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Neurobiologia: perché nell’anoressia viene ignorato lo stimolo della fame

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

Che cosa rende le persone con anoressia nervosa così poco sensibili alla ricompensa? Secondo Christina E. Wierenga, professore associato di psichiatria dell’Università della California, la risposta risiederebbe nella presenza di un alterato funzionamento dei circuiti cerebrali coinvolti nei processi decisionali.

L’anoressia nervosa è un disturbo alimentare caratterizzato da un peso corporeo al di sotto dei limiti della normalità, dalla paura di prendere peso e da un’alterata percezione dell’immagine corporea. Molte persone hanno difficoltà a seguire una dieta e spesso riguadagnano peso dopo averlo perso; al contrario gli anoressici possono limitare drasticamente l’assunzione di calorie per anni.

Che cosa rende i secondi in grado di ignorare quegli stessi segnali di fame che, invece, spingono i primi a mangiare? Le persone con anoressia hanno generalmente un temperamento inibito e controllato e faticano a trovare gratificazioni che vadano al di là dalla perdita di peso. La propensione ad ignorare i segnali che riguardano la fame potrebbe essere quindi ascrivibile, almeno in parte, ad un’alterazione più generale dei normali “meccanismi di ricompensa”, che vengono attivati da stimoli gratificanti che inducono piacere, come cibo, denaro, sesso e così via.

Ma che cosa rende le persone con anoressia nervosa così poco sensibili alla ricompensa? Secondo Christina E. Wierenga, professore associato di psichiatria dell’Università della California, la risposta risiederebbe nella presenza di un alterato funzionamento dei circuiti cerebrali coinvolti nei processi decisionali.

In un esperimento pubblicato lo scorso anno sulla rivista Biological Psychiatry, la professoressa Wierenga e i suoi collaboratori hanno sottoposto 23 donne con anoressia nervosa in remissione e 17 donne di controllo (con anamnesi negativa per disturbi alimentari) ad un esame di risonanza magnetica funzionale (fMRI) durante l’esecuzione di un compito di delay discounting. Questo compito viene comunemente utilizzato proprio per esaminare i processi decisionali in relazione a stimoli gratificanti. Le partecipanti erano chiamate a scegliere di volta in volta tra due diverse opzioni, ciascuna delle quali comprendente una somma di denaro, più o meno alta, e il tempo necessario per poterla ottenere, più o meno lungo.

Attraverso la fMRI, i ricercatori hanno così potuto evidenziare il circuito cerebrale coinvolto nella scelta di ricompense immediate e quello implicato nella scelta di ricompense future, eventualmente più ingenti. Il primo, il “circuito della ricompensa”, comprende lo striato ventrale, il caudato dorsale e la corteccia cingolata anteriore; il secondo, il “circuito del controllo cognitivo” include la corteccia prefrontale ventrolaterale e l’insula. L’esperimento è stato inoltre svolto dalle partecipanti in due diverse condizioni metaboliche: fame (a digiuno da 16 ore) e sazietà (2 ore dopo aver consumato una colazione personalizzata).

Nel gruppo di controllo lo stato di fame ha determinato un incremento significativo dell’attivazione del “circuito della ricompensa”, mentre la sazietà ha aumentato l’attivazione delle regioni cerebrali incluse nel “circuito del controllo cognitivo”. Ciò significa che lo stato metabolico è normalmente in grado di influenzare i processi decisionali, e che la fame rende le ricompense immediate più appetibili. Le donne con anoressia in remissione, invece, non hanno mostrato alcun incremento di attivazione nel “circuito della ricompensa” quando affamate e hanno mostrato un costante elevato livello di attivazione del “circuito del controllo cognitivo”, a prescindere dal loro stato metabolico.

Questo studio, sottolinea Walter H. Kaye, senior author della ricerca, indica che la presenza di alterazioni nel funzionamento cerebrale rende le persone con anoressia nervosa meno sensibili alla ricompensa e alla spinta motivazionale della fame. Tale scoperta evidenzia l’apporto non trascurabile che un approccio di tipo neurobiologico può dare allo studio dell’anoressia nervosa.

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Dal punto di vista evolutivo è possibile cogliere una maturazione del disegno infantile che procede di pari passo con quella del bambino e che costituisce una manifestazione della tappa in cui si colloca e delle abilità che padroneggia e perfeziona.

[blockquote style=”1″]“Disegnare è una delle attività a cui il bambino ricorre con più frequenza e immediatezza. L’obiettivo è di poter esprimere e comunicare il suo mondo interiore”[/blockquote] (Castellazzi 2012, p.5).

Lo studio del grafismo infantile è stato caratterizzato da un interesse in costante mutamento che ne ha sondato dapprima le qualità artistiche, si pensi ai contributi risalenti all’Ottocento e in seguito la sua utilizzabilità per indagini socio-culturali.
Va rilevato che queste ricerche erano lontane dalla scoperta di un legame tra la produzione grafica e lo sviluppo delle capacità cognitivo-affettive avvenuta in studi successivi.

[blockquote style=”1″]“Il disegno infantile appare oggi, nella sua autenticità, come una via privilegiata per capire il percorso conoscitivo del bambino e lo sviluppo dei processi ad esso legati, quali: la percezione, la memoria, l’attenzione, la formazione di sequenze complesse e coordinate di movimenti”[/blockquote] (Castelli Fusconi 2002, p. 73). Dal punto di vista evolutivo è possibile cogliere una maturazione del disegno infantile che procede di pari passo con quella del bambino e che costituisce una manifestazione della tappa in cui si colloca e delle abilità che padroneggia e perfeziona.

Alla luce di una vasta letteratura sull’ argomento si vuole qui tentare una sintetica operazione di analisi dell’evoluzione del grafismo e della preziosa narrazione contenuta in esso.
Un interessante contributo sulla trasformazione dell’espressione grafica è offerto da Crotti e Magni (2006) che identificano tre livelli di sviluppo nel grafismo infantile.

Il primo livello prevalentemente motorio arriva fino a venti mesi circa, esso si caratterizza per la presenza di tracciati omolaterali, per esempio eseguiti con la mano destra e distribuiti sulla parte destra del foglio e centrifughi, ossia dal punto più vicino al soggetto a quello più lontano. Queste peculiarità e altre, come la presenza di linee curve in senso antiorario e orario sono prodotte della maturazione del sistema nervoso.
Dai venti ai trenta mesi, periodo definito percettivo, il bambino possiede un maggiore controllo del gesto, che consente un migliore adattamento allo spazio grafico e la capacità di seguire con gli occhi il tracciato.
L’ultimo livello secondo gli autori è quello della rappresentazione, esso si estende dai trenta ai quaranta mesi, è il momento in cui al disegno è accompagnata una descrizione, il bambino diviene capace di eseguire linee spezzate e oggetti diversi grazie all’ acquisizione della forma, della proporzione, del numero e dello spazio.

Il primo contatto del bambino con il segno grafico può essere collocato all’età di sei mesi e anche se non lascia una traccia visibile, una profonda sorpresa accompagna questa scoperta.
Successivamente l’esplorazione e lo sperimentarsi nel movimento consentono al bambino di tracciare linee angolose e oscillanti spesso in tutte le direzioni, puro e gratificante piacere di produrre. Questi tracciati ben presto si trasformano in un insieme caotico di linee dalla forma irregolare, gli scarabocchi, che il bambino produce senza staccare la matita dalla superficie.

Non è difficile comprendere che le progressioni evolutive del disegno qui descritte risentano dell’influenza del livello intellettivo, della stimolazione sociale, nonché di ritardi nello sviluppo.
Diversamente da quanto si possa pensare, gli scarabocchi non sono tutti uguali e le loro peculiarità caratterizzano fasi evolutive differenti.

A tal proposito Lowenfeld (1984) fornisce una classificazione di quattro tappe che implicano abilità diverse. Inizialmente l’assenza di controllo motorio consente al bambino di produrre solo scarabocchi disordinati. In un secondo momento, un più raffinato controllo individuabile dà vita a tracciati longitudinali e in seguito circolari. Nell’ultima tappa con il pensiero immaginativo prendono forma gli scarabocchi significanti.
Verso il secondo anno compaiono i precursori della figura umana, tracciati spiraliformi e forme chiuse come i cerchi disegnati singolarmente o in serie, che costituiscono la prima raffigurazione geometrica. Soltanto un anno dopo emerge l’intenzionalità comunicativa e vi è il primo tentativo di rappresentazione della figura umana, generalmente disegnando un cerchio a cui viene aggiunta una coda, o due code che raffigurano gli arti, il simpatico cefalopode.

Man mano che cresce il bambino disegna una figura umana sempre più riconoscibile, che adorna di particolari che la rendono più realistica, pensiamo per esempio a cinte, bottoni, cappelli, bambole, testimonianza di una maggiore padronanza nel disegno di figure geometriche, maggiore espressività e un’iniziale tendenza alla differenziazione sessuale.

Con l’inizio della frequenza scolastica i dettagli nel disegno abbondano, compare una maggiore abilità di sfruttare lo spazio e la linea di appoggio. Il diletto non è più solo esclusivo del disegno frontale, ma anche di quello di profilo o ibrido, inoltre, si ricorre a colori e matite per riempire gli spazi.

Alcune figure come la casa possono essere autentica espressione di calore familiare o di senso di abbandono. I paesaggi contengono non più solo alberi, ma anche il sole, gli uccelli, i fiori, l’erba e così via. Anche nel disegno di animali viene proiettato sul foglio bianco quello che denota qualche personale caratteristica.

Quanto detto coinvolge anche la raffigurazione del movimento, in cui si procede con espressioni meno mature per esempio rintracciabili nella posizione di gambe e braccia e loro elevazione verso l’alto, fino a dettagli più complessi come il movimento degli abiti o l’asse della figura.
[blockquote style=”1″]“Il disegno del bambino diventa in questo senso una mappa che guida ogni adulto nella scoperta del bambino che è stato, da rintracciare nel tratto, nei colori e nelle immagini depositate sul foglio ad opera del bambino che gli vive vicino” [/blockquote](Federici 2005, p.10).

Benché le capacità grafiche evolvano, sono conservati ancora schemi poco evoluti, che si manifestano insieme a forme più evolute.
Dai dieci-undici anni al periodo adolescenziale, il bambino possiede molti schemi figurali, la sua memoria ormai completa gli consente di ritrarre la figura in tutte le sue parti, anche se non presente, il suo stile risente dell’influenza di stereotipi culturali e dei conflitti adolescenziali. Pertanto il disegno della figura umana di un soggetto in adolescenza presenta il medesimo grado di completezza di quello di un adulto.

Anche se una qualità artistica inferiore presente durante l’età adulta è da attribuire a un minor esercizio e interesse per l’attività grafica stessa.
È importante ricordare che il grafismo consente al bambino di strutturare la sua motricità, la sua vita di relazione e di comunicare con il mondo esterno.

Un’altrettanto vasta rassegna di studi ha indagato attraverso il disegno lo sviluppo psicosessuale del bambino e lo ha reso un importante strumento psicodiagnostico.
[blockquote style=”1″]“Mentre disegna, il bambino, preso dal piacere di rappresentare, si controlla assai meno che nel colloquio, e proietta senza rendersene conto, sentimenti, desideri, conflitti, atteggiamenti” [/blockquote](Passi Tognazzo 1991, p.172).

Secondo Castellazzi (2012) l’affettività che il bambino comunica più o meno consapevolmente attraverso l’espressione grafica segue un’evoluzione attraverso le cinque classiche fasi freudiane: la fase orale, l’anale, la fallica, di latenza e la genitale e che inevitabilmente dipendono da fattori intrapsichici, fisici e ambientali.

In quest’ottica i primi segni di oralità s’identificano nei tracciati spiraliformi e significanti e prima le forme chiuse, poi il cefalopode, indicano un sé che si sta formando separandosi dall’altro. L’alternanza tra il piacere di sporcare il foglio e di controllarlo, segna la fase anale, in cui l’aggressività si concretizza in annerimenti e linee ostinatamente marcate fino a bucare il foglio. Quando il Super-Io si è strutturato e le problematiche edipiche sono state superate, compaiono immagini che richiamano alla differenziazione sessuale, alla potenza e al vigore, armi e oggetti a punta, tipici della fase fallica. Un’identità matura, porta alla riduzione dell’egocentrismo e al ridimensionamento della figura, alla condivisione dell’ambiente con i pari.

Nell’adolescenza tensioni e conflitti s’identificano in omissioni o accentuazioni di parti del corpo, come per esempio una bocca accentuata che richiama all’aggressività verbale e mani nascoste o esagerate, per indicare difficoltà d’interazione e attività manipolatorie.

[blockquote style=”1″]“I bambini non disegnano solo ciò che vedono, ma ciò che sentono. Nei loro disegni possiamo leggere le loro paure, i loro desideri, le loro emozioni”[/blockquote] (Carlino Bandinelli & Manes 2004, p. 9).

Una sete di curiosità deve guidare l’osservazione dell’attività grafica, nonché del suo prodotto finito, poiché sono moltissime le informazioni che possiamo acquisire e che diversamente non avremmo modo di conoscere. Un foglio di carta e una penna devono accompagnare l’osservatore che vorrà lasciare un’indicazione di ciò che ha visto e dovrà rivedere, magari su cui riflettere. Per evitare che l’attenzione sfugga da ciò che è importante sondare, le variabili da osservare vanno dal livello grafico, che si riferisce alle linee, alla pressione, al tratto e all’impugnatura della matita, a quello formale e contenutistico. Il secondo analizza il punto da cui il bambino inizia a disegnare, il modo in cui si esprime nel foglio-ambiente, la forma, le dimensioni, gli elementi omessi, esagerati o distorti, la simmetria, la direzione, la staticità e il movimento che conferisce alla figura. L’ultimo prende in esame una componente del disegno per volta.

[blockquote style=”1″]“Dunque il disegno è il racconto che il bambino fa di se stesso” [/blockquote](Crocetti 2009, p.105) è nello specifico la proiezione di una struttura dinamica, per esempio la propria immagine corporea, che si costruisce e muta nel tempo influenzata dalle proprie sensazioni, dal contatto con se stesso e gli altri, da stimolazioni ambientali e bisogni.

