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Autismo e Religione: ecco cosa ne pensa la dr.ssa Luisa di Biagio

Solo attraverso un percorso educativo sostenuto da una profonda conoscenza del funzionamento autistico è possibile guidare un autistico alla conoscenza della religione e concedergli la possibilità di accoglierla o rifiutarla criticamente e in piena libertà.

L’autismo non è una cultura nel senso antropologico stretto della parola ma funziona come una cultura in quanto incide sui modi in cui tutti gli individui autistici si comportano, comprendono e comunicano con il mondo. Da diversi anni si parla infatti di “cultura autistica” per indicare l’insieme di parametri percettivi e comunicativi che accomunano le persone autistiche di tutto il mondo. Il primo a fare uso di questi termini è stato Theo Peeters, uno dei massimi esperti di autismo al mondo e sicuramente tra i più dediti alla profonda comprensione del funzionamento della mente autistica.

È bene a tal proposito ricordare che l’autismo è uno dei tanti modi di essere persona umana, un modello di organizzazione neurologica che accoglie al suo interno manifestazioni patologiche e non. Ciò che differenzia maggiormente questo modo di essere dalla più comune organizzazione tipica è un sistema sensoriale molto più raffinato che influenza tutti i processi percettivi, compresi quelli che interessano le competenze sociali e comunicative.

Se fino a due secoli fa i criteri comunicativi permettevano alla maggior parte della popolazione autistica di inserirsi senza difficoltà nel tessuto lavorativo, affettivo, politico e sociale, negli ultimi anni i criteri comunicativi si sono ristretti, guidati da una cultura tipica che da prevalente è diventata totalizzante. Bambini che un tempo sarebbero stati ritenuti semplicemente bizzarri ora sono considerati disabili e le proposte terapeutiche a loro indirizzate ambiscono spesso a una normalizzazione di aspetti cognitivi che in realtà dovrebbero essere riconosciuti come punti di partenza per favorire il benessere dell’individuo.

Tra le differenze più marcate tra la cultura tipica e quella autistica vi è una diversa rilevanza attribuita all’implicito e al canale non verbale. Questo canale comunicativo è prioritario per i neurotipici mentre inaccessibile per la maggior parte degli autistici. 

È facile immaginare quindi come la trasmissione di contenuti religiosi, affidata in gran parte alla comunicazione implicita, precluda agli autistici l’intera mole di informazioni culturali religiose.

Altre volte potrebbe invece raggiungerli sotto forma di indottrinamento non libero con il rischio di un’interpretazione letterale di messaggi spesso metaforici, con evidenti conseguenze negative in termini di benessere e salute mentale. Pensate per esempio all’effetto che può avere un messaggio verbale come “il nonno è morto ma ti guarda da lassù” rivolto a un bambino autistico che si attiene al significato letterale della frase. Potrebbe addirittura indurre in lui comportamenti che i clinici meno esperti ricondurrebbero ad un quadro psicotico con conseguenze nefaste per il bambino e la famiglia.

Due sole le conseguenze di tale scenario: rinuncia alla possibilità di godere degli arricchimenti della religione o aderenza letterale, ai limiti del fanatismo, ai precetti religiosi codificati alla lettera senza possibilità di flessibilità o evoluzione.

La persona ne esce comunque privata della libertà di scelta e della possibilità di usufruire liberamente della ricchezza di una vita spiritualmente solida, ove ritenuto liberamente un valore.

Solo attraverso un percorso educativo sostenuto da una profonda conoscenza del funzionamento autistico è possibile guidare un autistico alla conoscenza della religione e concedergli la possibilità di accoglierla o rifiutarla criticamente e in piena libertà. Attualmente chi si occupa di veicolare i valori religiosi, a scuola così come nelle sedi religiose, lo fa secondo parametri neurotipici, ignorando completamente gli aspetti di vulnerabilità degli autistici rispetto a questi temi, tra cui il potenziale fanatismo, la tendenza al rigore normativo e l’inclinazione alla repressione fino all’autolesionismo.

Anche in questo caso la soluzione è una: l’utilizzo di criteri divulgativi fruibili anche dalla popolazione autistica, espressione di una concreta inclusione nella società delle persone con organizzazione neurologica diversa.

 

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L’Autismo fisiologico. L’intervista alla dr.ssa Di Biagio

 

BIBLIOGRAFIA:

Che cos’è la psicoterapia?

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (10)

 

 

La psicoterapia è un percorso di trattamento dei disturbi psicologici che si realizza in una serie di incontri con un professionista psicoterapeuta. Lo scopo della psicoterapia è promuovere un cambiamento tale da alleviare in modo stabile alcune forme di sofferenza emotiva. La psicoterapia aiuta la persona a vivere meglio.

Nel panorama nazionale e internazionale esistono molte forme di psicoterapia. Tuttavia solo alcune psicoterapie sono state sottoposte alla sperimentazione scientifica e sono considerate psicoterapie efficaci.

La ricerca in psicoterapia ha lo scopo di comprendere i disturbi psicologici, definire ipotesi di trattamento e verificarne l’efficacia attraverso metodologie rigorose. Attraverso la ricerca in psicoterapia è possibile selezionare i trattamenti che garantiscono maggiore efficacia e sostenere la qualità dei servizi offerti ai pazienti.

Il modello di psicoterapia cognitivo-comportamentale è stato riconosciuto come trattamento efficace per numerosi disturbi psicologici, tanto da essere inserito in molte linee guida nazionali e internazionali (es: USA, Gran Bretagna, Australia; NCCMH, 2011).

La psicoterapia cognitivo-comportamentale rappresenta la psicoterapia di prima scelta nella cura dei disturbi d’ansia, panico, fobia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo e della depressione dove mostra efficacia equivalente alla terapia farmacologica con un ridotto tasso di ricaduta nel tempo.

 

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2 Aprile: giornata mondiale dell’autismo

2 Aprile: giornata mondiale dell’autismo

Il 2 aprile si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale dell’Autismo per informare e sensibilizzare il pubblico su un disturbo che, un tempo considerato raro, occorre in 1-2 casi su 100.

L’autismo è caratterizzato da severi deficit della comunicazione sociale e comportamenti ripetitivi e stereotipati che possono avere un impatto devastante sul funzionamento psicosociale della persona. I costi diretti e indiretti per il supporto delle persone con autismo sono elevatissimi: per l’Italia non sono disponibili stime, ma ad esempio nel Regno Unito i costi diretti (quali interventi sanitari, educativi o sociali), uniti ai costi per la produttività persa, sono stimati attorno ai 28 miliardi £ (Barrett et. al. 2012).

Sappiamo dalla ricerca che interventi educativi e comportamentali precoci e percorsi di consulenza psicoeducativa per genitori e insegnanti sono metodi di trattamento efficaci che possono migliorare gli esiti a lungo termine delle persone con autismo (Magiati, Tay & Howlin 2012; Oono 2013).

Tuttavia, l’accesso al trattamento in Europa è molto limitato. Molte famiglie, particolarmente se di livello socioeconomico basso, non ricevono alcun trattamento (Salomone et. al. 2015a). Altre utilizzano trattamenti di medicina complementare ed alternativa, nella maggior parte non testati, inefficaci o pericolosi (Salomone et. al. 2015b).

In occasione della giornata mondiale dell’autismo il prestigioso Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry ha pubblicato un documento per promuovere un approccio al trattamento e all’educazione inclusivo, basato sui diritti delle persone e sulle evidenze scientifiche.

Il documento, intitolato “Disturbo dello Spettro Autistico: dieci regole di base per aiutarmi” si rivolge alle persone con autismo e alle loro famiglie, agli operatori sanitari, agli educatori e agli insegnanti, ai politici e alle istituzioni di tutto il mondo ed è disponibile in open access in 39 lingue  (Fuentes 2014, qui, traduzione italiana a cura di Salomone e Muratori, qui).

C’è ancora molto da fare per garantire l’accesso a trattamenti efficaci e fondati sull’evidenza, in Italia e nel mondo. Liste di attesa, distanza geografica dai pochi centri specializzati e mancanza di integrazione tra le agenzie coinvolte sono alcune delle difficoltà che le famiglie di bambini con autismo devono quotidianamente affrontare.

Per superare queste complessità, si stanno sperimentando in tutto il mondo modalità di erogazione del trattamento in teleassistenza, cioè tramite supporto di piattaforme online (videochiamate e accesso a materiali online).

In Piemonte, il progetto PLAY Psychology Lab for Autism in Young People ha raccolto la sfida. A breve il lancio del progetto, a cura della psicologa ricercatrice Erica Salomone e in collaborazione con le Aziende Sanitarie Locali CN1 e TO3.

Keep posted!

 

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Che trattamento ricevono i bambini con autismo in Europa?

 

BIBLIOGRAFIA:

5 Borse di Studio 2015/2016 per l’iscrizione alla laurea Magistrale in Psicologia Clinica

Sigmund Freud University MIlano - Corso di Laurea in Psicologia

Bando di concorso per l’assegnazione di una borsa di studio per l’esonero totale e quattro borse di studio per l’esonero parziale a studenti meritevoli ammessi al primo anno del Corso Biennale di Psicologia Clinica nell’ A. A. 2015/2016.

La Sigmund Freud University, allo scopo di favorire l’accesso degli studenti meritevoli ai corsi di studio in Psicologia presso la sede di Milano, assegna, a titolo di liberalità, 1 borsa di studio per l’esonero totale e 4 borse di studio per l’esonero parziale dal pagamento della retta annua base per l’iscrizione al primo anno del Corso di Laurea Biennale in Psicologia Clinica nell’a.a. 2015/2016.

