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Insonnia: fattori predisponenti e pratiche di cura

Antonella Sanzò – OPEN SCHOOL.

 

L’insonnia è un fenomeno molto diffuso: si ritiene rappresenti un problema comune a circa il 10%-15% della popolazione (Drake, Roehrs e Roth, 2003) e nonostante ciò poche persone decidono di rivolgersi ad uno specialista per porre rimedio al proprio malessere.

L’insonnia è una condizione in cui il sonno è alterato per durata, quantità e qualità: è caratterizzata da una difficoltà di addormentamento, sonno superficiale con diverse interruzioni, risveglio precoce, qualità del sonno insoddisfacente. Tali criteri possono essere compresenti in alcuni quadri clinici, come nel caso dei disturbi dell’umore, in cui si riscontra difficoltà di addormentamento, risvegli frequenti durante la notte, difficoltà a prendere nuovamente sonno dopo risvegli precoci al mattino. (Nowell e Buysse, 2001). In altre condizioni psichiche morbose, come nel disturbo di ansia generalizzata, è prevalente una difficoltà a dormire in maniera continuativa, mentre in genere non è presente una difficoltà a prendere sonno (Monti, J. e Monti, D. 2000).

Alcune malattie somatiche come l’asma bronchiale e l’ipertensione arteriosa inducono a frequenti risvegli durante la notte; altre condizioni fisiche morbose come  l’ulcera duodenale e l’artrite reumatoide possono causare difficoltà a prendere sonno. Inoltre, si riscontrano differenze anche rispetto all’età: mentre le persone giovani o di mezza età hanno prevalentemente difficoltà a prendere sonno, le persone più anziane riportano con maggiore frequenza risvegli notturni, risvegli precoci al mattino ed un sonno non ristoratore  (Drake, Rohers e Roth, 2003).

Le ricerche mostrano come coloro che soffrono di insonnia presentano un’eccessiva sonnolenza diurna, decremento della produttività in campo lavorativo con deficit di attenzione, concentrazione e memoria (Zisapel, 2007); ciò ha un’influenza negativa sulla qualità della vita. L’insonnia può essere transitoria quando si estende da giorni a settimane: in questo caso è un fenomeno temporaneo che si verifica in soggetti definiti “dormitori normali” oppure cronica quando il disturbo di sonno si protrae per mesi o anni.

Quali sono i fattori che influiscono maggiormente sull’insorgere dell’insonnia? Essa si può presentare come un disturbo reattivo a specifiche situazioni psicosociali: avere un lavoro poco remunerativo o condizioni di lavoro poco soddisfacenti, preoccupazioni per lo stato di salute di un familiare, nervosismo e tensione sono tutti fattori che influiscono positivamente con l’insorgere di problemi di insonnia (Martikainen, Partinen, Hasan, Laippala, Urponen, e Vuori, 2003). Altre ricerche hanno rilevato che un fattore determinante per l’insorgere del disturbo è rappresentato dalla risposta dei soggetti ad eventi di vita stressanti, piuttosto che la frequenza con cui questi si presentano (Drake, Roehrs e Roth, 2003): può accadere che gli individui con insonnia continuino a presentare disturbi del sonno dopo la dissipazione dello stress acuto che inizialmente avrebbe potuto innescare il disturbo stesso.

Invece, i fattori che influiscono maggiormente a determinare una durata negli anni del disturbo sono prevalentemente i disturbi medici e psichiatrici oppure condizioni di vita generalmente alterate. Le ricerche scientifiche dimostrano che l’insonnia ricorre nel 60% dei casi nei pazienti con depressione (Ohayon, 2007). In uno studio fatto sulla popolazione europea (Ohayon, 2007) è stato riscontrato che l’insonnia precede l’inizio del primo episodio di depressione il 41% delle volte ed è ad esso successivo il 28,9% delle volte. Inoltre, l’insonnia è associata anche ai disturbi d’ansia. Secondo gli studi condotti da Anderson et al., non meno del 60-70% dei pazienti affetti da disturbo d’ansia generalizzato presenta problemi di insonnia (Monti, J.M. e Monti, D., 2000). La maggior parte delle volte tale disturbo del sonno segue l’inizio del primo episodio d’ansia e la sua ricaduta, a differenza degli stati depressivi. Comunque, è difficile stabilire un preciso rapporto di causa-effetto tra insonnia e problemi psichiatrici.

Tra le malattie fisiche, invece, l’ipertensione e problemi cardiaci sono frequentemente associati all’insonnia (Martikainen, Partinen, Hasan, Laippala, Urponen e Vuori, 2003). Ma quali sono i comportamenti messi in atto più frequentemente per far fronte al disturbo? Nonostante l’insonnia sia un disturbo del sonno molto comune, spesso le persone che ne soffrono sottovalutano il loro problema e non si rivolgono ad uno specialista per un trattamento.

Un progetto di ricerca condotto nel 2007 e nato da una collaborazione tra l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti e l’Università “La Sapienza” di Roma ha indagato la relazione tra disturbi del sonno e pratiche di cura: nello specifico, lo studio aveva come scopo quello di analizzare quali fossero i comportamenti di cura messi in atto dai soggetti che percepivano di avere un disturbo del sonno, verificando se tali comportamenti variavano in relazione alla gravità del disturbo. Si è considerato se i soggetti richiedevano un aiuto ad uno specialista per il loro disturbo e se essi assumevano farmaci o altri prodotti per far fronte al problema. Tra gli obiettivi dello studio vi è stato quello di effettuare uno screening dei disturbi del sonno attraverso il “Questionario sui disturbi del sonno” (Violani, Devoto,  Lucidi, Lombardo e Russo, 2004), il quale discrimina soggetti insonni e buoni dormitori; parallelamente, si è indagato il rapporto tra percezione del disturbo del sonno e pratiche di cura attraverso una scheda in cui i soggetti dovevano indicare il modo in cui affrontavano l’eventuale problema di sonno manifestatosi.

Lo studio è stato effettuato su un campione di 349 soggetti aventi un’età media di 47 anni, i quali sono stati contattati nelle sale di attesa di alcuni medici di base delle città di Pescara e provincia, Chieti e provincia e Salerno e provincia. I soggetti non sono stati selezionati sulla base della presenza di sintomi di insonnia. Ad essi è stato chiesto di compilare dei questionari auto somministrati, citati precedentemente, che indagavano la presenza di un problema di sonno e le pratiche di cura per porvi rimedio. Dai risultati è emerso che su un campione di 349 soggetti, il 57,6% presentavano un’insonnia transitoria, mentre il 24,5% presentavano un’insonnia cronica e solo il 17,9% non accusavano alcun disturbo.

Tra i soggetti nei quali è stato riscontrato un disturbo del sonno, i dati dimostrano che la percentuale di pazienti in cura presso uno specialista risulta essere bassa: essa è solo del 10% nei soggetti con insonnia cronica: precisamente, il 75% di essi era in cura dal medico di famiglia; inoltre, all’interno di questa categoria, circa il 44% assumeva prodotti per curare la malattia, prevalentemente farmaci descritti dal medico di base. Invece, tra coloro che rientrano nel gruppo di soggetti che riferiscono i sintomi dell’insonnia con frequenza inferiore ai criteri diagnostici del DSM – IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quarta edizione) e dell’ICSD-R (Classificazione Internazionale dei Disturbi del Sonno – versione Revisionata), l’1% dei soggetti ha riferito di essere in cura presso il medico di base per il problema di sonno e  il 16% assumeva prodotti per il sonno sia prescritti da un medico (27% dei soggetti), sia auto prescritti (27% dei soggetti).

Inoltre, analizzando i tipi di farmaci usati per curare l’insonnia tra coloro che riferivano di assumere prodotti per facilitare il sonno, il 47% dei soggetti ha dichiarato di usare ansiolitici, il 35% faceva uso di benzodiazepine ed il restante 18% faceva uso di antistaminici e antidepressivi. Non sono state riscontrate differenze sostanziali tra sesso maschile e femminile nei risultati riportati, né differenze rilevanti rispetto all’età, né sono state riscontrate differenze tra piccoli centri e grandi aree urbane.

Dallo studio sembrerebbe che la percentuale di insonni che chiede aiuto ad uno specialista è molto bassa e sono i soggetti che riportano sintomi di insonnia cronica a far ricorso prevalentemente al medico di base per il trattamento del disturbo di sonno rispetto ai soggetti che presentano i sintomi dell’insonnia al di sotto dei criteri diagnostici.
Il ricorso a farmaci per il sonno è frequente e questo comportamento è comune soprattutto tra coloro che presentano un quadro d’insonnia cronica.

Nello studio descritto sono presenti alcuni limiti, poiché non è stata fatta una distinzione nella percezione del disturbo del sonno e comportamenti di cura prendendo in considerazione anche la presenza o l’assenza di disturbi psichici o fisici nei soggetti: si potrebbe ipotizzare, sulla base degli studi precedentemente riportati, che siano le persone con problematiche psichiche o fisiche ad avere per lo più un problema di insonnia cronica e a ricercare maggiormente un aiuto per tale disturbo o ad assumere più farmaci che facilitano il sonno.

I risultati della ricerca descritta, sono simili a quelli rilevati in un altro studio che allo stesso modo ha analizzato i comportamenti di cura adottati dalle persone per far fronte ai sintomi di insonnia. Tale ricerca è stata svolta in Canada su campione di 2000 soggetti contattati per un sondaggio telefonico sul sonno, stato di salute ed uso di prodotti per il sonno (Morin, LeBlanc, Bélanger, Ivers, Mérette e Savard, 2011). I criteri dell’insonnia sono stati valutati mediante il DSM – IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quarta edizione)  e l’ICD – III (Classificazione Internazionale dei Disturbi, terza edizione).

Dai risultati della ricerca è emerso che il 40,2% dei soggetti presentava uno o più sintomi dell’insonnia con una frequenza di almeno tre notti a settimana nel mese precedente il sondaggio, il 19,8% si dichiarava insoddisfatto del proprio sonno ed il 13,4% soddisfaceva tutti i criteri per l’insonnia. Il 13% dei soggetti ha dichiarato di aver consultato un medico nella sua vita per i problemi di insonnia. Inoltre, il 10% ha fatto uso di medicine prescritte dal medico per favorire il sonno, il 9% ha usato prodotti naturali, il 5,7% prodotti da banco e il 4,6% ha fatto uso di alcol per stimolare il sonno. L’insonnia era associata positivamente in prevalenza al sesso femminile, all’età e alla presenza di malattie fisiche e psichiche.

Da questi dati emerge che i sintomi di insonnia sono frequenti nel campione; tuttavia, in linea con quanto è stato riscontrato nello studio sull’insonnia e sulle pratiche di cura descritte in precedenza, pochi soggetti hanno chiesto un consulto dello specialista per i loro problemi di sonno e l’uso di farmaci prescritti dal medico è la pratica terapeutica adottata con maggiore frequenza.

Spesso, i sintomi dell’insonnia sono sottovalutati sia dai pazienti, che nascondono il problema o rifiutano il trattamento, sia dai medici di base (Terzano, Cirignotta, Mondini, Ferini-Strambi e Parrino, 2006). Infatti, la grande maggioranza di persone con insonnia non sembra ricevere un trattamento adeguato e ciò ha delle conseguenze rilevanti, spesso sottovalutate, sulla salute: nel corso del tempo possono insorgere disturbi psichici e si può riscontrare un aumento dell’ uso di sostanze (Drake, Rohers, e Roth, 2003). In uno studio è stato rilevato che circa il 30% delle persone con insonnia persistente fa uso di sostanze alcoliche per favorire il sonno. Come si può facilmente supporre, questo comportamento di auto medicamento induce ad effetti di tolleranza all’etanolo e all’esigenza di assumere dosi più elevate di alcol nel tempo (Drake, Rohers, e Roth, 2003). In conclusione, l’insonnia è un problema che non è sempre riconosciuto e valutato accuratamente.

