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Correlati neurali della disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità: Effetto del trattamento ed eventi avversi infantili

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Correlati neurali della disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità: Effetto del trattamento ed eventi avversi infantili

Autrice: Benedetta Vai (Università Vita-Salute San Raffaele – Milano)

 

Abstract

Introduzione: Compromissioni nelle abilità di social cognition e di processing emotivo giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo e nel mantenimento del Disturbo Borderline di Personalità (DBP). Diversi studi hanno identificato una disregolazione dell’attività di aree frontali e limbiche durante compiti di social cognition in questo disturbo: un’iperattivazione dell’amigdala e un’ipoattivazione di aree frontali potrebbero rappresentare un correlato neurale del DBP, associato in particolare alla disregolazione emotiva. Sebbene un’alterata risposta funzionale di questo circuito possa identificare un possibile biomarker per il DBP, nessuno studio ha mai valutato, in termini di correlati neurali funzionali al processing emotivo,  le differenze tra questo disturbo e altri disturbi psichiatrici, nè l’effetto di un trattamento e di eventi avversi infantili (ACE – fattori spesso considerati nell’eziopatogenesi del disturbo) sulla risposta neurale. Questo studio ha quindi lo scopo di comparare le riposte funzionali durante un compito di processing implicito di emprimenti emozioni negative tra soggetti sani, pazienti affetti da DBP, disturbi bipolare e schizofrenia, e d’indagare l’effetto di ACE e di 6 mesi di psicoterapia e trattamento farmacologico con clozapina a bassi dosaggi sull’attività neurale di soggetti affetti da DBP. Metodi: Acquisizioni fMRI a 3.0 Tesla sono state usate per studiare i correlate neurali in risposta alla elaborazione implicita di volti esprimenti paura e rabbia in 45 soggetti di sesso femminile: 11 controlli sani, 11 pazienti affetti da DBP, 10 da schizofrenia e 13 pazienti depresse con disturbo bipolare I. Un’Analisi della Varianza a una via (ANOVA) è stata effettuate per esplorare le differenze in termini di diagnosi. Un’ANOVA a due vie ha invece permesso di valutare l’effetto di due fattori: diagnosi (sani vs DBP) e ACE (alti vs bassi). Infine, un’ulteriore ANOVA è stata effettuata in 10 soggetti (5 DBP, testati prima e dopo il trattamento, e 5 controlli sani abbinati) per indagare l’effetto del trattamento combinato. Risultati: I pazienti affetti da DBP hanno mostrato un’iperattivazione dell’amigdala rispetto agli altri gruppi, mentre i pazienti depressi e schizofrenici un’ipoattivazione di quest’area. Inoltre, pazienti borderline hanno mostrato un carico significativamente maggiore di ACE rispetto a soggetti di controllo. In entrambi i gruppi un alto carico di ACE è stato associato a una minore attivazione dell’amigdala e a una maggiore risposta della corteccia prefrontale dorsolaterale. Soggetti borderline, tuttavia, hanno riportato un’iperattivazione basale dell’amigdala e un’ipoattivazione delle regioni prefrontali rispetto ai controlli. Nel DBP il trattamento integrato ha causato un ampio miglioramento sintomatico, affiancato dalla normalizzazione dell’attività dell’amigdala. Conclusioni: I risultati suggeriscono che l’iperattività dell’amigdala potrebbe discriminare soggetti con DBP da altre condizioni psichiatriche. Per quanto riguarda gli ACE, una maggiore attivazione nella corteccia prefrontale dorsolaterale suggerisce la richiesta di un controllo cognitivo maggiore sulle aree limbiche che ha portato, dopo un trattamento clinicamente efficace, a una normalizzazione della reattività dell’amigdala agli stimoli avversi. Cambiamenti di misure fMRI di attività cortico-limbico potrebbero essere di rilevanza clinica nel DBP e potrebbero fornire marcatori biologici affidabili per l’efficacia del trattamento.

English abstract

Background: Impairments in social cognition skills and emotional processing play a key role in the development and maintenance of borderline personality disorder (BPD). Several studies identified a dysregulation of limbic and frontal areas during social cognition tasks. A greater activation of amygdala and hypoactivation of frontal areas may represent a neural biological underpinnings of the disorder, associated with emotional dysregulation, might suggest an inefficient mutual modulation of frontal and limbic areas. Although abnormal renpose in fronto-limbic circuitry may identify a possible biomarker for BPD, no previous study explored the differences, in terms of functional response to emotional stimuli, between this disorder and other psychiatric conditions nor the effect of treatments and of adverse childhood experiences (ACE – factors often considered in the etiopathogenesis of the disorder) on this circuitry. Thus, this study is aimed at comparing the functional brain responses, during emotional processing, of healthy controls, borderline, bipolar depressed and schizophrenic patients, and at investigating the effect of ACE and of 6 months of psychotherapy and pharmacological treatment with clozapine, an atypical antipsychotic, on neural activity in BPD. Methods: A 3.0 Tesla fMRI acquisition was used to study the neural correlates of the passive view of emotional fearful and angry faces in 45 female subjects: 11 healthy control (HC), 11 BPD patients, 10 subjects affected by schizophrenia and13 depressed females with bipolar I disorder. Firstly, a One-Way ANOVA was used to explore the differences in terms of diagnosis. Furthermore, an ANOVA with two factors: diagnosis (BPD vs. HC) and ACE (high vs. low) was performed. Finally, another ANOVA was performed in 10 subjects (5 BPD, tested  before and after treatment, and 5 matched controls) to explore the effect of the combined treatment. Results: BPD subjects showed an hyperactivation of the amygdala compared to other groups, whereas depressed and schizophrenic patients a reduced response. BPD patients showed a significantly higher burden of ACE compared to HC. In both groups higher ACE were associated with a lower activation of amygdala and hyperactivation of dorsolateral prefrontal cortex. Borderline subjects, however, reported a basal increased activity of the amygdala and a reduced response of prefrontal regions compared to HC. Integrated treatment caused a broad symptomatic improvement, paralleled by a normalization of amygdala activity in BPD. Conclusion: Results suggest that the hyperactivity of the amygdale may differentiate BPD from HC and other psychiatric conditions. Concerning ACE, a greater activation in dorsolateral prefrontal cortex suggests a request for a higher control on limbic areas which resulted, after successful treatment, in a normalization of amygdala reactivity to aversive stimuli. Changes of fMRI measures of cortico-limbic activity might be of clinical relevance in BPD and might provide reliable markers for treatment efficacy.

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

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Secondo i dati diffusi dal Ministero Italiano della Salute per i disturbi alimentari, gli ortoressici sarebbero 300 mila in Italia (a fronte di tre milioni di pazienti con disturbi alimentari), con una prevalenza maggiore tra gli uomini piuttosto che tra le donne (11.3% vs 3.9%) (Donini e coll. 2004)… CONTINUA A LEGGERE

 

La Dott.ssa Fiore cura anche la rubrica di Introduzione alla Psicologia per la Sigmund Freud University Milano

Sigmund Freud University Milano - Università di Psicologia

La primavera e l’aumento di pensieri legati al suicidio

FLASH NEWS

Per le persone che soffrono di depressione maggiore o di altri problemi di salute mentale la primavera è la stagione in cui si verifica un aumento di pensieri circa il suicidio.

Molti studi hanno indagato questo fenomeno, uno tra questi nel 2005 ha esplorato il numero di suicidi negli USA tra il 1971 e 2000. Questa ricerca ha trovato che una maggiore frequenza di suicidio si verifica in primavera con un picco nei mesi di aprile e maggio. Nel 2012 uno studio intitolato Seasonality of Suicidal Behavior conferma che inspiegabilmente il picco stagionale del suicidio si situa in primavera anche se emerge che nuovi picchi stanno emergendo in nuovi periodi dell’anno.

Indipendentemente dal periodo dell’anno il suicidio è un problema di salute pubblica che deve essere esplorato a vari livelli attraverso l’educazione pubblica, la conoscenza culturale, e la consapevolezza clinica dei segni e dei sintomi

Il presidente della Pennsylvania Medical Society (PAMED) afferma che nel 2012 ci sono stati 1.613 suicidi in Pennsylvania.
Ogni volta che qualcuno prende una decisione consapevole di tentare o completare il suicidio, spesso amici e parenti si chiedono cosa avrebbero potuto fare per impedirlo. Riconoscere il suicidio come un problema di salute pubblica e affrontarlo in maniera adeguata potrebbe essere utile a tutti coloro che cercano delle risposte alle perdite personali.

Secondo i dati del Dipartimento della Salute della Pennsylvania, il maggior numero di suicidi nel 2012 è stato commesso da persone di età compresa tra 45 anni e 54 anni, seguiti da coloro di età 55 anni ai 64 anni.
I rapporti della American Association of Suicidology indicano la Pennsylvania 29° in classifica nella nazione per il numero di suicidi, mentre Montana, Alaska, e Wyoming hanno purtroppo i tassi più elevati.

A livello nazionale, i dati suggeriscono che nel 2011 si sono verificati 39.518 suicidi. Inoltre, più di 487.700 persone sono state trattate nei dipartimenti di emergenza per atti di autolesionismo ma molto probabilmente il numero effettivo di persone che cercano di farsi male è più alto. Si conoscono infatti solo i pazienti che finiscono nei dipartimenti di emergenza ma ogni giorno si verificano tentativi di suicidio da parte di coloro che cercano di affrontare tutto da soli senza cercare alcun aiuto.

Secondo l’ American Academy of Pediatrics gli individui più vulnerabili sono i più giovani. Nel 2012 ci sono stati 68 individui di età inferiore ai 20 anni che hanno deciso di togliersi la vita e che hanno compiuto un suicidio. I dati a disposizione indicano che fino all’ 80 per cento dei suicidi commessi dai giovani sarebbero potuti essere prevenuti, per questo è importante conoscere i segni del suicidio e capire come si può aiutare chi sta pensando di togliersi vita. Secondo la relazione annuale del Pennsylvania Child Morte Review del 2014, il 45 % delle morti avvenute nel 2011 per suicidio sono avvenute con l’uso di un’arma o per asfissia.

La nuova legge richiede alle scuole di adottare delle misure di prevenzione del suicidio nel sistema scolastico pubblico attraverso una consapevolezza del suicidio da parte dei giovani e la formazione del personale già dall’anno accademico 2015-’16.

Lo psichiatra infantile Robert E. Wilson, MD, PhD, eletto presidente della Pennsylvania Psychiatric Society e membro attivo PAMED, dice che i fattori di rischio per il suicidio sono: precedenti tentativi di suicidio, storia di depressione o altre malattie mentali, abuso di alcol o droghe, storia familiare di suicidio o violenza, malattia fisica, sentirsi soli, presenza di un evento di vita stressante, perdita e facile accesso ai metodi letali. Secondo il dott. Wilson mantenere questi fattori in mente può aiutare amici e familiari a prestare attenzione a una persona cara soprattutto se manifesta segnali di pericolo.

Il Dr. Wilson aggiunge che è importante non respingere un individuo quando esprime il suo desiderio di farsi male, bisognerebbe anche osservare i cambiamenti di umore e verificare l’eventuale uso di sostanze. Ѐ importante creare un ambiente sicuro e fornire l’aiuto necessario a coloro che mostrano un’instabilità emotiva.

Gli esperti di salute mentale offrono la loro disponibilità in ospedali, cliniche e studi medici e attraverso la linea diretta nazionale, ricordando però che insegnanti, medici, genitori e tutti i membri del pubblico giocano un ruolo fondamentale nel prevenire la perdita di vite.

 

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Gli effetti nascosti del paracetamolo sugli stati emotivi

 

Quello che i ricercatori sono arrivati a ipotizzare è che il farmaco provochi cambiamenti neurochimici che influenzano i processi psicologici di valutazione e che potrebbero cambiare la sensibilità agli stimoli emotivi, in generale.