Per concludere, comprendere il significato comunicato dai disegni, fin dagli scarabocchi dei primissimi anni di vita, è importante per individuare il modo di essere, la sua vitalità e lo stato emotivo che il bambino sperimenta in quel momento. Esprimendosi in modo spontaneo, egli si libera da timori e comunica necessità, che è compito dell’adulto cogliere.

Quanto detto conduce a una riflessione sulle potenzialità dell’attività grafica, un gioco solitario o da condividere, una modalità espressiva, una tecnica terapeutica. Quest’ultimo aspetto richiede una precisazione [blockquote style=”1″]“Il gioco degli scarabocchi è soltanto un mezzo per entrare in contatto con il bambino, ciò che succede nel gioco e nel colloquio, dipende dall’uso che si fa dell’esperienza del bambino, incluso il materiale che ne viene fuori.[/blockquote] (Winnicot 2005, p.12).

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BIBLIOGRAFIA:

Laurea Vs Terza media: possibile l’affinità di coppia tra due persone con netta differenza d’istruzione?

Ciò che forma le basi solide di una coppia è riconducibile a ciò che uno dei due partner cerca nell’altro; o a cosa l’altro possiede di cui diviene impossibile farne a meno. E se la differenza di istruzione, con il passare del tempo, potrebbe in qualche modo sulla coppia pesare, allora diverrà opportuno riflettere su quegli elementi che sopperiscono a tale diversità.

Due persone: un uomo e una donna, legati affettivamente, sono sposati o semplicemente fidanzati. Insomma, una coppia. Due individui che condividono qualcosa, hanno un legame. Ma…uno dei due ha la laurea, l’altro no, ha solo la licenza media inferiore. Prendiamo per esempio una coppia dei giorni nostri, due coetanei, sulla trentina. Uno lavora e guadagna da quando non aveva ancora raggiunto la maggiore età, è autonomo da tempo, svolge un lavoro che non richiede una grande capacità di concentrazione, ma che comporta una fatica fisica. Non vi sono in lui grandi ambizioni lavorative, piuttosto un desiderio di autonomia, che determina una buona motivazione e un impegno in attività che gli consentano di portare avanti le proprie mansioni con tenacia.

L’altro, di contro, dopo il diploma ha seguito una strada all’insegna dei libri. Ha studiato, si è laureato e magari sta continuando a studiare per perfezionarsi. Dopo la scuola dell’obbligo ha intrapreso un percorso, prettamente teorico, dove le difficoltà non riguardavano il guadagnare per vivere, bensì collezionare traguardi mediante lo svolgimento di esami, frequentazione di congressi e partecipazione a ricerche, con la speranza di emergere tra tanti e diventare qualcuno.

Entrambi hanno affrontato e superato prove. Degli esami di vita sicuramente complessi in ambedue i casi, ma con differenze nette: uno dei due si è trovato a scontarsi con ostacoli più concreti, è entrato più velocemente in quella dura “vita di tutti i giorni”, in cui “si tira per campare”. Ma l’altro certo ha affrontato altri scogli. Seppur mantenuto dalla famiglia ha dovuto impegnarsi per raggiungere gratificanti traguardi, seminando per un buon futuro. E mentre uno legge, apprende, immagazzina concetti teorici in attesa di metterli in pratica, il tutto spendendo soldi che gli consentano questo, l’altro lavora, apprende nuovi concetti solo lavorandoci a contatto diretto, poca teoria ma tutta pratica, e al contempo si guadagna lo stipendio. Insomma, due persone che hanno avuto due vite totalmente differenti.

Due soggetti così potrebbero mai stare insieme? Per rispondere a questa domanda sono opportune specifiche riflessioni.
Se due persone stanno insieme è perché in qualche modo condividono qualcosa. Due persone, anche se molto diverse, sicuramente avranno un qualcosa in comune.

Ma questa netta disparità di scolarizzazione consentirà loro di diventare una “coppia”, magari con una stabilità nel tempo?

I frequenti divorzi che hanno interessato l’Italia nell’ultimo periodo hanno stimolato una serie di ricerche per l’identificazione delle cause a riguardo (Arosio, 2004). Sembrerebbe che sia proprio la “diversità” tra i due a far naufragare la coppia.
Tra le cause più frequenti troviamo la differenza d’età, che porta con sé la conseguenza relativa al fatto che i coniugi hanno poi esigenze diverse, e differenti energie. Anche la lontananza geografica tra i due, magari dovuta al lavoro di uno dei partner, appare un valido motivo di separazione. E sembrerebbe che anche il cosiddetto “bagaglio culturale” abbia la sua rilevanza in una relazione sentimentale. Due persone che hanno un titolo di studio del medesimo livello pare che comunichino in maniera molto più adeguata, non solo per la complessità del lessico utilizzato, ma soprattutto perché vi sarebbe un’affinità nella scelta degli argomenti di conversazione (Donati, 2011).

Letta in questi termini sembrerebbe quindi che gli opposti si respingano. Ma queste considerazioni sono un po’ riduttive se non si tiene conto anche del versante opposto a quello appena discusso, ossia: perché due persone stanno insieme? Al giorno d’oggi i fattori culturali e socio – economici non impongono più grossi limiti nella scelta del partner come invece accadeva tempi addietro (Lalli, 1999).

Sicuramente all’inizio ci si sceglie per un qualsiasi motivo di attrazione reciproca, per poi conoscersi meglio e rendere la relazione stabile nel tempo. E questa stabilità nel tempo pare sia dovuta sicuramente in parte a delle affinità tra i due che reggono in piedi la coppia, ma al contempo anche ad un soddisfacimento dei propri bisogni, che talvolta potrebbe corrispondere a qualcosa che ad uno dei due manca; e quindi il partner, con la sua diversità, in un certo modo sopperisce a questa mancanza.

“I simili si prendono” si sente spesso dire. Ciò in parte è vero, soprattutto se si attribuisce importanza alla comunicazione che viene ad instaurarsi nella coppia. Infatti due persone che hanno avuto un simile stile di vita sicuramente incontreranno pochi ostacoli e minori incomprensioni a livello comunicativo rispetto a due soggetti con disparità socio – culturale. Stesso livello di istruzione potrebbe corrispondere a “capirsi più velocemente”. Inoltre potrebbe esservi una similarità di interessi tra due persone con analogo titolo di studio (Olson, 2009).

Ma al contempo, osservando le coppie stabili di tutti i giorni, ci troviamo spesso di fronte a persone che sono tra loro molto più simili di quanto possono all’apparenza mostrare. Ad esempio due soggetti con un lavoro (e relativo titolo di studio) estremamente diverso possono somigliarsi per il medesimo carattere (il quale potrebbe essere impulsivo, tenace, paziente); oppure vi è una condivisione degli stessi valori; o ancora una similarità negli interessi, i quali esulano dal livello di istruzione.
Alla luce di queste considerazioni, e ritornando così alla domanda esposta nel titolo, ne viene fuori che la risposta è affermativa.

Ciò che forma le basi solidi di una coppia è riconducibile a ciò che uno dei due partner cerca nell’altro; o a cosa l’altro possiede di cui diviene impossibile farne a meno. E se la differenza di istruzione, con il passare del tempo, potrebbe in qualche modo sulla coppia pesare, allora diverrà opportuno riflettere su quegli elementi che sopperiscono a tale diversità; se in qualche modo vi sono dei fattori che “vincono” su di essa, e che costituiscono le vere fondamenta di una relazione.

Essere uguali non è necessario per stare insieme. Talvolta basta un piccolo legame (con una certa valenza) ad impedire alla coppia di “scoppiare”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Arosio L. (2004). Gli opposti si respingono? Scelte di coppia e stabilità coniugale in Italia. Roma: Aracne Editrice. DOWNLOAD
  • Donati P. (2011). La Relazione di Coppia Oggi. Una Sfida per la Famiglia. Trento: Erickson.
  • Lalli N. (1999). La coppia: formazione e crisi”, Manuale di Psichiatria e Psicoterapia, vol. 2, Napoli: Liguori Editore.
  • Olson D. H. (2009). Couple Checkup: Tuning Up Relationships. Journal of Couple & Relationship Therapy, n. 8, pp 129 – 142. DOWNLOAD

Rain man -L’uomo della pioggia – (1988) e il mondo dell’autismo

Charlie da anaffettivo e completamente centrato su di sé, sposta lentamente l’attenzione sulle emozioni e sulla scoperta di parti e reazioni che non immaginava di avere, ci si chiede ad un certo punto “ E’ Raymond ad essere malato o suo fratello?”.

Kim Peek  è il nome dell’ uomo a cui si è ispirato Barry Lavinson, per la famosa pellicola del 1988 “Rain man- l’uomo della pioggia”, vincitore nel 1989 di quattro premi oscar, miglior film, regia, sceneggiatura e attore protagonista, l’impeccabile Dustin Hoffman.

Sebbene nella pellicola il personaggio Raymond Babbit, Dustin Hoffman sia affetto da autismo, nella realtà Peek era affetto da macrocefalia e assenza di corpo calloso, un per così dire paziente split- brain al naturale, che proprio per via di questo mancato collegamento primario e secondario (commessura anteriore)  tra i due emisferi cerebrali, di solito espletata appunto dal corpo calloso aveva aumentate attività mnemoniche, era in grado di leggere un libro in un ora e memorizzarne il 98% del contenuto, conosceva circa 12000 libri a memoria, così come immagazzinava una quantità innumerevole d’ informazioni delle più disparate materie e riusciva a fare a mente calcoli estremamente complessi nonostante non fosse in grado di allacciarsi le scarpe autonomamente, una persona affetta dalla “sindrome dell’idiota sapiente”, cosi almeno viene chiamata.

Il regista incontrato Peek fu molto colpito dalle sue capacità e debbolezze, dalla sua famiglia e il suo modo di vivere, il risultato fu appunto Rain-man. Nonostante possa sembrare, ad una prima occhiata, che l’elemento portante del film sia appunto Raymond, in realtà a parer mio il personaggio chiave è il fratello minore Charlie, Tom Cruise, e la sua crescita emotiva.

Charlie Babbit è un uomo d’affari a cui le cose non stanno andando troppo bene, dopo la morte del padre scopre che l’intera eredità è stata lasciata al fratello maggiore Raymond di cui però ignorava l’esistenza. Giunto alla clinica psichiatrica scopre un fratello autistico e lo rapisce per portarlo a Wallbrook nella speranza di ottenere la metà del patrimonio. Non andrà così. Man mano che il fratello minore comincia a conoscere il maggiore, le sue debolezze ma anche le sue fenomenali capacità mnemoniche e di calcolo, riaffiorano pensieri ormai persi di un personaggio che Charlie da piccolo credeva solo immaginario ed invece essere suo fratello maggiore, che gli cantava canzoni e che solo ora riscopre. Gli vuole bene e vuole ora il suo bene, affronta una crescita che forse nonostante l’età, non era ancora arrivata, lo riporta indietro e decide di esserci.

I soggetti autistici non sono nel 50% dei casi in grado di comunicare verbalmente, tendono all’isolamento, si ritirano in un loro mondo immaginario, talvolta parlando con personaggi inventati, sono indifferenti agli stimoli emotivi e hanno difficoltà ad instaurare un contatto visivo, ripetono in modo ossessivo alcune azioni, reagiscono in modo, talvolta autolesionistico talvolta aprassico e ipotonico ai cambiamenti. Vivere queste persone amplifica a parer mio ogni cosa, così come, piano piano, l’uomo intraprendente Charlie Babbit  scopre.

Attraverso loro siamo portati a fare i conti con noi stessi, a sensibilizzarci. Charlie da anaffettivo e completamente centrato su di sé, sposta lentamente l’attenzione sulle emozioni e sulla scoperta di parti e reazioni che non immaginava di avere, ci si chiede ad un certo punto “E’ Raymond ad essere malato o suo fratello?” che con stress, incapacità nell’instaurare rapporti sinceri, circondato da menzogna ed essenzialmente solo è altresì chiuso in un mondo senza speranza.

Se Rayomond non può purtroppo cambiare le cose per sè, Charlie può! Si rende conto della sua condizione, l’anaffetività, la tendenza a non parlare con gli altri. La fame di successo e di guadagno, sono considerabili a parer mio, sintomi sovrapponibili ad una patologia dello spettro autistico, da cui, coloro che pensano di essere normali possono però uscire. Non dovrebbe essere necessario però il dover confrontarsi necessariamente con alcune realtà, basterebbe forse solo ogni tanto fare i conti con noi stessi, la nostra vita e la nostra soddisfazione personale e il porsi la fondamentale domanda “Sono felice?” se però non siamo in grado di porci tale domande, ben vengano capolavori come questi, opere profonde che scalfiscono l’anima.

 

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Tradire e svelare o nascondere il tradimento? – Tracce del tradimento Nr. 06

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – 06

Tradire un contratto, un patto di fiducia. Se gli umani fossero del tutto razionali terrebbero il tradimento segreto fino al momento in cui non abbiano deciso in modo evidente e chiaro ciò che desiderano fare. Ma vi sono forze misteriose nell’animo umano che premono verso il disvelamento, sia da parte di chi tradisce sia da parte di chi è tradito.

Tradire e fare sapere o nascondere il tradimento sono due cose profondamente diverse e al tempo stesso molto legate. A noi interessano gli aspetti del tradimento svelato e della ricerca da parte del tradito delle tracce del tradimento. È spesso intenzione “esplicita“ del traditore che il tradito non sappia del tradimento avvenuto.  Scriviamo “esplicita” perché è proprio tra le pieghe dell’esplicito che si nasconde la complessità che questo libro vorrebbe mettere a fuoco.

Il tradimento dovrebbe essere segreto. Solo così si può parlare di tradimento. Se se ne parla  si è consenzienti, si  tratta allora di rottura di un rapporto, di un patto.  Se due persone parlano di un tradimento reciproco avvenuto, anche se uno dei due non era consenziente, averne parlato sposta necessariamente il rapporto su un piano diverso: Sparisce il problema della ricerca delle tracce e appare il problema di come affrontare questa nuova fase del rapporto.