Le borse sono assegnate ai primi 5 studenti di una graduatoria basata sul voto di laurea di un Corso Triennale di Psicologia.

La borsa sarà confermata nel secondo anno di corso agli studenti in regola con gli esami del primo anno, che abbiano ottenuto una media non inferiore a 27/30.

La retta annua base è pubblicata sul sito di Sigmund Freud University, sede di Milano, vedi: Calcolo della retta annua e modalità di pagamento.

Requisiti per la partecipazione

Saranno considerati idonei al presente concorso i candidati in possesso dei seguenti requisiti:

  • laurea in Psicologia conseguita negli anni 2014 e 2015 a seguito della frequenza di un Corso Triennale Classe L – 24 con punteggio di laurea non inferiore a 99/110.
  • attestato di reddito annuo famigliare inferiore a 70.000 Euro (l’attestato di riferimento è il certificato ISEE – Indicatore della Situazione Economica Equivalente- rilasciato da INPS. Altri documenti o modalità di attestazione del reddito saranno sottoposti alla valutazione insindacabile della Direzione)
  • esito positivo del colloquio di ammissione al primo anno del Corso di Laurea Biennale in Psicologia Clinica nell’a.a. 2015/2016

Graduatoria

La graduatoria è formata in base al voto di laurea espresso in centesimi. La laurea con lode vale 101/100. In caso di parità la precedenza in graduatoria sarà data al reddito inferiore.

Assegnazione delle Borse di Studio

La graduatoria è composta dagli studenti che sosterranno il colloquio di ammissione entro il 10 Settembre 2015.

La graduatoria sarà pubblicata il 15 Settembre sul sito online di Sigmund Freud University Milano e le borse saranno così assegnate:

  • lo studente classificato al primo posto in graduatoria avrà diritto all’esonero totale dalla retta annua base.
  • gli studenti classificati al secondo e al terzo posto avranno diritto all’esonero dal 50% della retta annua base.
  • gli studenti classificati al quarto e al quinto posto avranno diritto all’esonero dal 30% della retta annua base.

Le borse saranno confermate ai vincitori al momento dell’iscrizione che deve avvenire entro il 30 settembre 2015.

La graduatoria sarà nuovamente pubblicata il 1° Ottobre con l’esclusione dei nomi degli aventi diritto che a quella data non avranno completato l’iscrizione. La nuova graduatoria indicherà l’assegnazione definitiva delle borse a quanti, tra gli aventi diritto, avranno completato l’iscrizione.

Se, per effetto delle mancate iscrizioni degli aventi diritto, lo studente classificato entro i primi cinque nella prima graduatoria si troverà nella nuova in una posizione che comporta un esonero più consistente rispetto a quello della prima, avrà diritto all’esonero corrispondente a quest’ultima. L’eventuale differenza rispetto alla rata di iscrizione sarà rimborsata.

Agli studenti esclusi dall’esonero nella prima graduatoria e che, per effetto della mancata iscrizione di alcuni degli aventi diritto, rientreranno nei primi 5 posti della nuova graduatoria, saranno assegnati gli esoneri corrispondenti alla nuova posizione raggiunta e potranno usufruirne completando l’iscrizione entro il 15 Ottobre.

Rinnovo delle Borse per il secondo anno

La borsa ottenuta per l’a.a. 2015/2016 potrà essere confermata per il secondo anno di corso a condizione che lo studente al termine della sessione autunnale degli esami di profitto del primo anno sia in regola con gli esami previsti dal piano di studi e abbia conseguito una votazione media ponderata non inferiore a 27/30.

Per saperne di più visualizza il sito internet della Sigmund Freud University.

 

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5 Borse di Studio 2015/2016 per l’iscrizione alla laurea Triennale in Psicologia

Sigmund Freud University MIlano - Corso di Laurea in Psicologia

Bando di concorso per l’assegnazione di una borsa di studio per l’esonero totale e quattro borse di studio per l’esonero parziale a studenti meritevoli ammessi al primo anno del Corso Triennale di Psicologia nell’ A. A. 2015/2016.

La Sigmund Freud University, allo scopo di favorire l’accesso degli studenti meritevoli ai corsi di studio in Psicologia presso la sede di Milano, assegna, a titolo di liberalità, 1 borsa di studio per l’esonero totale e 4 borse di studio per l’esonero parziale dal pagamento della retta annua base per l’iscrizione al primo anno del Corso di Laurea Triennale in Psicologia nell’a.a. 2015/2016.

Le borse sono assegnate ai primi 5 studenti di una graduatoria basata sul voto del diploma di istruzione secondaria superiore.

La borsa sarà confermata per i successivi due anni di corso agli studenti in regola con gli esami, che abbiano ottenuto una media non inferiore a 27/30.

La retta annua base è pubblicata sul sito di Sigmund Freud University, sede di Milano, vedi: Calcolo della retta annua e modalità di pagamento.

Requisiti per la partecipazione

Saranno considerati idonei al presente concorso i candidati in possesso dei seguenti requisiti:

  • diploma di istruzione secondaria superiore quinquennale (o quadriennale con un anno integrativo) conseguito nell’anno scolastico 2014/2015.
  • attestato di reddito annuo famigliare inferiore a 70.000 Euro (l’attestato di riferimento è il certificato ISEE – Indicatore della Situazione Economica Equivalente- rilasciato da INPS. Altri documenti o modalità di attestazione del reddito saranno sottoposti alla valutazione insindacabile della Direzione)
  • esito positivo del colloquio di ammissione al primo anno del Corso di Laurea Triennale in Psicologia nell’a.a. 2015/2016

Graduatoria

La graduatoria è formata in base al voto del diploma di scuola superiore, espresso in centesimi. In caso di parità la precedenza in graduatoria sarà data al reddito inferiore.

Assegnazione delle Borse di Studio

Entreranno nella graduatoria gli studenti che ne faranno richiesta in occasione del colloquio di ammissione entro il 10 Settembre 2015.

La graduatoria sarà pubblicata il 15 Settembre sul sito online di Sigmund Freud University Milano e le borse saranno così assegnate:

  • lo studente classificato al primo posto in graduatoria avrà diritto all’esonero totale dalla retta annua base.
  • gli studenti classificati al secondo e al terzo posto avranno diritto all’esonero dal 50% della retta annua base.
  • gli studenti classificati al quarto e al quinto posto avranno diritto all’esonero dal 30% della retta annua base.

Le borse saranno confermate ai vincitori al momento dell’iscrizione che deve avvenire entro il 30 settembre 2015.

La graduatoria sarà nuovamente pubblicata il 1° Ottobre con l’esclusione dei nomi degli aventi diritto che a quella data non avranno completato l’iscrizione. La nuova graduatoria indicherà l’assegnazione definitiva delle borse a quanti, tra gli aventi diritto, avranno completato l’iscrizione.

Se, per effetto delle mancate iscrizioni degli aventi diritto, lo studente classificato entro i primi cinque nella prima graduatoria si troverà nella nuova in una posizione che comporta un esonero più consistente rispetto a quello della prima, avrà diritto all’esonero corrispondente a quest’ultima. L’eventuale differenza rispetto alla rata di iscrizione sarà rimborsata.

Agli studenti esclusi dall’ esonero nella prima graduatoria e che, per effetto della mancata iscrizione di alcuni degli aventi diritto, rientreranno nei primi 5 posti della nuova graduatoria, saranno assegnati gli esoneri corrispondenti alla nuova posizione raggiunta e potranno usufruirne completando l’iscrizione entro il 15 Ottobre.

Rinnovo delle Borse negli anni successivi

La borsa ottenuta per l’a.a. 2015/2016 potrà essere confermata per i successivi due anni di corso a condizione che lo studente sia in regola con gli esami previsti dal piano di studi entro la sessione autunnale corrispondente al suo anno di corso e abbia conseguito una votazione media ponderata non inferiore a 27/30.

Per saperne di più visualizza il sito internet della Sigmund Freud University.

 

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ADHD: un fattore di rischio per l’obesità

FLASH NEWS

L’ADHD potrebbe essere un fattore di rischio per l’obesità. È quanto sostiene uno studio recentemente pubblicato sul Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry che evidenzia il legame tra l’essere meno propensi a impegnarsi in attività fisiche da bambini e la maggiore probabilità di diventare obesi in adolescenza.

Un’affermazione di questo tipo potrebbe sembrare contraddittoria visto che, nell’immaginario collettivo, il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD) è associato all’idea di un bambino sempre in movimento, irrequieto mentre l’obesità è legata alla pigrizia e all’immobilità. Eppure Alina Rodriguez e i suoi colleghi hanno seguito 6500 bambini tra gli 8 e i 16 anni e hanno osservato che il 9% di coloro che mostravano sintomi di ADHD avevano anche una maggiore tendenza a diventare adolescenti indolenti e obesi.

Perché proprio gli iperattivi sono meno inclini all’esercizio? Secondo l’autrice dello studio i bambini con ADHD sono più “agitati” (squirmy) che vivaci quindi fanno fatica a concentrarsi e a regolare il proprio comportamento o controllare gli impulsi in funzione degli obiettivi da raggiungere, del tempo a disposizione o delle richieste esterne, è dunque per loro difficile impegnarsi con costanza nello sport e passano più tempo degli altri bambini a guardare la televisione riducendo così ulteriormente il movimento.