Sono ben conosciuti gli effetti del paracetamolo (o acetaminofene) come analgesico, i farmaci di cui questo è principio attivo son ampiamente diffusi sul mercato; esso agisce regolando la parte del cervello che controlla la temperatura corporea e inibisce la sintesi di prostaglandine nel sistema nervoso centrale. Un recentissimo studio, condotto dall’Ohio State University e pubblicato la scorsa settimana sulla rivista Psychological Science, ha mostrato che il farmaco agisce non soltanto alleviando il dolore fisico ma avrebbe anche effetti sugli stati emotivi quali la tristezza e la gioia.

Gli effetti del farmaco, nel lenire non solo i dolori fisici ma anche quelli psicologici, erano stati già indicati in ricerche precedenti; la novità apportata dallo studio dello psicologo sociale Geoffry Durso riguarda, nello specifico, l’effetto del paracetamolo sulle emozioni positive.

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Il trial clinico ha visto coinvolti 82 partecipanti, dei quali un gruppo ha ricevuto una dose giornaliera di 1000 mg di paracetamolo, all’altro gruppo è stato somministrato un placebo. Dopo un’ora (il tempo necessario affinché il farmaco faccia effetto) sono state mostrate ai partecipanti 40 foto tratte dall’International Affective Picture System (IAPS), scelte per la loro capacità di suscitare emozioni, che mostravano scene spiacevoli di bambini malnutriti e tristi e altre di bambini felici mentre giocano. I partecipanti sono stati invitati poi ad esprimere un giudizio positivo (+5 estremamente gradevole) o negativo (-5 estremamente sgradevole) per ogni foto mostrata.

I risultati hanno mostrato che il gruppo che aveva assunto acetaminofene aveva reazioni meno intense alla visione delle foto, cioè valutava le immagini strazianti in maniera meno sconvolgente e le immagini felici in maniera meno positiva rispetto al gruppo placebo.

I ricercatori hanno in seguito testato un gruppo di 85 persone per valutare se questo cambiamento di giudizio si applicasse solo alle emozioni o se il farmaco smussasse la capacità di valutazione della gente in generale. Questo secondo studio ha dimostrato lo stesso ottundimento delle reazioni emotive; ma non ha dimostrato che il paracetamolo influenzi la quantità di blu che i partecipanti vedevano in ogni foto.

Quello che i ricercatori sono arrivati a ipotizzare è dunque che il farmaco provochi cambiamenti neurochimici che influenzano i processi psicologici di valutazione e che potrebbero cambiare la sensibilità agli stimoli emotivi, in generale. Il team ha ora intenzione di studiare l’effetto di altri antidolorifici come l’aspirina e l’ibuprofene, per verificare se questi possano avere lo stesso impatto sulle emozioni.

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Bambini plusdotati: come manifestano il loro talento? La classificazione a 5 livelli di Deborah Ruf e le 6 tipologie di Maureen Neihart

Le traiettorie di sviluppo di questi profili propongono una rivisitazione più approfondita del soggetto plusdotato, che colga i tratti salienti e che tenga sempre in considerazione che ogni soggetto gifted  è irripetibile e, di conseguenza, avrà uno sviluppo individuale e unico nel suo genere.

In un panorama scientifico in cui l’intelligenza è stata approfonditamente studiata, con relative ricerche e strumenti, il concetto di plusdotazione nei bambini non possiede ancora sistemi di classificazione largamente diffusi. Il soggetto plusdotato ricopre infatti un’ampissima varietà di caratteristiche che non sempre possono essere classificate e facilmente predette. Egli viene considerato un essere unico nel suo genere, che possiede una concatenazione di caratteristiche che possono renderlo molto differente da altri soggetti con stesso quoziente intellettivo – QI.

Ad esempio, un bambino ad alto potenziale può essere molto bravo a utilizzare i numeri e le operazioni, ma allo stesso tempo presentare carenze nell’area verbale e del linguaggio. Due bambini, entrambi molto bravi nell’area dei numeri e in quella verbale, possono avere QI medesimo ma, se uno possiede capacità di ragionamento maggiori, può rientrare in un livello differente di plusdotazione rispetto all’altro. Inoltre, alcuni bambini possono manifestare un cambiamento nelle loro abilità al variare di aspetti ambientali, psicologici o contestuali (Ruf, 2009).

Deborah Ruf, studiosa e ricercatrice americana che dedica da anni la propria carriera professionale al mondo della plusdotazione, ha proposto una classificazione a cinque livelli del soggetto di talento. I livelli vengono identificati dal QI e da abilità tipiche che si manifestano fin dai primi giorni di vita. Tale classificazione viene ideata dall’autrice a fronte di uno studio approfondito su un campione di 50 famiglie con uno o più figli plusdotati suoi pazienti (2009). I bambini presi in esame sono 78: 13 al primo livello, 21 al secondo, 19 al terzo, 18 al quarto e 7 al quinto. Gli strumenti di misurazione dell’intelligenza che vengono utilizzati sono Wechsler Individual Achievement Test III, Stanford Binet 5 e Scales of Indipendent Behavior – Revisited.

La classificazione parte da un livello di moderatamente plusdotato (livello 1, QI 120-129), proseguendo con gli altamente plusdotati (livello 2 – QI 130-135), gli eccezionalmente plusdotati (livello 3 – QI 136-140) e i profondamente plusdotati ai livelli 4 e 5 (QI 141 o più). L’autrice riporta alcune semplici e accurate tabelle in cui vengono esplicitate le principali abilità, abbinate all’età e alla frequenza con cui, all’interno del gruppo di bambini plusdotati a quel livello specifico, esse potrebbero manifestarsi.

Il primo livello – L1 riguarda i bambini con QI tra il 90° e 98° percentile ai test standardizzati di misurazione dell’intelligenza: sono coloro che spiccano nell’ambito scolastico per la loro intelligenza brillante, per la facilità di apprendimento e per la predisposizione al potenziamento delle materie studiate più che al recupero. Ma a differenza di altri, manifestano alcune abilità non presenti nei bambini normodotati. Infatti, la maggioranza di loro provano desiderio che qualcuno legga per loro prima di un anno di età, conoscono e pronunciano molte parole prima dei 18 mesi e formulano frasi di 3- 4 parole tra i 18 e i 20 mesi di età, fanno addizioni e sottrazioni semplici all’età di 4 anni e usano il computer in maniera indipendente entro i 6 anni. Alcuni sanno contare e conoscono la maggior parte delle lettere e colori entro i 3 anni, amano i puzzle entro i 2 anni ed entro i 6 anni fanno puzzle da 200 a 1000 pezzi, mostrano impazienza nella ripetizione e scansione lenta di numeri e lettere durante la lezione scolastica a 7-8 anni.

L’autrice sostiene invece che tutti i soggetti in L1 leggano a livelli di 2/3 anni oltre la propria età entro i 7 anni e siano in grado di leggere libri suddivisi in capitoli in modo indipendente entro i 7 anni e mezzo. La psicologa Leta Hollingworth definisce “ottimale” questo livello di intelligenza, in quanto questi soggetti non si sentono molto differenti dalle persone normodotate, ma esprimono una ottima riuscita sul campo scolastico e lavorativo, godendo a pieno dei relativi privilegi (1926).

Nei livelli successivi, le abilità aumentano di numero e si fanno sempre più precoci. Nel livello 2 – L2 i soggetti sono in gradi di prestare attenzione più a lungo dei coetanei e possono potenziare il loro talento con corsi accelerati in ambito scolastico. Tutti i soggetti in L2 prestano attenzione se qualcuno legge per loro a 5-9 mesi, comprendono le direttive e domande dei genitori, rispondendo, a 6-12 mesi; formulano frasi di almeno 3 parole a 2 anni, contano e fanno operazioni matematiche semplici a 5 anni e leggono libri semplici a 5,5 anni.

I soggetti al livello 3 – L3 possiedono un QI tra il 98° e 99° percentile. Già a poche ore dalla nascita, questi bambini manifestano a genitori e personale medico un’abilità spiccata nel mantenere l’attenzione a lungo. Le figure di riferimento notano come essi riescano a capire in maniera limpida molte cose prima ancora che sappiano parlare. Sono descritti dai genitori come bambini intensi e molto sensibili, che fin da piccoli non amano essere trattati in maniera infantile. Alcuni di loro possono avere difficoltà a fermare i processi di pensiero e a rilassarsi, ad esempio durante il riposo notturno. Molti sanno l’indirizzo della propria abitazione prima dei 5 anni e, al momento dell’entrata nel ciclo scolastico, può insorgere qualche problema nella risoluzione di problemi semplici, perché considerati senza senso o illogici per il loro livello mentale. In questo contesto, raramente le insegnanti sono in grado di riconoscere le loro potenzialità, accrescendole. Tutti loro sanno l’alfabeto intero all’età di 17-24 mesi, si divertono con giochi per adulti all’età di 6 anni e leggono libri per ragazzi o giovani all’età di 7,5 anni.

I bambini al livello 4 – L4 sono speciali in maniera evidente rispetto ai coetanei per la grande abilità che hanno nel cogliere i dettagli, dare senso alle cose e arrivare a conclusioni e teorie sul mondo decisamente fuori dalla norma. Essi assorbono informazioni in maniera spontanea, continuativa e automatica, senza alcuna insistenza dei genitori. A questo livello, generalmente le difficoltà iniziano a sorgere all’inserimento nella scuola materna: spesso i genitori si aspettano che le maestre siano in grado di gestire un livello intellettivo simile mentre le maestre sono convinte che un bambino molto più intelligente della norma possa comunque apprezzare qualsiasi forma di apprendimento, dalla più semplice alla più adatta al suo livello. Alle scuole elementari invece i genitori chiedono di norma l’inserimento del bambino a una classe superiore, chiedendo un supporto concreto.

Le problematiche che il bambino incontra sono precoci e difficoltose da gestire per i genitori che non godono di un supporto psicologico adeguato. Si tratta infatti di bambini che hanno bisogno specifici, che necessitano di strumenti qualitativamente differenti. Essi infatti sono in grado di comprendere ad esempio la matematica allo stesso modo in cui i loro coetanei comprendono la lettura delle parole al primo anno delle elementari: ciò rende la noia un’emozione particolarmente frequente ed evidente in ambito scolastico.

Un precoce sviluppo in un’ area viene però spesso accompagnato da un’immaturità spiccata in un’altra area, che potrebbe ad esempio essere quella emotiva: ciò rende il soggetto bisognoso di un buon supporto psicologico. Sono bambini che riescono a completare l’intero ciclo dei primi otto anni di istruzione entro quattro anni o meno, ma spesso i genitori scelgono per loro un percorso scolastico normale, affiancato da un potenziamento mirato e continuo, con una particolare attenzione al fattore evolutivo e di maturità emotiva. E’ invece dannoso “abbandonare” questi bambini ai percorsi scolastici normativi senza prendersi cura della capacità intellettiva, trattandoli come soggetti normodotati.

La categoria L5 riguarda 1 soggetto su 250.000 circa, con maggior incidenza nelle aree metropolitane.

Al momento – e ha solo 6 anni – Carol si dedica all’investigazione dei grandi quesiti filosofici sul Senso. Divora libri sull’origine dell’universo, sull’inizio della vita, su evoluzione, storia umana, progresso e religione. Sta tentando di dare risposta alle domande universali: “Chi sono? Perché esisto? Chi è Dio?”, domande che ci si pone tipicamente in adolescenza o età adulta.” Mamma di una bambina plusdotata L5

La valutazione del QI potrebbe suggerire che essi siano allo stesso livello di L4, ma vi è una sostanziale differenza: trattasi infatti di soggetti intellettualmente plusdotati in maniera incredibile in ogni dominio di conoscenza. Essi sono però particolarmente fragili, soprattutto in base a fattori come ambiente di crescita più o meno supportivo, tratti di personalità, motivazione, effettive occasioni di esplorazione del mondo.