Che emozioni abbiamo? Quanta sofferenza? Quanta indifferenza? Quanta rabbia verso chi ci ha tradito? Quanto dolore?  Che si fa dopo il tradimento? Che cosa scegliamo di fare? Rimanere insieme, lasciarci, cominciare una guerra?  

Tradire un contratto, un patto di fiducia. Se gli umani fossero del tutto razionali terrebbero il tradimento segreto fino al momento in cui non abbiano deciso in modo evidente e chiaro ciò che desiderano fare. Ma vi sono forze misteriose nell’animo umano che premono verso il disvelamento, sia da parte di chi tradisce sia da parte di chi è tradito.

Il problema che ci poniamo è di spiegare un comportamento bizzarro che consiste nel lasciar tracce di qualcosa che si dice di voler tener nascosto. E nel cercare tracce di qualcosa che non è detto che siamo in condizioni di voler sapere e di affrontare in modo logico e coerente.  

Il comportamento di chi cerca tracce del tradimento è più comprensibile: vuole sapere come stanno le cose in un’area per lui importante, vuole controllare per non subire inganni, vuole dare un significato più coerente a segnali spesso incoerenti. Ma non sempre questo scopo così logico ed esplicito è realmente alla base del comportamento del cercatore di tracce, e l’irrazionalità di alcune motivazioni del cercatore emerge quando, una volta avuta la conferma del tradimento avvenuto, egli o lei cade in confusione, si ritira, accusa oppure fa di tutto per ricucire e non tenere conto delle informazioni che il suo comportamento gli ha permesso di ottenere.

Ma perché e con che scopo la donna che ha un sospetto va a rovesciare le tasche del suo uomo di ritorno da un viaggio di lavoro alla ricerca di una ricevuta di carta di credito che dichiari con violenza indiscutibile una cena a due in un ristorante invece che la cena di lavoro di cui si era parlato al telefono? E cosa spinge l’uomo che dice a se stesso di voler mantenere il segreto, a lasciare nel suo telefono cellulare a volte usato da sua moglie, la traccia di un messaggio erotico inequivocabile che -se letto- lo porterebbe alla rovina del  rapporto?

Seminare e cercare le tracce del tradimento è una attività umana poco descritta ma molto diffusa. Molte energie vengono spese da persone che hanno rapporti sentimentali nel coprire le tracce del tradimento, lasciare le tracce del tradimento, cercarle e ancora cercarle. 

Molte emozioni sono coinvolte in questo processo: curiosità, paura, angoscia, dolore, rabbia furiosa. Molti sono anche gli effetti indesiderati di questi comportamenti che spesso danneggiano in modo inequivocabile e definitivo vite che potevano  rimanere decentemente in equilibrio.

Giorgio è sempre stato molto orgoglioso della bellezza di sua moglie e in fondo si è sempre considerato fortunato che una donna eterea e misteriosa come lei lo avesse scelto e sposato. Dal momento del matrimonio ha però messo in atto sistematiche violazioni della sua privacy che hanno grandemente deteriorato la qualità del loro rapporto. Apre tutti i suoi cassetti, ha imparato ad aprire le sue lettere e a rincollarle senza farsi scoprire, alza il telefono per ascoltare le telefonate di lei e la segue quando lei va a passeggio o vede le sue amiche. Il suo comportamento sarebbe rimasto una sgradevole ossessione e un disturbo per lei se una volta, aprendo una sua lettera non avesse trovato una missiva affettuosa e nostalgica del suo vecchio fidanzato. Questo sospetto lo ha fatto impazzire e ha cominciato a accusare la moglie di un tradimento dopo l’altro e a tentare in ogni modo di chiuderla in casa, anche se quando la moglie è a casa, non riesce a stare tranquillo perché lei lo potrebbe tradire con pensieri e vecchie fantasie e sogni segreti. Questo comportamento ha prodotto nella moglie all’inizio un distacco e un fastidio unito lentamente a un aumento di pena e disprezzo per lui. La fine del rapporto si è rapidamente compiuta e Giorgio viene in terapia non riuscendo a spiegarsi come sia potuto accadere che un comportamento di controllo amoroso possa avere generato in lei un distacco così feroce.  Egli è incapace di riconoscere i suoi aspetti patologici e non riesce a immaginare un comportamento diverso che avrebbe potuto adottare. Ciò che egli ha fatto è che la profezia dell’abbandono che aveva in mente è stata da lui determinata attraverso tutti i comportamenti di controllo che ha messo in atto per evitarlo

 

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L’importanza dell’alleanza terapeutica nei trattamenti con pazienti psicotici

Vanessa Schmiedt

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I risultati indicano che ad alti livelli di alleanza la terapia è utile, ma che a bassi livelli di alleanza la terapia è dannosa.

Prima degli anni ‘90 le terapie psicologiche per pazienti con la schizofrenia o con episodi psicotici sembravano essere poco efficaci o addirittura dannose. Da allora una serie di meta-analisi hanno dimostrato che la terapia cognitivo-comportamentale insieme alle cure quotidiane è più efficace delle cure senza terapia.

Studi controllati di confronto tra terapie psicologiche spesso non sono riusciti a dare prova di differenze significative tra gruppi di trattamento portando a confermare  il “ verdetto di Dodo”, il quale afferma che tutte le terapie sono efficaci e nessuna è più efficace dell’altra e  hanno inoltre suggerito che la natura e la forza dell’alleanza stabilita tra terapeuta e paziente spiegano alcuni degli effetti delle psicoterapie. Tuttavia fino ad ora non è stato possibile avere la certezza che questo sia dovuto a un rapporto causale, l’alleanza terapeutica potrebbe infatti semplicemente correlare con l’efficacia terapeutica.

Lucy Goldsmith, dottoranda all’Università di Manchester e colleghi a tal proposito hanno analizzato i tipi di trattamento di psicoterapia per pazienti che hanno avuto uno o più episodi psicotici. Sono state confrontate la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) con cure quotidiane, il counseling supportivo (SC) accompagnato dalle cure e le cure in modo isolato (RC). Pazienti che soddisfano i criteri DSM-IV per la schizofrenia o disturbo schizofreniforme durante un primo o un secondo episodio psicotico sono stati assegnati a uno dei tre gruppi di trattamento in modo casuale. Il trattamento prevedeva una seduta settimanale per sei settimane.

I risultati indicano infatti che ad alti livelli di alleanza, la terapia è utile, ma che a bassi livelli di alleanza, la terapia è dannosa.

La scoperta che la terapia può avere un effetto dannoso quando l’alleanza è povera è molto importante perché suggerisce che quando essa risulta essere scarsa la persistenza nel cercare di coinvolgere il paziente in terapia non è appropriata. Quindi, anche se la terapia cognitivo-comportamentale è stata indicata come efficace in molti studi controllati, gli attuali risultati indicano che la terapia dovrebbe procedere con cautela se l’alleanza terapeutica è scarsa.

Studi futuri sui trattamenti psicologici per psicosi dovrebbero prendere in considerazione metodi per massimizzare l’alleanza, o almeno utilizzare le procedure per la sospensione della terapia se l’alleanza è scarsa.

Un’implicazione più ampia è che i servizi psichiatrici dovrebbero garantire che tutto il personale si impegni in modo efficace con i pazienti psicotici migliorando la qualità delle relazioni e sviluppando un approccio più personalizzato in cui gli interventi vengano adattati alle esigenze dei pazienti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’ esser pieni di sé non equivale all’esser pieni di me: uso dei pronomi personali e narcisismo

Per tutti quei narcisisti troppo presi ad ammirare se stessi ad uno specchio per leggere gli articoli scientifici degli ultimi trent’anni, arrivano delle novità, ops… delle conferme!

Secondo un recente studio pubblicato dall’ American Psychological Association, l’utilizzo smisurato di pronomi come io e me e, dunque, l’eccessivo ricorso alla prima persona durante i discorsi, non sarebbe indice di un interlocutore dalla personalità narcisista.

Fa parte del senso comune, infatti, pensare che chi fa un alto ricorso ai pronomi io e me nei propri discorsi sia una persona evidentemente egoista e con una tendenza al sentirsi superiore agli altri. Già dal lontano 1988, all’University of California Berkeley, si sono svolte ricerche volte a confermare tale ipotesi, ottenendo però risultati in direzione contraria.

Uno studio simile è stato condotto anche da James W. Pennebaker, i risultati hanno confermato ancora una volta la correlazione negativa tra l’uso eccessivo della prima persona e una personalità narcisista sottolineando, anzi, una correlazione positiva tra insicurezza e autoreferenzialità nei discorsi.

Più recente è l’articolo pubblicato dall’ American Psychological Association di cui sopra, condotto dalla dottoranda in Psicologia Angela Carey. I risultati? Come già anticipato si sono rivelati una conferma delle precedenti ricerche. Il merito che spetta alla Carey è l’aver studiato tale correlazione su un campione molto ampio di soggetti, prevalentemente donne e in età universitaria. 

Se dunque vi troverete a scambiar chiacchiere con qualcuno che esagera con Io…io…io, non prendetelo per un narcisista, forse il suo ego è più piccolo di quanto si pensi. 

 

Per vederci chiaro Carey e Mehl hanno collaborato con ricercatori di altre quattro università negli Stati Uniti e due in Germania, reclutando oltre 4.800 persone per il loro studio. I partecipanti sono stati invitati a impegnarsi in una serie di test rivelatori, scritti e orali. I ricercatori hanno valutato anche il narcisismo dei volontari sulla base di cinque diverse scale, confrontando poi i punteggi ottenuti con l’uso della prima persona singolare nei ‘compiti’

L’ esser pieni di sé non equivale all’esser pieni di ‘me’Consigliato dalla Redazione

L' esser pieni di sé non equivale all'esser pieni di me: uso dei pronomi personali e narcisismo - Immagine: 68405556
Contrariamente a quanto si possa credere, l’ eccessivo utilizzo nei discorsi di pronomi come ‘io’ e ‘me’, non indica necessariamente una tendenza narcisistica, anzi. E’ quanto conferma l’ennesima ricerca sul tema. (…)

Tratto da: Adnkronos

 

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Il tatuaggio: trasgressione, conformismo o semplice voglia di “lasciare il segno”?

È un qualcosa di personale, a cui si attribuisce un senso, indelebile e che viene a far parte della persona stessa. Qualcosa che resta, a cui si attribuisce un’importanza e che non si vuol dimenticare. Un ornamento sul nostro corpo che in un certo senso lo rende unico, con un significato personale in più.

Cos’è il tatuaggio? Un incisione. Un marchio. Qualcosa che non nasce con noi, ma che di proposito ci facciamo stampare sul nostro corpo. E sono davvero tante le persone che al giorno d’oggi posseggono almeno un tatuaggio. Ma è da tener presente che il tatuaggio ha origini antichissime. La parola “Tattoo” deriva dal Taitiano “Tattua” che significa “segnare”. Sono stati i polinesiani a contribuire all’evoluzione del tatuaggio nel mondo (Argenziano, Farro, 2004). Essi associavano quest’arte di decorazione del corpo alle loro credenze sociali e religiose. Ma è da tener presente che i tatuaggi hanno significati differenti a seconda delle varie culture. Ai tempi dei romani venivano utilizzati per riconoscere i fuorilegge e gli schiavi. I marinari li utilizzavano invece come testimonianza dei propri viaggi e delle proprie avventure. Insomma tempi addietro i tatuaggi avevano un significato autentico, una certa utilità.

Al giorno d’oggi invece cosa vogliono significare questi disegni, simboli, scritte incise sulle pelle da ago e inchiostro e che permangono tutta la vita? Ragioniamoci anche relativamente all’età: ricerche dell’ISTAT mettono in luce che l’incisione del primo tatuaggio avviene in media in quella fascia di età che va dai 26 ai 35 anni (52% della popolazione italiana). Ma un buon 30% riguarda soggetti di età inferiore. Tali dati saltano all’occhio per un principale motivo: molti soggetti di età poco più che adolescenziale esibiscono già almeno un tattoo. Alcuni anni fa il tatuaggio rappresentava in qualche modo una personalità deviante. E tutt’ora molte persone osservano i soggetti caratterizzati dai tattoo con occhio critico. Come se quei simboli rappresentassero un segno di trasgressione, qualcosa da cui in un certo senso occorre tenersi alla larga.

Ma perché? Negli anni 70 – 80, con la nascita del movimento Punk, il tatuaggio aveva in effetti assunto un certo significato di ribellione, ed era circoscritto appunto solo a certe categorie di persone, quali galeotti, prostitute e criminali (Castellani, 2005); e anche ai nostri giorni molti soggetti si fanno tatuare solo per possedere un elemento di identificazione e contrapposizione. Ma ciò riguarda una minoranza di persone.

Perché è opportuno riflettere su un’altra cosa, che paradossalmente introduce un concetto in un certo senso opposto a quello appena esposto. Il tatuaggio pare diventata un’autentica moda. È talmente frequente incontrare gente tatuata che ormai la cosa non salta più neanche all’occhio; non si fa nemmeno più particolare caso a quei bizzarri disegni scritti sul corpo. Come se facessero parte integrante della persona stessa, quando in realtà così non è. Si tratta di un’incisione volontaria, messa in atto per un determinato e personale motivo (Millner, Eichold, 2001).
Una moda appunto. Ce l’hanno in tanti e quindi piacerebbe averlo anche a me.