Ovviamente non è intento degli autori indicare questa come la causa diretta dell’obesità, ma è importante sottolineare quanto fondamentale sia l’esercizio e la pratica di un’attività costante durante l’infanzia e dunque a scuola, in un ottica non solo di prevenzione ma anche di educazione alla cura della salute fisica e mentale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Premio Internazionale per Ricerche su Trauma e Disturbi della Personalità: il premio per i giovani ricercatori

Istituto di Scienze Cognitive

Premio Internazionale per Ricerche su Trauma e Disturbi della Personalità

 

In occasione del Secondo Congresso su Attaccamento e Trauma che si terrà al Teatro Brancaccio di Roma il 25, 26 e 27 settembre 2015, l’Istituto di Scienze Cognitive Isc, ha istituito un Premio internazionale per il migliore giovane ricercatore nell’ambito del Trauma e dei Disturbi della Personalità.

Il premio consiste nell’assegnazione di un fondo di 10.000 euro destinato a finanziare lo sviluppo delle attività di ricerca del vincitore. Un Comitato scientifico presieduto dallo psichiatra Antonio Onofri e composto da nomi illustri nell’ambito della psicoterapia e delle neuroscienze selezionerà i lavori per arrivare all’assegnazione entro il 5 settembre.

La ricerca prescelta verrà poi presentata al pubblico il 25 settembre, prima giornata del Congresso al Teatro Brancaccio.

Dice Alessandro Carmelita, presidente dell’Istituto di Scienze Cognitive che organizza il secondo Congresso su Attaccamento e Trauma:

Con questo Premio vogliamo stimolare i giovani psicoterapeuti a sviluppare percorsi di ricerca/terapia sempre più originali e innovativi capaci di rispondere alla complessità delle patologie che derivano dai traumi e dai disturbi dell’attaccamento. L’ iniziativa dell’ISC vuole essere coerente con la sua attività di promozione del confronto internazionale e della dialettica tra nuovi approcci psicoterapeutici.

 

Per candidarsi al Premio sono richiesti i seguenti requisiti:

  • avere non più di 40 anni compiuti (in caso di parità, il premio sarà assegnato al ricercatore più giovane);
  • avere pubblicato come primo nome almeno i dati preliminari di una ricerca riguardante l’area del trauma, dell’attaccamento e/o della personalità (si considera come pubblicazione anche un lavoro presentato e accettato da una rivista, con lettera comprovante l’impegno della rivista alla prossima pubblicazione);
  • tra i nomi della ricerca pubblicata non dovranno comparire le personalità facenti parte del Comitato Scientifico che assegnerà il premio.

 

La ricerca sarà valutata in base ai seguenti criteri:

  • correttezza metodologica dello studio;
  • significatività dei risultati;
  • originalità dell’indagine;
  • aderenza al tema dell’attaccamento, del trauma e/o della personalità;
  • rilevanza dei dati presentati per la ricerca futura e/o per le implicazioni cliniche.

I partecipanti dovranno far pervenire, attraverso raccomandata con ricevuta di ritorno, i propri elaborati alla segreteria dell’ISC, in via Carlo Felice 5, 07100, Sassari oppure via posta certificata all’indirizzo: [email protected], entro e non oltre il 10 luglio 2015. Entro il 10 settembre il Comitato scientifico renderà noto il vincitore.

 

Del Comitato Scientifico fanno parte:

Arnoud Arntz, Pat Ogden, Allan Schore, Kathy Steele, Stephen Porges, Russel Meares, Isabel Fernandez, Antonio Onofri (Presidente), Giovanni Liotti, Eckhard Roediger, Stephen Doering, Giancarlo Dimaggio, Daniel Siegel, Peter Fonagy, Edward Tronick, Fabio Veglia, Alessandro Carmelita

Per maggiori informazioni clicca qui

DALL’ARCHIVIO: CONGRESSO ATTACCAMENTO E TRAUMA 2014

 

Sigmund Freud University MIlano - Corso di Laurea in Psicologia

 

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Clinical Neuropsychiatry Award: premio in palio per il miglior contributo di ricerca alla pratica clinica psichiatrica

Clinical Neuropsychiatry

Clinical Neuropsychiatry Award

 

Il Premio Internazionale dell’importo di 2000 Euro, messo in palio dalla Giovanni Fioriti Editore, verrà assegnato all’autore dell’articolo che abbia dato il più importante contributo alla pratica clinica psichiatrica. 

Gli articoli da segnalare devono essere stati pubblicati nel periodo dal 1° Novembre 2014 al 31 Maggio 2015 su Journal of Clinical Neuropsychiatry.

Per maggiori informazioni consultare il sito internet www.clinicalneuropsychiatry.org

La locandina del Premio:

 

Sigmund Freud University MIlano - Corso di Laurea in Psicologia

Neuroscienze:
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Dopo il disastro aereo Germanwings: Aerofobia e Depressione

Il suicidio di Lubitz è una perversa protesta finale contro la vita, un modo di imporre al mondo la propria sofferenza che non è un congedo dalla vita.

 

Già ci hanno pensato sulle pagine de Il Post a chiarire che dare del “depresso” a Andreas Lubitz non ci aiuta a capire quel che è successo. Noi nella disgrazia del volo Germanwings vediamo piuttosto una grande perdita di controllo, non solo pratico, ma soprattutto emotivo. Un intervento che si fa spesso con chi ha la fobia degli aerei e del volo (aerofobia o aviofobia) con chi ci chiede un trattamento perché da anni non riesce più a prendere l’areo, è far notare come, in termini di sicurezza, l’aereo sia il mezzo di trasporto più sicuro. Viaggiare in auto è dalle quattro alle dodici volte più pericoloso, e un passeggero dovrebbe effettuare una media di circa 5,3 milioni di voli prima di imbattersi in un incidente (International Air Transport Association).  

Questo intervento razionalizzante ha senso a inizio terapia per familiarizzare con il cliente e iniziare a normalizzare l’ansia, ma raramente è questo l’intervento decisivo. La valutazione razionale dei rischi certamente aiuta. Il lato emotivo del problema però è un altro paio di maniche.

Sarà il distacco da terra, la situazione di clausura e di completo affidamento a degli estranei, il personale di volo. Chi soffre di aerofobia va incontro a due situazioni ansiose: il timore dei giorni precedenti il volo, o anche dei mesi precedenti, dalla decisione iniziale di volare ai giorni immediatamente precedenti. Oppure uno stato di ansia acuta durante il volo, legato alla sensazione di costrizione.

Il primo caso appartiene per lo più a un quadro di disturbo di ansia generalizzato o di agorafobia, il secondo a un disturbo di panico. Nel primo caso si ha più una focalizzazione cognitiva del pensiero sul timore di volare, nel secondo uno spavento acuto con forti aspetti fisiologici: battito cardiaco, sudorazione, tremore, perdita di sensi.

Il trattamento è più sulla gestione degli stati emotivi che sull’analisi razionale dei rischi. L’esposizione al volo, sia virtuale che poi concreta, è un momento fondamentale della terapia. L’esposizione virtuale può essere effettuata sia verbalmente dal terapista, sia utilizzando software con simulatori di volo e videogiochi. Si tratta di apprendere a gestire la sensazione di perdita di controllo e di allentamento dall’ambiente normale e sicuro (Triscari e Van Gerwen, 2011).

Tornando a Lubitz, su di lui si possono fare tutte le ipotesi psicologiche. La depressione non è sufficiente a comprendere un atto che ha coinvolto altre 149 persone, rendendole vittime del suo malessere. Per quanto in ogni suicidio ci sia un aspetto dimostrativo, il suicidio depressivo è un atto di definitivo congedo dalla vita, di definitivo nascondimento.

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Il suicidio di Lubitz, invece, è una perversa protesta finale contro la vita, un modo di imporre al mondo la propria sofferenza che non è un congedo dalla vita. Possiamo immaginare una personalità narcisista dietro l’estremo desiderio di lasciare dietro di sé una traccia così forte. O anche una personalità paranoidea, una tendenza a sentirsi perseguitato, osservato e deriso, che ha generato questa protesta finale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

I Disturbi del Comportamento Alimentare: Report dal congresso SOPSI 2015, Milano

Speciale SOPSI 2015

Report dal Corso ECM precongressuale:

I disordini del Comportamento Alimentare: aspetti psicopatologici e clinici specifici e aspecifici

 

Difficile, ancora, parlare di guarigione e il criterio di remissione più importante rimane il recupero del peso, ma non può essere l’unico dato, come conferma l’esperienza clinica. Il miglioramento deve essere anche funzionale: cognitivo, relazionale e sociale. Difficile anche parlare di dimissione e sospensione della terapia.

La psiconeuroendocrinologa F. Brambilla ha moderato il corso sui DCA che si è svolto la prima giornata del 19esimo Congresso della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI) tenutosi a Milano.

Le esposizioni hanno avuto come filo conduttore i fattori specifici e aspecifici che intervengono durante l’esordio, il decorso, il mantenimento e nella remissione dei Disturbi del Comportamento Alimentare, in un’ottica psicopatologica, neurobiologica, medica, cognitiva e terapeutica. A chiusura una review su un Disturbo Alimentare di cui si conosce ancora poco: l’Anoressia Riversa o Bigoressia.

G. Abbate – Daga, “La psicopatologia dei disordini del comportamento alimentare in relazione alle psicopatologie maggiori”.