Si può notare come essi prestino attenzione visiva alle prime ore della nascita e ascoltino chi legge storie per loro alle prime settimane di vita; i genitori hanno inoltre la netta sensazione che essi capiscano le direttive genitoriali a 1-4 mesi e sanno che hanno video e programmi preferiti a 6-8 mesi. Generalmente, entro i due anni questi soggetti parlano come un adulto, leggono parole semplici, utilizzano il computer e pongono quesiti sul funzionamento del mondo. Inoltre, chiedono della veridicità di Babbo Natale e del topolino dei denti, manifestano interesse per dizionari e almanacchi, giocano a video games per adolescenti, comprendono concetti astratti e le funzioni matematiche entro i 3-4 anni.

Rendersi conto del livello intellettivo di un soggetto L5 è lampante anche agli occhi del genitore più incurante, ma prendersene cura è tutt’altro che semplice. Innanzitutto perché mancano in moltissimi paesi nel mondo gli strumenti adatti alla valutazione di un QI simile, poi manca spesso la sensibilità a comprendere che i genitori stessi avrebbero bisogno di una formazione specifica. Si pongono inoltre numerosi ostacoli nel riconoscimento e supporto del soggetto a livello di rapporti interpersonali, di istituzioni e società.

Un’altra autrice che delinea una classificazione dei soggetti plusdotati, questa volta per “profili”, è Maureen Neihart, che possiede un’esperienza trentennale a fianco dei bambini gifted, pubblicando più di trecento articoli sull’argomento. I sei profili che l’autrice individua, di seguito riportati, differiscono per tratti di personalità, bisogni manifestati e modalità di espressione del proprio talento (Betts e Neihart, 1988).

Come già accennato, è importante sottolineare come queste tipologie non debbano essere considerate in maniera rigida, ma rappresentino linee guida in grado di indirizzare l’intervento sui differenti soggetti (Morrone e Renati, 2010). Nonostante ciò, l’utilità di questa categorizzazione è grande e permette di avere un quadro più generale e globale di tali individui nei loro punti di forza e debolezza e delle caratteristiche manifestate a livello socio-emotivo (Betts e Neihart, 2010).

Il plusdotato di successo – T1 è un soggetto che ha una notevole riuscita scolastica e manifesta un comportamento consono e da “bravo ragazzo” sia in ambiente scolastico che casalingo. Egli possiede concetti positivi di sé ed è soddisfatto e compiaciuto delle sue abilità, nonché desideroso di approvazione da parte di maestre, compagni e genitori. Ma, nonostante la sua abile capacità a ottenere buoni risultati, spesso gli mancano le competenze necessarie per apprendere in modo approfondito e autonomo. Infatti, il tipo di conoscenza che possiede è perfettamente conforme ai programmi scolastici, manca però l’interessamento verso argomenti differenti. Goertzel e Goertzel lo descrivono come colui che in età adulta manifesterà una perdita delle capacità immaginative e dell’autonomia, nonostante il successo che accompagna la sua carriera e le sue scelte di vita (1962). Per tale motivo, egli potrebbe necessitare di un sostegno e stimolo in ambiente scolastico e casalingo volto all’incremento di una motivazione che non dipenda strettamente dall’ottenimento di buone votazioni o desiderabilità sociale e dallo sviluppo di abilità a fronteggiare l’incertezza e il rischio.

Il plusdotato creativo – T2 manifesta un’intensa motivazione a perseguire i propri scopi personali e ha una predisposizione allegra nei confronti del mondo, un alto livello di energia, esprimendo a pieno gli impulsi. Egli possiede una personalità forte e positiva, che però può essere accompagnata da labilità emotiva, area in cui manifesta livelli più bassi di autocontrollo e, in generale, scarso interesse a uniformarsi alle aspettative. Sarebbe importante capire, di fronte a un T2, con quale modalità manifesta il suo talento artistico, più che individuare il livello della sua creatività. Sarebbe inoltre importante domandarsi se abbia sviluppato una piena consapevolezza delle sue abilità artistiche e tenere conto che queste possono andare di pari passo con aspetti di devianza, disagio o deficit.

Particolarmente difficile da individuare, rispetto ai precedenti, è invece il plusdotato sotterraneo – T3. Questo profilo è infatti caratterizzato da strategie di coping disfunzionali, che mirano a evitare la possibilità di esprimere a pieno le abilità del soggetto. Egli percepisce una dissonanza relativa alla riuscita dei propri obiettivi e la svalutazione delle proprie capacità, avvertendo pressioni di fronte alle situazioni che potrebbero determinare positivamente la sua riuscita scolastica e professionale. Infatti, egli associa i comportamenti finalizzati alla buona riuscita di obiettivi positivi a “tradimenti” nei confronti del gruppo sociale di riferimento. Per questo motivo, si ritira e mostra resistenza di fronte alle opportunità di sviluppo del suo talento, che il soggetto stesso non riconosce (Kerr, 1985).

Se si dovesse individuare questo tipo di plusdotato attraverso i test standardizzati di successo scolastico, si cadrebbe probabilmente in errore perché questi difficilmente predicono le sue effettive potenzialità, ma solo le capacità che egli crede di possedere. Gli strumenti più adatti potrebbero essere le osservazioni, interviste, valutazioni basate sulla performance e inventari. L’intervento che si potrebbe attuare su di lui è una ri-definizione dell’autostima in ambiente scolastico e casalingo, un incremento delle competenze sociali al fine di inserirlo in una pluralità di contesti e un’occasione di effettiva discussione sui punti di forza di una mobilità verso l’alto.

Il quarto tipo è il cosiddetto “soggetto antisociale – a rischio” – T4 e presenta problematicità su vari fronti. Possedere un grande talento sembra infatti mettere il soggetto in difficoltà nella gestione di quest’ultimo.  Nello specifico, egli presenta problematiche emotive e comportamentali espresse in azioni di disturbo e stati di crisi. Non è un soggetto che riceve solitamente motivazione a livello scolastico ma potrebbe ad esempio provare stati emotivi intensi, come la rabbia, attraverso l’acting out, andando alla ricerca di sensazioni forti e nutrendo aspettative irrealistiche su di sé. In questo contesto, spesso egli non è in grado di gestire le frustrazioni a livello quotidiano e la maggior parte delle volte ciò è causato da carenze educative proprie del suo percorso di crescita. L’intervento più adeguato su questa tipologia di plusdotato potrebbe avere come obiettivo primo il ritorno a un funzionamento psichico e comportamentale equilibrato, fornendogli sostegno attivo e modificando l’orientamento al problem solving da “centrato sulle emozioni/disfunzionale” a “centrato sul problema”.

Il “plusdotato due volte eccezionale” – T5  presenta una forma di disabilità fisica o emotiva e per tale motivo, non è quasi mai identificato come soggetto di talento. Egli infatti manifesta comportamenti di disagio che non vengono associati alla plusdotazione, come ad esempio avere una scrittura incomprensibile o mettere in atto comportamenti distruttivi, che non gli permettono di seguire le lezioni scolastiche. Inoltre, sembra sperimentare un alto livello di stress, che si associa a disturbi dell’umore e di ansia, con frequenti vissuti di frustrazioni, scoraggiamento e isolamento. Il plusdotato in questione sembra manifestare una non consapevolezza del suo atteggiamento nei confronti dell’ambiente scolastico, tanto da negare il proprio disagio e ritenere invece che siano le lezioni o i compiti a essere estremamente “noiosi” o “stupidi”. Utilizza spesso una modalità sarcastica o critica in approccio alle lezioni, generalmente col fine di nascondere il suo profondo senso di inefficacia e bassa autostima. Anche se sono poco conosciuti, esistono alcuni programmi scolastici alternativi ideati da alcuni studiosi per  esprimere a pieno il potenziale del T5 (Daniels, 1983; Fox, Brody & Tobin, 1983; Gunderson, Maesch & Rees, 1988).

Il plusdotato “autonomo nell’apprendere” – T6 rappresenta invece una tipologia in grado di esprimere la plusdotazione nella maniera più funzionale e potenziata. Infatti, il soggetto possiede alti livelli di autoefficacia, obiettivi autodefiniti, buona disposizione nel perseverarli, ricerca delle sfide, ha una visione incrementale delle proprie capacità e coraggio nella gestione della propria giftedness. Altre caratteristiche che lo contraddistinguono sono buone capacità di autoregolazione, uno stile esplicativo di tipo assertivo, buona gestione delle delusioni e delle difficoltà. Inoltre, il suo obiettivo sembra più focalizzato sull’apprendimento che sulla buona riuscita scolastica e professionale. Egli possiede spesso una buona consapevolezza del legame tra convinzione di poter svolgere un compito bene o male e il risultato finale. Nonostante la sua efficacia e buona funzionalità, egli potrebbe comunque avere bisogno un affiancamento e supporto su come autogestirsi e fronteggiare i costi psicologici e sociali del suo successo.

Come già accennato, le traiettorie di sviluppo di questi profili propongono una rivisitazione più approfondita del soggetto plusdotato, che colga i tratti salienti e che tenga sempre in considerazione che ogni soggetto gifted  è irripetibile e, di conseguenza, avrà uno sviluppo individuale e unico nel suo genere (Renati e Zanetti, 2012). Inoltre, rimangono aperte alcune questioni sulla possibilità che questi sei profili abbiano validità di categorizzazione solo nei paesi occidentalizzati, in quanto vi sono elementi, come famiglia contesto educativo scolastico e sociale, che modellano queste tipologie. Vi è poi la convinzione che questi modelli siano dinamici e possano variare durante lo sviluppo del soggetto (Neihart, 2009).

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Metodi a confronto per la valutazione dello Stress Lavoro-Correlato: il metodo INAIL e il metodo V.I.S.

Metodi a confronto per la valutazione dello Stress Lavoro-Correlato: Il metodo INAIL e il metodo V.I.S.

 

Questo approfondimento, offre una revisione critica della proposta fatta dall’INAIL in merito alla cosiddetta “fase preliminare” dello stress lavoro-correlato. Come noto, tale passaggio è secondo la normativa vigente, il primo step da compiere nel processo di valutazione e si avvale della considerazione di indicatori oggettivi e verificabili, quali gli eventi sentinella, unitamente a fattori di contenuto e contesto.

Poiché il metodo INAIL, non è l’unico strumento a disposizione (sebbene la sua adozione in Italia sia molto diffusa), si pone un confronto tra esso ed un altro metodo: il metodo V.I.S. (Valutazione per Indicatori di Stress), sviluppato seguendo un approccio di tipo psicologico, ergonomico e della medicina del lavoro (Sarto, De Carlo,  Falco, Vianello,  Zanella, Magosso, Bartolucci, Dal Corso,  2009).

Grazie al consenso degli autori e dell’editore (FrancoAngeli), l’utilizzo del metodo V.I.S è libero e gratuito.

 

BIBLIOGRAFIA:

Le arti marziali per il trattamento di disturbi correlati a traumi: il wing tsun kung fu quale tecnica elettiva nella (ri)definizione dei confini corporei e delle distanze interpersonali

Felice Scaringella

 

Le arti marziali per il trattamento di disturbi correlati a traumi: il wing tsun kung fu quale tecnica elettiva nella (ri)definizione dei confini corporei e delle distanze interpersonali.

Nel trattamento dei disturbi legati a traumi, la pratica marziale potrebbe diventare un potente strumento di cura ausiliario alla psicoterapia poichè in grado di sviluppare quelle abilità di difesa personale che andrebbero ad agire direttamente sulla dimensione sensoriale e corporea ristrutturando confini e distanze personali e interpersonali.

In una pubblicazione non troppo recente, Rosa Maria Di Stefano sottolineava un curioso parallelismo tra psicoterapia e arti marziali. In particolare, l’obiettivo di questo eccellente lavoro mirava a mettere in luce, attraverso un’ampia rassegna di studi, quanto queste discipline potessero rappresentare una valida integrazione alla terapia verbale di numerosi disturbi rientranti in un ampio spettro di psicopatologie (Di Stefano, 2005). Il primo parallelismo, e forse quello che rende maggiormente efficace la proposta, è quello che considera entrambe le pratiche (le discipline marziali e la psicoterapia) come delle vere e proprie forme di arte.