Per questa ragione, sarebbe opportuno incrementare la consapevolezza del disturbo nelle persone che soffrono di insonnia affinché esse possano adottare misure di trattamento efficaci al fine di migliorare la qualità della loro vita. Numerosi studi hanno rilevato come un trattamento di tipo cognitivo – comportamentale risulta essere efficace per migliorare la sintomatologia del disturbo, in quanto esso mira a modificare i comportamenti disfunzionali legati al sonno e a correggere le credenze distorte su di esso (Morin e Espie, 2004).

Tuttavia, non bisogna sottovalutare l’importanza dell’assunzione di farmaci per la cura dell’insonnia. Le ricerche che hanno esaminato l’associazione tra la terapia cognitivo comportamentale e l’uso di farmaci per il miglioramento dell’insonnia hanno rilevato che nei pazienti che presentano un disturbo di insonnia persistente nel tempo, si rileva un notevole miglioramento della sintomatologia se in una prima fase si ha un’unione del trattamento farmacologico con un trattamento cognitivo – comportamentale, seguito da una seconda fase di solo trattamento cognitivo – comportamentale che consente di mantenere i risultati raggiunti nel tempo. (Morin, Vallières, Guay, Ivers, Savard, Mérette, et al., 2009).

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Attaccamento, attenzione e regolazione emotiva: cosa guardo di ciò che vedo?

Quale ruolo ha l’attenzione nella regolazione emotiva e più propriamente nelle strategie iper-attivanti e de-attivanti? In poche parole, cosa le persone con attaccamento insicuro imparano a guardare di ciò che vedono?

Ciò che noi guardiamo della realtà che ci circonda (come usiamo la nostra attenzione) ha un peso sui processi che hanno a che fare con la regolazione emotiva.

Le Teorie dell’Attaccamento (Bowlby, 1973; 1980; 1982) descrivono come le strategie di regolazione emotiva siano influenzate dalla relazione con la figura d’attaccamento (FdA). La strategia primaria di regolazione emotiva è la ricerca di prossimità con la figura d’attaccamento.

Quando la prima strategia fallisce, strategie secondarie entrano in campo (Mikulincer et al., 2003). Gli individui con atteggiamento insicuro hanno imparato da esperienze infantili che la ricerca della prossimità con l’altro non allevia il disagio, quindi provano altre strategie. Queste strategie secondarie si dividono in due categorie: (1) strategie iper-attivanti e (2) strategie de-attivanti (Mikulincer et al., 2003; Malik, Wells & Wittkowski, 2015).

Individui con attaccamento ansioso utilizzano strategie iper-attivanti in risposta a una figura di attaccamento ambivalente. Le strategie iper-attivanti tipiche dell’attaccamento ansioso riguardano la pretesa di prossimità e cura da parte delle figure di attaccamento con espressioni emotive drammatiche, ipervigilanza rispetto alle minacce e alla separazione dalla FdA, processi cognitivi di rimuginio e ruminazione che mantengono vivi stati emotivi di allarme e disagio.

Per individui con attaccamento evitante, la ricerca della prossimità con una figura di attaccamento è costantemente frustrata poiché assente e incapace di una prossimità emotiva. Ridurre la ricerca e bastare a se stessi permette di allontanare l’esperienza dolorosa della frustrazione. Le strategie de-attivanti tipiche dell’attaccamento evitante coinvolgono: creare una distanza emotiva dagli altri, scarsa attenzione alle proprie vulnerabilità e ai segnali di minaccia a breve, medio e lungo termine, soppressione di pensieri e dei ricordi stressanti, lotta e fuga dal rischio di dipendere dagli altri.

Strategie iper-attivanti e de-attivanti hanno un impatto diretto sulla regolazione emotiva. Nel primo caso l’emotività è drammatizzata, nel secondo è ridotta al minimo se non totalmente annullata.

Ma quale ruolo ha l’attenzione nella regolazione emotiva e più propriamente nelle strategie iper-attivanti e de-attivanti? In poche parole, cosa le persone con attaccamento insicuro imparano a guardare di ciò che vedono? Su questo tema non esiste a oggi molta ricerca sperimentale. Tuttavia gli studi su attaccamento e attenzione possono comunque offrire suggerimenti per nuove prospettive di ricerca e suggeriscono una propensione a una rigida fissazione attentiva.

Nelle strategie iper-attivanti l’attenzione è cronicamente focalizzata sulla minaccia. Gli individui sono costantemente vigili e tesi a monitorare potenziali segnali di minaccia sia rispetto ai propri stati interni (emozioni e pensieri negativi) sia rispetto a relazioni interpersonali (segni di rifiuto, disapprovazione, abbandono). Questo piano di gestione dei propri stati interni li rende dei natural threat monitorers (NTM; Malik, Wells & Wittkowski, 2015). Il risultato di questo costante utilizzo dell’attenzione, indipendentemente da una reale condizione di minaccia, genera uno stato di tensione e sofferenza emotiva. Gli individui con attaccamento ansioso guardano ciò che può essere minaccioso e cercano di reagire per prevenire uno stato mentale doloroso conseguente alla realizzazione della minaccia.

Nelle strategie de-attivanti l’attenzione è cronicamente focalizzata sul mantenimento delle condizioni di sicurezza e su stimoli che possono garantirla. Solitamente si tratta di contesti relazionali e intrapersonali che sono conosciuti e che garantiscono la sensazione di essere a posto con se stessi. L’attenzione è volta a monitorare questi segnali per accertarsi della loro presenza e lo sforzo teso a mantenerli. Talvolta il contesto di sicurezza è garantito dall’adesione a rigide regole oppure a una immagine pubblica (es. vincente).

In altre situazioni il contesto di sicurezza è conferito da uno stato alterato di coscienza, figlio dell’uso di sostanze o di attività assorbenti. Il raggiungimento di queste condizioni è garantito dalla presenza di stimoli interni o esterni e sono questi su cui l’individuo con attaccamento evitante si focalizza. Non c’è spazio per l’esplorazione, stimoli inerenti la minaccia, esterna o interna, vengono ignorati mantenendo l’attenzione focalizzata nella direzione opposta (natural threat suppressors, NTS; Moss et al., 2015).

Entrambi i piani di uso dell’attenzione hanno similitudini poichè rappresentano due modi diversi di evitare il dolore emotivo del percepirsi inconsolabili o destabilizzati da una minaccia che soverchia le proprie risorse e senza la prossimità di una figura di supporto. Questo tipo di sofferenza che può avere coloriture differenti a seconda della storia di vita può essere definito come tema doloroso (Ruggiero & Sassaroli, 2013).

Vediamo di descriverli con una metafora, quella del semaforo. Il tema doloroso è rappresentato dalla luce rossa. I Natural Threat Monitorer sono fissati sulle luci gialle, segnale che il tema doloroso potrebbe scattare da un momento all’altro se non si interviene per passare oltre (oppure per smontare il semaforo). I Natural Threat Soppressor sono fissati sulle luci verdi per cercare di mantenersi costantemente in prossimità di questa zona di comfort. Il disagio emerge improvviso e destabilizzante nel momento in cui la luce verde si spegne o si perdono questi segnali attivando una spasmodica attività di ricerca mentale e fisica.

NTM e NTS condividono alcune caratteristiche: (1) l’uso dell’attenzione è rigido, persistente e pervasivo, (2) sono entrambi piani di regolazione del tema doloroso, (3) ostacolano l’apprendimento di una adeguata regolazione emotiva che potrebbe avvenire solo attraverso l’esplorazione di altri piani d’uso dell’attenzione. Nuovi piani di utilizzo dell’attenzione possono favorire il cambiamento delle credenze circa la terribilità della luce rossa, la necessità di prevenire, monitorare, evitare, sopprimere questa esperienza interna, l’utilità delle strategie di monitoraggio e soppressione della minaccia rispettivamente.

Questo uso rigido dell’attenzione ostacola la possibilità di elaborare nuove informazioni, alternative rispetto a quelle costruite nella relazione con la figura di attaccamento. Quindi ostacola nuove esperienze di apprendimento. Per esempio che da adulti l’esperienza non è così dolorosa, che non tutte le persone sono uguali, che le risorse a disposizione sono cambiate rispetto a quando si era piccini, che le emozioni e i pensieri non sono sempre affidabili per valutare la realtà e che tendenzialmente si autoregolano da soli.

I monitorer si contraddistinguono per un maggiore stress percepito e consapevolezza degli stati emotivi e delle caratteristiche della luce rossa, poiché sono costantemente rivolti in quella direzione.  I suppressor si contraddistinguono per una ridotta consapevolezza della propria vulnerabilità e delle proprie emozioni e un disagio vago, talvolta ridotto che può esplodere improvvisamente quando non si riesce a mantenere la luce verde o non si percepisce l’impossibilità di ricercarla.

Molte di queste considerazioni sono ancora a un livello speculativo e ipotetico ma possono fornire interessanti spunti per future ricerche nell’ambito dell’attenzione e della regolazione emotiva. Quindi, che cosa guardiamo di ciò che vediamo?

 

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Terremoto dell’Aquila: depressione e alessitimia le conseguenze emotive del trauma

In breve tempo dopo essere stati esposti a un evento traumatico estremo, questi pazienti possono cominciare a sperimentare uno sconvolgimento delle esperienze emotive: se da un lato possono sperimentare stati emotivi intensi correlati al trauma, dall’altro è frequente che i soggetti sviluppino nel tempo una marcata riduzione della capacità di provare emozioni, di entità variabile.

Con il termine “alessitimia”, che letteralmente significa “non avere le parole per le emozioni”, si indica un insieme di deficit della sensibilità emotiva e emozionale, palesato dall’incapacità di riconoscere e descrivere verbalmente i propri o gli altrui stati emotivi. Per diversi autori, una delle funzioni dell’alessitimia è costituita dell’evitamento degli affetti dovuto ad una difficoltà di elaborazione cognitiva degli stessi (Caretti e La Barbera, 2005).

Krystal (2007) ha suggerito che l’alessitimia può svilupparsi in risposta a traumi estremi per proteggere gli individui dall’esperire affetti estremamente dolorosi: disturbi dell’espressione e delle esperienze emotive sono spesso presenti nei pazienti che hanno sviluppato un disturbo post-traumatico da stress. In breve tempo, infatti, dopo essere stati esposti a un evento traumatico estremo, questi pazienti possono cominciare a sperimentare uno sconvolgimento delle esperienze emotive: se da un lato possono sperimentare stati emotivi intensi correlati al trauma, dall’altro è frequente che i soggetti sviluppino nel tempo una marcata riduzione della capacità di provare emozioni, di entità variabile, fino ad arrivare a una vera e propria “anestesia emozionale” (Stone AM, 1993). Inoltre, altre ricerche hanno dimostrato una forte correlazione tra il distrubo depressivo e quello alessitimico (Havilandet al., 1998; Honkalampiet al., 2000; Honkalampiet al., 2005; Lipsanen, Saarijarvi, Lauerma, 2004; Saarijorvi, Salminen, Toikka, 2001) evidenziando una difficoltà-incapacità della persona depressa di identificare ed esprimere i propri sentimenti.

Partendo da queste premesse teoriche, in una ricerca svolta da alcuni studiosi dell’Università De L’Aquila (citata in Costantini, 2012), si sono valutate le reazioni emotive della popolazione aquilana in seguito al terremoto del 6 aprile 2009. Allo studio hanno partecipato 1710 persone e a ciascun partecipante sono state somministrate le scale TAS-20 (Toronto Alexithymia Scale) per la valutazione dell’alessitimia, e BDI (Beck Depression Inventory) per la valutazione del livello di depressione.