Non una trasgressione allora, non un qualcosa che devia dalla normalità, ma bensì l’esatto contrario: un omologarsi all’altro, rendersi simile, un “conformismo”. Ebbene sì, ciò non è da escludere se si tiene presente che ad incidersi un tatuaggio sono molti soggetti di giovane età, ventenni, poco più che adolescenti. A quest’età assume una rilevante importanza l’integrazione nel gruppo di coetanei, l’essere accettati, il sentirsi parte di un gruppo. Il tatuaggio è una moda tra i giovani d’oggi, e piace. Viene percepito un simbolo di bellezza, una decorazione. E tali convinzioni spingono la persona ad averlo, battendo anche i motivi che potrebbero in qualche modo frenarla dal farselo incidere, ossia che si tratta di un segno indelebile, e il non trascurabile fatto che viene creato mediante una tecnica a dir poco dolorosa. Un “autolesionismo” in un certo senso. Potrebbe sembrare assurdo, ma recenti ricerche hanno messo in luce che dietro comportamenti autolesivi, con un particolare riferimento alla creazione piercing e tatuaggi, vi sia un desiderio di approvazione da parte degli amici e dei pari (Novara e all. 2010).

Proprio questo bisogno di omologazione adolescenziale ha spinto una buona parte di medici a mettere in atto una serie di strategie preventive, in modo da poter mettere in guardia i giovani verso le pratiche di incisione dei tattoo poco sicure, e al contempo informarli sui possibili rischi che essi potrebbero comportare (Gold e all, 2015). È da sottolineare che sono in molti i soggetti pentiti del proprio tatuaggio, e molti di essi raccontano proprio di aver fatto “la sciocchezza” in giovane età, senza valutare adeguatamente le conseguenze.

Ma è pure vero che il tatuaggio è un “simbolo”, ossia un qualcosa che ha un significato. Ed infatti molte persone così lo concepiscono. È un qualcosa di personale, a cui si attribuisce un senso, indelebile e che viene a far parte della persona stessa. Qualcosa che resta, a cui si attribuisce un’importanza e che non si vuol dimenticare. Un ornamento sul nostro corpo che in un certo senso lo rende unico, con un significato personale in più.

E tornando al concetto in precedenza sopra esposto, relativo al fatto che il tatuaggio in alcuni casi rappresenta trasgressione e ribellione, è da sottolineare che ai giorni odierni ciò potrebbe essere relativo solo per gli occhi di chi osserva la persona tatuata. Mentre chi possiede l’incisione attribuisce al proprio tatto un significato in qualche modo positivo, semplicemente per il fatto che quel disegno sulla pelle è stato realizzato solo grazie alla pura volontà di chi lo indossa.

[blockquote style=”1″]Come seguendo i contorni di un ricamo, l’ago penetra nella carne lasciando dietro di sé un segno indelebile [/blockquote]

Flori, 2009

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il training autogeno e la psicoterapia autogena

 

Il training autogeno (T.A.) è una tecnica di rilassamento e autodistensione da concentrazione psichica ideata negli anni ’30 da Johannes Heinrich Schultz a partire dallo studio sistematico delle applicazioni dell’ipnosi e dell’autoipnosi in ambito clinico (Schultz, 1986).

Il training autogeno, basandosi sul concetto di autogenicità, permette di produrre da sé determinate modificazioni a livello dell’unità psiche – soma.  L’uomo in Schultz è inteso, infatti, in senso bionomico in quanto non può prescindere dalla propria completezza di corpo e psiche (Deganello, 2005 – 2006). Questa concezione bionomica della vita prende in considerazione la complessità dell’uomo che fin dalla nascita si esprime attraverso il corpo e le parole.

Il corpo, come sottolinea Galimberti (1997), è lo sfondo di tutti gli eventi psichici. Il training autogeno permette dunque di entrare in contatto con il proprio corpo diventando più consapevoli di sé. La persona riesce, grazie alla pratica di questa tecnica, ad entrare in uno stato d’attenzione passiva, a sospendere l’attività volitiva mettendo il mondo esterno tra parentesi, vivendo pienamente la propria corporeità.

Schultz afferma che (1986, pag. 18) [blockquote style=”1″]“in soggetti con sufficiente autonomia psichica, disposti all’ esperimento, è possibile ottenere in opportune posture, con lo smorzamento della percezione di stimoli ambientali, con l’aiuto di stimolazioni monotone, un restringimento del campo della coscienza; possono allora comparire predominanza della vita riflessa, automatismi, trasformazioni del vissuto interiore”.[/blockquote]

Il training autogeno di base consiste nell’apprendimento graduale di una serie di esercizi di concentrazione psichica passiva che permettono progressivamente il realizzarsi di spontanee modificazioni di funzioni involontarie (tono muscolare, funzionalità vascolare, attività cardiaca e polmonare, equilibrio neurovegetativo). Questo stato di commutazione autogena genera una deconnessione psichica permettendo appunto il passaggio da uno stato di veglia ad uno stato di metabolismo di base simile al sonno (Schultz, 1986).

Il training autogeno si divide in due gruppi di esercizi: ciclo inferiore e ciclo superiore. Gli esercizi del ciclo inferiore o somatico sono volti al raggiungimento della capacità di abbandonarsi all’ ascolto passivo del corpo e sono: pesantezza, calore, cuore, respiro, plesso solare e fronte fresca (Schultz, 1986). Gli esercizi del ciclo superiore invece sono deputati all’ ascolto passivo della psiche (Peresson, 1984).

Grazie a questa tecnica è possibile ritrovare un buon equilibrio psicofisico accedendo ad uno stato interno di benessere ed armonia. Con finalità terapeutiche il training autogeno offre la possibilità al paziente di esplorare il proprio corpo e liberare il suo linguaggio esprimendo quello che spesso non riesce a comunicare (Deganello, 2005 – 2006).

I benefici del training autogeno sono (Schultz, 1986; Peresson, 1985):
Rilassamento e autoinduzione di uno stato di calma;
Benessere psicofisico;
Autoregolazione di funzioni corporee involontarie;
Recupero energie fisiche e psichiche;
Potenziamento delle prestazioni psicofisiche;
Miglioramento capacità mnestiche;
Autodeterminazione;
Introspezione e autocontrollo.

Questi risultati dimostrano come, grazie al training autogeno, si producano delle modificazioni che permettono una regolarizzazione di funzioni vitali e uno scaricamento delle tensioni. Il training autogeno è indicato in medicina psicosomatica nel trattamento di molti disturbi come cefalea vasomotoria, gastrite, balbuzie, asma, eczema, tachicardia (Wallnöfer, 1993). È inoltre indicato per il trattamento di disturbi d’ansia, nevrosi fobiche, sindromi depressive reattive e per alcuni tipi di disturbi sessuali come vaginismo ed eiaculazione precoce (Wallnöfer, 1993; Zuliani, 2003 – 2004).

Grazie a questa tecnica è possibile rimettersi in contatto con il proprio sentire corporeo recuperando la propria soggettività, acquisendo maggior consapevolezza non solo del proprio corpo ma anche della propria profondità emotiva.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Deganello A. (2005 – 2006), “Corporeità e psicoterapia autogena”, Psiche Nuova, CISSPAT, Padova: 141 – 144.
  • Galimberti U. (1987), Il corpo, Edizioni Feltrinelli, Milano, 1987.
  • Peresson L. (1985), Psicoterapia autogena, Edizioni Faenza, Faenza.
  • Peresson L. (1984), Trattato di psicoterapia autogena, Piovan Editore, Abano Terme.
  • Schultz J. H. (1986), Il training autogeno, Volume I, Esercizi Inferiori, Edizioni Feltrinelli, Milano.
  • Wallnöfer H. (1993), Anima senza ansia, Edizioni Universitarie Romane.
  • Zuliani E. (2003 – 2004), “Il training autogeno quale terapia sessuologica: fondamenti metodologici e principi applicativi”, Psiche Nuova, CISSPAT, Padova: 181 – 185.

Narcisismo nell’infanzia: perchè alcuni bambini pensano di essere più speciali degli altri?

Vanessa Schmiedt

FLASH NEWS

Perché alcuni bambini diventano narcisisti mentre altri sviluppano una visione più modesta di se stessi? Cosa li porta a sentirsi più speciali di tutti gli altri?

Questa domanda ha occupato gli psicologi per più di un secolo. I bambini che mostrano tratti narcisistici si sentono superiori rispetto agli altri, bramano ammirazione e quando non la ottengono tendono ad agire in modo aggressivo.

Gli psicoanalisti sostengono che un fattore di rischio per la presenza di tratti narcisistici sia la mancanza di calore da parte dei genitori, che per riempire il vuoto emozionale metterebbero i propri figli su un piedistallo.
Al contrario, secondo la teoria dell’apprendimento sociale il narcisismo è favorito dalla sopravvalutazione dei genitori: quando i genitori vedono i loro figli come dei “geni” o come “dono di Dio all’umanità” i bambini tendono a interiorizzare questi concetti e creare delle visioni narcisistiche di se stessi.

In una nuova ricerca pubblicata nel Proceedings of National Academy of Sciences, sono state verificate queste due teorie attraverso quattro misurazioni semestrali in cui si rilevavano l’ affetto comunicato e l’esaltazione delle capacità del bambino da parte dei genitori, mentre nei bambini era valutato il livello di narcisismo e di autostima.

È stato rilevato che il narcisismo e l’autostima hanno origini notevolmente diverse, contrariamente a quello che comunemente si pensa, ovvero credere di essere migliori di altri non implica per forza l’essere soddisfatti di quello che si è.

La ricerca ha dimostrato che quando i bambini venivano sopravvalutati dai loro genitori sviluppavano livelli più elevati di narcisismo: l’essere sopravvalutati può trasmettere ai bambini il senso di essere individui superiori che hanno diritto a privilegi.
Quando ai bambini veniva, invece, trasmesso calore e affetto dai loro genitori, sviluppavano livelli più elevati di autostima: un sano sentimento di essere soddisfatti con se stessi, senza vedersi come superiori.

In conclusione dunque si dovrebbe aumentare nei bambini l’autostima senza creare una visione narcisistica di se stessi. Nel tentativo di aumentare l’autostima spesso si ricade in tecniche di sopravvalutazione, riempiendo i bambini di lodi e dicendo loro che sono individui straordinari. La ricerca invece ha suggerito un approccio più efficace: è sufficiente dimostrare calore e affetto ai propri figli senza dire loro che sono migliori o più meritevoli rispetto agli altri compagni di classe.

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Narcisismo: da dove origina? Attenti ai genitori!

BIBLIOGRAFIA:

  • Brummelman, E., Thomaes, S., Nelemans, S. A., Orobio de Castro, B., Overbeek, G., & Bushman, B. J. (2015). Origins of narcissism in children. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America. 

La creatività secondo la teoria sistemica di Csikszentmihalyi: il ruolo della persona

 

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

La maggior parte delle ricerche in psicologia sulla creatività considera come fattore principale la personalità individuale. Il modello sistemico di Csikszentmihalyi tuttavia vede la creatività come un evento culturale, sociale e psicologico nello stesso tempo. 

La maggior parte delle ricerche in psicologia sulla creatività considera come fattore principale la personalità individuale, essendo gli argomenti più affrontati i processi cognitivi, il temperamento, le prime esperienze e la personalità. Per la teoria sistemica invece, la creatività per definizione è la proprietà di un sistema complesso, e nessuno dei suoi componenti da solo la può spiegare.

Partendo quindi da questa premessa, i primi presupposti di un individuo creativo sono quelli di avere accesso e capacità di adattarsi sia al dominio, sia alle condizioni principali dell’area di specialità. L’avere accesso ad un dominio dipende in grande misura dall’essere fortunati di nascere in una famiglia che possa offrire gli strumenti d’accesso ad un certo dominio, o di trovarsi in un posto con buone scuole, o incontrare i giusti mentori, in modo da poter imparare quello che ci vuole per poter operare in un certo sistema simbolico.

L’accesso al dominio può stimolare un altro aspetto importante per la creatività, e cioè l’interesse precoce per un certo dominio, senza di cui è difficile essere coinvolti in un dominio abbastanza da poterlo assimilare e oltrepassare i suoi limiti. L’accesso all’area di specialità è ugualmente importante e dipende non solo dalla bravura in un certo dominio, ma soprattutto dalla capacità di comunicarla. Michelangelo, nonostante fosse un tipo solitario, è riuscito a interagire con la famiglia Medici abbastanza da poterla impressionare. Newton pure era solitario, ma in qualche modo ha convinto il suo tutor a Cambridge che meritava una borsa di studio a vita per poter continuare le sue ricerche. La mancanza del contatto con l’area di specialità può rendere veramente difficile un percorso creativo. La persona creativa può non avere l’opportunità di sapere le ultime novità, può non avere la possibilità di trovare un lavoro, o, anche nel caso in cui riesce a portare a termine un progetto veramente di valore, può essere ignorata e ridicolizzata.

Riguardo alle qualità intrinseche di una persona creativa, Csikszentmihalyi è di opinione che nessuna di esse può dare la garanzia della creatività, anche perché i tratti di personalità delle persone lungo la storia sono stati assai diversi e alcune hanno avuto pochissime cose in comune.

L’unica distinzione che una personalità creativa può avere rispetto alle altre può essere espressa con il concetto di complessità, che suppone la presenza di estremi contraddittori e la capacità di muoversi da un estremo all’altro in funzione della situazione, sperimentando tutte e due con la stessa intensità e senza un conflitto interiore. In altre parole, questi estremi sono integrati nella stessa personalità in una tensione dialettica.

L’Autore delinea dieci dimensioni della complessità, riunite in ciò che Fernando Pessoa chiamava una sola moltitudine: energia fisica–riposo, intelligenza-innocenza, gioco-disciplina, immaginazione-senso della realtà, estroversione-introversione, umiltà-orgoglio, mascolinità-femminilità, conservatorismo-ribellione, passione-obbiettività, sofferenza-entusiasmo (Csikszentmihalyi , 1996, 58-73).