Il rapporto tra DCA e psicopatologie è un rapporto complesso, influenzato dalla storia clinica del paziente, dal livello di malnutrizione e dal decorso. Dalla letteratura emergono dati preoccupanti: i sintomi precipitanti la diagnosi di DA sembrerebbero essere l’iperattività, l’abuso di diuretici e lassativi, la ritualizzazione dei comportamenti e il purging estremo. La qualità di vita in questa popolazione sarebbe compromessa al pari di quella di pazienti con patologie cardiovascolari e addirittura peggiore rispetto ai pazienti psicotici.

Non stupisce invece che i disturbi psicopatologici più significativamente rappresentati siano i disturbi dell’umore, seguiti da quelli di ansia. Considerati i diversi fattori coinvolti è difficile stabilire se gli aspetti psicopatologici che affiancano il DA siano un danno della malattia o la radice del disturbo. La ricerca non offre ancora certezze: a seconda degli studi, precederebbero l’esordio del DA dal 25 al 71% dei casi.

Tratti personologici del cluster B e C del DSM IV-TR inoltre, affiancano spesso i sintomi psicopatologi e in alcuni casi le convinzioni su cibo e forma corporea possono assumere carattere delirante. L’alta comorbilità ha serie implicazioni nel decorso e nell’esito dei DA: favorisce lo switch della diagnosi dal continuum restrittivo a quello del discontrollo degli impulsi, i sintomi psicopatologici non rispondono efficacemente ai farmaci d’elezione e spesso permangono anche dopo la remissione della sintomatologia alimentare, infine vi è una correlazione più alta col rischio suicidario. Ne consegue l’importanza di una valutazione che sia attenta alla gerarchia dei sintomi, in modo da far seguire un trattamento che integri i diversi modelli di intervento.

A. Tortorella, “Aspetti neurobiologici specifici e aspecifici dei DCA”.

La ricerca scientifica non ha ancora trovato evidenze definitive che confermino l’associazione tra determinati geni e DCA, tuttavia, sembra che i geni del recettore 5-HT2A e del fattore neurotrofico di derivazione cerebrale (BDNF) siano implicati nel determinismo della vulnerabilità biologica ereditaria dell’Anoressia Nervosa. Questi polimorfismi portebbero a un’iperstimolazione del meccanismo che riduce il senso di sazietà. I modulatori dei meccanismi genetici, inoltre, influirebbero anche sui livelli di ansia, sull’umore, sul comportamento impulsivo e sui processi cognitivi.

Dalle ricerche che utilizzano il Brain Imaging, sono emerse differenze funzionali a livello dei circuiti dopaminergici e serotoninergici, dovute ad alterazioni in differenti zone cerebrali, come la corteccia frontale, l’insula, l’amigdala e il nucleo striato. Rimane difficile, se non impossibile stabilire se queste alterazioni, per esempio quella evidenziata a carico del circuito della ricompensa nell’AN, siano una conseguenza del disturbo o se siano legati a fattori che precedono l’esordio, come ad esempio la malnutrizione, perchè l’espressione genetica è ambiente dipendente. Per quanto numerosi, i risultati attualmente non sono omogenei per una serie di criticità: la numerosità dei campioni, l’eterogeneità clinica delle diagnosi, le differenze metodologiche alla base delle ricerche, gli studi ormai datati, perchè mai replicati o ampliati.

F. Brambilla, “Complicanze organiche nei DCA”

Le alterazioni fisiche nei DA non influiscono solo sui parametri vitali, ma anche sulla strutturazione del pensiero, come illustrerà la dr.ssa Favaro nel suo intervento. Per questo è fondamentale intervenire sul sottopeso e la malnutrizione prima di poter intervenire con un intervento psicoterapeutico. I danni possono essere conseguenti alla malnutrizione sia quantitativa, che qualitativa: mentre le AN eliminano i cibi “ingrassanti”, BN e BED tendono a scegliere cibi che piacciano, piuttosto che cibi nutritivi. I danni organici possono essere anche una conseguenza dei comportamenti compensatori, che portano ad una compromissione nelle pazienti AN di tutti i sistemi, nelle BN più compromessi risultano il sistema elettrolitico, renale, cardiaco, gastoesofageo, dentale e polmonare. Nel BED, che a partire dal DSM 5 è entrato a far parte dei DA, i danni sono invece correlati all’obesità: diabete, patologie cardiovascolari, osteoartrosi, colelitiasi, insufficienza respiratorie e malattie neoplastiche. Più è precoce l’esordio, più frequenti sono le complicanze mediche. La mortalità è del 15-18%, nelle AN.

C. Segura Garcia, “Aspetti terapeutici specifici e aspecifici dei DCA”.

Le linee guida attualmente non offrono indicazioni su una terapia elettiva nel trattamento dei DCA. Il gold standard rimane l’integrazione di un intervento individuale associato alla possibilità di confronto di gruppo e a un intervento sulla famiglia, specie se l’età dei soggetti è giovane. Tra quelle utilizzate, si sono dimostrate più indicate la terapia cognitivo – comportamentale, la terapia interpersonale, quelle di stampo psicoanalitico e la terapia familiare.

Gli studi presenti in letteratura risentono comunque di varie criticità come la scarsità di studi randomizzati, la numerosità dei campioni, la durata delle terapia, i follow up e l’identificazione di criteri specifici della guarigione.
La terapia deve articolarsi su diversi livelli di trattamento a seconda della fase di malattia, della diagnosi e dell’età del soggetto, a partire dalla scelta del setting, forse l’aspetto più specifico nel trattamento dei DCA. La gestione ambulatoriale si è dimostrato il setting migliore dal punto di vista costo efficacia rispetto a quella ospedaliera, che però si rende necessaria in caso di frequenti condotte di abbuffate con purging, complicanze organiche o presenza di un ambiente sociale sfavorevole. Il ricovero (fino a 90 giorni) sembra essere più efficace all’esordio del DA, ma bisogna motivare adeguatamente il paziente ad affrontare questo tipo di percorso, dalle statistiche sui TSO si evidenzia, infatti, una risposta al trattamento peggiore nei due anni successivi. Il dato non stupisce: i soggetti risultano più gravi dal punto di vista psichiatrico, più complessi per un’elevata comorbilità con altri disturbi, hanno una rete sociale più povera e un maggiore tasso di mortalità a 5 anni dalla dimissione. Alla degenza è importante far seguire appuntamenti in regime di Day Hospital per mantenere una continuità terapeutica.

E’ di primaria importanza stabilizzare le pazienti AN con una terapia nutrizionale mirata, da somministrarsi, a seconda della necessità, attraverso pasti sorvegliati, integratori orali, sondino nasogastrico o nutrizione parenterale, che preveda un aumento graduale delle calorie, a cui affiancare terapie mediche specifiche per le complicazioni organiche a carico dei diversi sistemi. Un fattore aspecifico è sicuramente la terapia psicofarmacologica sui sintomi che precedono l’esordio del DCA. I farmaci impiegati sono gli SSRI, citalopram, fluoxetina e stabilizzanti dell’umore.

La psicoterapia rappresenta un altro intervento fondamentale per la cura dei DCA. Ogni intervento deve essere personalizzato, in considerazione della gravità clinica e delle caratteristiche personologiche. E’ necessario inoltre affiancare all’intervento individuale, una terapia gruppale, sia espressiva, che supportiva e il coinvolgimento dei familiari nel percorso terapeutico.

La dr.ssa Segura cita le tecniche più recenti impiegate nel trattamento dei DCA, buoni risultati sta ottenendo la Cognitive Remedation Therapy, volta al potenziamento di funzioni neurocognitive come: attenzione, memoria di lavoro, flessibilità cognitiva, pianificazione e delle funzioni esecutive connesse al funzionamento sociale, che nei DCA vanno incontro a compromissione.  Questo tipo di terapia viene impiegata con buoni risultati in soggetti con lesioni cerebrali e schizofrenici. E’ mportante anche la prevenzione primaria con interventi mirati su adolescenti che promuovano l’autostima, a partire dai 15 anni di età e che coinvolgano i soggetti in maniera interattiva.

A. Favaro, “Brain Imaging e funzioni cognitive nelle pazienti Anoressiche”.

Le funzioni cognitive nell’AN sono rigide e alterate, probabilmente a causa dello stato di malnutrizione, connesso all’atrofia cerebrale, in particolare della sostanza bianca. Le alterazioni sono numerose: vi è una difficoltà a disimparare qualcosa di imparato (reversal learning). E’ presente un deficit di coerenza centrale ovvero un’incapacità di pensare al globale, per una fissazione sul dettaglio. La memoria visiva è povera. Le capacità decisionali sono scarse, in particolare queste pazienti prediligerebbero la scelta di soluzioni che portano a ricompense nel breve termine, piuttosto che utilizzare strategie per ottenere un vantaggio maggiore a lungo termine. Le soluzioni al problema sono caratterizzate da perseveranza, non permettono quindi una curva di apprendimento.

Anche il ritiro sociale e le difficoltà relazioni sono aspetti connessi all’alterazione dei processi funzionali adattativi: non terrebbero conto, infatti, del contesto esterno, ma si baserebbero solo sul contesto interno, motivo per il quale è difficile arrivare a una ristrutturazione cognitiva in terapia. Vi è una carenza di empatia, determinata dalla malnutrizione, che porta a uno stile di pensiero top-down e una disfunzione libica significativa, anche se i risultati delle ricerche sono discordanti su quest’ultimo dato, che comunque rimane poco indagato. L’unico fattore ad essersi dimostrato predittivo rispetto al decorso dell’AN sarebbe quello della flessibilità cognitiva: ovvero la capacità di ristrutturare spontaneamente le proprie conoscenze in modo da adattarsi all’ambiente.