Per quanto riguarda la correlazione tra disturbi depressivi e disturbi alessitimici, dall’analisi dei dati emerge un quadro coerente con la letteratura: indipendentemente dai gruppi di appartenenza le strategie di regolazione affettiva sono correlate positivamente al disturbo depressivo. Infatti, in tutte le analisi condotte, il punteggio BDI risulta statisticamente significativo, a dimostrare come gli effetti osservati sono mediati anche dal livello di depressione auto-valutata. Per quanto concerne i risultati emersi dalla scala di alessitimia, anche in questo caso si può affermare che l’effetto significativo per il fattore Genere mostra un quadro coerente con la letteratura, con una generale tendenza femminile a identificare con maggiore difficoltà le proprie sensazioni e una preponderanza maschile al pensiero orientato all’esterno (Taylor et al., 2007). Inoltre, le caratteristiche alessitimiche sembrano essere correlate positivamente con l’età: in entrambi i gruppi, sperimentale e di controllo, è evidente come, con l’avanzare dell’età, si ottengono punteggi più alti, ad indicare come diminuisca la capacità di regolazione affettiva.

Per quanto riguarda la variabile Gruppo, sono stati riscontrati dei punteggi significativamente più alti nel gruppo sperimentale rispetto a quello di controllo, ad indicare la presenza di una possibile correlazione con l’evento traumatico che possa aver influito sulle capacità di identificare, descrivere e regolare le proprie emozioni. D’altra parte è interessante notare come punteggi più alti siano stati riscontrati nei residenti a L’Aquila prima del terremoto (AQ-PRE), piuttosto che tra i residenti a L’Aquila dopo il terremoto (AQ-POST).

Questi risultati potrebbero essere correlati con modalità funzionali di coping utilizzate dai cittadini aquilani. Le caratteristiche di coping, infatti, sono di fondamentale importanza di fronte a eventi molto stressanti come le calamità naturali: gli esseri umani reagiscono con variabili individuali che attengono al loro sistema di conoscenze e di credenze e sviluppano comportamenti più o meno funzionali. Infatti, alcuni meccanismi (come l’avere una rete di relazioni sociali che sostiene l’individuo nei momenti difficili, la capacità di prevedere, di affrontare o di evitare un evento stressante) possono essere senza dubbio dei fattori positivi nell’elaborazione di una risposta.

Proprio sulle aspettative che il singolo soggetto nutre nei confronti della situazione stressante, Levine e Ursin (cit. in Garland, 2001) hanno considerato le strategie di coping come una delle caratteristiche fondamentali che determinano la reazione specifica del soggetto. A tal proposito, si potrebbe ipotizzare che, a fronte di una maggiore predisposizione a tratti alessitimici nel gruppo AQ-PRE, la popolazione aquilana presenta buone capacità di coping per fronteggiare situazioni di stress. D’altra parte, la questione del tipo e dell’efficacia delle strategie di coping utilizzate dai soggetti in situazioni simili, sono state e sono tutt’ora oggetto di grande attenzione da parte dei ricercatori. Tali conclusioni sono certamente interessanti ma sono pur sempre influenzabili da possibili errori o limiti nel protocollo sperimentale.

 

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Esperimento di Milgram sull’autorità: forse siamo meno crudeli di quanto si creda

FLASH NEWS

In generale, tra tutti i soggetti obbedienti e ribelli, per le fasi iniziali dell’esperimento era prevalente la strategia “wait and see” e cioè una serie di modalità interattive volte a ritardare la continuazione dell’esperimento.

Nel famoso esperimento di psicologia generale di Milgram ai soggetti sperimentali veniva richiesto di somministrare shock elettrici gradualmente maggiori e sempre più pericolosi ad un’altra persona (che di fatto era un attore che collaborava con gli sperimentatori fingendo pianti di dolore; infatti all’insaputa dei soggetti gli shock elettrici non venivano realmente somministrati!).

PSICOLOGIA DELLA DISOBBEDIENZA: Siamo uomini e caporali.

Dunque i partecipanti – a seconda della loro tendenza ad accettare e a eseguire le indicazioni fornite loro – erano categorizzati come obbedienti o ribelli: secondo i risultati del famoso esperimento la maggior parte dei partecipanti erano degli obbedienti disposti a somministrare potenti e pericolose scosse elettriche ai propri consimili.

Un nuovo studio ha cercato però, al di là degli esiti più plateali di somministrazioni degli shock elettrici, di indagare diversi aspetti di resistenza e ribellione dei partecipanti alle ciniche indicazioni sperimentali.

I ricercatori hanno recuperato e analizzato le audioregistrazioni originali di 117 partecipanti all’esperimento che interagivano con lo sperimentatore e con l’attore cui credevano di infliggere gli shock elettrici. In particolare sono state identificate diverse forme di resistenza, esplicite ed  implicite.

Le forme implicite di resistenza comprendono la categoria del silenzio ed esitazione prima di obbedire ai comandi dello sperimentatore oppure imprecazioni che seguivano e che avvenivano in risposta delle crisi di pianto dell’attore. Le forme esplicite di resistenza invece consistono nel coinvolgere l’attore vittima (ad esempio chiedendogli se se la sentiva di continuare), porre le proprie perplessità allo sperimentatore (ad esempio, facendo notare che la vittima provava dolore), e infine  l’effettiva decisione di non continuare a somministrare gli shock elettrici rifiutandosi di continuare nell’esperimento.

 

EVENTO: Prof. Philip Zimbardo – My Journey from Evil to Heroism 11 Luglio Milano.
Philip Zimbardo - Luglio 2015 Milano

In generale, tra tutti i soggetti obbedienti e ribelli, per le fasi iniziali dell’esperimento era prevalente la strategia “wait and see” e cioè una serie di modalità interattive volte a ritardare la continuazione dell’esperimento.

Ma chiaramente solo i soggetti ribelli – che ad un certo punto si rifiutavano di continuare la somministrazione delle scosse- utilizzavano strategie esplicite di considerazione della vittima e di opposizione all’autorità.

 

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Obbedienza all’autorità ed empatia: Stanley Milgram

 

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Penso dunque dipendo: il ruolo della componente cognitiva nelle dipendenze

Sempre di più e sempre più spesso si sottolinea l’importanza della componente cognitiva nelle dipendenze, tanto da arrivare a parlare di dipendenze comportamentali (o new addiction), quelle cioè che non implicano nessun utilizzo di sostanze chimiche.

Parallelamente, si è approfondito anche il ruolo del pensiero nelle dipendenze da sostanze (cocaina, eroina, ma anche nicotina). Su questa linea, un recente studio con capofila l’Inghilterra ha mostrato quanto le nostre convinzioni possano influenzare non solo la componente desiderante delle dipendenze (il craving), ma anche i circuiti neurali implicati.

Il gruppo di ricercatori ha reclutato 24 fumatori e li ha divisi in due gruppi: mentre metà era convinta di fumare sigarette senza nicotina, l’altra metà era convinta di fumare sigarette canoniche. Dopo aver fumato (tutti sigarette contenenti nicotina), i partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale mentre svolgevano un compito di apprendimento basato su una ricompensa sotto forma di denaro. Confrontando le immagini raccolte è stato possibile valutare le eventuali differenze tra i due gruppi sia nelle scansioni cerebrali che nelle scelte di investimento.

NEUROSCIENZE

Intanto va detto che la nicotina è la sostanza, tra quelle che compongono le sigarette, che chimicamente crea e mantiene la dipendenza. Le sostanze nocive sono tante, ma la componente di dipendenza la porta la nicotina. Poi va detto che la nicotina stimola i circuiti neurali che nel cervello sono associati al piacere e alla ricompensa, che è quello che sostanzialmente porta alla dipendenza.

Il fatto di dire a metà dei partecipanti che le loro sigarette erano senza nicotina voleva valutare in che misura la sostanza e in che misura le credenze contribuissero a veicolare l’attività neurale delle zone adibite alla ricompensa.

Le immagini hanno mostrato che i partecipanti che credevano di aver assunto nicotina avevano un’attività cerebrale decisamente maggiore nei circuiti neurali di ricompensa e apprendimento, confrontati con quelli che credevano di fumare sigarette senza nicotina. Inoltre, i due gruppi facevano scelte diverse rispetto a se e quanto denaro investire nel compito proposto durante la scansione.

In conclusione, questi risultati ci dicono che i pensieri che una persona ha rispetto a una sostanza possono veicolare, anche da un punto di vista prettamente neuronale, la dipendenza da quella sostanza.

IL PENSIERO DESIDERANTE

Rispetto alle ricadute cliniche, questo ci dice qualcosa di più sul motivo per cui una persona percepisce una sostanza più piacevole quando si aspetta che questa lo sia, rispetto a quando non ha aspettative e pensieri a riguardo. Va da sé che si conferma l’importanza, nel trattamento delle dipendenze, della valutazione e della discussione delle convinzioni che il paziente ha circa la sostanza, perché a quanto pare queste stesse convinzioni non hanno solo l’effetto di indurlo con maggiore probabilità a ricercare quella sostanza, ma lo portano anche a percepirla come più buona di quanto non sia per le sue pure proprietà chimiche.

Infine, i risultati mostrano la componente neurologica dell’effetto placebo: la convinzione che una sostanza, in realtà neutra, possa esserci di aiuto, può portare a evidenti miglioramenti e a un aumento del benessere.

Possiamo infatti ipotizzare che questo miglioramento sia dovuto all’attivazione di aree cerebrali che solitamente sono associate all’assunzione di un farmaco, anche in assenza del farmaco stesso.

 

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La cenerentola di Branagh: un’eroina contemporanea dentro un abito d’epoca

Marika Ferri

Nel film di Cenerentola Kenneth Branagh riprende la favola di Walt Disney e la rielabora in un racconto moderno in cui i valori si tramutano in forza da supereroina. 

Nonostante tutti quanti conoscano già la favola di Cenerentola, nonostante il regista non faccia nessuno stravolgimento del racconto lasciando intatta tutta la sostanza originaria, il film risulta essere piacevole e cattura l’interesse di adulti e bambini.

In questa sede farò un’osservazione di alcuni aspetti di area psicologica che mi hanno colpito nel film.

La storia, racconta di una ragazza di nome Ella, giovane, bella e di buona famiglia. Nel film viene introdotto un elemento di novità rispetto alla favola originaria: la protagonista ha il suo nome (Ella da Cinder-ella-) nome che va a sottolineare una demarcazione netta tra quello che la ragazza era prima (una bambina molto amata che cresce felice tra mamma e papà), a quello che diverrà dopo. Altro elemento di novità del film è il racconto della vita di Ella quando i due genitori sono ancora in vita, con i quali ha probabilmente avuto la possibilità di sperimentare una base sicura che le permette di avere fiducia nelle relazioni interpersonali.

Ma la serenità della ragazza è turbata dalla morte prematura della madre, che le ha fatto promettere di essere sempre coraggiosa e gentile con gli altri:

Sii gentile e coraggiosa. Perché c’è più gentilezza nella punta del tuo dito che nell’intero corpo di tanti altri

dice la madre di Ella prima di lasciarla. Raccomandazione che risuona costantemente nel cuore e nella testa della figlia, per la quale invidia, odio e cattiveria di ogni tipo sono sentimenti quasi sconosciuti.

Ella assiste impotente, per amore del padre, alle nuove nozze di quest’ultimo con Lady Tremaine, una donna dispotica e ambiziosa, che ha un ex principe da dimenticare e due figlie frivole e insopportabili da accasare. Dopo poco tempo morirà anche il padre di Ella, partito per un viaggio di lavoro dal quale non tornerà più. Da questo momento in poi, la vita della ragazza cambia totalmente: matrigna e sorellastre si impossessano della sua proprietà, la spediscono in soffitta dove fa amicizia con i topi e la declassano a domestica, date le ristrettezze economiche. Per giunta le sorellastre gliene fanno di tutti i colori e la scherniscono continuamente.