  • Le persone creative hanno una grande energia fisica, riuscendo a lavorare e a concentrarsi per tante ore, energia che sembra essere dovuta alla loro capacità di focalizzarsi più che alla superiorità genetica. Questo non vuol dire che sono persone iperattive e che sono sempre in forma. Capita spesso che i momenti produttivi sono alternati con il riposo, con il sonno, riuscendo ad avere il controllo della propria energia.
  • Un’altra dimensione dialettica della persone creative è l’intelligenza versus spensieratezza, o saggezza versus infantilità. Gli studi attuali suggeriscono che il QI non è direttamente proporzionale con la creatività: è necessario un punteggio di 120, senza di cui sarebbe difficile essere creativi, ma sopra questo limite, un alto OI non implica alta creatività. Tante volte, un’intelligenza brillante può essere dannosa alla creatività, quando le persone diventano sicure della loro superiorità mentale e perdono qualsiasi interesse e curiosità per raggiungere nuove mete. Al contrario, Gardner (cit. in Csikszentmihalyi , 1996, 60), in seguito allo studio dei più grandi geni del secolo, conclude che una certa immaturità mentale ed emozionale è correlata con le grandi intuizioni.
  • Il gioco alternato alla disciplina è un altra caratteristica delle persone creative. Una certa irresponsabilità dà la possibilità di andare al di là del già noto e di non rimanere nella rigidità, mentre la responsabilità, la perseveranza sono necessarie per portare a termine un nuovo progetto e per superare gli ostacoli che inevitabilmente si incontrano.
  • Gli individui creativi sono dotati sia di immaginazione, di fantasia, sia di senso della realtà, ciò che fa sì che le loro creazioni non siano strane, ma originali, nuove e nello stesso tempo ancorate nella realtà. Questa dimensione non fa differenza nei dominii – un artista può essere realista nello stesso modo di un fisico, mentre un fisico può avere tanta fantasia come un artista.
  • Se la maggior parte delle persone tendono o verso l’estroversione o verso l’introversione, le persone creative sembrano di esprimere tutte e due i tratti nello stesso tempo. L’introversione è necessaria per l’aspetto del saper tollerare lo stare da soli, in modo da potersi dedicare al contenuto simbolico del proprio dominio. Tuttavia, anche il contatto con gli altri è fondamentale, sia perché rappresenta fonte di stimoli, sia perché è criterio di confronto.
  • Un altro aspetto della complessità delle persone creative risiede nel loro essere sia modesti che fieri. I motivi della loro modestia sembrano venire da una consapevolezza triplice: la buona conoscenza del dominio li rende consapevoli che loro fanno parte di una serie di tanti altri contributi; sono consapevoli anche del ruolo della fortuna in quello che hanno raggiunto; sono di solito talmente orientati verso progetti futuri, che le realizzazioni di prima non sono più interessanti. Nello stesso tempo, anche le persone più modeste si rendono conto che, a differenza degli altri, loro hanno raggiunto un traguardo importante, quindi da qua un senso di fierezza, di sicurezza.
  • Ancora, gli individui creativi escono fuori dallo stereotipo di genere, nel senso che riescono ad essere sia femminili che maschili, cioè aggressivi e protettivi, sensibili e rigidi, dominanti e sottomessi. Questo aspetto dà la possibilità di interagire con il mondo in un modo più ricco e variato.
  • Se per essere creativi bisogna prima di tutto fare proprio il dominio e le sue regole, le persone creative possono essere considerate in questo senso tradizionaliste. Ma essendo solo tradizionalisti, i dominii non si potrebbero mai cambiare. Andando al di là della tradizione attraverso la novità, i creatori sono anche ribelli, e la ribellione suppone anche la volontà di assumersi dei rischi.
  • Nel processo creativo, le persone investono sia passione, senza di cui si perderebbe l’interesse per quello che si sta facendo, sia oggettività, necessaria per l’ancoraggio alla realtà e per la credibilità dell’opera.
  • Infine, un’altra polarità presente nelle persone creative è la loro capacità di sperimentare sia la sofferenza che l’entusiasmo. La sensibilità delle persone creative può causare ansietà e sofferenze che raramente sono sopportate dalle persone non creative. In più, l’essere soli nel fronteggiare un dominio può causare una maggiore vulnerabilità, nonché spesso sentimenti di isolamento e incomprensione, per non parlare dei sentimenti di vuoto che appaiono quando una persona, per un motivo o l’altro, non può lavorare. Nonostante tutto ciò, tutte le persone creative hanno la capacità di gioire in quello che fanno, al di là di tutte le difficoltà che possano incontrare.

Le dieci dimensioni dialettiche della persona creativa esposte sopra sono quelle che l’autore considera le più caratteristiche, ma questo numero è evidentemente relativo e se ne possono trovare altre. Ciò che è importante ritenere è che le persone creative non si distinguono dalle altre per dei tratti unici, bensì per la loro capacità di usare una gamma estesa di aspetti della personalità, anche se in apparenza essi sembrano contraddittori.

Di seguito troverete la video-presentazione con la sintesi degli articoli sulla Teoria Sistemica della Creatività di Csikszentmihalyi:

 

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Sei creativo? Probabilmente hai poca capacità di ignorare le informazioni inutili

BIBLIOGRAFIA:

 

Politica: le promesse mancate ce le andiamo a cercare?

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta del 19 Aprile 2015.

 

Forse chi crede nelle promesse è anche qualcuno che promette troppo a se stesso. Come nelle relazioni patologiche in cui il ruolo è il rovesciamento del ruolo speculare dell’altro.

In politica e nel calcio e forse nella vita le promesse mancate, le bombe inesplose, sono la regola. Nel calcio rimangono dei nomi nella memoria che raccontano sogni mancati: Comandini, Ventola, Morfeo, Gascoigne e Denilson. E poi Recoba. Ancora più lontano nel tempo ricordo un uruguayano, tale Ruben Paz. Perfino per un distratto orecchiante di calcio come me questi nomi significano qualcosa in cui si era molto sperato e poi molto disperato. E nel calcio la promessa mancata è in genere un ricordo malinconico. 

In politica la promessa mancata si carica invece di risentimento e rancore. Leggo sui quotidiani che in Brasile la presidentessa Dilma è una delusione, una promessa mancata. Sono pessimista, credo che tutta la politica sia sempre una promessa mancata e che quel poco che c’è di buono in essa consista nella capacità comunque di apprezzare i pochi risultati positivi che talvolta ci regala, sempre ben inferiori rispetto alle promesse. Ogni capo politico, ogni eroe è anche il punto di convergenza di speranze, aspettative, delusioni e infine rancori (https://www.stateofmind.it/2015/04/capro-espiatorio-violenza-societa-2/). Ovvero di odio. Questa parabola è inevitabile. Ed effettivamente, se ci pensiamo bene, ancor oggi è così. Pensiamo a Obama: dopo le speranze eccessive la disillusione, altrettanto eccessiva. 

In un tempo antichissimo, la promessa mancata dei politici preludeva al loro linciaggio, inizialmente spontaneo e bestiale, poi ritualizzato. E se nel momento della crisi e della disillusione il legame sociale e la solidarietà di gruppo si erano deteriorati in una diffidenza di tutti contro tutti a rischio di diventare una guerra civile, nel linciaggio del capo, spontaneo o rituale, la solidarietà si ricomponeva. In molte società tribali era previsto che il re regnasse per un periodo predeterminato, dopo il quale era ritualmente ucciso (Fornari, 2006; Girard, 1982).

Questa cerimonia aveva sostituito i precedenti scoppi periodici di guerre civili, faide e vendette reciproche. In seguito, anche l’uccisione del capo andò incontro a una progressiva civilizzazione. Inizialmente un sacrificio umano sostituì quello del re in carica. Poi si passò a sacrifici animali fino ad arrivare a cerimonie di morte e resurrezione solo metaforiche.
Naturalmente, nulla è superato per sempre. Eliminazioni più o meno formalizzate di capi politici sono avvenute anche dopo l’istituzione e l’estinzione dei sacrifici umani. Da Cesare a Luigi XVI fino a Gheddafi fare il capo politico è sempre un mestiere ad alto rischio. Per comandare occorre promettere, e se si promette prima o poi si delude, scatenando la reazione di chi abbiamo illuso.

Si può sfuggire a questo intreccio perverso di promessa e delusione? Di idealizzazione e svalutazione? Si può sfuggire a schemi rigidi o pervasivi che prevedono sempre lo stesso tipo di relazione? In cui i comportamenti relazionali tendono a diventare ripetitivi e stereotipati? (https://www.stateofmind.it/2012/05/dimaggio-intervista-tmi-cicli-interpersonali/) In cui l’eterna attesa di promesse meravigliose porta a un’eterna disillusione? Cosa è rimasto dell’atmosfera messianica che circondò la campagna elettorale di Barack Obama, fino ad arrivare al video che diffondeva su youtube la canzone intonata da Will.i.am dei Black Eyed Peas e ispirata dal discorso ‘Yes We Can’?
Forse chi crede nelle promesse è anche qualcuno che promette troppo a se stesso. Come nelle relazioni patologiche in cui il ruolo è il rovesciamento del ruolo speculare dell’altro. Come accade nel caso classico dei ruoli di abusato e abusante, descritto in alcuni disturbi di personalità, in cui persone che sono state vittime di maltrattamenti tentano di raggiungere una transitoria tranquillità rispetto al timore di essere oggetto di violenza o sopraffazione esercitando sugli altri una violenza preventiva.

Oppure immaginiamo una persona, un elettore, che percepisce tendenzialmente se stesso come qualcuno cui è stata promessa una palingenesi o almeno un qualche cambiamento sostanziale nella sua vita e vede l’altro, il politico, come colui che ha promesso questa palingenesi, o questo possibile cambiamento. Forse alla base di queste aspettative redentive di molti elettori, aspettative che si rinnovano periodicamente all’ emergere di nuove figure politiche, vi è una memoria dolorosa d’insoddisfazione o di esclusione. Ed ecco che la psicologia ci suggerisce che chi davvero promette un cambiamento profondo non è tanto il politico, l’aspirante eletto ma l’elettore stesso, desideroso di trovare nella politica un compenso alle sue insoddisfazioni. È quindi l’elettore stesso che ha fatto a se stesso una promessa che non è in grado di mantenere.

Questa però suona un po’ troppo come il classico parere dello psicologo, che va a dire al paziente che egli stesso contribuisce a causare i problemi di cui soffre. E questo genera colpevolizzazione, perché è come dire al paziente: “Te la vai a cercare”, facendo sentire il paziente giudicato (https://www.stateofmind.it/2012/05/dimaggio-intervista-tmi-cicli-interpersonali/). Interventi del genere frequentemente generano un potenziamento dell’immagine negativa di sé, che a sua volta può generare depressione o ostilità. Lo psicologo viene così percepito come un giudice critico, dominante, ostile.

Che fare, allora? Seguiamo Giancarlo Dimaggio, psicoterapista che si è occupato di come rendere le persone consapevoli dei loro schemi senza colpevolizzarle, e vediamo se la sua saggezza è applicabile a noi che cadiamo vittime di eterne promesse, elettorali e non. Dimaggio raccomanda di partire non dalla colpevolizzazione, ma dall’accesso al desiderio: “Lei desidera realizzare quello e si aspetta che gli altri reagiscano così e a causa di questo tende a cadere. La terapia tenta di darle una luce nuova nella vita”. Questo già di suo dà speranza, è progettuale e genera un’attitudine positiva (https://www.stateofmind.it/2012/05/dimaggio-intervista-tmi-cicli-interpersonali/).

Cosa desidera realizzare l’elettore votando? Che si realizzino i suoi sogni. Il che è buono e giusto. Occorre però che si sia coscienti di questo enorme investimento personale su una persona che, pur sembrandoci sincera e intima come Obama sapeva esserlo mentre pronunciava il suo celebre discorso, in realtà nulla sa di noi ed è costretto da noi stessi a non essere del tutto sincero, a non dirci francamente c’è poco da promettere e ancor meno da sperare e quello che si può realizzare sarà sempre molto meno di quanto atteso. Nessuno lo voterebbe. Quegli stessi elettori pronti a indignarsi davanti alle promesse non mantenute, presumibilmente non voterebbero un politico che facesse solo promesse certamente realizzabili, ovvero minimali.

Che si fa allora? Ci si rassegna a questo gioco delle parti, a questa doppia menzogna? Forse si. Però possiamo iniziare a vivere tutto questo con maggiore consapevolezza, con leggerezza più distaccata, non cadere vittime né dell’entusiasmo facile delle promesse e nemmeno della sterile saggezza di chi non sa dare fiducia negli altri.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Report sul workshop: Schema Therapy sui problemi della sfera sessuale

Simona Giuri, Filippo Tinelli

Ciò che a parere degli autori la Schema Therapy può aggiungere alle altre forme di terapia sessuologica, è l’ovviare ai vissuti di vergogna e di colpa che le persone con difficoltà sessuologiche incontrano sia nella richiesta di aiuto sia nell’ aderenza a forme di terapia che per esempio chiedono una esposizione e una esplorazione su aspetti che per lungo tempo hanno tentato di evitare, di controllare, di autogestire.

Si è tenuto a Parma, 28 e 29 Marzo, il Workshop in Schema Therapy sui Problemi della sfera sessuale organizzato dal Direttore dell’Istituto di Scienze Cognitive, Alessandro Carmelita e condotto dal Dott. Eshkol Rafaeli, professore associato e direttore del programma clinico per adulti del Dipartimento di psicologia dell’Università Bar-llan (Tel Aviv), cofondatore dell’Istituto israeliano di Schema Therapy, capo del laboratorio di ricerca su “Affetto e relazioni” presso il Dipartimento di psicologia e il Centro di Neuroscienze dell’Università di Bar-llan; e dal Dr. Offer Maurer, psicologo clinico, direttore e fondatore di una Scuola di psicoterapia e cofondatore dell’istituto israeliano di Schema Therapy, membro del Consiglio dell’associazione israeliana di psicoanalisi e psicoterapia relazionale, direttore fondatore di un istituto di psicoterapia gay friendly.

Il primo giorno è iniziato con una introduzione sui concetti principali di Schema Therapy,  Bisogni, Schemi maladattivi precoci, Stili di Coping e il concetto di Schema Mode al quale si è dedicato maggiore spazio, essendo in ST la parte del paziente che noi riusciamo a vedere in terapia, contiene in sé lo schema e lo stile di coping che ci permette di caratterizzare in un determinato momento la persona e a riconoscere quando questa passa da un mode all’altro, ed è nella capacità del terapeuta di riconoscere questi spostamenti e permettere un intervento terapeutico. Sono stati illustrati i principali schema mode, bambino vunerabile, genitore interiorizzato, mode di coping e mode adulto sano e le diverse strategie terapeutiche che si utilizzano nell’intervento terapeutico.