Per quanto alcune di queste funzioni, tendano a  migliorare con l’aumentare del peso, altre invece sembrerebbero essere indipendenti nell’AN e rimarrebbero compromesse, per un miglioramento bisogna utilizzare tecniche specifiche, come la già citata Remediation Therapy, che permette di modificare la metacognizione e migliorare la risposta al trattamento.

S. Bertelli, “I disordini del comportamento alimentare nel sesso maschile”

L’AN maschile, conosciuta anche come Anoressia Riversa o Bigoressia è un disturbo la cui prevalenza è in aumento. Fino al DSM IV-TR l’83 % di diagnosi di AN maschile ricadeva nella categoria NAS, nel nuovo manuale è stata fatta rientrare nella categoria “Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo” insieme al disturbo dell’Ortoressia.

I criteri indicati nel DSM V per il Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo sono i seguenti:

A. Una anomalia dell’alimentazione e della nutrizione (ad es. assenza di interesse per l’alimentazione o per il cibo; evitamento basato sulle caratteristiche sensoriali del cibo) che si manifesta attraverso una persistente incapacità di assumere un adeguato apporto nutrizionale e/o energetico associata con una o più delle seguenti:

1) Significativa perdita di peso o nei bambini incapacità a raggiungere il peso relativo alla crescita.

2) Significativa carenza nutrizionale

3) Dipendenza dalla nutrizione enterale o da supplementi nutrizionali orali.

4) Marcata interferenza col funzionamento psicosociale.

B. Il disturbo non è connesso con la mancanza di cibo o associato a pratiche culturali.

C. Il disturbo non si manifesta esclusivamente nel corso di anoressia o bulimia nervosa e non vi è evidenza di anomalia nel modo in cui è percepito il peso e la forma del proprio corpo.

D. L’anomalia non è meglio attribuibile a una condizione medica o ad un altro disturbo mentale. Se il disturbo alimentare si manifesta nel corso di un altro disturbo, la sua importanza supera quella del disturbo di base e richiede attenzione clinica.

A cui si aggiungono i criteri specifici per l’Anoressia Riversa:

– Autopercezione di gracilità, eminentemente maschile.

– Comportamento alimentare alterato.

– Abuso di integratori, anabolizzanti e diete iperproteiche.

– Esercizio fisico compulsivo.

L’esperienza clinica è su questo disturbo ancora scarsa, i soggetti non arrivano nei centri specializzati, forse a causa del doppio stigma: soffrire di un disturbo psichiatrico considerato femminile oppure per maggiore accettazione sociale. Dalla letteratura è emerso un aumento, negli ultimi anni, del 10%, di problemi legati alla nutrizione in bambini e adolescenti maschi. Rispetto alle femmine non sembra preponderante l’alterazione dell’immagine corporea o la ricerca della magrezza, quanto il desiderio di un corpo delineato e muscoloso e una riduzione della massa grassa. Ne deriverebbe un’alimentazione più selettività, che restrittiva o il digiuno.

L’insoddisfazione corporea si tradurrebbe in un attività sportiva intensa. I DCA differiscono tra uomini e donne anche per fattori di rischio, presentazione clinica e comorbilitá. Sui fattori causali, nell’esordio maschile, peserebbero maggiormente l’influenzamento da parte dei mass media e le esperienze di derisione.

Altri fattori di rischio nei maschi sarebbero parametri biologici come altezza, peso e pubertà. Il BMI ideale all’esordio sarebbe più basso. Vi sarebbero meno sintomi somatici, DOC e ansia, ma maggiori livelli di depressione e livelli di autostima più bassi. Tra le caratteristiche personologiche: alti punteggi nella Novelty Seeking e punteggi più bassi in Harm Avoidance, Reward Dependance e Cooperativeness. Sull’esordio potrebbe pesare anche un evento traumatico: nei veterani e persone con PTSD vi è, infatti, un’incidenza maggiore di DCA.

Anche se non è stata riscontrata nessuna differenza sui metodi di compensazione, la gravità clinica sarebbe maggiore, i dati sulla mortalità sembrerebbero comunque sovrapponibili. Studi recenti ipotizzano che uno dei fattori coinvolti potrebbe essere l’orientamento omosessuale o una difficoltà di orientamento sessuale, con una prevalenza che andrebbe dal 15 al 50% dei casi, ma il dato non è stato confermato in tutti gli studi. In misura maggiore rispetto al campione femminile ne risulterebbe negli uomini un calo di prestazione sessuale (anche autoerotica), che potrebbe essere però  legata all’uso di sostanze steroidee e anabolizzanti.

L’aumento della prevalenza del disturbo alimentare nel sesso maschile ha portato non solo a nuove categorie diagnostiche, ma anche alla necessità di codificare nuovi strumenti, visto che quelli attuali sono tarati sulla popolazione femminile. E’ del 2012 il primo strumento per porre la diagnosi nei maschi: l’Eating Disorder Assessment for Men EDAM; Stanford SC, Lamberg R.

Dal corso emerge una concordanza nel riconfermare la difficoltà e la complessità di cura di questi pazienti, che non rispondono adeguatamente ai farmaci, ma bisognano di un trattamento integrato che in contemporanea agisca sulla sintomatologia psicopatologica e sulla malnutrizione.

Difficile, ancora, parlare di guarigione e il criterio di remissione più importante rimane il recupero del peso, ma non può essere l’unico dato, come conferma l’esperienza clinica. Il miglioramento deve essere anche funzionale: cognitivo, relazionale e sociale. Difficile anche parlare di dimissione e sospensione della terapia. La prof. Brambilla conclude i lavori ricordando alla sala che la cura dei Disturbi della Condotta Alimentare richiede molta energia, molta passione e una grande tolleranza alla frustrazione.

 

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I disordini del comportamento alimentare nelle diverse età della vita – SOPSI 2014

Adolescenza, emozioni e competenze per la vita: Life Skills

Se è vero che le life skills sono competenze necessarie ed essenziali durante tutto il ciclo di vita, è anche vero che è soprattutto in adolescenza, periodo di enorme crescita globale dell’individuo e ricerca di senso oltre che di Sé, che queste competenze hanno bisogno di essere monitorate dagli adulti, implementate e valorizzate.

Quante volte sentiamo insegnanti e genitori dire ai propri alunni o ai propri figli Pensa con la tua testa! o anche Ragiona di prima di agire! oppure Mettici un po’ di immaginazione, un po’ di fantasia in quello che scrivi!

In quel caso, gli adulti stanno chiedendo agli adolescenti di attivare alcune delle loro life skills: competenze ampie, complesse, trasversali, che coinvolgono le emozioni, il ragionamento logico ed astratto, le capacità di analisi e di presa di decisone. Si tratta infatti di competenze di vita, in quanto favoriscono durante tutto l’arco di vita l’adattamento delle persone al proprio contesto socio-culturale (cfr. Skills for health: An important entry-point for health promoting/child-friendly schools, OMS, 2004).

Sono passati quasi 20 anni da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato Life skills education for children and adolescents in school (OMS, 1997) ma le life skills rimangono un elemento fondamentale di buona parte degli interventi psicopedagogici rivolti agli adolescenti dentro e fuori alle mura scolastiche.

Se è vero che le life skills sono competenze necessarie ed essenziali durante tutto il ciclo di vita, è anche vero che è soprattutto in adolescenza, periodo di enorme crescita globale dell’individuo e ricerca di senso oltre che di Sé, che queste competenze hanno bisogno di essere monitorate dagli adulti, implementate e valorizzate.

Le Life skills investono prima di tutto l’ambito emotivo: consapevolezza di sè, gestione delle emozioni e gestione dello stress sono quelle competenze che consentono all’individuo di avere coscienza dei propri stati emotivi, dei propri vissuti interiori e dei propri pensieri, favorendo la capacità di mettere in atto strategie, interne o esterne, di conseguente regolazione dei propri comportamenti e azioni.

In adolescenza, alcune emozioni complesse vengono sperimentate per la prima volta mentre altre esperienze emotive, già conosciute nelle precedenti fasi di sviluppo, si colorano di nuove sfumature: basti pensare all’enorme, spesso spropositato, investimento emotivo ed affettivo rivolto al mondo dei pari, non più compagni di gioco ma compagni di vita, ricercati come specchi della propria immagine, desiderati per riempire buchi di autostima, temuti come giudici di popolarità. L’adolescenza è anche l’età dell’ambivalenza emotiva; mai come in questa fase della vita gli affetti sono polarizzati, quasi manichei (Palmonari, 2001), e coesistenti nel qui ed ora.

I labirinti dell’universo affettivo e la fluidità con cui le emozioni si trasformano anche in breve tempo, rendono gli adolescenti meno preparati alla gestione efficace di questa complessità e quindi più bisognosi di strumenti per riconoscere e comunicare le emozioni.