Un giorno, dopo essersi sporcata e impolverata perché coricata nella cenere accanto al focolare, Ella viene chiamata dalle sorellastre Cenerentola: tale episodio rappresenta una chiave di svolta per l’evoluzione del personaggio, l’espressione che accenna al margine di sacrificio e frustrazione che occorre accettare nella quotidiana decisione di esistere. La fuga a cavallo, dopo questo ennesimo sopruso, è il preludio di un nuovo inizio, di un processo di crescita manifestato attraverso un atto di vero e proprio disvelamento (da notare che nel lessico simbolico l’immagine della cenere è ricca di configurazioni associate al ritorno ciclico della vita e al rinnovamento).

Nel bosco, incontra Kit, un ragazzo cortese che lavora a palazzo e al servizio del re. Il resto è storia nota: un ballo a corte aperto a tutti i sudditi, il colpo di fulmine per il principe azzurro e la tanto agognata scarpetta da calzare per mettere a posto la vita…

Molto interessante, è il risvolto psicologico dei due personaggi. Sia Ella che Lady Tremaine hanno lo stesso tema doloroso da affrontare. Ma reagiscono alla sofferenza in modo opposto, a tal punto che la matrigna diviene la nemesi del personaggio di Cenerentola.

Ella, la protagonista, è una ragazza giovane, bella e buona che si trova ad affrontare il trauma della perdita di tutto ciò che di bello c’era nella sua vita precedente: i genitori, l’affettività, una vita agiata. Come riesce a salvarsi? Cercando di affrontare questo dolore, è realista ed umile, accontentandosi di una vita sfortunata e piena di soprusi facendo tesoro degli insegnamenti trasmessi dalle figure genitoriali. Prima di tutto la gentilezza.

Cerchiamo di capire meglio cosa intendiamo, quando parliamo di gentilezza, tanto per non cadere in concetti scontati. Gentilezza come costrutto che ha un valore nel contesto dei rapporti umani e un effetto positivo, in quanto riduce la distanza emotiva tra gli individui migliorando la capacità di mettersi nei panni degli altri. Pensiamo al grande potere dell’uso della gentilezza, facendo magari riferimento ai nostri antenati che, per sopravvivenza, hanno dovuto imparare a collaborare. 

Anche Cenerentola ha utilizzato la gentilezza per la sua sopravvivenza. E non si tratta di una gentilezza che autodistrugge, dettata da un bisogno di approvazione e di bassa autostima che contraddistingue le persone insicure e fragili. E’ una gentilezza caratterizzata dal rispetto e da un sentimento di dignità per gli altri e per se stessi, che dà senso e valore al proprio progetto di vita.

Ecco che viene a delinearsi nel film una Cenerentola che forse non ci aspettavamo, una donna indipendente e determinata, che ha coraggio e non subisce il proprio presente, è pronta a tutto pur di rimanere fedele a se stessa e ai suoi valori.

Nell’incontro a cavallo tra Ella e Kit non abbiamo a che fare con una ragazza addolorata e vittima che sogna di essere salvata dal principe azzurro. Lo incontra e se ne innamora. Ella è una donna forte in grado di salvarsi da sola, e non dipende da un uomo o da una fata che si prende cura di lei.
Quando si reca al ballo di nascosto, dopo che le sorellastre le hanno strappato il vestito, dimostra di sapersi prendere quello che vuole senza chiedere permesso e senza farsi scoraggiare dall’invidia altrui.

Lady Tremaine, è una donna matura e viscerale che si trova a dover affrontare lo stesso tema doloroso di Ella. La matrigna ha sempre visto infrangere i propri sogni, sia nel primo che nel secondo matrimonio. Non le rimane più nulla e non è in grado di tollerare un destino che può evolvere diversamente da quanto lei abbia desiderato per sé e per le figlie. Non vuole entrare dentro questa sofferenza e sente il bisogno di sognare una vita ricca e fastosa. In questo modo la matrigna continua a non affrontare il dolore del fallimento del suo progetto esistenziale. Tale sogno può essere perseguito solo se riesce a sistemare le due figlie con mariti ricchi e nobili. E lei lo fa in maniera rigida, utilizzando la malvagità e il disprezzo nei confronti della semplicità della vita. Quando è in difficoltà, usa la manipolazione delle relazioni e momenti di rabbia disregolata. 

Lady Tremaine, acuta ed intelligente, è la sola ad accorgersi (non certo le figlie) che la misteriosa sconosciuta che ha conquistato il principe al ballo è proprio Ella. A quel punto cerca di scoraggiarla dicendole strategicamente che il principe è stato promesso in sposo ad una nobile principessa. La cattiva matrigna rimane fedele al suo personaggio fino alla fine, anche quando viene smascherata dal Principe di fronte al complotto escogitato contro Ella , chiudendola in soffitta per non farle calzare la scarpetta di cristallo trovata sulle scale del palazzo reale.

In questo momento finale, la vera protagonista del film è la matrigna, la quale rivela a Ella di essere così cattiva con lei perché invidiosa della sua bellezza e della sua bontà. E come reagisce Cenerentola?! Fiera, determinata e con gentilezza : …io ti perdono ...

Il successo del film è da attribuire alle incantevoli scenografie, alla bellezza dei costumi e ad una attenta descrizione del profilo dei personaggi principali. E perché no… anche del desiderio di sognare presente in ciascuno di noi.

 

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 Boyhood (2014) di Richard Linklater: Ciak, si cresce!

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Chevalier, J., Gheerbrant, A. (1986) Dizionario dei simboli. Rizzoli, Milano
  • Zambrano, M.(2000). Delirio e destino. Milano, Raffaello Cortina
  • Bettelheim, B. (2000). Il mondo Incantato. Feltrinelli 

Tracce del Tradimento – Il patto prima del tradimento (02)

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – Il patto prima del tradimento (02)

 

Il tradimento presuppone la lealtà e la condivisione. Prima del tradimento c’è un patto, un contratto, un accordo esplicito tra persone. Dal latino “tradere” (consegnare, portare) tradendo si porta qualcosa da uno all’altro. Si consegna al nemico un segreto, l’arma vincente.

Occorre aver condiviso qualcosa con qualcuno per poterlo tradire, e occorre presupporre la fiducia a un patto per poterla tradire. La fiducia è descrivibile come un atteggiamento psicologico che presuppone che l’altro stia a delle regole condivise. Si fa affidamento sul fatto che un altro non mi danneggerà e condividerà scopi con me.  

Può esistere una fiducia forte con regole e scopi condivisi (un matrimonio, un team di ricercatori)  e una fiducia più debole con regole condivise ma con scopi diversi (un gruppo di amici).

Il tradimento, come sottolinea la Turnaturi (2000), appartiene a uno statuto moderno di patti tra individui che viene visto come tradimento del patto di fedeltà verso un’ altra persona o verso molte persone. Anticamente il tradimento era il tradimento di un’etica condivisa di un patto sociale fondante. Oggi siamo più soli e tradiamo alcune persone perché liberamente preferiamo portare avanti scopi individuali invece che stare al patto che avevamo sancito con quella determinata persona.

Possiamo parlare di tradimento in una coppia soltanto quando si sia stipulato tra i due amanti un patto di fedeltà reciproca che può riguardare gli aspetti sessuali, affettivi o addirittura lavorativi.

Il tradimento in una coppia è l’abbandono unilaterale del  patto fondante da parte di uno dei due membri. Spesso questo accade  senza arrivare a dichiarare l’abbandono in modo esplicito.  Per parlare di tradimento uno dei contraenti deve non essere  d’accordo sulla rottura del patto anzi non pensa che potrebbe avvenire oppure lo teme e ne immagina le conseguenze con dolore. Ne soffrirebbe se sapesse. Uno dei due, il tradito presume la fedeltà al patto che invece viene infranta, “tradita”; è la persona che ha subito il tradimento non voluto, a definire la rottura del patto “tradimento” .

Spesso chi mette in atto il tradimento racconta un’altra storia, interpreta il tradimento effettuato come atto di fedeltà a se stesso, lo giustifica come la risposta necessaria a vecchi torti subiti, oppure con la noia che il partner ormai comunica, oppure con lo scadere dell’interesse per l’altro, o anche con il desiderio di un futuro diverso e migliore. O se non vuole mettere in discussione il partner, sostiene  che  l’innamoramento per un altro di maggiore bellezza o qualità o doti sociali sia un giusto premio alle proprie qualità, alla propria carriera, ai propri complessi desideri sessuali .

Oppure chi tradisce lo fa e lo racconta non come una scelta ma come una “necessità”. Come ad esempio la necessità fisiologica ed erotica di un migliore equilibrio sessuale che con il vecchio partner si era logorato, o si era lentamente abbandonato dentro una routine ormai sbiadita.

In Occidente di questi tempi la tendenza al tradimento viene anche socialmente spinta da pressioni dei media, televisive, da immagini, da un costume apertamente libero e ideologico. Si tradisce anche perché è morente l’idea della fedeltà per ragioni morali superiori, religiose, del costume. Il tradire è anche a volte ciò che vediamo del “ e perché no” perché non avere una macchina enorme che ci rappresenta grandi e invidiabili, perché non andare a cento all’ora, perché non essere più potenti con la cocaina o aggressivi o “ vincenti”.

Vi è oggi anche una vicinanza grande, ad esempio a scuola e nel lavoro tra ragazzi e ragazze tra donne e uomini. Le divisioni sessuali che giustamente esecriamo in quanto sono il segno di una cultura  o di una religione “discriminativi”, rendono nelle società meno secolarizzate più difficili gli incontri, le amicizie e gli amori. Il tradimento è poi forse diverso nelle diverse età della vita, tradire la compagna di banco per un adolescente può forse essere soprattutto una spinta esplorativa alla conoscenza dell’altro, mentre tradire la propria moglie mentre allatta e non è sessualmente disponibile può essere  un segnale di scarsa capacità da parte del traditore di prendere le proprie responsabilità in modo pieno e maturo.

Un cinquantenne che tradisce la propria moglie appena entrata in menopausa e quindi  nel momento in cui la sessualità necessita di un impegno, di una manutenzione e di uno sforzo di reciproca accettazione risponde forse sia ad una spinta genetica a mantenere viva la propria potenzialità a fecondare femmine diverse, che alla rinuncia al dolore e alle capacità di accettazione che comporterebbe la fedeltà a un vecchio patto condiviso.  La sessantenne che si stanca del marito operato di prostata, non vuole invecchiare e si illude di perpetuare la giovinezza con la compagnia di uomini più giovani ne è un altro esempio.

Insomma i tradimenti cambiano anche e funzionano diversamente nelle diverse età della vita.  Il tempo del rapporto inoltre non costituisce una variabile ininfluente, perché più lungo è stato il tempo del patto condiviso più si sono ridotte le possibilità del tradito di ricostruirsi una vita e rafforzare le illusioni di potersi fidare. Il dolore può essere più grande e l’uscita dal rapporto maggiormente problematica.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Trauma prolungato e Dissociazione: I più deserti luoghi (2015) di Silvana Gandolfi

Non è paranoia, mi dico da clinico. È dissociazione in pieno. Personaggi immaginari che iniziano a muoversi nell’immaginazione senza controllo, come i nemici che ti sono in casa quando sei tornato dalla guerra in Iraq.

I traumi in ambito relazionale frammentano la mente, la disgregano, disintegrano. Lo hanno insegnato, sulle orme di Janet, i lavori di Van der Hart, Liotti, ce lo confermano i lavori sperimentali degli ultimi anni (una menzione a quelli fatti in casa SITCC da Farina e colleghi). La letteratura non può mancare di pescare in questo processo.

