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Conoscere l’autismo: l’intervento dell’Associazione Notteblu

Associazione Notteblu, nata a Galatina nell’agosto del 2013, nasce dal bisogno di informare il territorio circa la problematica dell’autismo. Si è fatta conoscere dalla propria cittadinanza in occasione della Giornata Mondiale dell’Autismo il 2 aprile scorso durante l’evento NotteBlu per l’autismo con un dibattito tenuto dall’équipe di medici professionisti della struttura Enosh di Tricase.

Sono intervenuti lo psicologo del centro, dr. Antonio Rigliaco, che ha parlato delle caratteristiche principali di coloro che rientrano nello spettro autistico, la dott.ssa Chiara Pellegrino che ha illustrato le relative linee guida nazionali e la terapista Chiara Saracino, che ha esposto la terapia comportamentale ABA, con la proiezione di filmati che riprendevano degli interventi condotti su alcuni pazienti.

 Conoscere l'autismo l'intervento dell'Associazione Notteblu1

Inoltre, l’insegnante di sostegno della scuola primaria polo 1, Daniela Piccinno, ha trattato l’argomento dell’inclusione scolastica, facendo riferimento all’importanza della collaborazione tra nucleo familiare e scuola e spiegando come venga elaborata, per un corretto inserimento del bambino nell’ambiente scolastico, una programmazione composta di attività diversificate che mirino principalmente all’autonomia del soggetto per poi arrivare all’integrazione vera e propria con la classe.

Durante la serata sono intervenuti anche alcuni bambini della scuola primaria che hanno recitato un estratto della lettera del dott. Angel Rivière (professore di psicologia evolutiva presso l’Università Autonoma di Madrid) lasciando poi volare dei palloncini blu come simbolo di condivisione.

E’ seguita la proiezione di un corto animato francese nel quale viene raccontato l’autismo dal punto di vista di una bambina ed un documentario composto da testimonianze di genitori di bambini con disturbo autistico.

Nel giugno 2014, l’associazione ha organizzato un seminario, tenuto dalla ricercatrice Nuni Burgio, in cui si è parlato dell’importanza delle coccole genitoriali spontanee nei processi di sviluppo nel bambino, compresi i casi in cui lo sviluppo rallenta o si disorganizza (Autismo, ADHD, sindromi genetiche con implicazioni neurologiche, disprassie, dislessie). Si è parlato di sensorialità, di propriocezione e si sono fornite le indicazioni necessarie per recuperare il compito genitoriale per eccellenza: modulare, coordinare, tutelare, salvaguardare e promuovere i fisiologici processi di sviluppo dei propri bambini.

Conoscere l'autismo l'intervento dell'Associazione Notteblu2

A gennaio 2015 l’Associazione ha aderito ad un progetto promosso dal comune di Galatina in cui si forniva l’uso gratuito di una sala della biblioteca comunale; lì si stanno tutt’ora tenendo degli incontri informativi diretti da professionisti del centro Nova Mentis nonché figure professionali formate dal gruppo Erickson, assieme a proiezioni di film e presentazioni di libri inerenti l’argomento.

Conoscere l'autismo l'intervento dell'Associazione Notteblu3

Il prossimo 18 aprile, a partire dalle ore 19, si svolgerà la seconda edizione della NotteBlu per l’autismo, presso il Chiostro del Palazzo della Cultura, serata nella quale verrà proposto un dibattito con il neuropsichiatra dott. Antonaci Antonio e gli esperti che stanno collaborando nel progetto in atto (Centro Nova Mentis ed esperti formati da Erickson), nonché con la psicologa Maria Caccetta, del Centro Studi Forepsy, puntando l’attenzione sull’inclusione scolastica.

E’ prevista la partecipazione degli alunni della scuola primaria polo 1, attraverso la lettura di una favola di Gianni Rodari, e istituti quali il Liceo Pedagogico e per i Servizi Sociali, che esporranno dei brevi testi e poesie aventi come argomento l’autismo e la diversità.

Collaborerà con l’associazione Notteblu anche l’ Istituto Immacolata, un’ Azienda di Servizi alla Persona (A.S.P) che ha come finalità l’attività sociale, morale religiosa, assistenziale volta a favore di categorie particolari o bisognose. Inoltre, un gruppo di attori professionisti porterà in scena uno spettacolo teatrale dal titolo Diver- City.