Spesso la prima difficoltà riguarda proprio il lessico emotivo, in quanto gli adolescenti confondono agitazione con ansia oppure la tristezza con la preoccupazione (Goleman, 1995; Nussbaum, 2004). Nel narrare episodi conflittuali tra pari, gli adolescenti spesso descrivono con parole simili a queste la conclusione dei fatti: Era molto arrabbiato con me, e io con lui, quindi, forse, non siamo più amici. E’ chiaro da queste semplici parole, la facilità con cui gli adolescenti confondono l’emozione contingente a un evento specifico e limitato nel tempo, la rabbia, con l’annullamento o la compromissione di un affetto più profondo e quindi più duraturo, come l’amicizia.

Vissuti emotivi passeggeri ma profondi possono generare confusione, in un circolo vizioso di emozioni, pensieri negativi e comportamenti a rischio messi in atto come tentativo di controllo della situazione; Lewinsohn e collaboratori (1998) hanno stimato che circa il 28% degli adolescenti americani sotto i 19 anni ha sperimentato almeno un episodio di depressione maggiore, con aumento del rischio di comportamenti autolesivi, violenti o suicidari.

Gli ultimi 15 anni di ricerca empirica sui risultati ottenuti dai programmi di prevenzione life skills-based hanno dimostrato la validità a breve e medio tempo di tali programmi in diversi ambiti di intervento con gli adolescenti: dalla prevenzione dell’uso di tabacco, alcol e sostanze psicotrope alla prevenzione del bullismo, all’implementazione delle competenze scolastiche e della motivazione allo studio (Botvin & Griffn, 2004; Unicef, 2012)

Aiutare gli adolescenti a leggere e comprendere le sfumature del mondo emotivo, così come a distinguere emozioni transitorie da affetti consolidati, significa allenarli a una migliore coscienza del proprio mondo interiore, alla tolleranza emotiva e alla resistenza allo stress (Marmocchi, Dall’Aglio & Zannini, 2004), competenze trasversali, adattive e quindi utili in tutto l’arco di vita.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La profezia che si auto-avvera – Introduzione alla Psicologia Nr.09

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (09)

 

 

Si chiama self fulfilling prophecy, meglio nota come profezia che si auto-avvera, o che si auto-adempie, insomma, è una sorta di magia fattibile da tutti e attuabile con una serie azioni che portano inevitabilmente a farla avverare.

 

Come fare? Ecco le istruzioni: provate a pensare a un qualcosa che volente non si verifichi in questo momento, continuate a pensare a questa cosa concentrandovi esclusivamente su essa, poi lasciatevi invadere dall’emozione che possa realmente verificarsi, quando l’ansia sale provate a cercate una soluzione. Ben presto sarete consci che si sta attuando proprio quale comportamento insensato che determina il compiersi della profezia.

La profezia che si auto-avvera è uno dei fenomeni più noti e più studiati in psicologia sociale. Il sociologo Merton ne parlò per la prima volta negli anni ‘70, ed è stata anche riprodotta sperimentalmente a dimostrazione dell’influenza che esercitano le convinzioni sulla costruzione della realtà. Infatti, pensiamo agli effetti dell’ipnosi sulla comunicazione di massa o all’effetto placebo, succede che chi subisce questo comportamento ottiene esattamente quello che vorrebbe si verificasse, a conferma della grande potenza della suggestionabilità umana.

In sostanza, le profezie auto-avveranti incidono significativamente sulla visione che gli individui hanno di loro stessi, del loro modo di apparire con gli altri e con il mondo. Per questo si creano schemi stabili, rigidi, di comportamento che ovviamente si ripeteranno nel tempo confermando la propria visione delle cose.

Ad esempio:

  • La Sig.ra X pensa che prima o poi il suo matrimonio finirà. Quindi si comporta come se fosse già finito, e così lo fa effettivamente finire perché mette in atto una serie di comportamenti che portano alla lite e generano discordia al punto da mettere una reale fine allo stesso.
  • Il Sig. Y si convince di non essere in grado di passare un esame. Studia, ma al momento dell’esame è così agitato che non riesce a rispondere neanche alle domande più facili, e chiaramente non supera l’esame.

Lo stesso meccanismo funziona anche con i gruppi e le collettività. A esempio qualche mese fa i media comunicarono che i titoli di stato non avevano più la stessa rendita di un tempo e la gente si affrettò a vendere quello che aveva. A quel punto non valevano realmente più nulla.

La profezia che si auto-avvera, però, funziona anche in senso positivo. Per esempio, con i sondaggi preelettorali: si dà per vincente o in crescita un partito, questo fatto incoraggia alla preferenza e i voti crescono fino a poter raggiungere la vetta della vittoria.

Funziona anche nella scuola: i docenti utilizzano comportamenti più funzionali nei confronti di studenti promettenti che seguiranno con maggiore enfasi e il risultato sarà riuscire a ottenere migliori rendimenti in seguito a una maggiore autostima sviluppata.

La profezia che si auto-avvera ricorre spesso nel nostro immaginario: dalla leggenda di Edipo al Macbeth di Shakespeare tutte storie dall’esito già annunciato. Ma sono situazioni che si presentano spesso, infatti, a tutti è capitato di percepire una situazione come problematica e di mettere in atto comportamenti che portavano esattamente alla conferma della pericolosità della situazione.

Insomma, le definizioni di una situazione e i comportamenti attuati, fanno parte della situazione stessa che ci sta spaventando e può portare all’epilogo famigerato. Infatti, quelli che a noi sembrano solo conseguenza sono, in realtà, le cause che permettono di far percepire noi stessi come responsabili nel momento in cui continuiamo a evocare i comportamenti dannosi che porteranno alla concretizzazione della paura.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Come ansia e senso di colpa influenzano la tua lista delle cose da fare

FLASH NEWS

La chiave per raggiungere con successo gli obiettivi della nostra lista di cose da fare, risiede nell’essere consapevoli dell’energia che possiamo investire per ciascuno dei nostri progetti, grandi o piccoli che siano. Dobbiamo concedere tanta attenzione ad ogni progetto, senza sensi di colpa o rimorso.

Avete un elenco delle cose da fare? La vostra lista sembra non finire? A tutti sarà successo almeno una volta di aver appuntato una serie di cose da fare come “mandare mail”, “comprare gli ingredienti per l’insalata” che poi finiscono a far parte della lista di domani. Siamo sicuri che il non aver adempiuto le attività prefissate e il rimandarle siano dati dalla mancanza di tempo? Potremmo aver pensato anche che il tempo di un giorno è troppo poco.

Uno studio pubblicato sul Journal of Marketing Research, dà notizie incoraggianti per coloro che come noi sentono di non aver fatto proprio tutto come ci si era promessi.

Gli autori sostengono che non è la mancanza di tempo che non consente di fare tutto ma una sorta di riequilibrio emotivo. Nello specifico se si scomponessero  tutti gli item segnati nella lista di cose da fare in minuti o ore, probabilmente si troverebbe che, in termini di durata, si potrebbe fare tutto in questa settimana.

Potrebbe per esempio accadere che in quei 45 minuti rimandi  lo yoga a domani sera, quindi hai intenzione di stare a casa perché ti senti emotivamente vuoto, o peggio, oppure ti senti in colpa perché potresti usare quel tempo a scrivere e mandare  il tuo c v. o peggio che i soldi che stai spendendo in lezioni di yoga potrebbero essere più utili per comprare nuove tende per la stanza dei tuoi bambini?

Secondo gli autori, è nelle situazioni come queste in cui sei emotivamente in conflitto che l’ansia prende il sopravvento facendoti credere di non avere tempo necessario per fare tutto.

Alcune emozioni, in particolare provare sensi di colpa per il modo in cui spendiamo il nostro tempo o provare paura per un eventuale perdita di denaro, generano uno stress tale da far sentire la pressione del tempo più di quanto effettivamente sia. Questa pressione per il tempo può avere molte conseguenze negative come la difficoltà a dormire e la depressione.

Se la gente si concedesse una pausa per respirare o una forma di evasione dalla fonte di stress affrontandola con luce più positiva, si potrebbe godere del tempo in modo più felice e salutare.

Per lo studio, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di elencare i compiti che potrebbero impegnare del tempo considerevole e poi immaginare di completare questi compiti. Quando i partecipanti sentivano che certe attività erano in conflitto con altre (anche solo emotivamente o economicamente), l’ansia aumentava  per cui sentivano di essere più a corto di tempo.

Gli autori notarono che l’ansia aumentava in presenza di un conflitto, sia in situazioni in cui in realtà si riscontrava una carenza di tempo, sia in situazioni in cui il tempo a disposizione era sufficiente.

La chiave, dunque, per raggiungere con successo gli obiettivi della nostra lista di cose da fare, risiede nell’essere consapevoli dell’energia che possiamo investire per ciascuno dei nostri progetti, grandi o piccoli che siano. Dobbiamo concedere tanta attenzione ad ogni progetto, senza sensi di colpa o rimorso.

I ricercatori hanno suggerito ai partecipanti della ricerca due semplici strategie utili per ridurre i sentimenti di pressione dati dalle scadenze e dal tempo a disposizione: respirare lentamente e ricanalizzare alcuni sentimenti di stress lavorativo in emozioni più produttive come l’eccitazione. Entrambe le tecniche hanno aiutato i partecipanti a sentirsi meno prigionieri del tempo.

Gli autori concludono suggerendo di guardare con attenzione ad ogni elemento della nostra lista subito dopo averla stilata e chiedersi quanta energia emotiva sarebbe necessaria per ciascuno di essi.