IL TRAUMA

Recentemente il romanzo “I più deserti luoghi” (Ponte alle Grazie) di Silvana Gandolfi, ne offre un esempio. Una donna, quarantasette anni, si occupa del fratello disabile, un danno cerebrale nella prima infanzia. Lo accompagna da sola, lo accudisce, a loro modo sono una coppia isolata dal mondo. Del padre si sa che è fuggito in Australia con l’ultima squinzia, la madre è morta dopo lunga malattia del sangue. Come traumi non è roba da poco. Aggiungete che il ruolo di caregiver poi, quando ci si confronta con situazioni estreme, non fa benissimo alla salute psichica.

Ce n’è abbastanza per far dissociare la protagonista? Teorie alla mano direi di sì. E alla protagonista questo succede. Inventa un “gioco” col fratello, nient’altro che un esercizio compulsivo di uso della proiezione.

LA DISSOCIAZIONE

Il fratello è cieco e parla a fatica. E lei gli fa vedere persone intorno, descritte con mille sfumature, lo fa scrivere in modo forbito, teme che lui possa leggere il diario in cui parla della “Casa della Strega”, di un luna park che vide dall’infanzia e che forse avrà preso dal Popolo dell’autunno  di Ray Bradbury. Teme che lui legga il diario e si dice, giustamente, che sta diventando paranoica. Non è paranoia, mi dico da clinico. È dissociazione in pieno. Personaggi immaginari che iniziano a muoversi nell’immaginazione senza controllo, come i nemici che ti sono in casa quando sei tornato dalla guerra in Iraq.

E la cosa peggiore in questi casi è il senso di colpa. Se il malato dipende da te, come te ne stacchi? Puoi farti una vita se hai un fratello in carrozzina? No. La mente regge un’esperienza del genere? No. Che resta da fare? Dissociare direi.

Creare un mondo alternativo, con un interlocutore vitale: “Ma io so che dietro l’apparenza inerte, pensieri vividi vengono elaborati e vagliati dalla sua mente”. L’alternativa: abbandonare, istituzionalizzare, ascoltare il senso di colpa, lasciarlo andare via, vivere. In tanti casi operazioni semplicemente impossibili. Il “Gioco”. Lui sceglie un luogo, un itinerario. Lei lo abita. Un gioco padrone/schiava in realtà, in cui la schiava avrebbe pieno potere, ma è il malato che comanda, un tiranno eletto in piena volontà.

La realtà si intrufola camuffata nei processi onirici e dissociativi. Olga, la protagonista, nota che il fratello non mette mai esseri umani nei suoi scenari fantastici. Ci mette tsunami, vegetazione in abbondanza. Segno direi, che riconosce che nella mente del fratello c’è vita ma fino a un certo punto. La comparsi di un granchiolino sembra già un successo, un segno di evoluzione.

Il romanzo si sviluppa così, il “Gioco” nasconde personaggi letterari (benvenuta Anna Karenina), ricordi, fantasmi, morti, sadismo psicologico, vita e ancora prigione. Leggerlo da clinico è un gioco di un altro livello: analizzare la mente della protagonista e riflettere su come gli eventi della vita abbiano disgregato la sua mente e come il processo narrativo la aiuti a tenere insieme i pezzi. Ci riesca o no, non è mio compito svelarlo al lettore. Si chiamerebbe spoiler.

 

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Kramer contro Kramer (1979) e la mediazione familiare – Cinema & Psicologia

La visione del film scuote gli animi, sopratutto di quelli che si trovano a vivere situazioni sovrapponibli. Il film ha una grande espressione narrativa e si aggancia chiaramente alla mediazione familiare, ramo, tra l’altro in forte sviluppo proprio negli anni in cui è uscito il film.

Kramer contro Kramer (1979) film di Robert Benton. Protagonisti gli attori Dustin Hoffman e Meryl Streep. Tratto dall’omonimo romanzo scritto da Avery Corman del 1977, il film è centrato sulla battaglia legale di un ex coppia di coniugi ed il loro figlio.

New York. Ted Kramer è un pubblicitario ossessionato dalla sua professione e al quale lo stesso giorno in cui finalmente gli viene assegnato un importante incarico di lavoro trova la moglie, Joanna, in procinto di andarsene di casa, bisognosa di un po’ di tempo per riflettere sulla sua vita, lasciandolo solo con il figlio Billy. Ted a causa di questo nuovo lavoro a cui non vuole rinunciare, non riesce a dedicare al figlio il tempo necessario e quest’ultimo sente molto la mancanza della madre, ma, mese dopo mese Ted comincia a rendersi conto dell’importanza che il figlio ha nella sua vita, scende a compromessi con la sua vita professionale e tra i due nasce una forte intesa, tanto che Billy non sente neanche più la lontananza dalla mamma (la prima e l’ultima scena della colazione saranno l’elemento chiave di come il rapporto tra i due cresce).

Quindici mesi più tardi Joanna torna a New York. Incontra il marito, e gli comunica la sua intenzione di riavere Billy, Ted non è d’accordo. Inizia da qui una battaglia legale per la custodia del bambino. Ted viene accusato inizialmente di non essere un buon padre per aver negato alla moglie di rivedere il bambino e a causa di un incidente capitato qualche mese prima al parco giochi. Joanna viene accusata, sebbene in maniera minore, per non essere stata presente in quei mesi ad aiutare il padre in caso di bisogno.

La causa viene vinta da Joanna che si aggiudica il diritto di custodire il figlio. Ted vorrebbe ricorrere in appello, ma l’avvocato gli confida che in tal caso lo stesso Billy dovrebbe presentarsi in tribunale, così Ted che non vuole far subire tale trauma al figlio, rinuncia. L’ultima scena vede Ted nell’impresa di spiegare al figlio cosa sta per accadere, Billy vuole rimanere con il padre. Il film si conclude con una presa di coscienza della madre, che si chiede cosa è meglio per il figlio e permettendogli quindi, nonostante la sentenza, di rimanere con il padre.

La visione del film scuote gli animi, sopratutti di quelli che si trovano a vivere situazioni sovrapponibli. Il film ha una grande espressione narrativa e si aggancia chiaramente alla mediazione familiare, ramo, tra l’altro in forte sviluppo proprio negli anni in cui è uscito il film.

Il critico cinematografico Paolo Mereghetti muove un rimprovero al film. A suo giudizio, esso «evita, in nome di una obiettività non sempre corretta, di prendere posizione per uno dei personaggi e di affrontare le situazioni realmente sgradevoli che pure la storia poteva prevedere. A parer mio, invece, offre una linea guida fondamentale su come alla fine bisognerebbe amministrare la gestione di un figlio quando si è in procinto o in via di separazione.

Tante volte, come nel film la strada viene intrapresa dagli interessati che riescono ad aprire nuovi canali comunicativi in modo indipendente e razionale, i Kramer infatti alla fine non legano il loro rapporto alla sentenza emessa.

Joanna vince la causa, ma solo perché Ted rinuncia per il bene del bambino a non farlo comparire in giudizio, Ted ottiene lo stesso l’affidamento, ma solo perché l’ex moglie si rende conto che il figlio sta benissimo con il padre, a volte invece i canali comunicativi sono interrotti (da sentimenti di rancore, rabbia) e si perde di vista l’obiettivo centrale, soprattutto nelle separazioni in cui sono presenti i figli, che è quello che vede l’interesse del minore sopra ogni cosa.

La separazione diventa una guerra malata in cui le parti non metabolizzano l’evento, non si capacitano del nuovo assetto di vita, non si rimboccano le maniche per raccogliere quello che è rimasto e con questo, ciò che si può ricostruire. Sebbene non tutti possono essere ammessi in un percorso di mediazione, la figura del mediatore a parer mio è utile e necessaria.

La mediazione familiare è una forma di “alternative dispute resolution” che permette la ricostruzione dei canali comunicativi tra parti che si trovano in una situazione di conflitto, integra i punti di vista opposti con un approccio dialogico e negoziale (Bogliolo C. & Bacherini A.M., 2010).

La figura del mediatore è quella di un terzo neutrale che si pone in posizione di equivicinanza tra le parti, questo si concentra sul presente e sul futuro della nuova coppia che dovrà rimodellarsi con il nuovo assetto individuando obiettivi ideali per una prospettiva futura, la più serena possibile. Nella mediazione ci sono diverse fasi da affrontare (ammissione, negoziazione, follow-up) tutto con un fine ultimo, nelle parole più semplici che si possano trovare, permettere alla coppia e in nome di quel che ne rimane, di decidere la migliore organizzazione dei futuri rapporti.

Ormai ci si dichiara “ex” nella maggior parte delle coppie, ma lasciandoci non diveniamo automaticamente degli sconosciuti né noi né il nostro ex-marito, ci conosciamo fin troppo bene, la più intima abitudine, gli ideali, i tempi di vita e per non devastarci e permetterci e permettergli di ricostruire una nuova versione di vita è necessario aprire gli occhi e capire che a nulla porterà una guerra, il rancore e l’odio, questi ci saranno alleati si, ma solo nella perdita di un tempo che non tornerà.

Kramer contro Kramer premiato agli Oscar per regia, sceneggiatura, attore protagonista, attrice non protagonista, ai Golden Globe come miglior film drammatico e candidato a diversi altri premi cinematografici è una pietra miliare della storia del cinema, per tantissimi aspetti ma soprattutto per la narrazione di una rivoluzione generazionale instauratasi senza troppa analisi e che necessita di riassettare paradigmi ormai scaduti.

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BIBLIOGRAFIA:

Il dolore: cosa succede a livello cerebrale?

FLASH NEWS

Quando il dolore percepito è di breve durata, lo stimolo viene elaborato a livello delle aree sensoriali mentre, quando tende a prolungarsi nel tempo, anche solo di qualche minuto, sembrerebbe che l’attività cerebrale sottostante a tale processo coinvolga le aree deputate all’ elaborazione delle informazioni emotive.

Il dolore rappresenta il mezzo attraverso cui l’organismo ci segnala che c’è qualcosa che non va, che siamo di fronte ad un potenziale problema. Sebbene si tratti di un importante campanello d’allarme, quando tale esperienza si protrae nel tempo, mantenendosi continua ed intensa, può trasformarsi in una vera e propria malattia.

Alcuni ricercatori della Technische Universität München (TUM) si sono dedicati allo studio di tale problematica, cercando di fare chiarezza sui meccanismi sottesi all’esperienza di dolore cronico e sulle differenze che la caratterizzano rispetto a quelle forme di dolore che mantengono un valore adattivo.

Da questo studio è emerso in modo particolare una differenza a livello delle aree cerebrali che risultano attivate nelle differenti esperienze dolorose. Quando il dolore percepito è di breve durata, lo stimolo viene elaborato a livello delle aree sensoriali mentre, quando tende a prolungarsi nel tempo, anche solo di qualche minuto, sembrerebbe che l’attività cerebrale sottostante a tale processo coinvolga le aree deputate all’elaborazione delle informazioni emotive.

Scopo dello studio è stato quello di indagare in che modo la durata del dolore influenzi l’attività cerebrale e come possa intervenire su tale meccanismo l’attività di un placebo. Pertanto, ai 41 soggetti che hanno preso parte allo studio è stato chiesto di indossare una cuffia con 64 elettrodi al fine di monitorare il livello di attivazione delle diverse aree nel corso dell’esperimento. Ciascuno di essi è stato poi sottoposto per un periodo di circa 10 minuti a stimoli dolorosi di diversa intensità sul dorso di una mano, mentre con l’altra mano doveva indicare con un cursore il grado di dolore percepito su di una scala da 1 a 100.

I risultati ottenuti hanno messo in evidenza come in effetti, nonostante lo stimolo doloroso avesse una durata di soli 10 minuti il fatto che esso fosse duraturo nel tempo determinava non soltanto l’attivazione delle aree sensoriali ma anche di quelle deputate all’ elaborazione dei processi emotivi.