I benefici che la persona può trarre dalla pratica delle arti marziali sono stati confermati da lavori provenienti dall’integrazione degli approcci psicoterapeutici: molte patologie psichiche, oggi, vengono trattate facendo riferimento a diversi canali d’accesso al vissuto della persona, in particolare al canale corporeo in quelli che vengono chiamati approcci bottom-up (Ogden, Minton, Pain, 2006). Gli approcci psicoterapeutici bottom-up si sono dimostrati utili particolarmente nel trattamento delle memorie traumatiche e dei disturbi ad esse correlati, infatti, si è osservato che la semplice presa di coscienza del contenuto razionale relativo ai vissuti della persona non era sufficiente a favorire complete elaborazioni di emozioni e ricordi potenzialmente soverchianti.

Nello specifico dei disturbi correlati a traumi sono spesso riscontrabili fenomeni di dissociazione psichica e somatoforme che potrebbero incidere negativamente sul decorso della patologia in quanto le emozioni traumatiche continuerebbero a svolgere la loro azione a livello sensoriale dando luogo a ciò che viene identificato come dissociazione strutturale della personalità (van der Hart, Nijenhuis, Steel, 2006). Ne consegue che i clinici, oggi, siano più orientati ad integrare nella pratica terapeutica approcci quali l’EMDR, la Psicoterapia Senso-Motoria e gli interventi basati sulla Mindfulness (Di Donna, 2012; Giannantonio, 2013; Ogden, Minton, Pain, 2006).

Nel trattamento dei disturbi legati a traumi, con particolare riferimento a quegli eventi perturbativi della vita psichica facenti capo ad aggressioni, abusi fisici e sessuali (anche cumulativi), la pratica marziale potrebbe diventare un potente strumento di cura ausiliario alla psicoterapia poichè in grado di sviluppare quelle abilità di difesa personale che andrebbero ad agire direttamente sulla dimensione sensoriale e corporea ristrutturando confini e distanze personali e interpersonali, e facilitando ciò che Janet (cit. in Ellenberger, 1970) ha ritenuto essere una tappa necessaria finalizzata al raggiungimento dei progressi nella cura psicoterapeutica, ovvero, il processo di completamento delle azioni interrotte durante l’evento traumatico perturbativo a causa dell’attivazione delle difese dissociative.

Il Wing Tsun (in questo articolo faremo riferimento allo stile Wing Chun praticato nella scuola fondata dal GM Leung Ting – ultimo allievo del GGM Ip Man- e denominato Wing Tsun) potrebbe essere un’arte marziale fortemente indicata per gli scopi che abbiamo appena illustrato, infatti, i suoi principi di combattimento troverebbero applicazioni specifiche proprio in ciò che si è rivelato carente in pazienti che hanno subìto traumi da aggressioni. La disciplina è uno stile di Kung Fu sviluppatosi in Cina circa 400 anni fa quale derivazione diretta dello stile Shaolin. Secondo quanto trasmesso dal Great Grandmaster Ip Man, il sistema sarebbe stato messo a punto da una donna, una monaca buddista, che avrebbe insegnato le tecniche ad una ragazza di nome Yim Wing Chun (da qui il nome dello stile) la quale veniva continuamente tormentata da un bullo che voleva prenderla in sposa a tutti i costi.

Secondo la leggenda (si ricorda che le origini di questa arte marziale sono ignote), la ragazza ebbe la meglio in combattimento proprio perché le nuove tecniche non richiedevano lo sviluppo di grande forza fisica rispetto al Kung Fu tradizionale ma risultavano, al contrario, estremamente efficaci nello sconfiggere l’avversario a patto che ne venivano seguiti scrupolosamente i principi. Oggi il Wing Tsun risulta essere uno dei più efficaci e scientifici sistemi di difesa personale (Leung Ting, 1978). 

Affiancare la pratica del Wing Tsun alla psicoterapia dei pazienti ai quali è stato diagnosticato un disturbo post-traumatico conseguente ad aggressione, significa lavorare su ciò che potrebbe essere seriamente compromesso in queste persone, ovvero la capacità di definire e strutturare i propri confini personali e interpersonali (Giannantonio, 2013).

Definire i propri confini significa negoziare le distanze nel mondo intersoggettivo e il Wing Tsun risulta essere un’arte marziale in grado di accompagnare l’individuo traumatizzato verso il raggiungimento di questo obiettivo, infatti, una delle prime tecniche che vengono insegnate agli allievi riguarda la capacità di stabilire un’adeguata distanza interpersonale (che, ovviamente, varia da individuo a individuo) in modo da avere il tempo di poter avviare la negoziazione di un possibile tentativo di aggressione da strada attraverso ciò che viene chiamato pre-confronto (si ricorda che nel Wing Tsun non si ricerca lo scontro ma, al contrario, si cerca sempre di prevenire tale circostanza o, in caso di inevitabilità dell’attacco, di stroncarlo sul nascere).

Come sostiene Giannantonio (2013), l’abuso potrebbe risultare essere un fattore di rischio per il restringimento della cosiddetta finestra di tolleranza (Ogden, Minton, Pain, 2006). La psicoterapia e la pratica integrata del Wing Tsun permettono di lavorare al fine di aumentare l’ampiezza della finestra di tolleranza in quanto entrambe le arti lavorano ai limiti di quest’ultima, l’una attraverso gli stimoli forniti dal terapeuta nel setting della seduta fornendo quell’ambiente cosiddetto sicuro ma non troppo (Bromberg, 2006), l’altra attraverso la strutturazione di situazioni cosiddette borderline che simulano vere e proprie aggressioni inducendo nell’allievo lo stress limite per poter riconoscere, negoziare ed eventualmente affrontare efficacemente un possibile attacco. Secondo lo stesso Giannantonio (2013), il trauma potrebbe avere effetti destrutturanti sulle dimensioni relative ai confini individuali per cui praticare il Wing Tsun potrebbe agevolare i pazienti nella ristrutturazione degli stessi, agendo in particolare su:

  • Percezione: le difficoltà di percezione dei confini corporei riguardano i cosiddetti pazienti sovraconfinati che permettono l’intrusione dei propri aggressori assumendo atteggiamenti di sottomissione conseguenti a risposte dissociative di freezing, e pazienti sottoconfinati aventi marcate difficoltà nel riconoscimento e nell’interpretazione dei propri marcatori somatici (ad esempio, i segnali corporei relativi alla paura). La pratica del Wing Tsun, attraverso l’esercizio delle forme (Siu Nim Tau, Chum Kiu) e del Chi-Sao, aiuta la mente ad assumere un atteggiamento mindful oriented (Ogden, 2009) insegnando il corretto uso della respirazione e della sensibilità corporea in modo da poter riconoscere l’esistenza reale di un pericolo, non negando allo stesso tempo la normale reazione di paura che non viene dissociata ma utilizzata adattivamente al fine di allertare e orientare i sistemi d’azione di attacco e fuga.
  • Difesa: nei pazienti traumatizzati risulta pervasivo l’uso delle difese dissociative patologiche a scapito di meccanismi regolativi più adattivi. In altre parole, questa dissociazione innescherebbe, a fronte di nuove aggressioni, risposte che sembrano bypassare completamente i sistemi di difesa più maturi. Secondo Porges (2009), da una parte potrebbero attivarsi risposte di mobilizzazione mettendo in atto un attacco come risposta automatica ad uno stimolo condizionato che potrebbe non avere alcuna valenza di pericolo imminente, dall’altra si potrebbe innescare una risposta di immobilizzazione che potrebbe favorire l’aggressione in quanto l’individuo, pur avendo gli strumenti per difendersi (anche le tecniche di Wing Tsun), mostrerebbe un atteggiamento di rigidità corporea che potrebbe fargli subire un attacco al quale non ci sarebbe alcuna risposta difensiva se non quella di depersonalizzazione e anestesia somatica (Nijenhuis, 2004). Il Wing Tsun si propone di insegnare agli allievi strategie di regolazione emotiva più adattive in situazioni di elevato stress: attraverso il pre-confronto si invita l’allievo ad integrare il vissuto emotivo con il linguaggio simulando possibili aggressioni in cui il tono della voce risulta congruente con la rabbia che dovrebbe prendere il sopravvento sulla paura nel momento in cui si invita l’aggressore a desistere dalle sue malevoli intenzioni. Si insegna, perciò, ad utilizzare la condivisione sociale quale efficace strategia per evitare l’intrusione oltre i limiti dei propri confini personali.

Una naturale conseguenza della mancanza di definizione dei confini personali è la mancanza di capacità nel negoziare la distanza fisica. Come suggerisce Ogden (2013, p. 210):

pazienti che hanno vissuto un trauma relazionale sono raramente in grado di stabilire una distanza appropriata tra se stessi e gli altri

Ovvero, possono irrigidirsi, tirarsi indietro o bloccare il respiro nel momento in cui il terapeuta esegue movimenti di allontanamento/avvicinamento. Questi fenomeni in seduta vengono affrontati attraverso esercizi pratici di psicoterapia senso-motoria che sono molto simili agli esercizi che gli istruttori di Wing Tsun insegnano ai propri allievi: uno di questi consiste nello stoppare, attraverso il sollevamento delle braccia, l’eccessiva intrusione nei propri confini personali dopo aver superato la distanza ottimale individuale.

Concludendo, la pratica delle arti marziali potrebbe avere effetti facilitanti sulla riabilitazione individuale se questa viene inserita all’interno di un programma di trattamento più ampio ed integrato.

Gli effetti non riguardano solo l’incremento delle capacità di socializzazione o del controllo dell’aggressività. In questo lavoro, si è ipotizzato che proporre l’affiancamento della pratica del Wing Tsun alla psicoterapia dei disturbi post-traumatici potrebbe avere effetti positivi sulla definizione dei confini corporei e delle distanze interpersonali, nonché sull’integrazione dei vissuti traumatici e delle parti dissociate della personalità. Ciò non sta a significare che il Wing Tsun sia l’unica arte marziale in grado di adempiere a questo compito: come sottolinea la Di Stefano (2005), tutte le arti marziali hanno effetti positivi sulla mente dell’individuo, in particolare sull’autostima, purchè non vengano praticate al solo scopo di aumentare la potenza fisica ma studiando anche i principi filosofici caratteristici di ciascuna di esse.

Il Wing Tsun rappresenta, quindi, un caso particolare che presenta numerose somiglianze con i più recenti approcci alla psicoterapia. Inoltre, esso non è da considerarsi uno sport da competizione come il Karate o il Judo, ma una disciplina finalizzata esclusivamente all’autodifesa, capacità che nelle vittime di traumi cumulativi e complessi risulta essere seriamente compromessa. Sarebbe opportuno, in futuro, valutarne anche l’efficacia a livello empirico stabilendo degli indicatori oggettivi o misure indirette in grado di mostrare miglioramenti e progressi dell’allievo/paziente nella vita quotidiana, quindi progettando dei trial clinici o studi caso/controllo al fine di stabilire una possibile correlazione o l’esistenza di differenze statisticamente significative nelle differenti modalità di cura dei pazienti traumatizzati.

 

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Le donne vittime di violenza domestica più a rischio di problemi mentali?

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Uno studio recentemente effettuato da un team composto da ricercatori dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze King’s College di Londra, dell’Istituto Universitario di Salute Mentale a Montréal (IUSM) e dell’Università di Montréal dimostra che, in aggiunta ai danni fisici, le donne che subiscono violenza domestica sono a maggior rischio per lo sviluppo di problemi mentali, quali ad esempio depressione e sintomi psicotici.

In relazione a ciò, abbiamo inoltre studiato il ruolo di certi fattori legati alla storia personale delle vittime, quali l’abuso durante l’infanzia e la scarsità di risorse economiche”, afferma la Dottoressa Ouellet-Morin, autrice principale dello studio, ricercatrice presso l’Istituto Universitario di Salute Mentale a Montréal e anche docente della Scuola di Criminologia dell’Università di Montréal.