Il tutto si potrebbe fare decidendo di non sentirsi in colpa. Ad esempio, se volessimo mettere da parte 20 minuti domani per piegare la biancheria,  dovremmo dedicarci completamente a farlo, pensando che si sta facendo qualcosa di valore ed evitando di impiegare la nostra energia pensando a cosa si potrebbe fare in alternativa.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Venire a patti con la paura – Report della sessione plenaria del Convegno SOPSI 2015

Quando parliamo di emozioni possiamo intendere diverse cose: risposte fisiologiche che nel corso del tempo si sono evolute per la lotta alla sopravvivenza, elaborazioni della mente sulla base di quanto il cervello percepisce dalla realtà interna o esterna, sentimenti che influenzano il pensiero e producono determinati comportamenti.

Per il direttore del “Center for Neural Science” della NYU, pioniere nello studio dei processi neurali che portano alle emozioni, le emozioni sono funzioni biologiche del cervello e vanno distinte dalla loro cognizione che è mediata da sistemi distinti, ma interagenti.

Lo studio delle vie neurali responsabili del condizionamento alla paura ha grosse implicazioni sul trattamento di disturbi mentali come le fobie, il disturbo d’Attacchi di Panico, il PTDS. Ledoux spiega come il punto di partenza nei suoi studi siano state le ricerche sulla memoria emotiva derivate dalla sperimentazione sugli animali.

I mammiferi, infatti, di fronte agli stressor, hanno risposte fisiologiche molto simili come il freezing, l’aumento della pressione arteriosa e del battito cardiaco, l’analgesia e il rilascio di cortisolo. Queste risposte provengono dall’ attivazione dell’amigdala che, di fronte a uno stimolo condizionato, invia segnali ad aree come il talamo, l’ippocampo e diverse zone della corteccia. Grazie all’ attivazione congiunta di queste aree è possibile la risposta e l’esperienza di paura.

I percorsi che portano alla risposta o all’ emozione conscia sono diversi: uno top down e uno bottom up. La paura in quest’ottica corrisponde sia ad una risposta di evitamento e di difesa da un pericolo imminente, che un sentimento.

Mentre la risposta di paura è sempre conseguente a uno stimolo condizionato, il sentimento della paura, invece, può essere suscitato anche da stimoli non specifici legati a funzioni come la memoria semantica o episodica, l’attenzione, il monitoraggio che scaturiscono da un percorso cerebrale meno immediato, dove l’amigdala è la tappa finale del percorso neurale e il segnale minaccioso viene analizzato in dettaglio, usando informazioni
provenienti anche da altre parti del cervello.

Si tende a confondere emozioni e sentimenti, spiega LeDoux: le emozioni sono funzioni biologiche che si sono evolute per permettere agli animali di sopravvivere in un ambiente ostile e di riprodursi; i sentimenti invece sono il prodotto della coscienza e derivano dallo sviluppo negli esseri umani della neocorteccia.

Il sentimento della paura è un’ etichetta soggettiva che l’uomo attribuisce all’ emozione. Occorre perciò evitare di parlare di sentimenti, che sono impossibili da studiare oggettivamente, conclude il neuroscienziato, e concentrarsi sulle emozioni e sulla loro base biologica, i cui circuiti neurali sono tangibili quanto quelli dei meccanismi sensoriali.

L’apporto delle neuroscienze ha implicazioni anche sul trattamento farmacologico; questo spiegherebbe perché gli ansiolitici blocchino le risposte fisiologiche associate alla paura in maniera efficace, ma non sono altrettanto efficaci quando si parla di modificare le cognizioni relative a questa emozione. Poiché sono controllate da altri circuiti difensivi, l’intervento dovrebbe essere di altro tipo, ad esempio psicoterapeutico.

 

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Isolamento sociale, solitudine e longevità: gli effetti sulla salute

I dati rilevati mostrano come gli individui con relazioni sociali adeguate abbiano una possibilità di sopravvivenza di quasi il 50% maggiore rispetto a chi mantiene relazioni sociali povere o insufficienti. La grandezza di questo effetto, sugli effetti per la salute, può essere comparata allo smettere di fumare e supera molti fattori di rischio ben conosciuti come obesità o inattività fisica.

Solitudine e isolamento sociale possono essere considerati condizioni rischiose per la longevità delle persone così come il fumo di sigarette e l’assunzione di alcol. È quanto affermato da Holt-Lunstad e colleghi, ricercatori della Brigham Young University, in una ricerca condotta su centinaia di studi presenti in letteratura. Gli individui non esistono nell’isolamento, i fattori sociali influenzano tutti gli aspetti della salute degli individui, cognitivi, affettivi e comportamentali, migliorandone la qualità della vita.

Da una revisione della letteratura, su 148 studi riguardanti oltre 300.000 partecipanti, isolamento sociale e solitudine sono risultati un buon predittore di rischio di mortalità al pari di altri comportamenti. Smith afferma infatti: “Fisiologi, professionisti della salute, educatori, e  i media pubblici considerano fattori di rischio il fumo di sigaretta, la dieta, e la seria attività fisica; i dati presentati qui considerano i fattori di rischio delle relazioni sociali un caso avvincente che andrebbe inserito in quella lista”.

Gli autori dello studio inseriscono infatti il rischio di mortalità causato da condizioni di solitudine nella stessa categoria di comportamenti come il fumo di sigarette o l’assunzione di alcol. Stimano inoltre che queste condizioni superino i rischi per la salute causati dall’obesità.

I dati rilevati mostrano come gli individui con relazioni sociali adeguate abbiano una possibilità di sopravvivenza di quasi il 50% maggiore rispetto a chi mantiene relazioni sociali povere o insufficienti. La grandezza di questo effetto, sugli effetti per la salute, può essere comparata allo smettere di fumare e supera molti fattori di rischio ben conosciuti come obesità o inattività fisica.

Dunque in questo studio sono state prese in considerazione tutte le condizioni dei partecipanti, partendo da età e genere fino allo status socioeconomico e alle condizioni di salute preesistenti, rilevando che, isolamento e solitudine sono un buon predittore di rischio di mortalità tra le popolazioni più giovani, indicativamente sotto i 65 anni di età.

L’effetto positivo delle relazioni sociali rimane quindi consistente attraverso un buon numero di fattori, sottolineando che l’associazione con il rischio di mortalità possa essere generale e riguardare tutto lo spettro della popolazione, e quindi gli sforzi per ridurre il rischio non dovrebbero essere limitati all’anzianità.

Forse la sfida più importante posta da queste evidenze è come effettivamente utilizzare le relazioni sociali per ridurre il rischio di mortalità.

Studi preliminari hanno dimostrato come interventi sociali formalizzati siano importanti nella riduzione del rischio di mortalità. Inoltre uno dei comportamenti degli anni moderni da tenere in considerazione è certamente l’utilizzo di internet, che, accorciando le distanze fra le persone e aumentando le possibilità di “ incontro” può ridurre l’isolamento e la solitudine; con il rischio però di causare l’instaurarsi di relazioni superficiali o poco autentiche.

Gli autori concludono suggerendo che, facilitando le persone nell’instaurare le relazioni sociali naturali di tutti i giorni e costruendo interventi basati sulle comunità, si ha molto più successo rispetto al fornire supporto sociale attraverso personale specializzato. Fanno eccezione i casi in cui le relazioni sociali degli individui appaiono essere deteriorate o assenti. Altri studi sono comunque necessari per individuare quali interventi possano essere designati e valutati per favorire le relazioni sociali.

Gli interventi basati sulle relazioni sociali rappresentano infatti un’ottima opportunità di migliorare non solo la qualità della vita ma anche la longevità.

 

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Empatia e riconoscimento del dolore negli autori di reato

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Empatia e Riconoscimento del dolore negli autori di reato

 Autrice: Paterlini Chiara – Università degli Studi di Milano Bicocca

 

Abstract

L’empatia e il riconoscimento del dolore fisico sono aspetti importanti delle relazioni interpersonali. Questa tesi indaga l’ipotesi che i deficit di queste funzioni possano contribuire a causare le azioni aggressive compiute dagli autori di reato contro la persona. Sono stati confrontati 65 soggetti autori di reato contro la persona (n=33) o reato di altro tipo (n=32) e 26 soggetti di controllo. L’empatia, il riconoscimento del dolore fisico e il riconoscimento di emozioni sono stati valutati mediante il Quoziente Empatico e due test sperimentali impliciti che hanno utilizzato stimoli evocativi del dolore e di emozioni facciali. L’analisi dei dati ha evidenziato che gli autori di reato contro la persona hanno meno empatia rispetto agli autori di reato di altro tipo e ai controlli. Il riconoscimento del dolore è deficitario negli autori di reato rispetto ai controlli, maggiormente nei soggetti con diagnosi psichiatrica. Il livello di empatia contribuisce a predire la gravità del reato. È a sua volta predetto dal tipo di reato. I comportamenti criminali potrebbero portare a una perdita di empatia e di capacità di riconoscere il dolore fisico. A loro volta, i deficit di empatia e di riconoscimento del dolore fisico potrebbero favorire l’evenienza di comportamenti antisociali. La conoscenza di questi aspetti e delle loro complesse interazioni ha potenziali implicazioni nell’interpretazione e nel trattamento dei comportamenti antisociali.