Dopo questa breve carrellata, probabilmente più semplice per i già addetti ai lavori, si entra nel vivo degli obiettivi del workshop, ovvero viene proposta la concettualizzazione dei problemi sessuali nel quadro del modello della Schema Therapy.
Tre sono i modi principali che possono poi potenzialmente sostenere in età adulta difficoltà nella sfera sessuale:
Dinamiche “secondarie” alla sessualità, in quanto non connesse direttamente alla soddisfazione dei bisogni della sfera sessuale, ma in cui la non soddisfazione dei bisogni primari più generali, quali la giocosità, la libertà di espressione, possono portare allo sviluppo di schemi e mode che incidono nei diversi ambiti, compresa la sessualità, dove per es, la difficoltà di prendere contatto con i propri desideri e i propri bisogni si potrebbe riflettere nelle difficoltà del desiderio sessuale;
Dinamiche primarie alla sfera sessuale, per cui i problemi sessuologici hanno a che fare con difficoltà principalmente connesse alla sessualità e a tal proposito è stato proposto il concetto di “bisogni fondamentali nascenti relativi al sé sessuale”;
Dinamiche da abuso/trauma sessuale, in riferimento alle difficoltà sessuologiche scaturite da eventi traumatici di natura sessuale e, in linea con la letteratura sul trauma, gli autori riferiscono come inizialmente ci si dovrebbe concentrare sulle dinamiche di tipo secondario e poi in un secondo momento considerarli e trattarli come dinamiche primarie, questo perché probabilmente nell’ ambiente familiare molti altri sono i bisogni primari che non sono stati soddisfatti.

Nel corso del week end ci si addentra gradualmente e praticamente in quelle che sono le implicazioni cliniche di questo modello attraverso la dimostrazione con simulate e role-playing che i due autori abilmente utilizzano, stimolati dai contributi e dalle domande dei partecipanti.

Ci si è concentrati sulla Disfunzione erettile e sull’ Eiaculazione precoce, attraverso la presentazione di casi clinici, la loro concettualizzazione, prima individuale e poi di coppia, che visivamente consente sia al clinico che alle persone coinvolte di vedere come le diverse parti di sé emergono, si intrecciano, si influenzano e hanno contribuito al concretizzarsi delle problematiche sessuologiche attuali, e come, da un gomitolo intrecciato, possa prendere forma una coerenza e un filo continuo che abilmente trattato con strategie esperienziali ad hoc nei punti aggrovigliati, si scioglie e prende forma, modificandosi.

Ciò che a parere degli autori la Schema Therapy può aggiungere alle altre forme di terapia sessuologica, è l’ovviare ai vissuti di vergogna e di colpa che le persone con difficoltà sessuologiche incontrano sia nella richiesta di aiuto sia nell’aderenza a forme di terapia che per esempio chiedono una esposizione e una esplorazione su aspetti che per lungo tempo hanno tentato di evitare, di controllare, di autogestire.

E’ spesso necessario “aggirare” la resistenza iniziale ponendo in risalto il valore della terapia per il partner e la qualità della relazione.

Personalmente ho trovato stimolante il concetto di Bisogni fondamentali nascenti relativi alle sessualità, costrutto, come dagli stessi autori definito, ancora in evoluzione e che vuole canalizzare in sé tutta una lista in costruzione di bisogni legati alla sfera sessuale che si hanno nell’infanzia e nell’adolescenza e che, se adeguatamente soddisfatti, possono proteggere da eventuali difficoltà sessuologiche nonché permettere di godere di una buona sessualità nel corso della propria vita.

Particolarmente interessante è stato veder applicare alcune delle tecniche esperienziali della Schema Therapy, imagery rescripting, role play storico e chair work, per il superamento delle problematiche relative alla sfera sessuale. Il workshop si conclude con una suggestione particolarmente interessante ed utile alla comprensione di disturbi della sessualità estremamente complessi: a diverse parti della personalità corrispondono diversi stili sessuali, che nelle personalità meno integrate, possono presentare grandissime differenze e discontinuità.

Preziose le riflessioni emerse nel corso del workshop che i docenti hanno reso estremamente coinvolgente lasciando ampio spazio a domande e curiosità, soprattutto sulla concreta modalità di soddisfare i bisogni nascenti relativi alla sessualità, normalizzando e validando esperienze di quotidiana interazione con i piccoli, lasciando spazio a momenti di leggerezza: dalla buona risoluzione del complesso di Edipo, cioè quando il piccolo, vincitore e perdente allo stesso tempo pensa della sua mamma “anche lei lo desidera, ma questo non accadrà mai perché sta con papà e io troverò qualcun’altra che somiglierà alla mamma”, fino alla magra consolazione per i partecipanti puntuali, che dati di ricerca, dimostrerebbero che chi si sveglia al mattino presto ha una vita sessuale più soddisfacente.

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Schema Therapy: intervista ad Alessandro Carmelita

La creatività secondo la teoria sistemica di Csikszentmihalyi: il ruolo del dominio e dell’area di specialità

 

Il modello sistemico di Csikszentmihalyi vede la creatività come un evento culturale, sociale e psicologico nello stesso tempo. Essendo convinto, all’inizio del suo percorso scientifico, che la creatività sia un processo esclusivamente intrapsichico, Csikszentmihalyi si rende conto, in seguito alle sue ricerche e a quelle di altri studiosi come Morris Stein e Dean Simonton, dell’importanza delle variabili esterne nello studio della creatività.

Le variabili esterne, che costituiscono l’ambiente, si costituiscono in due aspetti principali: uno simbolico o culturale, chiamato dominio, e uno sociale, chiamato area di specialità. La creatività è un fenomeno che risulta dall’interazione tra la persona, il dominio e l’area di specialità.

Il ruolo del dominio

Il dominio consiste in un set di regole simboliche e procedure (Csikszentmihalyi ,2005, 247) specifiche, che conserva e trasmette il patrimonio di conoscenze. Il dominio è una categoria importante per la creatività, in quanto la novità che essa porta può aver senso soltanto in riferimento a qualcosa che già esiste, l’originalità dovendosi rapportare al tradizionale. Un dominio, come per esempio la matematica, la pittura, la musica, trasmette in continuazione informazioni alla persona, mentre la persona che manifesta creatività provoca un cambiamento in un particolare dominio o lo trasforma in uno nuovo che rimarrà nel tempo.

Alcune persone hanno più opportunità delle altre di produrre dei cambiamenti nei dominii, sia per le qualità personali, sia perché si trovano in una posizione favorevole rispetto a certi dominii, posizione che può essere data da un maggiore accesso o da una posizione sociale che permette di impiegare più tempo di sperimentazione. Per esempio, molte delle scoperte scientifiche di una volta sono state fatte da persone che avevano sia i mezzi, che il tempo necessari, così come alcuni preti (Copernico), precettori (Lavoisier), medici (Galvani). Al contrario, una persona non può essere creativa in un dominio a cui non è esposta: per quanto un bambino possa avere delle doti in matematica, egli non potrà contribuire con qualcosa di nuovo alla matematica senza sapere le sue regole (Csikszentmihalyi ,2005, 250).

L’insieme dei dominii fanno parte di ciò che noi chiamiamo cultura, ovvero il sapere di una società o dell’intera umanità. Tra i primi dominii possiamo nominare quelli del linguaggio, dell’arte, della musica, della religione.

L’interazione tra il dominio e le persone nell’ambito della creatività consiste nel fatto che le persone creative introducono sempre un cambiamento nel dominio, e il cambiamento influisce sui modi di pensare, agire o essere dei membri di quella cultura.

Il cambiamento che non influisce sui pensieri, sentimenti e i modi di agire non è un cambiamento creativo. Dawkins (cit. in Csikszentmihalyi, 2005, 250) fa un’analogia tra l’evoluzione biologica e la creatività, ossia tra il modo di trasmissione del materiale genetico tramite il gene e quello del patrimonio culturale, tramite quello che lui chiama meme. A differenza del gene, che trasmette le informazioni geneticamente, i memi di un dominio sono trasmessi intenzionalmente e imparati. Il meme (tipi di conoscenza, stili dell’arte, sistemi di credenze, ecc.) è un’ unità di informazione culturale di una comunità i cui membri hanno generalmente lo stesso modo di pensare, fare ed essere, imparati gli uni dagli altri e riprodotti senza modificarli.

Quando si produce un cambiamento invece abbiamo a che fare con la creatività. I memi si sono modificati molto lentamente durante la storia. Per esempio, per modificare l’utensile di pietra apparso nell’epoca di pietra ci è voluto un milione di anni. Alcuni aspetti della cultura possono influire sulla modificazione e l’apparizione di nuovi memi: il modo immagazzinare le informazioni, l’accessibilità alle informazioni, il grado di differenziazione dei dominii, il grado di integrazione della cultura, l’apertura.

Se le informazioni sono immagazzinate in un modo rigoroso e durevole, le persone sono facilitate nell’assimilazione del sapere e, di conseguenza, si possono trovare in una situazione favorevole rispetto all’innovazione. L’accessibilità all’informazione invece determina la cerchia delle persone che possono partecipare ai processi creativi: nel Medioevo, per esempio, il clero ha limitato l’accesso delle masse alle conoscenze religiose, così come la richiesta di conoscere il latino e il greco hanno limitato l’accesso del popolo all’educazione superiore. Per quanto riguarda il grado di differenziazione dei dominii, possiamo dire che la specializzazione delle informazioni porta chiarezza e i progressi possono essere più probabili. L’integrazione della cultura invece comporta la difficoltà dell’accettazione di una novità di un certo dominio, in quanto implicherebbe la modificazione dell’intera cultura. Ma una volta accettata, questa novità porta cambiamento in tutta la cultura.

Infine, l’apertura di una cultura alle informazioni di un’altra fa crescere la possibilità di innovazione. Infatti, i nuovi memi appaiono più frequentemente nelle culture che sono esposte a idee e credenze diverse, spesso per la fortuna di una posizione geografica strategica o per ragioni economiche. E’ quello che è successo con i commercianti greci che hanno raccolto informazioni dall’Egitto, dall’Oriente, dal nord dell’Africa, Persia e Scandinavia, per poi elaborarle nelle loro città stato. E’ anche l’esempio di Firenze e Venezia, che nel periodo del Rinascimento erano centri di produzione e commercio.

Spostando l’attenzione dalla cultura al dominio, possiamo valutare anche l’influenza di alcune caratteristiche del dominio sulla creatività, come per esempio il sistema di codificazione, l’integrazione delle informazioni del dominio, l’importanza del dominio per la cultura, l’accessibilità del dominio, il grado di autonomia del dominio rispetto alla cultura. Di solito, un dominio sviluppa i propri memi e i propri sistemi di codifica, che, per quanto sono chiari, per tanto sono assimilabili e quindi possono costituirsi base e strumenti per la creatività.

Rispetto al grado di organizzazione delle informazioni, un dominio con un sistema simbolico debole e diffuso si troverà nell’impossibilità di stabilire se una novità porta o meno dei miglioramenti, così come è capitato nel dominio della chimica prima dell’adozione della tabella di Mendeleev. Al contrario, un sistema può essere talmente organizzato che diventa rigido e rende impossibile ogni innovazione, come nel caso della fisica pre-quantistica. L’importanza di un dominio per una cultura varia nel tempo, in funzione di alcuni fattori, come per esempio le opportunità di realizzazione professionale ed economica, le prospettive per il futuro, ecc. Il dominio soprastante attrae gran parte dell’interesse dell’elite, aumentando così le possibilità di manifestazione della creatività. Come esempio possiamo portare il dominio dell’arte nel periodo del rinascimento, la fisica quantistica all’inizio del ventesimo secolo.

Anche l’accessibilità delle informazioni di un dominio può stimolare la creatività, essendo conferma in questo senso gli effetti che ha avuto l’introduzione della stampa o dell’internet, in tempi più recenti. Un’ altra caratteristica del dominio che influisce sulla creatività è la sua autonomia rispetto ad altri. Quando essa viene a mancare, il dominio più importante di quel momento li può bloccare o limitare l’estensione e la possibilità di sviluppo, come è successo per il dominio dell’astronomia nei casi di Galilei e Giordano Bruno, quando il dominio imperante era la religione che voleva proteggere le sue verità. Un altro esempio in questo senso può essere il dominio politico marxista nell’Unione Sovietica, che respingeva l’emergere di idee di altri dominii che entravano in conflitto con le proprie (Csikszentmihalyi, 2005, 254-255).

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Il ruolo dell’area di specialità

L’area di specialità è composta da specialisti di un certo dominio che hanno il compito di selezionare e valutare le performance delle persone, in vista dell’inclusione o meno delle loro creazioni in uno specifico dominio. L’area di specialità si riferisce all’organizzazione sociale di un certo dominio, come per esempio i professori, i critici d’arte, i custodi dei musei, ecc. Così come un dominio è necessario perché una persona possa portare novità, un’area di specialità è necessaria per deliberare quale di queste novità merita di essere introdotta nei dominii, quindi nella cultura. Tra i memi esiste una concorrenza simile a quella che esiste tra i geni. Per sopravvivere, le culture devono eliminare gran parte delle nuove idee che i suoi membri producono, non potendo assimilare tutte le novità senza dissolversi nel caos. L’individuo, per il limite di attenzione, non può seguire tutte le novità, ma solo una parte di loro. Nello stesso tempo, la cultura non può sopravvivere a lungo se non quando gran parte dei suoi membri presta attenzione ad almeno alcune stesse cose. Da qua l’esigenza di selezione e l’importanza delle diverse aree di specialità che agiscono da filtri, aiutandoci a scegliere quelle nuovi memi che meritano la nostra attenzione.