1052 madri hanno preso parte all’Environmental Risk (E-Risk) Longitudinal Twin Study per un periodo di circa di 10 anni. Sono stati esclusi dallo studio soggetti con precedenti diagnosi di depressione. Durante questo periodo di 10 anni, i ricercatori hanno effettuato una serie di interviste per determinare se le partecipanti avessero subìto violenza dai loro compagni e se soffrissero di disturbi mentali.

I risultati di questo studio mostrano che:

– Più di un terzo delle donne riporta di aver subito violenza domestica dal proprio compagno (ad esempio, essere spinte o colpite con un oggetto);

– Queste donne aveva una più ampia storia di abuso durante l’infanzia, abuso di sostanze stupefacenti, povertà, gravidanze precoci e sintomatologia relativa al disturbo antisociale di personalità;

– Soffrivano inoltre di depressione due volte di più rispetto alle altre partecipanti, anche controllando le altre variabili;

– La violenza domestica non ha avuto impatto solamente sull’umore, ma anche sugli aspetti di salute mentale. Tra queste donne, il rischio di sviluppare sintomi psicotici al limite della schizofrenia è tre volte più alto rispetto al resto della popolazione.

Abbiamo dimostrato che la violenza domestica causa danni non solo fisici, ma anche psicologici, dal momento che incrementa il rischio di andare incontro a depressione e a sintomi psicotici”, aggiunge Louise Arseneault, ricercatrice presso l’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze King’s College di Londra. I professionisti della salute devono essere consapevoli del fatto che le donne che soffrono di certi disagi mentali potrebbero essere vittime di violenza, e viceversa. Sarebbe inoltre necessario ed auspicabile imparare a mettere in atto pratiche di prevenzione di violenza domestica, conclude.

 

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Università di Psicologia a Milano: la Sigmund Freud University

Sigmund Freud University Milano - Università di Psicologia

Dopo Vienna, Linz, Parigi e Berlino, aperta anche la sede Milanese della Sigmund Freud University, sita in Ripa di Porta Ticinese 77.

Obiettivo di questa università privata è offrire una formazione completa e altamente professionalizzante in teorie e tecniche delle scienze psicologiche: grazie alla propria caratura internazionale, infatti, SFU è in grado di proporre corsi estremamente attenti agli sviluppi scientifici delle tecniche psicologiche, mirati alla crescita degli studenti come professionisti.

Classi ridotte di circa 50 studenti, tutoraggio individuale, attenzione alla pratica e docenti di fama internazionale sono le chiavi attraverso le quali l’università Sigmund Freud di Milano fornirà ai propri studenti un bagaglio di competenze reali, riconosciute a livello internazionale e altamente qualificanti, volte a garantire un rapido ingresso nel mondo del lavoro per i propri studenti.

I corsi di laurea in psicologia si svolgono prevalentemente nella sede di Milano, ma ogni semestre gli studenti trascorrono un periodo continuativo a Vienna, ospiti del nuovo Campus nel centralissimo e storico parco del Prater.

Le iscrizioni ai Corsi di Laurea sono ancora aperte. Gli interessati potranno, accedendo alla pagina dedicata, ottenere tutte le informazioni necessarie compilando il modulo nella pagina dei contatti presente sul sito dell’università.

Tutte le informazioni legate a docenti, modalità di iscrizione, programma dei corsi sono disponibili su www.milano-sfu.it

Effetto Flynn: stiamo diventando sempre più intelligenti?

Oltre 30 anni fa, il professore neozelandese James R. Flynn ha rilevato che nel corso del secolo scorso, il livello di QI, stabilito in base ai punteggi riportati nei test di intelligenza come il Wechsler (WISC) o il Raven, è aumentato di generazione in generazione. Questo aumento dei punteggi di QI è stato denominato appunto Effetto Flynn.

Prove dirette dell’esistenza di questo fenomeno vengono da numerosi studi svolti in diversi paesi (inizialmente 14, ma ora le ricerche sono arrivate a coprire oltre 20 paesi,), dove uno stesso test è stato usato sulla popolazione ma in tempi differenti, generalmente dopo molti anni l’uno dall’altro, ed è stato visto che le ultime generazioni riportavano punteggi migliori nei test rispetto alle generazioni precedenti.

Dai risultati dei test è emerso che l’aumento medio del QI è stato di 3-4 punti ogni 10 anni fino ad arrivare ad 8 punti nei paesi nordici.

 Malgrado esistano molte prove a favore di Flynn, ancora non risulta chiaro quali possano essere le cause, ovvero se il merito dell’aumento del QI sia da attribuire soprattutto ad un cambiamento del sistema educativo e sociale (ambiente sociale più stimolante anche grazie alle innovazioni tecnologiche e maggior livello di scolarizzazione), oppure da fattori biologici in particolare il miglioramento dell’alimentazione e di uno stile di vita in generale più sano.

Quindi secondo le teorie di Flynn noi siamo più intelligenti dei nostri nonni ed i nostri figli saranno più intelligenti di noi…ma sarà vero?

Un gruppo di ricercatori di Copenaghen, in uno studio del 2008, hanno osservato che dalla fine degli anni ’90, l’aumento si è interrotto ed in questi ultimi i punteggi nei test che valutano il livello di QI hanno iniziato addirittura a diminuire. Il loro studio era focalizzato sulla popolazione danese, ma i risultati concordano con quelli ottenuti in uno studio precedente (2004) svolto in Norvegia, Paese con il quale la Danimarca condivide molte caratteristiche storiche, linguistiche, culturali e sociali.

L’interpretazione data a questi risultati è che l’effetto Flynn potrebbe essere giunto alla fine nei paesi altamente sviluppati (come Danimarca e Norvegia) ma può essere ancora riscontrabile nei paesi ancora in via di sviluppo.

Tuttavia, gli autori di questo studio sostengono che in futuro le differenze generazionali nei punteggi dei test sono destinate a diminuire.

 

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Gli ingredienti del tradimento – Tracce del tradimento Nr. 05 –

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO 05

Il dolore del tradimento inflitto al partner, la colpa, lo strazio per il distacco di chi si ama da noi. Spesso ci appaiono vite “come se”, come se ci fossero sentimenti e rapporti, ma senza le implicazioni emotive e dolenti che ogni atto esistenziale implica. Insomma una vita di benefici sognati e di costi evitati.

Quali sono gli ingredienti di queste storie di tradimento?

Innanzitutto la tendenza a inferire da tracce labili un tradimento certo, e l’atto inferenziale appare come una certezza marmorea e indiscutibile. Poi la nascita dell’odio improvvisa dopo la mitizzazione del sentimento amoroso, l’odio verso l’altro accusato di rompere un progetto esistenziale. E da quell’odio si deduce l’omicidio: se non stai con me allora con nessun altro. Una sorta di tragedia grandiosa appare agli occhi di persone dalla vita spesso affatto epica. E l’atto violento è l’unico atto grandioso di una vita intera, una sorta di tragico riscatto.

Un secondo ingrediente è la caduta delle spinte ideologiche e spirituali alla  monogamia. Cresce il desiderio di tutto potere e avere in una società che spinge al soddisfacimento del massimo dei desideri possibili e al disprezzo per le regole morali autoimposte. È la società del mercato e dell’ immagine che ci dice “no limits” dove il limite invece che il risultato di una scelta pacata appare come una banalità, un noioso accomodarsi alla normalità, una riduzione di senso. Questo è interessante perché è come se nella modernità avanzata si recuperassero aspetti di comportamento promiscuo sepolti nelle radici genetiche del nostro essere mammiferi predatori.

La spinta al consumo si sposta dagli oggetti (le borse, le scarpe) alle relazioni. È  difficile non farsi coinvolgere da questa corsa generale e veloce al massimo del soddisfacimento in tutti i campi.  Anche la spinta al consumo sessuale si è fatta grande, ovunque occhieggiano da manifesti, giornali, televisioni e internet, donne e uomini giovani, disponibili e molto belli che ci guardano e ci chiedono “e perché no?”

Questa ideologia della libertà costituisce al contempo l’intelligenza dell’occidente, la sua incredibile spinta al cambiamento -come scrive Landes (2000)- ma anche la sua nemesi dolorosa.  La motivazione che abbiamo avuto verso la scoperta, l’esplorazione del nuovo, la curiosità per la sperimentazione di soluzioni scientifiche e tecniche sempre nuove, hanno implicato molte vittorie ma portato alcuni mutamenti non facili da affrontare per la larga parte della popolazione. L’interesse per tutto ciò che è nuovo è anche al centro di una crisi dei rapporti e della necessità di una riflessione  che chiede nuove soluzioni.

Nei rapporti, che è l’area che stiamo mettendo a fuoco, il tradimento e il gioco sembrano poter sostituire la consapevolezza del dolore e del limite che è in ogni atto umano. Spesso i nostri pazienti quando arrivano da noi sembrano raccontare storie di assoluta impreparazione ad affrontare le normali conseguenze degli atti della vita.

Il dolore del tradimento inflitto al partner, la colpa, lo strazio per il distacco di chi si ama da noi. Spesso ci appaiono vite “come se”, come se ci fossero sentimenti e rapporti, ma senza le implicazioni emotive e dolenti che ogni atto esistenziale implica. Insomma una vita di benefici sognati e di costi evitati.

Anche il cinema ci mostra in modo interessante questa esclusione della sofferenza implicata nella maggiore libertà che abbiamo. Pensiamo ad Almodovar, il grande regista racconta un suo mondo ideale di donne e uomini forti e allegri in cui la promiscuità assoluta, i gusti sessuali e le tragedie della vita possono essere affrontate tutte insieme, con una leggerezza e un vitalismo che esclude il racconto della sofferenza. O il nostro Ozpetec quando dopo le peggiori tragedie, dopo lutti, cambiamenti di gusto sessuale e identitario riunisce alla fine i personaggi a volersi bene intorno a un tavolo.

Non tutti nella vita riescono ad essere Penelope Cruz e Carmen Maura o la nostra Greta Scacchi, e il fatto che anche questa allegria sia possibile non vuol dire che sia un paradigma esportabile o auspicable per tutti e in tutte le situazioni.  Proprio questo limite costituisce secondo noi la genialità di Almodovar, un visionario che come tutti i grandi anticipa e coglie  il sentimento profondo del proprio tempo.  Ma quando poi l’illusione finisce è difficile cominciare ad imparare l’alfabeto emotivo e sentimentale necessario a vivere la vita. La leggerezza della società occidentale ci salva e ci danna e forse sarebbe anche ora di affrontare con serietà la costruzione di un’etica laica del sentimento e della responsabilità che ci permetta di affrontare in modo maturo e “all’occidentale” la vita.

L’accettazione del limite della sofferenza, o la fuga da queste appaiono come una delle forbici e dei dilemmi esistenziali maggiormente presenti nei nostri pazienti.

 

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Il capro espiatorio in Girard e in Fornari: Dioniso e Cristo

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Mentre Girard sembra aspirare a una purificazione completa dell’umanità dalla violenza, Fornari sembra invece additare un aspetto luminoso in questi conflitti rivalitari.

Nel mito di Dioniso tutti questi elementi convergono con chiarezza. Questo lo racconta bene soprattutto Fornari nel suo libro “Da Dioniso a Cristo. Conoscenza e sacrificio nel mondo greco e nella civiltà occidentale”, libro splendido la cui lettura raccomando.

Dioniso è, infatti, all’origine anche lui un semplice uomo capitato in una situazione di emarginazione e sospetto, uno straniero linciato, sacrificato e poi divinizzato. La cosa potrà sembrare strana a chi di Dioniso ha l’immagine di un dio simpatico e ubriacone. Ma c’è molto di più. Nella sua prima incarnazione, Dionisio Zagreo è ucciso e mangiato da un gruppo di persecutori che poi diventano adoratori, per la precisione un gruppo di marinai. In versioni successive e meno cruente del mito, Dioniso si salva, soccorso dai delfini. Ma non basta.