 

English Abstract

Empathy and the recognition of physical pain are important to interpersonal relations. This work investigated the hypothesis that impairment of these functions could contribute in causing aggressive behaviour in authors of crime against person. Sixty-five subjects who committed crimes against person (n=33) or other crimes (n=32) and 26 control subjects were evaluated. The Empathy Questionnaire and two experimental implicit tests assessed empathy and the recognition of physical pain and facial emotions. The authors of crimes against person were impaired in empathy compared with authors of other crimes and controls. Both experimental subgroups were impaired in the recognition of physical pain compared with controls, with the worst deficits in subjects with psychiatric diagnosis. The level of empathy contributed in predicting the severity of the crime. Empathy, in turn, was predicted by the type of crime. Criminal behaviour could contribute in impairing empathy and the recognition of physical pain. Deficits of empathy and recognition of physical pain might favour the occurrence of antisocial behaviours. Knowing these aspects and their complex interactions has potential implications for the understanding and treatment of antisocial behaviour.

 

KEY WORDS

Empathy, Pain, Offense, Emotions, Psychopathology.

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

 

 

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Infertilità: la Psicoterapia cognitiva serve più del farmaco

Un intervento psicoterapico mirato e strutturato può incidere sul costo emotivo e sociale dell’infertilità e la presa in carico del paziente infertile non può prescindere da un’indagine e un intervento psicologico.

 

La difficoltà a procreare e a diventare genitori è un problema sempre più diffuso con importanti costi sociali, emotivi ed economici al punto da essere considerato uno degli eventi più stressanti nella vita di una persona (Thorn et al, 2009). Secondo gli ultimi dati pubblicati nel 2009 dall’Istituto Superiore della Sanità (www.iss.it) l’infertilità riguarda ad oggi circa il 15% delle coppie. Nel 2004 all’interno delle linee guida dell’ESHRE (european society of human reproduction and embryology) è stato stabilito che i pazienti infertili vengano seguiti anche da un punto di vista psicologico.

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi che si occupano dello stress relativo all’infertilità e degli aspetti psicologici correlati. Le ricerche hanno messo in evidenza come gli individui e le coppie infertili abbiano (o sviluppino durante l’iter, aspetto dirimente su cui la ricerca continua a lavorare) livelli più alti di ansia e depressione, bassi livelli di autostima e mostrino stati di colpa, vergogna e rabbia. All’interno della coppia ciò comporta difficoltà di comunicazione e problemi sessuali, al di fuori si trasforma spesso in ritiro o, a volte, isolamento (Strauss, 2001; Kainz, 2002).

Ma, come si legano disagio psichico e infertilità? Anni di studi e di ricerche sull’argomento hanno permesso di distinguere due diverse correnti di pensiero. Una prima visione, “ipotesi dello stress”, sostiene che le problematiche psicologiche possano influenzare l’infertilità. Ovvero, l’infertilità viene vista come un problema psicosomatico e le ricerche si orientano sugli effetti degli aspetti affettivi (stress, stati emotivi mal regolati…) sull’attività neuroendocrina.

La seconda corrente di pensiero sostiene invece che lo stress dovuto alla condizione di infertilità produca delle problematiche psicologiche; in questo caso, gli studi sono orientati a osservare la reazione emotiva della coppia durante la fase della diagnosi, il trattamento medico e infine durante il post-trattamento, quale che sia l’esito.

Per questo motivo durante la presa in carico della coppia occorre esplorare anche i  fattori cognitivi (stili di attribuzione, eventuale presenza di costrutti ansiosi, locus of control interno/esterno….), i problemi sessuali e maritali, le risorse esterne e le capacità relazionali. Si cerca cioè a partire da un’analisi delle risorse (e della sofferenza) e di intervenire su come viene gestito lo stress provocato dalla condizione di infertilità, stress che puó avere un effetto sull’esito del trattamento.

Su questa linea nel 2013 è stato pubblicato uno studio (Mahbobeh Faramarzi et al, 2013) che mostra come la Terapia cognitivo comportamentale (CBT) di gruppo possa essere più efficace di un trattamento di farmacoterapia nel curare gli effetti dell’infertilità a livello relazionale, sessuale, sociale e della rappresentazione di sé.

Sono state reclutate 89 donne infertili cui era stata rilevata una moderata depressione attraverso il Beck depression inventory e suddivise tre gruppi:

1. 29 in terapia cognitivo comportamentale di gruppo

2. 30 in farmacoterapia

3. 30 come gruppo di controllo non sottoposte ad alcun trattamento.

Tutte le partecipanti sono state sottoposte al Fertility Problem Inventory (FPI) e al Beck Depression Inventory (BDI) prima e dopo il trattamento. Il Fertility Problem Inventory è un questionario che misura l’impatto dello stress relativo all’infertilità a livello sociale, relazionale, sessuale e nella rappresentazione di sé.

Le 29 partecipanti alla CBT di gruppo sono state suddivise in gruppi di 8/10 persone e sottoposte a 10 sessioni di due ore ciascuno. Nelle prime tre sessioni le pazienti hanno ricevuto da parte di un ginecologo  una chiara spiegazione sulle cause della propria infertilità e sono state messe in evidenza le preoccupazioni relative alla sfera sociale, maritale, sessuale oltre che la difficoltà a immaginarsi senza figli.

Tra la 4 e la 6 sessione hanno lavorato sulla modificazione delle credenze irrazionali (gestione del rimuginio, ristrutturazione cognitiva, tecniche di rilassamento). Infine tra la 7 e la 10 hanno lavorato sul mantenimento dell’eliminazione dei pensieri e dei comportamenti disfunzionali legati all’infertilità. Alle 30 partecipanti del secondo gruppo (farmacoterapia) sono stati somministrati   20mg  fluoxetina  per 90 giorni.

I risultati hanno evidenziato che le donne partecipanti alla terapia di gruppo hanno ridotto l’impatto dello stress nella sfera sociale e coniugale.

Inoltre mostravano una maggiore elaborazione della propria infertilità e del progetto di genitorialità. Al contrario le donne cui era stata somministrata la fluoxetina non mostravano cambiamenti significativi in nessuna delle scale del FPI.

La CBT dunque si è mostrata più efficace nel ridurre lo stress provocato dall’infertilità rispetto al farmaco. Questi risultati sono in linea con quelli di altri studi (Benyamini et al, 2009; Domar et al, 1990), in cui si mostra come la psicoterapia cognitiva sia in grado di ridurre i sintomi fisici e psicologici di ansia, depressione, insonnia, ecc… Inoltre è stato evidenziato come il sostegno sociale e l’armonia di coppia siano risorse necessarie per avere una minore percezione dello stress e una maggiore percezione di efficacia.

Un intervento psicoterapico mirato e strutturato può incidere sul costo emotivo e sociale dell’infertilità e la presa in carico del paziente infertile non può prescindere da un’indagine e un intervento psicologico. La direzione della clinica e della ricerca è quella di strutturare degli interventi al fine non solo di trattare e ridurre, ma anche di prevenire l’incidenza dello stress legato all’infertilità.

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BIBLIOGRAFIA:

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FLASH NEWS

Madri e padri che soffrono di depressione possono non sorridere altrettanto spesso degli altri genitori o non mantenere con il bambino lo stesso contatto visivo e più distanti sono i genitori dai propri figli, più difficile sarà per i piccoli sviluppare un attaccamento sicuro e esperire emozioni sane.

I primi tre anni di vita sono un periodo molto importante e delicato per lo sviluppo del bambino, ma anche per i neogenitori sono mesi critici e non è inusuale che possano incontrare difficoltà anche personali.

Uno studio del Northwestern Medicine si propone proprio di indagare se e come le sofferenze dei genitori possano influenzare il comportamento dei bambini. Le ricerche in questo campo sono spesso rivolte alla depressione postpartum delle madri, ma anche i padri ne soffrono e come mostra questo studio, avere un padre depresso può avere le stesse conseguenze sul figlio.

Le emozioni paterne, come quelle materne, infatti, influiscono sui bambini. La depressione cambia il modo in cui le persone esprimono le emozioni e questo può portare a cambiamenti nel loro comportamento.

Madri e padri che soffrono di depressione possono, ad esempio, non sorridere altrettanto spesso degli altri genitori o non mantenere con il bambino lo stesso contatto visivo e più distanti sono i genitori dai propri figli, più difficile sarà per i piccoli sviluppare un attaccamento sicuro e esperire emozioni sane.

Fisher, autore dello studio, ha raccolto dati su circa 200 coppie di genitori con figli di 3 anni di età che avevano partecipato, al momento della nascita dei rispettivi bambini, ad uno studio sulla depressione. Per questa ricerca sono state prese informazioni circa i livelli di depressione genitoriali, la qualità della relazione tra i partner, i comportamenti interiorizzati dei bambini (tristezza, ansia, agitazione/nervosismo) e comportamenti esternati (comportamenti negativi, aggressività, violenza, tendenza a mentire).

I risultati mostrano che i livelli di depressione di entrambi i genitori erano singolarmente associati ai comportamenti interiorizzati e esternati dei figli.

I questionari mostrano anche che i segni di una depressione postpartum si manifestano subito dopo la nascita del bambino e sono ancora presenti tre anni dopo, segni che si ripercuotono sui figli molto più di quanto potrebbero fare, ad esempio, due genitori in costante conflitto.

L’importanza di studi come questo sta non solo nell’evidenziare il ruolo paterno e dargli la stessa attenzione e importanza di quello materno, ma anche e soprattutto nel sottolineare quanto sia essenziale seguire la coppia genitoriale in questa fase così difficile fin da subito per sviluppare interventi efficaci e tempestivi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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