In una seconda fase dell’esperimento è stato dimostrato come non sia solo la durata dell’esperienza dolorosa ad influenzare la percezione di un particolare stimolo, ma anche un’anticipazione dello stimolo stesso. Durante questa fase, 20 soggetti appartenenti al campione oggetto di studio sono stati sottoposti ad una doppia stimolazione dolorosa sempre sul dorso di una mano ed è stato poi chiesto loro di esprimere verbalmente il grado di intensità percepito.

In seguito all’applicazione di due tipi di creme di cui una veniva presentata come in grado di alleviare il dolore, veniva chiesto loro di valutare nuovamente il dolore percepito. Sebbene nessuna di queste due creme contenesse una sostanza attiva, i soggetti valutavano il dolore sull’ area della pelle su cui era stata applicata la crema che presumibilmente era in grado di alleviare il dolore come effettivamente inferiore rispetto a quello percepito sull’ altra area della pelle.

Afferma Markus Ploner, autore dello studio:

“I nostri risultati mostrano come i nostri processi cerebrali siano differenti anche di fronte ad uno stesso stimolo doloroso. Una mappatura sistematica e una migliore comprensione di questo complesso fenomeno neurologico del dolore nel cervello è un grande cambiamento, ma è assolutamente essenziale per migliorare il trattamento terapeutico di questo tipo di pazienti”.

 

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La stanza della vita amorosa – VIDEO –

La vita amorosa di una coppia dura 7 minuti ed è racchiusa in una stanza

Sette minuti di filmato (Me & You, di Jack Tew) sono sufficienti per far tornare alla mente storie d’amore passate, lette, vissute o raccontate. Quelle storie che partono in sordina e poi sfociano nella passione travolgente, dove apparentemente non manca nulla. C’è feeling, complicità, divertimento e affetto.

Fuori dalla stanza, metafora dell’esistenza del giovane nella quale è approdata lei, la vita continua a scorrere, ma loro sembrano non accorgersene. Fin dall’inizio lui decide, più o meno consapevolmente, di accogliere la ragazza nella sua vita preparandole una stanza ad hoc. Tutto è perfetto, i giornali (i propri interessi) vengono nascosti nella mensola più alta della stanza, forse verranno dimenticati. Non ci sarà più spazio per nessuno, incantati dall’illusione di bastare a loro stessi per soddisfare tutti i bisogni.

Mentre si guardano intensamente negli occhi i due ragazzi perdono la visione d’insieme. Entrano in una spirale onirica che gira costantemente su se stessa senza portare in alcuna direzione. La coppia entra nel caos, i confini si fondono, vengono a meno l’ordine, gli scopi, la progettualità. I cerchi della spirale si fanno sempre più stretti, fino all’esaurimento delle risorse.

Ed ecco che la magia svanisce. Arriva la rabbia, la pretesa arrogante di invadere lo spazio dell’altro (i vestiti lanciati dall’altra parte del letto), le recriminazioni, la rottura. Come reagirà il ragazzo? Cederà al ricordo (il vecchio pupazzo che arriva dalla finestra) o ricomincerà da se stesso? Ritroverà i vecchi giornali nascosti sulla mensola?

Un video romantico che non mancherà di riportare alla mente, forse con il sorriso, qualche esperienza personale di gioventù.

 

 

Scegli una carta qualsiasi dal mazzo: magia o psicologia?

La reazione ai trucchi di magia è sempre di grande sorpresa: restano a bocca spalancata sia i più piccoli e ingenui che i più grandi e increduli. Cosa si nasconde dietro a una magia? Davvero siamo liberi di scegliere qualsiasi carta vogliamo dal mazzo o è il mago che in qualche modo, con la sua personalità o con ciò che dice, indirizza la nostra scelta?

Finalmente magia e psicologia si confrontano in una nuova ricerca, il cui obiettivo è indagare se alcuni fattori contestuali possono influenzare il processo di decision making del pubblico.

Il team di ricercatori, tra cui Jay Olson (psichiatra e, indovinate un po’, mago) ha sottoposto i soggetti a due tipi di esperimento: nel primo caso lo stesso Olson ha fermato per strada i soggetti, sottoponendoli a un trucco di magia, e chiedendo loro di pescare una carta qualsiasi dal mazzo, nel secondo studio tale richiesta era avanzata da un computer.

 

 

Quale sarà la loro scelta? Il processo decisionale verrà influenzato dal mago? Per conoscere i risultati dello studio vi rimandiamo alla lettura dell’articolo consigliato…resterete sorpresi come per magia!

 

Magicians have astonished audiences for centuries by subtly, yet powerfully, influencing their decisions. But there has been little systematic study of the psychological factors that make magic tricks work. Now, a team of Canadian researchers has combined the art of conjuring and the science of psychology to demonstrate how certain contextual factors can sway the decisions people make, even though they may feel that they are choosing freely.

Scegli una carta qualsiasi dal mazzo: magia o psicologia?Consigliato dalla Redazione

Cosa c’è alla base dei trucchi di magia? Si può prevedere quale carta verrà scelta dalle persone? Magia e psicologia si confrontano in una nuova ricerca. (…)

Tratto da: Mcgill

 

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E se essere empatici significasse in realtà essere egoisti?

Provare empatia per qualcuno significa provare le emozioni che l’altro sta vivendo e viverle a propria volta, provando le sue ragioni. Si tratta di un fenomeno complesso, che comprende diversi ambiti della nostra vita e non facile da definire (Albiero, Matricardi, 2006).

L’empatia rappresenta uno degli strumenti basilari di una comunicazione interpersonale davvero efficace. Nelle relazioni interpersonali diviene una “chiave d’accesso” ai sentimenti e agli stati d’animo dell’altro.

In psicologia esistono due diversi modi di concettualizzare l’empatia: uno la considera un’esperienza di partecipazione emotiva, e quindi in questo caso empatizzare con qualcuno significa condividere l’emozione che l’altro vive, provando la medesima sensazione; l’altro modo concepisce l’empatia come capacità di comprendere il punto di vista dell’altro, quindi comprendere le sue intenzioni e i suoi pensieri, riuscendo a vedere la situazione che l’altro sta vivendo dalla sua prospettiva.

Nel 1994, Davis ha proposto un approccio integrato che vede congiunto il ruolo di cognizione ed affetti. Secondo tale approccio le componenti che caratterizzano le risposte empatiche sono quattro: l’abilità di adottare il punto di vista dell’altro (Perspective Taking), la tendenza a immaginasi situazioni fittizie (Fantasia), la condivisione dell’esperienza emotiva altrui (Considerazione Empatica), la consapevolezza dei propri stati di ansia in situazioni relazionali (Disagio Personale). Le prime due componenti riguardano le abilità cognitive, mentre le altre due si riferiscono alla reazione emotiva del soggetto.

È interessante notare le due differenti modalità con cui può verificarsi la componente emotiva dell’empatia: la prima reazione è originata dal disagio personale ed è caratterizzata da una motivazione egoistica: in questo caso l’osservazione della sofferenza altrui determina nell’osservatore uno stato di tensione e di conseguenza il comportamento indirizzato a favore dell’osservato ha come finalità la liberazione di quel disagio che l’osservatore in prima persona prova.

La seconda modalità è al contrario caratterizzata da una motivazione altruistica: in tal caso l’osservatore condivide gli stati emotivi dell’altro e mette in atto dei comportamenti prosociali affinché possano migliorare le condizioni dell’osservato.

L’empatia possiede quindi un lato negativo, mediante cui l’osservatore empatico agirebbe al solo fine di mettersi in salvo dal malessere provocato dall’altro.

Da uno studio condotto nel 2011 (Di Michele e all.) in quattro scuole medie inferiori di Chieti e provincia è stato possibile ritenere che l’empatia messa in atto solo al fine di placare il proprio disagio diminuisce con l’andare avanti dell’età; sembrerebbe invece aumentare (seppure in modo poco significativo) la Considerazione Empatica. È ipotizzabile che con l’evolversi del tempo diminuiscono le motivazioni egoistiche le quali fanno in modo che il comportamento prosociale indirizzato verso la sofferenza altrui abbia come finalità solo la liberazione di uno stato di tensione personale, in favore delle condotte finalizzate nei confronti dell’altro al semplice fine altruistico e disinteressato, accompagnato da sentimenti di tenerezza e simpatia.

Dal medesimo studio, mettendo in relazione l’empatia e l’autostima, è inoltre emersa una significativa correlazione negativa tra le condotte empatiche dovute ad un fine egoistico e l’autostima, sia interpersonale che emotiva.

Ciò potrebbe essere riconducibile al fatto che quei soggetti caratterizzati da una bassa stima di sé abbiano scarso entusiasmo, reagiscano poco di fronte agli insuccessi e siano spesso disinteressati. Potrebbe inoltre essere probabile che, non sentendosi in grado di intervenire, abbiano una scarso senso di autoefficacia, e che ciò possa contribuire a metterli in ansia. Per cui, in quelle situazioni in cui proverebbero stress, aiuterebbero l’altro solo al fine di smorzare il proprio disagio, in tutti quei casi dove è per loro impossibile la fuga.

Al contrario, è probabile che quei soggetti caratterizzati da un’alta stima di sé siano fiduciosi delle proprie capacità e riescano a valutarsi secondo un’ottica più positiva; essi reputano di conseguenza meno importanti i propri sentimenti di ansia e tensione, per cui l’assunzione di prospettiva altrui sarebbe dovuta a un coinvolgimento disinteressato verso l’altro, piuttosto che a un desiderio egoistico di sfuggire a dei sentimenti avversi come senso di colpa, vergogna, tristezza o disapprovazione sociale.

Tutte queste considerazioni sono utilissime al fine di analizzare al meglio le relazioni interpersonali. La maggior parte degli studiosi si trovano concordi sul fatto che l’empatia sia una molla importante per mettere in atto dei comportamenti prosociali e altruistici. Ma a quanto pare il saper capire e condividere le emozioni altrui non sempre ha un fine disinteressato.

L’empatia potrebbe infatti scaturire da una motivazione egoistica, che induce il soggetto ad aiutare l’altro solo per sfuggire a dei propri sentimenti spiacevoli.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Albiero, P., Matricardi, G. (2006). Che cos’è l’empatia? Roma: Carocci.
  • Davis, M. H. (1983). A Multidimensional Approach to Individual Differences in Empathy. JSAS Catalog of Selected Documents in Psychology, 10, 1 – 19. DOWNLOAD
  • Di Michele, C., Granieri, A.L., Carpinelli, A., Vitiello, M. A., Trabucco, C., Romano, G.,  Capparruccini, O., Melfi, A., Carlucci, C., Camodeca, M., Mazzatenta, A. (2011). Bullismo, autostima ed empatia: un intervento innovativo con gli animali. Atti del XVII Congresso Nazionale della Psicologia Sperimentale, Catania

Il Disturbo Narcisistico di Personalità

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (09)

 

 

Il Disturbo Narcisistico di Personalità è molto vario e spesso è stato descritto ponendo eccessiva attenzione ad un atteggiamento di autoesaltazione; anche se questo aspetto può essere presente, il nucleo del disturbo narcisista risiede in una vulnerabilità a certi temi dolorosi.

In psicologia, il Disturbo Narcisistico di personalità rientra nei disturbi di personalità che sono caratterizzati da modalità di pensiero e comportamento disadattivi che si manifestano in modo pervasivo, rigido e apparentemente permanente. Coinvolgono diverse sfere di vita e sono caratterizzati da una scarsa consapevolezza, cioè le persone faticano a vedere che il loro modo di pensare e agire è problematico o se ne accorgono solo in parte.

Il Disturbo Narcisistico di Personalità è molto vario e spesso è stato descritto ponendo eccessiva attenzione ad un atteggiamento di autoesaltazione; anche se questo aspetto può essere presente, il nucleo del disturbo narcisista risiede in un vulnerabilità a certi temi dolorosi.