In tutte le varianti del mito di Dioniso il tema del sangue e del linciaggio è presente. Dioniso rischia la morte fin dall’inizio, quando sua madre Semele, indotta da Era gelosa a spiare il suo amante Zeus mentre lancia i fulmini, muore tra le fiamme come accade a qualunque mortale che osi guardare il padre degli dei mentre è intento a scatenare la tempesta. Il bimbo viene salvato da Zeus in persona che lo sottrae alle fiamme che divorano la madre e se lo inserisce nella coscia, in una sorta di gravidanza succedanea e divina che è anche una morte e resurrezione. Ma non è la sola volta che Dioniso rischia la vita da bambino.

In un altro mito Dioniso bambino è attirato dai Titani, la razza rivale degli dei olimpici, che lo vogliono linciare. Ed è attirato come si attirano i bambini, ovvero con dei giocattoli. E qui si gela il sangue, perché secondo Fornari una delle forme più antiche e terribili di sacrificio umano era il sacrificio di un bambino, attirato con dei giocattoli al centro del cerchio sacro dei linciatori. Ancora più terribile pensare che questo sacrificio era fatto per evitare il linciaggio di un re, di un adulto con un ruolo di potere. Su un bambino era stornata la violenza che rischiava di colpire un adulto. 

A questo punto diventa chiaro che anche le religioni ebraica e cristiana sono a loro volta forme di gestione di questa violenza di gruppo. Anche in questo caso Girard e Fornari vedono un passo avanti, addirittura una svolta decisiva. Secondo Girard il sacrificio nelle religioni pagane era stato sempre un passo avanti insufficiente perché il meccanismo linciatorio era rimasto nascosto dietro la divinizzazione dell’eroe sacrificato. Ad esempio, la memoria del linciaggio di Romolo rimane nascosta dietro la sua promozione a dio sotto il nome di Quirino. La sua morte cruenta è trattata in versioni apocrife del suo mito, tramandata in tradizioni minori.

Nella passione cristiana, invece, la morte cruenta come mezzo di riconciliazione è evidente, almeno secondo Girard. In tal modo il meccanismo espiatorio diventa consapevole ed è possibile superarlo, o almeno compiere un passo avanti nel suo superamento. Vero è che il superamento rimane parziale, e la violenza non è certo bandita da quel momento dalla storia umana, come purtroppo ben sappiamo. Inoltre nella passione cristiana si crea involontariamente un nuovo capro il cui linciaggio non è rappresentato e riconosciuto. Si tratta dello stesso popolo ebraico, che prende su di sé tutta la colpa della morte del Cristo, impedendo così che si completi il meccanismo del riconoscimento universale di tutti nella folla linciante, bollata invece come solo ebraica e non come universalmente umana.

Tuttavia, per Girard in quel momento comunque si insemina nell’umanità il senso dell’impossibilità di risolvere sempre la violenza facendola convergere su un unico colpevole che vien poi divinizzato. Una sorta di sacra rappresentazione in cui tutti possano riconoscere il proprio desiderio violento da scaricare su un innocente.

Girard, lungi dallo scaricare sugli ebrei questa tendenza, sostiene al contrario che il giudaismo aveva preceduto il cristianesimo in questa capacità di rappresentare senza infingimenti e veli la propensione umana alla violenza, fin dai racconti di Caino e Abele.
Tuttavia, la svolta cristiana ha il suo prezzo, la crescente espulsione dell’ aggressività dalla vita sociale, man mano che si realizza nei secoli, crea nuove difficoltà. La violenza espulsa tenta di rientrare attraverso esplosioni improvvise che di nuovo si travestono in qualcosa d’altro.

In Nietzsche si radunano i prodromi del ritorno della violenza repressa, l’evocazione del ritorno dell’orgia dionisiaca troppo repressa nelle controllate maniere borghesi. È proprio il superamento borghese della violenza che va in crisi, scrive Girard, un superamento che assume le forme dello sviluppo economico e dell’impegno di sé nel lavoro e nell’ affermazione di sé. In questa maniera, secondo Girard non vi è vero superamento dell’agonismo rivalitario, ma solo un suo travestimento in un agonismo ritualizzato nella competizione per il benessere materiale, l’affermazione di sé nel successo economico e sociale. Alla lunga il ritorno della violenza appare inevitabile, e dopo l’evocazione intellettuale di Nietzsche segue l’esplosione totalitaria della prima metà del novecento, condotta da Hitler e Stalin.

Su questo punto la posizione di Fornari diverge da quella di Girard. Mentre Girard sembra aspirare a una purificazione completa dell’umanità dalla violenza, Fornari sembra invece additare un aspetto luminoso in questi conflitti rivalitari. Non è solo agonismo, competizione e odio, scrive Fornari (2006). Si tratta anche di emulazione e ammirazione, non necessariamente degradata a invidia. In questo modo l’uomo sublima e supera davvero le sue tendenze conflittuali, senza negarle alla radice come sembra desiderare Girard.

La storia arriva fino ai giorni nostri, con una sua impasse tragica. La crisi militarista e totalitaria della prima metà del novecento è superata. Il cristianesimo, sfociato nella laicità liberale e illuministica, sembra in grado di lasciare il suo dono anti-violento. Al tempo stesso, però, il rischio di perdere la vitalità connessa con la radice rivalitaria e agonistica sembra a tratti ancora presente. L’interpretazione moderna di Nietzsche lo ha depurato delle sue passioni più feroci, della sua ossessione per la potenza e il dominio, il rango dei dominatori e la sopraffazione dei deboli, anzi dei “malriusciti”, come rudemente amava definirli Nietzsche. Nietzsche è interpretato oggi come un hippie abbastanza innocuo, che predica una liberazione anodina e inoffensiva. L’orgia dionisiaca è diventata un concerto rock in cui nessuno viene linciato, e la musica sostituisce il sangue, fortunatamente. Speriamo che il compromesso funzioni e duri, almeno per qualche tempo ancora.

 

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Woody Allen, Io e Annie (1977) & il percorso psicoanalitico

 

Allen proietta il suo inconscio, crea protagonisti che hanno le caratteristiche delle sue fobie, delle sue nevrosi, delle sue paure. Ci chiarifica il quadro psicologico del personaggio, ci descrive perfettamente le sue debolezze e facendo così sembra già che in qualche modo se ne sia disfatto se non per il solo fatto di averlo mostrato.

Woody Allen, il nuovo “Charlot”, della seconda metà del ventesimo secolo, che carica, descrive e deride la sua contemporaneità con una chiave tutta nuova. Omino goffo, balbuziente, nevrotico, depresso, angosciato dirige e scrive film con l’idea di non arrendersi al semplice intrattenimento. Film intelligenti, che fanno riflettere, con dialoghi pieni di verve, opere d’arte, insomma, ma che arrivano a tutti. 

In analisi dal 1959, i suoi film hanno la peculiare caratteristica di toccare diverse delle tematiche Freudiane (sesso, indipendanza affettiva, madre) ma quando nel 1977 esce “Io e Annie” (Annie Hall) che si aggiudica 4 Premi Oscar nel 1978: miglior film, miglior regista, migliore sceneggiatura originale e migliore attrice protagonista, Allen realizza un vero e proprio percorso psicoanalitico.

Allen proietta il suo inconscio, crea protagonisti che hanno le carattersitiche delle sue fobie, delle sue nevrosi, delle sue paure. Ci chiarifica il quadro psicologico del personaggio, ci descrive perfettamente le sue debolezze e facendo così sembra già che in qualche modo se ne sia disfatto se non per il solo fatto di averlo mostrato. Guarda se stesso, guarda il mondo, cerca di analizzare l’origine dei mali, l’evoluzione della società, nevrosi proprie solo di questo secolo e solo di una parte, quella più industrializzata, quella evoluta, del mondo. Rompendo la quarta parete ci fa sentire parte del suo punto di vista, ci coinvolge, sembra quasi voler condividere e chi più chi meno pensa “ Ehy si, è proprio cosi,” sono io, siamo noi, e Allen partendo da se stesso e passando attraverso la sua “macchietta” ci colpisce in pieno, con toni sarcastici dice ciò che pensa e seppur facendoci sorridere ci lascia l’amaro dello schiacciante peso della realtà insensata, analizza il mondo e si autoanalizza, fuori dalla sfera della coscienza indaga il suo inconscio, ci prova costantemente partendo da “io e Annie” fino ai giorni d’oggi.

Alvy (Allen) con sguardo alla macchina inizia un monologo:

[blockquote style=”1″]“C’è una vecchia storiella: due vecchiette sono ricoverate nel solito pensionato per anziani e una di loro dice: “Ragazza mia, il mangiare qui dentro fa veramente pena” e l’altra “Sì, è uno schifo; ma poi che porzioni piccole!”. Beh, essenzialmente è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miseria, di sofferenza, di infelicità e disgraziatamente dura troppo poco. E c’è un’altra battuta che è importante per me: è quella che di solito viene attribuita a Groucho Marx, ma credo dovuta in origine al genio di Freud e che è in relazione con l’inconscio; ecco, dice così, parafrasando: “Io non vorrei mai appartenere a nessun club che contasse tra i suoi membri uno come me”. E’ la battuta chiave della mia vita di adulto in relazione alle mie relazioni con le donne. Sapete… ultimamente i pensieri più strani attraversano la mia mente, perché sono sui 40 e penso di attraversare una crisi o che so, chi lo sa. Io… io… non mi preoccupa invecchiare, non sono di quei tipi, sapete… Lo so: quassù mi si apre una piazzetta, ma peggio di questo, per ora, non mi è successo. Io, anzi, credo che migliorerò invecchiando. Ecco, sapete, credo che sarò il tipo virilmente calvo, sapete, come dire: l’esatto contrario dell’argentato distinto, per esempio, ecco. E se no nessuno dei due. Divento uno di quelli che si perdono i filini di bava dalla bocca, vagano per i mercatini con la borsa della spesa sbraitando contro il socialismo. Annie e io abbiamo rotto e io ancora non riesco a farmene una ragione. Io… io continuo a studiare i cocci del nostro rapporto nella mia mente e a esaminare la mia vita cercando di capire da dove è partita la crepa. Ecco… un anno fa eravamo innamorati, sapete, io so… E’ strano, non sono il tipo tetro, non sono il tipo deprimente. Io… io… io… sono stato un bimbo ragionevolmente felice, credo. Sono cresciuto a Brooklyn, durante la seconda guerra mondiale.” si presenta cosi.[/blockquote]

MONOLOGO INIZIALE:

Il protagonista del film che lasciatosi con Annie (Keaton) da un anno, racconta l’evoluzione del loro rapporto, la felicità, il deterioramento e la fine. Analizza quali delle sue problematiche psicologiche, nate nell’infanzia (nevrosi, depressione…) possa aver influito di più su questa bella storia e con un impeccabile capacità dell’utilizzo del mezzo, tra split-screen, piani sequenza e flashback parte come in un percorso psicanalitico l’analisi del suo personaggio, ricorda la scuola e cerca di giustificare con il suo “io” adulto il suo precoce pensiero alle donne chiarendo di non aver evidentemente avuto un periodo di “latenza” come anche il vecchio Freud suggerisce nella descrizione delle fasi dello sviluppo psicosessuale. Ha una depressione legata “a qualcosa che ha letto” come chiarifica la madre allo psicanalista che vede il bambino immotivato per via del fatto che “l’universo si sta dilatando” suggerendogli che essendo una cosa che accadrà fra milioni di anni, ora “bisogna godersela” ma il personaggio va dritto verso un percorso che man mano porta alla totale perdita di capacità di piacere, come il titolo pensato in un primo momento, “anedonia” avrebbe definito.

