anni di età.

Incidenza: è stimata 1 persona affetta su circa 10.000-15.000 nati vivi. Per ogni individuo con Sindrome di Prader Willi ce ne sono circa 15-20 con sindrome di Down, 1 con sindrome di William e meno di 1 con sindrome di Angelman.

Segni fenotipici: fronte stretta e prominente, occhi a mandorla con palpebre tendenti verso l’alto, statura bassa, ponte nasale stretto, mani e piedi piccoli.

Caratteristiche cognitive: i soggetti con Sindrome di Prader Willi tendono ad avere performance migliori nell’integrazione di stimoli visivi rispetto a quelli uditivi, la memoria a lungo termine è maggiore rispetto a quella a breve termine e mostrano particolari abilità nella composizione di puzzle.

Aspetti emotivi e comportamentali: possono essere frequenti episodi di discontrollo emotivo, difficoltà a gestire la rabbia e a tollerare frustrazioni anche lievi. Spesso mettono in atto comportamenti oppositivi.

Trattamento: data la variabilità dei sintomi, il trattamento è basato sull’integrazione di vari livelli di intervento:

– Trattamento fisioterapico per sviluppare il tono muscolare, migliorare la motricità grossolana e l’articolazione bucco-facciale.

– Trattamento farmacologico con l’ormone della crescita (GH), al fine di potenziare lo sviluppo psico-motorio e migliorare la qualità di vita dei soggetti.

– Intervento motivazionale di promozione della salute, rivolto sia all’individuo che ai familiari, finalizzato a promuovere uno stile di vita sano, a seguire una dieta equilibrata e a monitorare il comportamento iperfagico.

– Intervento logopedico se è presente un disturbo del linguaggio.

– Intervento psico-educativo precoce mirato all’acquisizione dei pre-requisiti dell’apprendimento, alla gestione dell’impulsività e al controllo della rabbia.

– Visite neuropsichiatriche periodiche in età pediatrica e psichiatriche in età adulta in caso di comorbilità con altri quadri psichiatrici. I più comuni sono: disturbo d’ansia generalizzato, depressione, disturbo ossessivo-compulsivo.

Con una presa in carico precoce e mirata, i soggetti con Sindrome di Prader Willi riescono a raggiungere discreti livelli di benessere e una buona qualità di vita. Nei casi di discontrollo elevato della condotta alimentare, esistono comunità residenziali specifiche per il trattamento cognitivo e comportamentale.

 

BIBLIOGRAFIA:

Depressione Post-Partum: la tecnologia al servizio della diagnosi

FLASH NEWS

Abbiamo già parlato di come, negli ultimi anni, si sia cominciato a pensare ad una nuova forma di trattamento della malattia mentale, che possa avvalersi dei più moderni strumenti forniti dalla tecnologia odierna. Secondo i sostenitori di questo tipo di approccio, tali forme di trattamento, definite anche di mobile healt (mHealt), costituirebbero un valido supporto alle modalità di intervento standard.

Tra i principali vantaggi, la possibilità di una più facile e veloce raccolta di informazioni cliniche. Questo il motivo che ha spinto alcuni ricercatori della University of Illinois a credere che l’utilizzo di TabletPC possa promuovere un approccio globale alla valutazione di disturbi quali la depressione post partum, anche all’interno del sistema di sanità pubblica.

CYBERPSICOLOGIA

La ricerca, nata dalla collaborazione con i responsabili del progetto Champaign-Urbana Public Health District, ha coinvolto circa 3.100 donne e prevedeva la valutazione dei sintomi di depressione post partum tramite l’utilizzo di TabletPC, ciascuno dei quali dotato di una versione dell’Edinburgh Postnatal Depression Scale, un questionario costituito da 10 item comunemente usato nella clinica.

La possibilità di utilizzare una versione elettronica del questionario, solitamente somministrato in forma cartacea, ha permesso, secondo Karen M. Tabb Dina, principale autore dello studio, di mettere in luce come l’utilizzo delle nuove tecnologie possa permettere di superare le barriere linguistiche che in una società sempre più globalizzata continuano tuttavia a persistere nel quotidiano. In questo modo, le donne che hanno preso parte allo studio sono state in grado di compilare il questionario nella lingua nella quale si sentivano più a loro agio, senza dover chiedere aiuto al proprio partner.

Ciò garantisce una migliore raccolta delle informazioni cliniche, che potrebbero altrimenti risultare parziali in quanto alcune donne potrebbero essere riluttanti nel dover chiedere aiuto ad altri per descrivere i propri sintomi.

Sulla base di recenti studi che suggeriscono un’incidenza due volte maggiore di questo disturbo nella fascia di popolazione che vive in una situazione economica più svantaggiata e con un basso livello di istruzione, l’opportunità di poter disporre di un supporto audio per la somministrazione del questionario costituirebbe un vantaggio anche nel rapporto con pazienti dalle limitate capacità di lettura, consentendo loro di rispondere al questionario in maniera autonoma.

Inoltre, la somministrazione in forma elettronica consentirebbe una più rapida elaborazione delle informazioni raccolte, permettendo così un trattamento efficace in tempi più brevi, aspetto cruciale in un contesto di assistenza sanitaria pubblica, in cui spesso il ricambio di pazienti è necessariamente molto veloce.

DEPRESSIONE POST-PARTUM

Superata l’incertezza legata al timore che le informazioni raccolte in questa maniera possano essere più facilmente diffuse ed assicurando quindi una loro memorizzazione all’interno di una banca dati digitale protetta, l’utilizzo di TabletPC potrebbe costituire un utile strumento di supporto alla diagnosi così come al trattamento di diverse forme di disturbo mentale. Senza contare il forte impatto ambientale che deriverebbe dall’implementazione di tale pratica, grazie alla riduzione nel numero di materiale cartaceo utilizzato.

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BIBLIOGRAFIA:

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