 

Caratteristiche del Disturbo Narcisistico di Personalità

Innanzitutto il Disturbo Narcisistico di Personalità è caratterizzato da una notevole sensibilità alle esperienze di umiliazione che vengono vissute come intollerabili e distruttive. L’esperienza del fallimento e della messa in discussione o della critica (in particolare se pubblica) è dolorosa e spesso associata alla sensazione di non valere o di essere inferiore. Questo porta la persona a cercare di evitarla o di contrapporvisi in molti modi.

La prima strategia psicologica è l’autoaffermazione e la ricerca di riconoscimento delle proprie capacità, così da ridurre al minimo il rischio di essere messo in discussione. Questo piano può portare allo sviluppo di capacità e talenti sopra la media, per questo la convinzione nelle proprie capacità del narcisista è ben fondata.

La seconda è l’assunzione di un distacco emotivo, il narcisista impara ad essere freddo e distaccato, in modo da mantenere una posizione di fredda superiorità che immunizza ogni attacco da parte degli altri.

La terza strategia è la risposta rabbiosa di rivalsa e dominio. Il narcisista può cercare di sopprimere ogni rischio di critica o di mancanza di rispetto in modo aggressivo e talvolta violento. L’obiettivo è tenersi in una posizione di dominio ed evitare esperienze di inadeguatezza o vergogna.

Il costo che il narcisista paga nel tempo sono:

  1. la fatica e lo stress di mantenere attivo un piano di continua autoaffermazione e riconoscimento,
  2. la difficoltà a vivere emozioni piacevoli fino a sentirsi affettivamente arido,
  3. il rischio di costante conflittualità interpersonale che può lasciarlo da solo.

 

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Alimentazione sana, attività fisica e allenamento mentale rallentano il declino cognitivo

FLASH NEWS

Un programma esteso, che comprenda un’alimentazione sana, attività fisica ed allenamento nell’utilizzo delle abilità mentali, sembra rallentare significativamente il declino cognitivo nei soggetti anziani a rischio di demenza, come dimostra il primo studio randomizzato e controllato pubblicato su The Lancet.

Nell’ambito dello studio Finnish Geriatric Intervention Study to Prevent Cognitive Impairment and Disability, l’autrice principale, Miia Kivipelto, in collaborazione con l’University of Eastern Finland, verificava quali fossero gli effetti di un intervento specificatamente indirizzato alla diminuzione dei fattori di rischio della demenza senile, quali ad esempio un alto indice di massa corporea e lo stato di salute del cuore, sulle funzioni cerebrali degli individui.

1260 persone provenienti da tutta la Finlandia, di età compresa tra i 60 e 77 anni, hanno partecipato allo studio: metà di loro erano sottoposti ad un intervento mirato, all’altra metà del gruppo erano forniti solo consigli per uno stile di vita sano (gruppo di controllo). I partecipanti erano assegnati casualmente ad uno dei due gruppi, e tutti loro erano stati dichiarati a rischio di demenza senile, tramite l’utilizzo di test standardizzati.

L’intervento mirato consisteva in un programma della durata di due anni che prevedeva incontri regolari con medici, infermiere, nutrizionisti, ed altri specialisti della salute. Essi insegnavano ai partecipanti le modalità con cui mantenere uno stile di vita sano: una dieta corretta, esercizi di allenamento sia muscolare che cardiovascolare, gestione dei fattori di rischio metabolici e cardiovascolari come ad esempio regolari esami del sangue, e molte altre cose.

Dopo due anni, le funzioni mentali dei soggetti venivano misurate utilizzando una batteria standard di test, il Neuropsychological Test Battery (NTB), in cui l’ottenimento di un punteggio maggiore corrisponde a migliori funzioni cerebrali. Tutti i punteggi ottenuti dai partecipanti appartenenti al gruppo che aveva usufruito del programma intensivo erano del 25% più alti rispetto a quelli ottenuti dagli individui del gruppo di controllo. Per alcuni test, la differenza fra i due gruppi era ancora più sorprendente; ad esempio, nel caso delle funzioni esecutive, i punteggi erano dell’83% più alti nel gruppo coinvolto nell’intervento mirato, e la velocità di elaborazione era del 150% maggiore.

Afferma la Dottoressa Kivipelto: “Molte ricerche precedenti hanno mostrato che esiste una relazione tra declino cognitivo nelle persone anziane e fattori quali la dieta, l’esercizio fisico e il mantenimento della salute del cuore. Ad ogni modo, il nostro è il primo trial randomizzato così esteso e specificatamente mirato a dimostrare che il contenimento di fattori di rischio ben precisi  possono rallentare significativamente lo sviluppo di demenza senile”.

I partecipanti allo studio saranno ora seguiti per almeno altri sette anni, al fine di comprendere se il rallentamento del declino cognitivo mostrato in questi studi possa prevenire la demenza senile e le diagnosi di Alzheimer nelle persone anziane. I ricercatori cercheranno altresì di comprendere quali siano le variabili precise coinvolte nell’intervento effettuato che cambiano il funzionamento cerebrale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Scienze Neurologiche Ospedaliere (SNO): 55° Congresso, Como, 22-24 Aprile 2015

55° CONGRESSO NAZIONALE DELLA SNO (SCIENZE NEUROLOGICHE OSPEDALIERE)

Tre giorni di incontri e dibattiti anche per la popolazione

Como, 22-24 Aprile 2015

 

LOGO_SNOSi terrà a Como dal 22 al 24 aprile il 55° Congresso Nazionale della Società Italiana dei Neurologi, Neurochirurghi e Neuroradiologi Ospedalieri, tra il Teatro Sociale e l’Hotel Palace.

Si tratta di un prestigioso riconoscimento legato all’impegno che da decine di anni i due ospedali di Como, Valduce e S. Anna (con i loro referenti: Mario Guidotti, primario di Neurologia presso l’Ospedale Valduce, Marco Arnaboldi, responsabile Stroke Unit dell’Ospedale S. Anna, e Angelo Taborelli, direttore Neurochirurgia e Dipartimento Neuroscienze dell’Ospedale S. Anna), dedicano alle malattie neurologiche, creando una vera rete per le patologie acute e croniche, con il sostegno esterno dell’Associazione Comobrain, impegnata nella diffusione delle conoscenze neurologiche e nell’integrazione delle associazioni  dedicate ai malati del sistema nervoso.

Alcuni dati significativi per rendere l’idea di questo impegno dei due ospedali di Como: 800 ictus cerebrali trattati in un anno, più di mille malati di Parkinson seguiti regolarmente, oltre 500 di sclerosi multipla e quasi 2000 forme di demenze.

Due Neurologie integrate e sostenute da una Neurochirurgia dotata di strumentazioni di eccellenza sono l’architrave sulla quale il cittadino della provincia di Como può contare in caso di malattia del sistema nervoso centrale o periferico. Ecco perché la SNO (Scienze Neurologiche Ospedaliere), che conta diverse centinaia di iscritti, Neurologi, Neurochirurghi e Neuroradiologi, in tutta la penisola, ha deciso di tenere proprio a Como il suo prossimo congresso nazionale.

In questa occasione, arricchita anche da specialisti provenienti dagli USA e da nazioni europee, saranno presentati innovativi interventi endovascolari nell’ictus e nuove terapie farmacologiche e chirurgiche.

Una parte del congresso sarà aperto anche  alla popolazione, con letture su arte e cervello e con incontri con le associazioni dei malati, con l’obiettivo che il congresso non sia solo sede di dibattimento tra scienziati, ma momento di trasferimento delle conoscenze a chiunque ne sia interessato, con gli opportuni strumenti e linguaggi.

Due in particolare gli appuntamenti da segnalare, aperti alla cittadinanza: il 22 aprile alle ore 18.30 al Teatro Sociale l’incontro “Il futuro estetico del cervello” con Philippe Daverio, che tratterà del cervello da un punto di vista artistico e culturale.

Venerdì 24 aprile dalle 8.30 alle 10.30 all’Hotel Palace l’incontro con le Associazioni del territorio, a cui parteciperanno, tra le altre, FIAN, Comobrain, AISM, AISLA, ALICE, AICH, AICE, Parkinson Italia, UILDM, Federazione Alzheimer Italia, ABIO.

Un congresso di eccellenza neurologica quindi – dice Armando Sommariva, presidente di Comobrain – che offre anche l’opportunità alla popolazione comasca di avvicinarsi in maniera diretta al mondo delle Neuroscienze e conoscere tutte quelle Associazioni di Volontariato che operano sul nostro Territorio, con  competenza, professionalità e passione, a fianco dei pazienti e delle loro famiglie”.

 

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Conoscere l’autismo: l’intervento dell’Associazione Notteblu

Associazione Notteblu, nata a Galatina nell’agosto del 2013, nasce dal bisogno di informare il territorio circa la problematica dell’autismo. Si è fatta conoscere dalla propria cittadinanza in occasione della Giornata Mondiale dell’Autismo il 2 aprile scorso durante l’evento NotteBlu per l’autismo con un dibattito tenuto dall’équipe di medici professionisti della struttura Enosh di Tricase.

Sono intervenuti lo psicologo del centro, dr. Antonio Rigliaco, che ha parlato delle caratteristiche principali di coloro che rientrano nello spettro autistico, la dott.ssa Chiara Pellegrino che ha illustrato le relative linee guida nazionali e la terapista Chiara Saracino, che ha esposto la terapia comportamentale ABA, con la proiezione di filmati che riprendevano degli interventi condotti su alcuni pazienti.

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Inoltre, l’insegnante di sostegno della scuola primaria polo 1, Daniela Piccinno, ha trattato l’argomento dell’inclusione scolastica, facendo riferimento all’importanza della collaborazione tra nucleo familiare e scuola e spiegando come venga elaborata, per un corretto inserimento del bambino nell’ambiente scolastico, una programmazione composta di attività diversificate che mirino principalmente all’autonomia del soggetto per poi arrivare all’integrazione vera e propria con la classe.

Durante la serata sono intervenuti anche alcuni bambini della scuola primaria che hanno recitato un estratto della lettera del dott. Angel Rivière (professore di psicologia evolutiva presso l’Università Autonoma di Madrid) lasciando poi volare dei palloncini blu come simbolo di condivisione.

E’ seguita la proiezione di un corto animato francese nel quale viene raccontato l’autismo dal punto di vista di una bambina ed un documentario composto da testimonianze di genitori di bambini con disturbo autistico.

Nel giugno 2014, l’associazione ha organizzato un seminario, tenuto dalla ricercatrice Nuni Burgio, in cui si è parlato dell’importanza delle coccole genitoriali spontanee nei processi di sviluppo nel bambino, compresi i casi in cui lo sviluppo rallenta o si disorganizza (Autismo, ADHD, sindromi genetiche con implicazioni neurologiche, disprassie, dislessie). Si è parlato di sensorialità, di propriocezione e si sono fornite le indicazioni necessarie per recuperare il compito genitoriale per eccellenza: modulare, coordinare, tutelare, salvaguardare e promuovere i fisiologici processi di sviluppo dei propri bambini.

Conoscere l'autismo l'intervento dell'Associazione Notteblu2

A gennaio 2015 l’Associazione ha aderito ad un progetto promosso dal comune di Galatina in cui si forniva l’uso gratuito di una sala della biblioteca comunale; lì si stanno tutt’ora tenendo degli incontri informativi diretti da professionisti del centro Nova Mentis nonché figure professionali formate dal gruppo Erickson, assieme a proiezioni di film e presentazioni di libri inerenti l’argomento.

Conoscere l'autismo l'intervento dell'Associazione Notteblu3

Il prossimo 18 aprile, a partire dalle ore 19, si svolgerà la seconda edizione della NotteBlu per l’autismo, presso il Chiostro del Palazzo della Cultura, serata nella quale verrà proposto un dibattito con il neuropsichiatra dott. Antonaci Antonio e gli esperti che stanno collaborando nel progetto in atto (Centro Nova Mentis ed esperti formati da Erickson), nonché con la psicologa Maria Caccetta, del Centro Studi Forepsy, puntando l’attenzione sull’inclusione scolastica.