La società come insieme di aree di specialità

Nella prospettiva sistemica, l’insieme delle aree di specialità legate tra di loro, e quindi degli individui che hanno il potere di modificare i dominii, costituiscono la società. Esistono diverse condizioni della società che sono rilevanti per la creatività, in termini di stimolazione o inibizione: la ricchezza della società, l’interesse per le nuove idee, l’organizzazione sociale ed economica, la mobilità e le situazioni conflittuali, la complessità della società.

Di solito, le società sviluppate hanno più possibilità di incoraggiare la creatività, in quanto possono aumentare l’accessibilità alle informazioni, possono offrire alle persone una formazione più specializzata, hanno i mezzi per costruire università e laboratori e per ricompensare gli sforzi creativi, nonché per mettere in pratica le nuove idee. Nelle società in cui invece l’intera energia fisica ed intellettuale viene investita in attività legate alla sopravvivenza, esistono meno probabilità perché le innovazioni siano stimolate, prese in considerazione e riconosciute. Nonostante ciò, sembra che esista una distanza tra la ricchezza e l’attuazione della creatività, dovuta al fatto che prima di tutto la ricchezza viene investita in opere sociali e di infrastruttura (trasporto, industria, ecc.) e solo dopo nello sviluppo dei dominii di altro tipo (telefonia, servizi), come testimonia la situazione degli Stati Uniti del diciannovesimo secolo.

Un altro modo in cui la società influisce sulla creatività è legato al suo essere proattiva o reattiva alle novità. A differenza di una società proattiva, quella reattiva non sollecita e non stimola la creatività, come è successo nell’Egitto, quando, in seguito a realizzazioni spettacolari raggiunte nell’arte, architettura, religione e tecnologia, si è deciso di non cambiare più niente, venendo riconosciuta soltanto la precisione dell’esecuzione, ma non l’originalità.

Anche il tipo di organizzazione della società ha un ruolo importante per la creatività, in termini di apertura o meno al cambiamento.

Le società strutturate in maniera stabile, le società ugualitarie e quelle in cui l’autorità centrale tende all’assolutismo hanno pochi interessi per il cambiamento, per il fatto che la novità viene vista come minaccia per lo stato attuale delle cose. Le aristocrazie e le oligarchie possono favorire la creatività più che le democrazie o i regimi socialisti, per il motivo che, quando il potere e la ricchezza sono concentrate nelle mani di pochi, è più facile destinare parte di essi per sperimenti rischiosi o non necessari.

La mobilità, le minacce esterne e i conflitti interni di una società influenzano in modo positivo la creatività. La mobilità permette l’accesso e l’uso di diverse idee delle diverse culture, motivo per il quale tante opere d’arte o scoperte scientifiche sono nate in città che erano grandi centri commerciali, come per esempio Firenze, Napoli, Venezia, durante il Rinascimento. Anche la disintegrazione interna sembra avere come effetto un incoraggiamento della creatività, probabilmente per il fatto che gli interessi delle classe di solito separate arrivano a sostenersi reciprocamente. Le minacce esterne invece le consideriamo in termini di concorenza tra diverse società in diversi dominii, quando ognuna vuole superare le altre.

La complessità di una società si misura anche in funzione del grado di assimilazione della novità, che a sua volta dipende dalla specializzazione e dall’uniformità. Le condizioni ideali della creatività sono legate alla forte differenziazione dei dominii, insieme però ad una unità organica.

L’area di specialità

Le aree di specialità possono variare come grandezza in funzione del tipo di dominio e del suo grado di specializzazione. Esistono aree di specialità composte da poche persone, come è il caso del dominio delle lingue e letterature assire, oppure del dominio della biologia molecolare. Al contrario, possono esistere aree di specialità formate da mille specialisti, come nel dominio dell’ingegneria elettronica, altre che si confondono con la società, come può essere quello della musica leggera. Le aree de specialità hanno un ruolo decisivo nel selezionare e introdurre nei dominii i prodotti creativi. Ci sono diversi aspetti che contribuiscono alla probabilità di accettazione o rifiuto delle novità da parte dell’area di specialità: il rapporto con le risorse, il rapporto con le altre aree di specialità, la flessibilità.

Un’area di specialità, per attirare persone verso il proprio dominio, deve essere in grado di ottenere risorse dalla società, in modo da poter offrire ricompense economiche o legate alla posizione sociale. Infatti, non a caso, durante la storia, la creatività nell’arte e nelle scienze si è sviluppata in società che avevano fondi da investire in quei dominii: le opere di Firenze sono state fatte con il contributo dei banchieri di tutta l’Europa, così come Leonardo da Vinci si è spostato in diverse parti del mondo in funzione del cambiamento del mercato. Alcune aree di specialità attirano nuovi talenti per la posizione importante dei suoi valori nella società, come succede nei giorni d’oggi con l’ecologia o l’informatica.

Quando un’area di specialità è dipendente da considerazioni politiche, religiose o economiche, i criteri di scelta dei memi vengono alterati da esse, e si corre il rischio di escludere dai rispettivi dominii opere di grande valore. La storia non manca di casi in cui opere artistiche sono state rifiutate perché non soddisfacevano canoni religiosi, oppure situazioni in cui opere letterarie e scientifiche sono state annullate per non essere state in concordanza con le ideologie politiche. All’altro estremo, la totale indipendenza di un area di specialità dal resto della società riduce la sua efficienza (Roco, 2004, 27).

La flessibilità dell’area di specialità è un altro fattore importante nella scelta dei prodotti creativi. Le strategie estreme di conservatorismo totale o accettazione della qualsiasi sono dannose, la prima perché fa mancare al dominio la novità, diventando statico, la seconda perché troppe novità sono difficile da metabolizzare e il dominio si destabilizza.

FINE PRIMA PARTE – LEGGI LA SECONDA PARTE

 

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Il rapporto tra Creatività ed Emozioni

BIBLIOGRAFIA:

  • Csikszentmihalyi, M. (1996). Creativity. Flow and the psychology of discovery and Invention. HarperCollins: NY
  • Csikszentmihalyi, M.(2005). Implicatiile unei perspective sistemice in studierea creativitatii, in Sternberg, R. (Ed.) (2005). Manual de creativitate. Polirom: Iasi, pp. 247-273.
  • Roco, M.(2004). Creativitate si inteligenta emotionala. Polirom: Iasi.

EXTRA: Mihaly Csikszentmihalyi: Il segreto della felicità (VIDEO Sottotitoli in Italiano)

La sindrome da Negligenza Spaziale Unilaterale – Definizione Psicopedia

Il Neglect è una sindrome neuropsicologica caratterizzata dall’incapacità da parte del paziente di percepire o prestare attenzione a oggetti, persone, rappresentazioni, collocati in un emicampo visivo (solitamente controlaterale alla lesione), e di agire in quel lato dello spazio (Robertson, 1999).

[blockquote style=”1″]Essa ha completamente perduto l’idea di “sinistra”, per quanto riguarda sia il mondo esterno sia il proprio corpo. Talvolta si lamenta che le sue porzioni sono troppo piccole, ma il fatto è che mangia solo quello che è a destra del piatto, non le viene in mente che il piatto abbia anche una sinistra […] non ha la minima consapevolezza di sbagliarsi. Lo sa intellettualmente, è in grado di capire e ride; ma le è impossibile saperlo direttamente [/blockquote]

(Oliver Sacks)

Il Neglect è una sindrome neuropsicologica caratterizzata dall’incapacità da parte del paziente di percepire o prestare attenzione a oggetti, persone, rappresentazioni, collocati in un emicampo visivo (solitamente controlaterale alla lesione), e di agire in quel lato dello spazio (Robertson, 1999). Nonostante spesso si associ a emianopsia, emianestesia o emiparesi, la sindrome non dipende da deficit sensoriali o motori.

Non è un fenomeno univoco, può coinvolgere diverse modalità sensoriali e rappresentazionali: parliamo per esempio di neglect personale, extrapersonale e peripersonale (la dissociazione tra questi diversi tipi di neglect è ben spiegata dalla Teoria delle rappresentazioni neurali di Rizzolatti; Rizzolatti & Berti, 1990). Possono inoltre essere presenti dissociazioni anche importanti come pazienti che mostrano neglect ai test di barrage ma copiano una figura perfettamente. Tipicamente può presentarsi a seguito di un ictus o di un trauma cranico; nella maggior parte dei casi il lato che viene “negato” è quello sinistro a seguito di un evento cerebrale occorso nell’emisfero destro. Il neglect può presentarsi anche a seguito di lesioni a sinistra ma diversi studi e review hanno mostrato come questi casi siano meno frequenti e meno gravi; inoltre questi pazienti sono più difficili da valutare a causa dell’afasia (Robertson & Marshall, 1993). La condizione di negligenza varia lungo un gradiente temporale che va da pochi giorni a periodi prolungati.

Spesso i pazienti con neglect presentano anosognosia per il proprio deficit: credono che la loro rappresentazione e percezione dell’ambiente sia assolutamente normale. Per questo motivo alla sintomatologia si aggiunge anche una componente di negazione che rende quindi più difficoltoso l’intervento e la relazione con il paziente. Altri sintomi che possono trovarsi associati sono la somatoparafrenia, la misoplegia (avversione contro la parte del corpo lesa) e l’anosodiaforia (disinteresse per le conseguenze del deficit).

Come si valuta la presenza del neglect? Prima di tutto è fondamentale l’osservazione del paziente nel corso delle sue attività quotidiane. A questa vanno ad aggiungersi diverse prove standardizzate (diverse proprio perché sono frequenti le dissociazioni). La valutazione neuropsicologica del neglect può essere resa difficile dalla presenza di ulteriori difficoltà come la disprassia, l’atassia ottica e un disorientamento topografico. Inoltre c’è da sottolineare che il neglect può essere anche “compito-specifico” nel senso che un paziente può mostrare emi-inattenzione per quanto riguarda compiti di disegno ma nessuna difficoltà nella lettura e nella scrittura (Costello & Warrington, 1987).

Per il neglect peripersonale vengono utilizzati test di barrage (per esempio il test delle campanelle), test di copia di figure e di bisezione di linee. Questi compiti implicano sia competenze visive e attentive che motorie; aiutano inoltre a distinguere pazienti con neglect da pazienti emianoptici che al contrario dei primi compensano il loro deficit con movimenti del capo e del corpo. Nel valutarli bisogna considerare il tipo e la localizzazione degli errori, l’accuratezza, le modalità di esplorazione, l’eventuale presenza di perseverazione e la velocità. Altri test come la descrizione di immagini oppure il conteggio di target non implicano invece componenti motorie.

Il neglect rappresentazionale può essere indagato tramite compiti di disegno spontaneo o su comando verbale. Pazienti con neglect tenderanno a confinare il loro disegno nella parte destra del foglio disegnando perfettamente tutto ciò che è rappresentato a destra e omettendo o riportando grossolanamente la parte sinistra; tale comportamento si può osservare sia nei compiti di copiatura di un disegno sia quando viene chiesto di produrre un disegno dalla memoria, facendo quindi riferimento a proprie rappresentazioni. La valutazione del neglect personale passa invece da compiti non standardizzati come il test di Bisiach in cui viene chiesto al paziente di toccare con la mano ipsilaterale alla lesione il braccio collocato nello spazio che “neglige” oppure chiedendo al paziente di svolgere alcune attività tipiche del quotidiano.

Per quanto riguarda le basi neuroanatomiche del neglect, sono state chiamate in causa singole aree dell’emisfero destro (lobo parietale inferiore, lobo frontale e giro temporale superiore) ma si è parlato anche della possibilità di una “sindrome da disconnessione” per cui verrebbe a mancare l’interazione di diversi distretti cerebrali funzionalmente collegati tra loro (Halligan et al., 2003; Bartolomeo et al., 2007). Tra le diverse teorie patogenetiche possiamo fare riferimento a quelle di tipo attenzionale e a quelle rappresentazionali. Tra le prime rientra l’ipotesi attenzionale di Kinsbourne (1970) secondo il quale il neglect deriverebbe da un iperorientamento dell’attenzione verso sinistra. Questo perché l’attenzione sarebbe mediata da due vettori, uno di destra più potente e uno di sinistra più debole; lesioni a sinistra non porterebbero grandi squilibri, cosa che invece avverrebbe nelle lesioni parietali a destra. Secondo Posner invece il neglect dipenderebbe da un’incapacità di sganciare l’attenzione dall’emicampo ipsilesionale per spostarla a quello controlesionale a causa di un danno al lobo parietale.

Tuttavia la sola componente attentiva non spiega come mai fenomeni di neglect si possano verificare anche solo chiedendo al paziente di rappresentare nella propria mente una scena o un’immagine (ormai famoso il caso dei pazienti con neglect a cui venne chiesto di immaginare piazza Duomo a Milano e descriverla: dopo la prima descrizione che comprendeva soltanto il lato sinistro, ai pazienti venne chiesto di immaginare la piazza dalla prospettiva opposta. In questo modo, descrivendo sempre la parte sinistra della piazza, in realtà riportarono quella che nella descrizione precedente sarebbe stata la metà destra; Bisiach & Luzzatti, 1978). Appare dunque necessario integrare le componenti attentive con quelle rappresentazionali.

TRATTAMENTO E RIABILITAZIONE

STIMOLAZIONE SENSORIALE: la più utilizzata è la stimolazione calorica vestibolare (CVS) che consiste nella stimolazione delle afferenze vestibolari al cervello tramite l’immissione di acqua fredda nell’orecchio sinistro.

LENTI PRISMATICHE: utilizzate per correggere la dismetria. Attraverso queste lenti il sistema motorio di adatta a quella che è la nuova visione lungo il piano orizzontale.

EYE – PATCHING: consiste in una forma di bendaggio monoculare o binoculare con l’obiettivo di potenziare l’emisfero lesionato aumentando i movimenti oculari diretti verso l’emicampo visivo sinistro inibendo l’attività del collicolo superiore controlesionale (Teoria “Sprague effect”, Beis et al., 1999). La tecnica si basa sul fenomeno del “learned non-use” (l’inattività genera una sostenuta incapacità di recuperare una funzione accompagnata da una riorganizzazione corticale, impedendo quindi il recupero in sé della funzione; Taub et al., 2006).