Con l’incontro con Annie la storia prende un tono classico narrativo, quando i due si lasciano si interrompe la linearità narrativa e si torna sull’autoriflessivo, il tutto condito da una linguistica che descrive perfettamente la società contemporanea, che nasce a metà secolo e appartiene al luogo comune oggi. Il classico viene abbandonato, la visione dell’ uomo e della donna non sono più legati a stereotipi.

L’errore di Alvy è stato quello di iniziarla alla cultura, più l’emancipazione di Annie aumentava più il loro amore diminuiva. Per Allen più si è provvisti di una solida personalità e cultura più le relazioni amorose sono a rischio, si è più soggetti a nevrosi e insoddisfazione continua.
La costante ricerca di successo e autorealizzazione a discapito di una relazione felice? Per chi si trova in questa morsa, quando ad un certo punto si hanno bisogno di nuovi stimoli e l’euforia iniziale scema drasticamente, una relazione monotona e standardizzata è realmente ciò di cui si ha bisogno? E’ davvero questo che non ci rende felici? Bisognerebbe solo aggiustare un po’ il tiro ma è sempre più facile a dirsi che a farsi. In una scena in cui s’interroga sull’amore, non si capacita di come questo possa essere finito, una signora gli suggerisce bruscamente che “l’amore svanisce” comincia così a fare domande in questione sull’argomento, poi vede una coppia apparentemente felice:

[blockquote style=”1″]Alvy: Ecco, voi voi, sembrate una coppia molto felice, e lo siete?

Coppia di passaggio: Si! Alvy: E questo a cosa lo attribuite?

Ragazza della coppia: Oh io sono superficiale e vuota e non ho mai un’idea e… non ho niente di interessante da dire.

Ragazzo della coppia: Io lo stesso.

Alvy: Ah, ho capito avete unito le vostre intelligenze così da due almeno uno…[/blockquote]

L’AMORE SVANISCE:

Solo così si può essere felici? Ed è realmente vera questa felicità? Nella scena finale si vede Alvy osservare due attori recitare in commedia la sua storia con Annie ma gli attribuisce un finale alternativo dove Annie rimane con lui. Chiarifica il suo pensiero guardando in camera e dicendo

[blockquote style=”1″]”che volete era la mia prima commedia e sapete come si cerchi di arrivare alla perfezione almeno nell’arte perché è talmente difficile nella vita” [/blockquote]

chiudendo con un ottimo risultato la sua prima vera seduta.

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Violenza sessuale: i familiari di autori di reati sessuali sono anch’essi più inclini a commettere reati simili

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I parenti stretti di uomini autori di violenze sessuali sarebbero a loro volta maggiormente inclini a commettere reati simili, rispetto alla popolazione generale.

E’ quanto dimostra una ricerca effettuata da studiosi dello Sweden’s Karolinska Institutet, in collaborazione con l’Oxford University.

[blockquote style=”1″]”Ci sembra importante sottolineare che questo non implica che figli o fratelli di coloro che commettono crimini sessuali seguano inevitabilmente la stessa strada”[/blockquote] afferma Niklas Langstrom, autore principale dello studio nonché docente di Epidemiologia Psichiatrica presso il Karolinska Institutet.

Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Epidemiology, include tutti i 21.566 uomini che hanno commesso reati sessuali in Svezia nel periodo compreso tra 1973 e il 2009. I dati sono stati raccolti in forma anonima dai registri legali di tutta la Svezia. I ricercatori hanno analizzato il numero di crimini sessuali perpetrati da padri e fratelli di uomini che in passato avevano commesso questi stessi reati, confrontandoli con quelli provenienti da una popolazione generale avente simili età e relazioni familiari.

I risultati mostrano che all’incirca il 2,5 percento dei figli o fratelli di autori di crimini sessuali tende a perpetrarne a propria volta, contro lo 0,5 percento delle figure maschili provenienti dalla popolazione generale. In questo studio è stata anche analizzata statisticamente l’influenza di fattori genetici e ambientali coinvolti nel rischio di commettere reati sessuali.

[blockquote style=”1″]“Abbiamo trovato che in questo processo sono coinvolti fattori genetici (42 percento) e fattori ambientali (58 percento). Tali fattori includono instabilità emotiva, aggressività, attitudine al crimine, preferenze sessuali devianti e ossessioni in merito al sesso”[/blockquote] afferma Langstrom.
Ad incrementare il rischio familiare sono dunque fattori generici ed ambientali. In quest’ottica, trattamenti preventivi per le famiglie a rischio potrebbero forse ridurre il numero delle vittime future.

Le denunce di violenza sessuale raccolte in Svezia sono molto simili a quelle riportate in altri paesi dell’Europa, in Canada e negli USA. Confronti con denunce effettuate in altri paesi dovrebbero essere fatti con cautela, a causa delle differenze nelle definizioni legali, nei metodi di registrazione, nelle diversità culturali riguardanti la sicurezza personale.

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Uno psichiatra punk rock: Intervista a Benedetto Valdesalici

Senza la musica Mozart sarebbe stato in manicomio e molti altri dopo di lui, senza la musica Marsia avrebbe ancora la pelle, senza la musica non esisterebbe neanche la poesia che è l’ultima ragione che ci resta. La musica dà già molto alla vita perché la Psichiatria vuole dei contributi?

Qualche tempo fa ho letto il bel libro di Michele Rossi “Quel che deve accadere, accade. Storia di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni” (2014), che racconta le vicende di questi due grandi artisti emiliani, fondatori del gruppo punk-rock CCCP (poi divenuto CSI), che ebbe notevole successo tra gli anni Ottanta e Novanta. Nel libro si accenna più volte a uno psichiatra reggiano, il dottor Benedetto Valdesalici, attualmente in pensione dopo aver diretto il SERT per tanti anni, che in certi periodi è stato collaboratore, testimone e ispiratore del gruppo.

Il cantante Giovanni Lindo Ferretti, prima di dedicarsi completamente alla musica ha lavorato come educatore psichiatrico e questa esperienza emerge in modo prepotente in diversi testi della band, come Curami (“Curami, curami, curami…Prendimi in cura da te, prendimi in cura da te”) o Valium Tavor Serenase (“il Valium mi rilassa, il Serenase mi stende, il Tavor mi riprende”). Abbiamo rintracciato il dottor Valdesalici per farci raccontare di quell’esperienza e del suo rapporto con altre realtà musicali della zona (come gli Ustmamò).

Gaspere Palmieri (GP): Nelle biografie dei CCCP, si parla anche di te e dei tuoi rapporti con il gruppo, soprattutto all’inizio della loro carriera. Ci racconti qualcosa di quel periodo e di quel rapporto?

Benedetto Valdesalici (BV): Allora ero un giovane medico dedicato a quella psichiatria umanistica di cui avevo intravisto rari lampi nel mio cammino di studente, paziente, specializzando. Che i CCCP abbisognassero di una funzione enzimatico-maieutica nella forma poetico sciamanico psichiatrica lo possiamo arguire con la distanza degli anni: allora ero solo una necessità risolta in corso, nient’altro.

Ricordo le irritazioni e le cupaggini conseguenti agli scontri caratteriali tra Giovanni Ferretti, Massimo Zamboni e Umberto Negri. Dopo una lite feroce scoppiata in non so più quale concerto vennero a casa mia a chiedermi confronto, conforto e consulto. Preparai tre sacchettini, che a loro insaputa contenevano una zampetta di coniglio e prescrissi li portassero al collo il più a lungo possibile. Risolvere la lite in atto psicomagico per dirla con Jodorowsky. Di fatto portarono il sacchettino giorno dopo giorno accorgendosi che cresceva una gran puzza sotto il loro naso. Quando divenne insopportabile se ne liberarono. La mia fu, sostanzialmente, una funzione ostetrica, un sostegno alla nascita, come fu più tardi per gli Ustmamò. Oggi posso affermare che i CCCP necessitavano, sullo sfondo, di una funzione di contatto-controllo ed io sentivo allora una forte necessità di testimonianza, di fare memoria, di filmare.

GP: In diversi brani dei CCCP c’è più di un accenno al disagio individuale e sociale e in tanti testi emerge il vissuto di ex operatore psichiatrico del cantante Giovanni Lindo Ferretti. Possiamo dire che i CCCP fosse una band un po’ “psichiatrica”?

BV: Nel 2014 ho contribuito con alcuni reperti alla mostra che Annarella Giudici (“la benemerita soubrette” n.d.r.) ha allestito sui CCCP.  Il primo reperto che ho trovato è un video di 45 minuti con libretto, cartolina e invito ad uno spettacolo al teatro Orologio a Reggio Emilia il 21 aprile 1987: Chi fruga frega, adagio schizofrenico. Un’operina teatrale dedicata alle mie vicende psichiatriche in prosa polifonica alla Amy Lowell. La prima parte del video consiste di una lettura pedissequa ed emozionata arredata da suoni e voci fuori campo. La seconda è la distruzione del testo da parte di Ferretti e della sua corte dei miracoli. Una specie di rituale sciamanico psicomagico. Così torna alla mente la Sezione Lombroso, un ramo sostanzialmente sconosciuto dei CCCP delle origini che pur produsse comunicati, volantini, pezzi di fanzine, cartoline, gadget (che comprendevano immagini di David Cooper, Ronald Laing, Bruno Bettelheim) e firmò la video perizia per RAI2 di Ortodossia, un vinile rosso slavo con libretto di proclami, prodotto dalla Attack Punk Record di Giorgetti, oggi Helena Velena. Ma come sezione Lombroso dovevo anche occuparmi della manutenzione del tasso di salute mentale in corso, che con l’arrivo nel gruppo di Danilo Fatur e di Antonella Giudici subì una brusca flessione. Uno spogliarellista blasfemo e una mannequin ultraspeed: la danza dello zolfo e del sale dentro l’athanor del palcoscenico. Eppure tutto resse. Fino a Tienanmen e al crollo del muro di Berlino, ma questa è un’altra storia.

GP: Ci racconti delle altre tue esperienze di collaborazione con artisti della tua zona come gli Ustmamò o Mara Radighieri?

BV: Gli Ust sono nati in camera mia, dopo il mio ritorno a casa da Bologna. Conoscevo Ezio e Luca fin da bambini e l’arrivo prima di Silvia, poi di Mara come cantante lo ricordo bene. C’erano all’origine conflitti di leadership che si sono amalgamati al resto e credo siano stati mortali (come per i CCCP). Mara è una cara amica, un famiglio, una compagna di cammino. Che dire collaboro? No con lei vivo e se da cosa nasce cosa, e se son rose fioriranno, diventano ritornelli che rallegrano la giornata. Mi fa anche incazzare, ma se non vi fanno incazzare coloro che amate cosa ci stanno a fare? Ma questa è altra storia.

GP: La zona dell’appennino reggiano è molto feconda dal punto di vista musicale. C’ é qualche motivo culturale particolare alla base di ciò?

BV: C’è l’amore per la musica e il canto dei montanari, non solo reggiani. Penso ai Maggi, alle befanate, ai canti di lavoro e di emigrazione; penso ai Cori e al piacere dell’ascolto; penso ai Liguri montani primigeni che dal loro piacere per il canto presero nome (ligues in greco “dal bel canto”).

GP: Ti sei mai interessato di musicoterapia?

BV: Ho collaborato con l’Indaco per molti anni e l’opportunità espressiva della musica è insuperabile come impagabile è la lezione di ascolto che la musica offre. Credo sia un ottimo nootropo, un buon eupeptico, un serio miorilassante anche se può ferire.

GP: Pensi che la musica possa dare qualche contributo alla psichiatria?

BV: Senza la musica Mozart sarebbe stato in manicomio e molti altri dopo di lui, senza la musica Marsia avrebbe ancora la pelle, senza la musica non esisterebbe neanche la poesia che è l’ultima ragione che ci resta. La musica dà già molto alla vita perché la Psichiatria vuole dei contributi?

GP: Esiste secondo te un rapporto tra musica rock e psicopatologia?