E’ prevista la partecipazione degli alunni della scuola primaria polo 1, attraverso la lettura di una favola di Gianni Rodari, e istituti quali il Liceo Pedagogico e per i Servizi Sociali, che esporranno dei brevi testi e poesie aventi come argomento l’autismo e la diversità.

Collaborerà con l’associazione Notteblu anche l’ Istituto Immacolata, un’ Azienda di Servizi alla Persona (A.S.P) che ha come finalità l’attività sociale, morale religiosa, assistenziale volta a favore di categorie particolari o bisognose. Inoltre, un gruppo di attori professionisti porterà in scena uno spettacolo teatrale dal titolo Diver- City.

Durante la serata sarà possibile la consultazione di testi della Erickson Edizioni e la visione di un’esposizione di quadri a tema redatti da un pittore contemporaneo della nostra città.

 

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Apro un bar in spiaggia ai Caraibi: la psicologia della “seconda vita”

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 22 Marzo 2015

 

La possibilità di una seconda vita è la possibilità della libertà. È la libertà di uscire dalle secche del proprio destino. È la possibilità psicologica della libertà, ed è una possibilità profondamente moderna, la libertà di essere assolutamente individui sciolti da ogni contingenza, la possibilità di liberarsi di tutte le convenzioni, di tutti ruoli in cui siamo quotidianamente costretti e di tutte le aspettative degli altri in cui siamo incappucciati.

Fu Benjamin Constant, nel suo discorso “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” a notare come l’individuo antico non concepisse nemmeno una simile possibilità: sparire e rifarsi una vita altrove. Socrate rifiuta la possibilità di fuggire dal carcere in cui attende l’esecuzione a morte, tanto per lui è inconcepibile la vita al di fuori della comunità in cui è cresciuto. Le comunità antiche, che fossero le città stato greche o le tribù barbariche, erano comunità totalitarie, in cui il singolo era sempre asservito, in ogni sua azione, alle attese sociali. Gli organi sociali e politici avevano grandi poteri di controllo sulla vita del singolo, il quale di buon grado li accettava. Constant fa l’esempio dell’ostracismo, strumento della democrazia ateniese aberrante per la sensibilità moderna. Con l’ostracismo si poteva esiliare con facilità disarmante un cittadino verso il quale il popolo nutrisse sospetti di tirannia. Non vi erano garanzie, né vi era una giurisprudenza che, attraverso un giusto processo, valutasse la fondatezza fattuale del sospetto. Ciò che contava era l’opinione della comunità, e se questa decretava che un certo cittadino non svolgeva il suo ruolo sociale, essa lo espelleva.

Questi controlli e lacci della libertà personale erano leniti dall’intenso grado di partecipazione dell’individuo antico alla vita pubblica. Che si trattasse della città stato greca o della tribù barbarica, l’individuo faceva politica tutto il giorno. L’individuo antico non era disperso nelle moltitudini leviataniche degli stati moderni, e aveva la possibilità di partecipare in prima persona a molte occasioni politiche: assemblee, consigli, giudizi, elezioni. Viveva una vita quindi più eroica e meno comoda della nostra, meno dedita alla sicurezza e più all’azione, più politica e guerriera e meno privata. Poiché infatti il criterio di cittadinanza sia delle città stato greche e italiche che delle tribù dell’Europa celtica e germanica era la capacità combattere, di portare le armi. E l’organo politico primigenio di quegli antichi stati cittadini e tribali era l’assemblea, l’adunanza degli uomini atti a portare le armi.

Insomma, gli antichi vivevano in comunità guerriere in cui non c’era spazio privato. Enormi caserme. Il caso di Sparta era il più eclatante, ma il modello era applicabile perfino ad Atene. Entrambe democrazie totalitarie di liberi guerrieri che non lavoravano, ma combattevano e facevano politica tutto il giorno. Libertà politica e schiavitù sociale.
Nel mondo moderno la libertà è diventata qualcosa di molto diverso dai tempi antichi. È diventata la libertà di usare e perfino abusare a piacimento del proprio giardino, senza che nessuna autorità esterna o superiore possa intromettersi, per qualsiasi interesse superiore e comune.

È il “let me alone!”, il “lasciami in pace!”  del cittadino americano. È la libertà negativa di Isaiah Berlin composta dal complesso delle garanzie che permettono una vita quanto più possibile indipendente, che custodisce e assicura il godimento dei beni man mano scelti liberamente dall’individuo nella sua esistenza, piuttosto che nella partecipazione attiva e costante a compiti comunitari.

Tutto bene, quindi? Di una seconda vita non ce ne sarebbe bisogno, essendo insita nella nostra libertà quotidiana? Lasciati liberi di coltivare il nostro giardino come vogliamo, che bisogno abbiamo di sognare rinascite in un altrove?
Non è così semplice. Liberi dalle costrizioni sociali degli antichi, abbiamo dovuto sottostare a una nuova schiavitù: il lavoro. È appunto il lavoro che ci rende schiavi e liberi al tempo stesso. Siamo più indipendenti degli antichi rispetto alla società e proprio per questo dobbiamo guadagnarci il pane. Non più costretti a seguire un percorso evolutivo rigido come il guerriero tribale o cittadino antico, ognuno di noi deve inventarsi un mestiere, trovarsi un lavoro. Non ci sono schiavi che lavorino al posto nostro, per fortuna.

Il paradosso della modernità è proprio questo sogno di libertà assoluta, di potersi teoricamente ogni giorno reinventare e la necessità di accettare i limiti della vita lavorativa adulta. Una promessa che si infrange contro il muro della necessità. Di qui il rifugiarsi di ognuno di noi nel sogno privato. Non siamo più membri da secoli, anzi da un paio di millenni, di tribù o città stato in cui tutti conoscevano tutti. La formazione dei grandi organismi statali in cui la partecipazione politica non è più diretta ma si riduce allo sporadico rito del voto stimola il rifugiarsi dentro se stessi, nel dialogo interiore.

Di qui il sogno di una rinascita, di una seconda vita, che sembra un riproporsi secolarizzato della promessa cristiana di morte e resurrezione. In fondo questo fu “il cristianesimo, che è la forma presa dal problema della libertà alla fine del mondo antico” (Momigliano, 1996). Libertà da tutto, perfino dalla stessa razionalità. Un cristiano, Agostino, vescovo della città di Ippona in Africa, è il primo che riflette sulla volontà come principio di azione distinto dalla ragione. Mentre l’ideale del cittadino greco e poi romano è quello dell’Etica Nicomachea, l’uomo nobile che tiene a bada le passioni e le risolve tutte nella attività politica e pubblica. Ha una interiorità, ma essa non è mai dispiegata, ma semmai prosciugata e resa lineare, asciutta, in uno sforzo intenso di selezione e di separazione: solo le passioni nobili, prima di tutte l’orgoglio e l’amor proprio, sono accettate, mentre i moti più ignobili dell’animo non sono riconosciuti, ma ritenuti propri solo della plebe.

E mentre per i filosofi greci la volontà è sempre “appetizione razionale”, cosicché gli stati emotivi e impulsivi non sarebbero a rigore volontari, in Sant’Agostino troviamo una concezione della volontà come principio di azione che ha il suo fondamento proprio in questa libertà di poter decidere di fare e desiderare di essere tutto piuttosto che in un mero calcolo razionale. Agostino osservò che la volontà è in tutti gli atti mentali degli uomini, anzi tutti gli atti mentali degli uomini sono niente altro che volontà (De Civitate Dei, XIV, 6). Ogni atto è sempre volontario, che sia o meno ascrivibile a una decisione razionale o a un impulso di piacere. Mi rendo conto, e me ne scuso con il lettore, che qui vado in un argomento molto tecnico, ma questa intuizione di Agostino somiglia alla concezione modernissima di Adrian Wells (2002) per la quale l’attenzione non è un esito, una conseguenza di un ragionamento, ma è a monte del ragionamento. A posteriori noi giustifichiamo, ragionandoci sopra, quello a cui abbiamo dato importanza e attenzione  (per approfondire, intervista a Adrian Wells).

Purtroppo questa libertà di decidere e dare attenzione ci inebria, ma alla fine ci delude. L’uomo moderno è libero di tentare di diventare tutto, ma sarà inevitabilmente capace di diventare solo una cosa. Una simile libertà può inebriare, ma anche schiacciare, e determinare quella tensione tra la propria piccolezza individuale e l’astratta e impersonale totalità della vita sociale.

Torniamo ancora agli antichi. I nostri antichi non dovevano affrontare e mettere ordine, come noi, in un eccesso di possibilità, rischi, libertà, e occasioni. Per un libero cittadino greco o romano il corso da seguire era difficile e carico di oneri, ma anche ben più predeterminato del nostro. Si rischiava precocemente la vita, ma mai l’anonimato, l’oscurità, se si nasceva nelle famiglie dell’aristocrazia o del ceto equestre. Vi era quindi un senso della vita più pieno e più pratico, meno afflitto da intellettualismi e razionalismi, crisi di coscienza, interiorità tormentate e irritabili. Tutto era risolto nella vita pubblica, ricca di onori e di avventure che riempivano la vita e la ancoravano solidamente all’esterno (Meier, 1982).

È plausibile che il distacco dell’uomo moderno dalla vita pubblica, il suo ritirarsi dagli spazi aperti del Foro o dell’Agorà, il suo dedicarsi al lavoro e alla realizzazione di sé, il suo sperdersi in un oceano di individui tutti liberi (laddove l’uomo antico greco o romano splendeva di luce propria e di senso al di sopra di una massa indistinta di non cittadini confinati in mansioni schiavili o lavorative) abbia favorito una attitudine dapprima religiosa e poi filosofica sempre più consapevole della propria consapevolezza, sempre più cosciente della propria coscienza, e quindi disperata e solipsistica.

Non a caso noi moderni siamo, rispetto agli antichi, molto più consapevoli della libertà che godiamo nella nostra interiorità mentale. Mentre gli antichi pensavano che ogni stato mentale provenisse dall’esterno, da ispirazioni magiche, noi siamo consapevoli dell’indipendenza assoluta della nostra vita mentale cosciente.

È proprio tipico della mente la capacità di produrre rappresentazioni alternative, scenari immaginari, realtà mentali virtuali non sottoposte ai limiti esterni della realtà fisica e a quelli interni delle reazioni emotive. In tal modo la mente si sottrae alla schiavitù dell’istinto e diventa in grado di auto modificarsi e auto-manipolarsi. L’attività mentale cosciente è intrisa di sconfinata libertà, connessa con le infinite potenzialità immaginazione. Nell’atto di coscienza possiamo decidere di evocare la rappresentazione di qualunque oggetto, creando immagini mentali, producendo un discorso interno, o anche immaginando suoni, rumori, odori e qualunque percezione esterna o interna al corpo. Nella coscienza l’Io esperisce l’unica quinta che non lo limita. Nel chiuso della mente il controllo volontario è assoluto, non inceppato né dalla pesantezza della carne, né dai limiti dello spazio, e nemmeno dai cancelli del tempo.

Lo stato di consapevolezza cosciente permette atti di volontà, di deliberazione che non sono riducibili a puro calcolo. La deliberazione nasce da uno scarto, un salto oltre i limiti della razionalità calcolante, un atto non fondato ma piuttosto fondante. Il soggetto che sceglie non lo fa sempre in base a dei presupposti calcolati e razionali, ma piuttosto sceglie volta per volta quali sono i suoi principi cognitivi e morali nel momento in cui decide cosa fare, cosa pensare, cosa credere o in che cosa credere, da che parte stare.

Alla base di tutto questo riposa il sogno di piantare tutto, lavoro, coniuge e figli e aprire un baretto su una spiaggia caraibica.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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