VISUAL SCANNING TRAINING: l’obiettivo è di ri-orientare la visione del paziente nell’emicampo “negato” mediante un programma di training basato su istruzioni esplicite nella credenza che i sistemi di linguaggio intatti possano favorire il recupero del controllo volontario (Luautè et al., 2006).

LIMB ACTIVATION: si basa sull’attivazione congiunta di mappe cerebrali spazio-motorie che incrementano la rappresentazione cosciente di specifici settori spaziali. Miglioramenti nei sintomi del neglect si possono avere quando il paziente compie un movimento volontario con l’arto controlesionale nello spazio controlesionale (Priftis et al., 2013). E’ stato creato un dispositivo apposito per questo tipo di riabilitazione (LAD – limb activation device; Robertson et al., 1998).

 

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Consapevolezza corporea: neglect, anosognosia e somatoparafrenia

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bartolomeo, P., Thiebaut de Schotten, M., and Doricchi, F. (2007). Left unilateral neglect as a disconnection syndrome. Cereb Cortex 17, 2479 – 2490.
  • Beis J., Andre J., Baumgarten A., Challier B. (1999). Eye patching in unilateral spatial neglect: efficacy of two methods. Arch. Phys. Med. Rehabil. 80, 71–76.
  • Bisiach, E. & Luzzatti, C. (1978). Unilateral neglect of representational space. Cortex ,14, 129-133.
  • Costello, A., & Warrington, E. K. (1987). The dissociation of visuospatial neglect and neglect dyslexia. Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry, 50, 1110 – 1116.
  • Halligan, P.W., Fink, G.R., Marshall, J.C., Vallar, G. (2003). Spatial cognition: evidence from visual neglect. Trends Cogn Sci,7(3), 125 – 133.
  • Kinsbourne, M. (1979). The cerebral basis of lateral asymmetries in attention. Acta Psychologica, 33, 193 -201.
  • Luautè, J. et al. (2006). Visuo-spatial neglect: A systematic review of current interventions. Neuroscience and biobehavioral reviews and their effectiveness
  • Priftis, K. et al. (2013). Visual Scanning Training, Limb Activation Treatment, and Prism Adaptation for Rehabilitating Left Neglect: Who is the Winner? Frontiers in Human Neuroscience, 7, 360.
  • Rizzolatti, G. & Berti, A. (1990). Neglect as a neural representation deficit. Review Neurologique, 146, 626 -634.
  • Robertson, I. H. & Marshall, J. C. eds (1993). Unilateral Neglect: Clinical and experimental Studies.
  • Robertson, I. H., Hogg, K., Mac Millan, T.M. (1998). Rehabilitation of unilateral neglect: improving function by contralesional limb activation. Neuropsychological Rehabilitation 8, 19–29.
  • Robertson, I. H. & Hawkins, K. (1999). Limb activation and unilateral neglect. Neurocase, 5, 153 – 160.
    Sacks, O. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. (1985). Gli Adelphi.
  • Taub, E., Uswatte, G., Mark, V.W., Morris D.M. (2006). The learned nonuse phenomenon: implications for rehabilitation. Eura. Medicophys. 42, 241–256

Le conseguenze sociali della disuguaglianza digitale

FLASH NEWS

Gli autori mostrano come le disuguaglianze nella vita digitale possano influire sui fattori come la ricerca del lavoro, gli acquisti, l’imprenditorialità, l’accesso all’ assistenza sanitaria, gli apprendimenti, la socializzazione e le risposte ai sondaggi politici e di consumo.

Il team internazionale di studiosi che si occupano della presente ricerca ritiene che le disuguaglianze digitali, in senso lato, in termini di uso di Internet da parte delle persone, le loro competenze digitali e la percezione di sé online sono legate ad alcuni fattori sociali come la razza, il rango e il genere.

Michael J. Stern dell’ Università di Chicago sostiene che è sempre più chiaro che i rapporti digitali degli individui e il capitale digitale giocano un ruolo chiave nella realizzazione personale, nel raggiungimento di successi accademici, lavorativi e imprenditoriali e nel mantenimento di un buono stato di salute. Quelli che sono più coinvolti nella vita digitale e mediano la loro vita sociale attraverso il web, ottengono vantaggi maggiori rispetto a coloro che non partecipano attivamente a una vita sociale digitale.

Esiste una forma di esclusione digitale che sta aumentando notevolmente. Gli autori della ricerca infatti affermano che internet occupa sempre più spazio nella vita quotidiana per cui le forme di svantaggio sociale sono in via di cambiamento. Secondo gli autori coloro che non sono connessi e che non sono sicuri di sé online tendono ad avere una vita più difficile.

Nel corso dell’articolo, gli autori mostrano come le disuguaglianze nella vita digitale possono influire sui fattori come la ricerca del lavoro , gli acquisti, l’imprenditorialità, l’accesso all’assistenza sanitaria, gli apprendimenti, la socializzazione e le risposte ai sondaggi politici e di consumo.

È chiaro che non essere parte della vita digitale può avere effetti significativi sul corso della propria vita. Questo articolo è quindi una lettura essenziale per chiunque sia interessato a ridurre le disuguaglianze nella nostra società, tra cui i politici, sociologi e coloro che si candideranno per le prossime elezioni.

 

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L’utilizzo delle nuove tecnologie nel trattamento del disturbo mentale

 

BIBLIOGRAFIA:

Terapia Cognitivo-Comportamentale nella Fibromialgia: quale focus per un intervento?

Anna Finocchietti

La Fibromialgia, o sindrome Fibromialgica, è una malattia reumatica caratterizzata da un insieme di manifestazioni fisiche che procurano notevole sofferenza a chi ne è affetto. La ricerca ha evidenziato l’efficacia della Terapia Cognitivo-Comportamentale nel contribuire a migliorare molti aspetti connessi a questa patologia.

 

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La Sindrome Fibromialgica (SF) è una malattia reumatica caratterizzata da un insieme di manifestazioni fisiche che procurano sofferenza a chi ne è affetto, pur in assenza di dati di laboratorio (come esami ematici, radiografie etc.) che mettano in evidenza specifiche anomalie. Ciò rende la malattia spesso di non facile diagnosi e procura alla persona che ne soffre sentimenti di inaiutabilità e incomprensione da parte di familiari e medici.

La sintomatologia prevalente, sulla cui base dagli anni novanta (Wolfe et all.,1990) viene effettuata dai reumatologi la diagnosi, è costituita da dolore muscolare cronico diffuso insieme a rigidità, ma molti altri sono i sintomi che si associano al dolore e che possono variare da individuo a individuo: disturbi del sonno, alterazioni cognitive quali attenzione e concentrazione, cefalea, parestesie, stanchezza cronica, disturbi gastro-intestinali. Inoltre diversi studi hanno rilevato una maggiore sintomatologia ansiosa e depressiva nei pazienti affetti da SF rispetto alla popolazione generale; tali sintomi sarebbero tali da mantenere ed alimentare la sintomatologia dolorosa, con conseguenti ricadute sulla qualità della vita dei fibromialgici.

Per comprendere quanto il dolore può compromettere la qualità della vita nella FM, ricordo che recentemente il dolore fibromialgico è tra i dolori cronici per i quali è prevista la prescrizione di cannabis.

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Le cause che intervengono nell’insorgere della malattia sono molteplici, così come quelle che la mantengono (Il modello di riferimento è quello biopsicosociale di Engel). Anche le cure quindi prevedono interventi sia a livello farmacologico che non farmacologico (esercizi fisici, rilassamento, terapie psicologiche).

La ricerca ha evidenziato l’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale nel contribuire a migliorare molti aspetti connessi a questa patologia: il dolore riduce infatti la mobilità portando spesso all’evitamento di attività che possono, o si teme che possano, evocarlo o peggiorarlo; inoltre l’intensità del dolore può allarmare, mettere in ansia, alimentare credenze negative sul dolore (catastrofizzazione, helplessness). La TCC può pertanto essere efficace nel modificare le credenze disfunzionali così come nel ridurre la sintomatologia ansioso-depressiva.

Gli studi che riportano dati di efficacia della TCC nella SF hanno però protocolli di intervento molto eterogenei e difficilmente comparabili; al momento sembrano non esserci protocolli di intervento mirati su specifici aspetti che caratterizzano il profilo cognitivo dei pazienti fibromialgici, ciò in larga parte sembra dovuto al fatto che le indagini sui profili psicologici di questi pazienti si sono limitate ai disturbi psicologici presenti, come ansia e depressione, molto meno alle variabili cognitive in essi implicate.

Un gruppo di ricerca della Scuola Cognitiva di Firenze, partendo da questi dati, sta da alcuni anni lavorando alla definizione di un profilo cognitivo dei pazienti fibromialgici e sulla base di risultati preliminari sta iniziando esperienze di intervento terapeutico.

Un primo lavoro (Bonini S. et all.,2014) in cui 43 soggetti con fibromialgia sono stati messi a confronto con altrettanti soggetti sani, ha messo in evidenza maggiori livelli di ansia, alessitimia, credenze negative sul dolore e peggiore qualità della vita nei soggetti fibromialgici, insieme a punteggi più elevati nelle variabili rimuginio e bisogno di controllo.

Tra i dati a nostro avviso più interessanti c’è che la catastrofizzazione, insieme all’ansia di stato e di tratto, appaiono le variabili che maggiormente hanno influito sulla qualità della vita. La catastrofizzazione inoltre è risultata mediare anche la relazione tra ansia di tratto e qualità della vita.

Un secondo lavoro (Ricci A., et all.,2014a e 2014b) si è principalmente focalizzato sul ruolo del rimuginio e della ruminazione rabbiosa nella SF. In questa ricerca sono stati messi a confronto 3 gruppi: fibromialgici, soggetti con dolore cronico di altra natura (osteoporosi e artrosi) e soggetti sani (30 soggetti per ciascun gruppo).

I risultati, oltre a confermare dati già esistenti in letteratura e nella nostra precedente ricerca riguardo all’ansia, al rimuginio e alla depressione, hanno evidenziato un dato nuovo: i pazienti fibromialgici risultano riportare punteggi più alti degli altri due gruppi sia nel rimuginio ansioso che nella ruminazione rabbiosa. Un’ipotesi interpretativa di questo dato potrebbe essere che i fibromialgici utilizzino prevalentemente rimuginio e ruminazione come strategie di coping per la regolazione delle esperienze emotive. Questo potrebbe essere supportato dalla presenza di maggiore alessitimia, come evidenziato dalla letteratura e ritrovato nel nostro primo lavoro.

Ovviamente questi sono dati provvisori, che necessitano di ulteriori conferme e indagini, ma confortano la necessità di approfondire il profilo cognitivo dei pazienti affetti da Sindrome Fibromialgica al fine di poter meglio delineare protocolli di valutazione e scegliere i focus di intervento più significativi ed efficaci.

 

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Rimuginio e Ruminazione nella Sindrome Fibromialgica – Assisi 2013

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bonini, S., Continanza, M., Rigacci, C., Turano, M.T., Puliti, E.M., Finocchietti, A. (2014), Costrutti Cognitivi dell’Ansia e Sindrome Fibromialgica. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, 20 (2), 219-229
  • Ricci, A., Bonini, S., Continanza, M., Turano, M.T., Puliti, E.M., Finocchietti A., (2014a) La Sindrome Fibromialgica: il ruolo del rimuginio e della ruminazione rabbiosa. XVII Congresso Nazionale SITCC Marinai, Terapeuti e balene, Abstract book, 297-298
  • Ricci, A., Bonini, S., Continanza, M., Turano, M.T., Puliti, E.M., Finocchietti A., Bertolucci D., (2014 b) La Sindrome Fibromialgica: il ruolo delle variabili psicologiche Ansia, Depressione, Rimuginio e Ruminazione rabbiosa, 51° Congresso Nazionale SIR e 17° Congresso Nazionale CROI, Abstract book.
  • Wolfe, F., Smythe, H.A., Yunus, M.B., Bennet, R.M., Bombardier, C., Goldnberg, D.L., et al. (1990), The American College of Reumatology 1990 criteria for the classification Arthitris and Rheumatism, 33,160-172.

E’ davvero così minaccioso? – I Peanuts alleati nella vita e nella Psicoterapia – 01

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA

 01 – E’ DAVVERO COSI’ MINACCIOSO?

Cercare di prevedere le mosse del nostro ipotetico nemico è il tentativo che mettiamo in atto per prepararci all’arrivo di una minaccia, reale o immaginata, illudendoci di essere pronti a fronteggiarla. E’ quello che prova a fare il piccolo Charlie Brown che, cieco di fronte alla poca esperienza di Snoopy, percepisce l’avversario come strategico e dalla mente insidiosa. 

Charlie Brown - Peanuts - 1 Rimuginio

Per preparare il suo contrattacco Charlie Brown non è concentrato sulla sua strategia di gioco, ma mette in atto uno sforzo cognitivo stressante e privo di vantaggi, finalizzato a immaginare cosa possa esserci nella mente del suo avversario, dimenticando gli scopi della partita.

Questo è un esempio di come usiamo il rimuginio e di come sia poco utile per definire una strategia tesa al raggiungimento di un obiettivo.

Ricordiamo che Charlie Brown è un bambino ansioso, insicuro e già in altre strisce Schultz ha sottolineato i suoi tratti paranoci.

Secondo Semerari, il pensiero paranoico tende a leggere i segnali interpersonali in modo egocentrico, poiché manca uno sviluppo pieno della comprensione della mente dell’altro (Semerari, 2000).

In questa vignetta è evidente come la mente ci possa condurre a ipotizzare le intenzioni dell’altro in modo arbitrario, senza tener conto di dati oggettivi e impedendoci di assumere una posizione decentrata. Anche una mente sana può incappare in errori cognitivi di questo tipo, soprattutto in situazioni di stress o di competizione.

Con tutta probabilità l’inesperto Snoopy riuscirà a ottenere la vittoria.

 

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BIBLIOGRAFIA:

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

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