BV: No, sebbene molti idoli rock siano stati severamente disturbati, spesso sotto abuso di alcool e sostanze pur cantando in liriche insuperate i drammi interi di una generazione. Il passaggio acustico/elettrico, la Fender forse qualcuno l’ha vissuta come il diavolo, i dischi ascoltati alla rovescia dei satanisti, ma dare una chitarra in mano a uno psicopatico potrebbe esprimerlo, sfogarlo, forse potrebbe perfino curarlo meglio di un neurolettico di VI generazione. Nessuna musica può essere accostata eziologicamente alla psicopatologia. La musica deve stare fuori dal DSM anche se il violino è lo strumento del diavolo “il trillo mi fu dettato letteralmente dal demonio” racconta Tartini. Ma voi credete al diavolo?

CCP e Benedetto Valdesalici

 

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Effetto Placebo: un viaggio tra mente e corpo. Intervista a Fabrizio Benedetti

Gli psicoterapeuti devono prendere coscienza che, così come avviene in farmacoterapia, anche in psicoterapia c’è un effetto placebo. Quindi, non tutte le psicoterapie sono realmente efficaci. Alcune agiscono solo mediante un effetto placebo.

Chi lavora in ambito psichiatrico e psicoterapico non può non tenere in considerazione come le aspettative del paziente rispetto ai trattamenti abbiano un ruolo importante, che spesso condiziona l’esito della cura. Questo fenomeno è alla base del cosiddetto effetto placebo, che ha recentemente attirato l’interesse dei ricercatori in quanto esempio di affascinate e complessa interazione tra mente e corpo, in cui gli eventi mentali sono in grado di influenzare aspetti biologici e organici.

Recentemente mi è capitato di leggere il bel libro di Fabrizio Benedetti, “L’effetto placebo, breve viaggio tra mente e corpo” (Carocci, 2012), che tratta questo argomento in modo scientificamente rigoroso, seppure con un taglio divulgativo. L’autore, professore ordinario di neurofisiologia e fisiologia umana all’Università di Torino ed esperto di effetto placebo a livello internazionale, ha accettato di rispondere ad alcune domande per State of Mind. 

Gaspare Palmieri (GP): Nei trial clinici degli antidepressivi emerge come la risposta al placebo possa arrivare fino al 40%. In che modo uno psichiatra dovrebbe tenere in considerazione questo dato nella propria pratica clinica?

Fabrizio Benedetti (FB): In una classica meta-analisi del 1998 di Kirsch e Sapirstein, la risposta placebo è stata stimata del 75%. In effetti, di questo 75%, il 25% è remissione spontanea, mentre il 50% è un effetto psicologico (la risposta placebo vera!). Quindi, sembra che solo il 25% sia un effetto farmacodinamico. Le implicazioni sono che verosimilmente la psicoterapia è più efficace rispetto alla farmacoterapia.

GP: Sembra che nella risposta a certi farmaci le aspettative di guarigione giochino un ruolo fondamentale. C’è un modo per indagarle anche in modo strutturato con interviste e test affidabili? Avrebbe senso usarle rutinariamente anche per calibrare meglio le prescrizioni?

FB: Le aspettative vengono oggi valutate sempre più nei trial clinici moderni, ma nella pratica medica sembra un po’ più complicato.

GP: Nel libro dedica un capitolo all’effetto placebo in psicoterapia. Che ripercussioni può avere questo fattore nella pratica psicoterapeutica?

FB: Le ripercussioni sono che gli psicoterapeuti devono prendere coscienza che, così come avviene in farmacoterapia, anche in psicoterapia c’è un effetto placebo. Quindi, non tutte le psicoterapie sono realmente efficaci. Alcune agiscono solo mediante un effetto placebo.

GP: Può tracciare, alla luce dei suoi studi, una sorta di profilo di paziente su cui l’effetto placebo dovrebbe funzionare maggiormente? Esistono test psicometrici utili in questo senso?

FB: Ci sono almeno due meccanismi. Primo, l’apprendimento gioca un ruolo fondamentale: chi ha ricevuto in passato trattamenti efficaci, in genere diventa un buon placebo responder. Secondo, alcuni genotipi rispondono meglio di altri, e ciò tutto sommato non sorprende, visto che molti neurotrasmettitori sono coinvolti nella risposta placebo. Quindi, una variante genetica di un neurotrasmettitore è ovvio che influisca anche sulla risposta placebo.

GP: Per via delle ovvie complicazioni etiche, pare che siamo ancora molto lontani dall’uso del placebo come terapia, tranne forse in certi casi anedottici. D’altra parte l’informare il paziente che si tratta di un placebo farebbe perdere buona parte dell’effetto sulle aspettative. Sembra un dilemma di non facile risoluzione…

FB: L’uso del placebo nelle corsie ospedaliere e negli ambulatori medici è molto comune in tutto il mondo e nella maggior parte dei casi non viene detto al paziente che si tratta di un placebo. Recentemente, alcuni studi hanno dimostrato che anche nel caso in cui si dica al paziente che si tratta di un placebo, un piccolo effetto rimane. E’ la componente inconscia della risposta placebo.

GP: Nel suo libro analizza anche il fenomeno placebo nella vita di tutti i giorni, dove la realtà viene vissuta a seconda del significato che noi le attribuiamo. Ricorda un approccio molto in linea con le teorie psicologiche del costruttivismo, cosa ne pensa?

FB: Certamente sì. Siamo noi ad interpretare il mondo che ci circonda, e la realtà vera spesso non è come quella che noi percepiamo.

 

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Il capro espiatorio in Girard e in Fornari: il superamento del sacrificio umano (Pt. 3)

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Col tempo la violenza si stempera. Dapprima si cercano dei sostituti. I sacrifici umani rituali di prigionieri di guerra sono dei sostituti del linciaggio rituale del re, che a sua volta aveva sostituito il linciaggio spontaneo. Si dirà che come passo avanti non sia granché, sempre sangue è. Vero, ma tuttavia è un passo avanti.

Naturalmente si capisce subito che con il sacrificio umano siamo passati nel campo della religione. La religione quindi è uno strumento di controllo della violenza. Comprendo che, anche in questo caso, si dirà che un sacrificio umano basato su una credenza religiosa non è un granché come passo avanti. Eppure lo è, rispetto allo scoppio di violenza incontrollata che metteva in crisi la vita dell’intera tribù. Ricordiamo che questi scoppi erano violentissimi, e si possono paragonare agli scontri moderni tra gang delinquenziali e bande mafiose: sangue che richiama sangue senza alcun contenimento.

Relativamente a questo scenario, il sacrificio umano fu un terribile e paradossale passo avanti. Si comprende anche il ruolo delle religioni che poi, col tempo trasformarono a loro volta il sacrificio umano in cerimonie simboliche sempre meno cruente. Così si passa dai sacrifici umani a quelli animali, e poi alle offerte agricole e infine ai riti puramente cerimoniali, che preludono a una visione sempre più laica e razionalista della violenza.

Le notizie che abbiamo sulla modalità della fine dei sacrifici umani nelle varie civiltà sono varie. Il caso di Teseo e del Minotauro a Creta è probabilmente il racconto mitologico di un tributo di sangue che Atene pagava ogni anno ai cretesi e di come un capo politico eroicizzato, forse davvero di nome Teseo o forse no, pose fine a tutto questo. I racconti di Perseo e di Edipo che accidentalmente e non volontariamente uccidono i loro progenitori sul trono per poi essere banditi sono altri racconti in cui l’uccisione volontaria del capo tribù viene diluita in un racconto meno cruento.

La fine di Romolo è probabilmente l’ultimo caso di re romano ucciso ritualmente. In epoca storica Tito Livio riporta un ultimo sacrificio umano avvenuto a Roma in occasione di non so quale grave sconfitta militare, forse dopo Canne. In questi casi i Romani, quando erano in una situazione militare difficile, sacrificavano due individui di stirpe greca e due di stirpe celtica, insomma due coppie di stranieri. In generale i romani non avevano la ricchezza mitologica dei greci ma preferivano racconti di epoca storica in cui la violenza era limitata alla guerra a stati stranieri. La violenza interna era molto minore, almeno all’inizio. Poi anche Roma degenerò in guerre civili, fino alla morte di Cesare, vero e proprio riemergere del linciaggio rituale di un re sacerdote.

È interessante notare che queste crisi aggressive sono anche figlie della libertà politica. I romani scelgono Augusto e l’Impero perché stanchi di due secoli di guerre civili culminate nel linciaggio di Cesare. L’insostenibile peso della libertà che diventa peso della rivalità continua. E quindi i romani rinunciano alla libertà, con l’Impero.

Nel modello di Girard, l’eroe, una volta linciato, viene divinizzato. È come se l’oggetto dell’odio di gruppo, dopo che è stato letteralmente fatto a pezzi e mangiato (e spesso secondo Girard avveniva proprio questo. Si veda la morte del principe tebano alla fine delle Baccanti di Euripide fatto a pezzi e mangiato nell’orgia dionisiaca) generi un massiccio senso di colpa collettivo che porta alla divinizzazione dell’eroe odiatissimo fino a un momento prima.

Non a caso è proprio quel che accade sia con Romolo che con Cesare, odiati fino al linciaggio (documentato per Cesare, possibile per Romolo) e poi divinizzati subito dopo (certo per entrambi).

Il modello antropologico di gestione della violenza mediante linciaggio è appunto il modello del capro espiatorio. Il capro vero e proprio come sacrificio animale è già un momento successivo, in cui la violenza si concentra su un animale, tra l’altro nemmeno ucciso, ma mandato nel deserto. Si tratta di un rito orientale, riportato anche tra gli ebrei. Nelle versioni precedenti al posto del capro c’era un uomo, o anche una donna, esiliata fuori della città e, ancor prima, uccisa. Per esempio la figlia di Jefte nella Bibbia, sacrificata in maniera simile al figlio di Idomeneo nel rito greco.

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Che cos’è la terapia cognitivo-comportamentale?

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (11)

 

 La psicoterapia cognitiva e comportamentale spiega il disagio emotivo attraverso una complessa relazione di pensieri, emozioni e comportamenti. Gli eventi influenzano le nostre emozioni ma pensieri e comportamenti determinano la loro intensità e la loro durata.

Ognuno di noi ha modalità tipiche di pensare e agire (chiamati SCHEMI in psicoterapia cognitiva) che possono produrre malessere e questi sono il bersaglio della psicoterapia cognitiva. Spesso non siamo consapevoli dei nostri schemi e delle nostre abitudini dannose, la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha lo scopo di individuarli e modificarli.

Nella psicoterapia cognitiva, la sofferenza sorge quando le persone provano emozioni negative come ansia, depressione, rabbia, colpa o vergogna. Normalmente simili emozioni appartengono alla vita quotidiana ma in alcuni casi possono essere troppo intense o durare troppo a lungo. Per esempio, se commettere degli errori sul lavoro per quanto piccoli ci fa stare male per diversi giorni, se ci sentiamo delle nullità di fronte a ogni fallimento, se la paura di essere giudicati negativamente dagli altri o di sentirsi responsabili del dolore altrui diventa intollerabile, allora probabilmente siamo di fronte a un problema emotivo.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale descrive come le emozioni dolorose spingano le persone a comportamenti che possono dare un sollievo apparente e immediato ma che si rivelano controproducenti e dannosi (es: abuso di alcool e sostanze, restrizione alimentare, ritiro dalla vita sociale, ripetizione compulsiva di atti). In altre occasioni questa sofferenza emotiva e il tentativo di ridurla incide profondamente sui rapporti con gli altri creando relazioni di dipendenza o di continuo contrasto e insoddisfazione che non aiutano a vivere bene.

La psicoterapia cognitiva e comportamentale agisce quindi su emozioni, pensieri (o schemi cognitivi) e comportamenti in modo attivo. Gli obiettivi sono: (1) migliorare il giudizio su di sé, (2) vivere meglio, (3) raggiungere i propri scopi di vita.

 

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