Durante la serata sarà possibile la consultazione di testi della Erickson Edizioni e la visione di un’esposizione di quadri a tema redatti da un pittore contemporaneo della nostra città.

 

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Apro un bar in spiaggia ai Caraibi: la psicologia della “seconda vita”

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 22 Marzo 2015

 

La possibilità di una seconda vita è la possibilità della libertà. È la libertà di uscire dalle secche del proprio destino. È la possibilità psicologica della libertà, ed è una possibilità profondamente moderna, la libertà di essere assolutamente individui sciolti da ogni contingenza, la possibilità di liberarsi di tutte le convenzioni, di tutti ruoli in cui siamo quotidianamente costretti e di tutte le aspettative degli altri in cui siamo incappucciati.

Fu Benjamin Constant, nel suo discorso “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” a notare come l’individuo antico non concepisse nemmeno una simile possibilità: sparire e rifarsi una vita altrove. Socrate rifiuta la possibilità di fuggire dal carcere in cui attende l’esecuzione a morte, tanto per lui è inconcepibile la vita al di fuori della comunità in cui è cresciuto. Le comunità antiche, che fossero le città stato greche o le tribù barbariche, erano comunità totalitarie, in cui il singolo era sempre asservito, in ogni sua azione, alle attese sociali. Gli organi sociali e politici avevano grandi poteri di controllo sulla vita del singolo, il quale di buon grado li accettava. Constant fa l’esempio dell’ostracismo, strumento della democrazia ateniese aberrante per la sensibilità moderna. Con l’ostracismo si poteva esiliare con facilità disarmante un cittadino verso il quale il popolo nutrisse sospetti di tirannia. Non vi erano garanzie, né vi era una giurisprudenza che, attraverso un giusto processo, valutasse la fondatezza fattuale del sospetto. Ciò che contava era l’opinione della comunità, e se questa decretava che un certo cittadino non svolgeva il suo ruolo sociale, essa lo espelleva.

Questi controlli e lacci della libertà personale erano leniti dall’intenso grado di partecipazione dell’individuo antico alla vita pubblica. Che si trattasse della città stato greca o della tribù barbarica, l’individuo faceva politica tutto il giorno. L’individuo antico non era disperso nelle moltitudini leviataniche degli stati moderni, e aveva la possibilità di partecipare in prima persona a molte occasioni politiche: assemblee, consigli, giudizi, elezioni. Viveva una vita quindi più eroica e meno comoda della nostra, meno dedita alla sicurezza e più all’azione, più politica e guerriera e meno privata. Poiché infatti il criterio di cittadinanza sia delle città stato greche e italiche che delle tribù dell’Europa celtica e germanica era la capacità combattere, di portare le armi. E l’organo politico primigenio di quegli antichi stati cittadini e tribali era l’assemblea, l’adunanza degli uomini atti a portare le armi.

Insomma, gli antichi vivevano in comunità guerriere in cui non c’era spazio privato. Enormi caserme. Il caso di Sparta era il più eclatante, ma il modello era applicabile perfino ad Atene. Entrambe democrazie totalitarie di liberi guerrieri che non lavoravano, ma combattevano e facevano politica tutto il giorno. Libertà politica e schiavitù sociale.
Nel mondo moderno la libertà è diventata qualcosa di molto diverso dai tempi antichi. È diventata la libertà di usare e perfino abusare a piacimento del proprio giardino, senza che nessuna autorità esterna o superiore possa intromettersi, per qualsiasi interesse superiore e comune.

È il “let me alone!”, il “lasciami in pace!”  del cittadino americano. È la libertà negativa di Isaiah Berlin composta dal complesso delle garanzie che permettono una vita quanto più possibile indipendente, che custodisce e assicura il godimento dei beni man mano scelti liberamente dall’individuo nella sua esistenza, piuttosto che nella partecipazione attiva e costante a compiti comunitari.

Tutto bene, quindi? Di una seconda vita non ce ne sarebbe bisogno, essendo insita nella nostra libertà quotidiana? Lasciati liberi di coltivare il nostro giardino come vogliamo, che bisogno abbiamo di sognare rinascite in un altrove?
Non è così semplice. Liberi dalle costrizioni sociali degli antichi, abbiamo dovuto sottostare a una nuova schiavitù: il lavoro. È appunto il lavoro che ci rende schiavi e liberi al tempo stesso. Siamo più indipendenti degli antichi rispetto alla società e proprio per questo dobbiamo guadagnarci il pane. Non più costretti a seguire un percorso evolutivo rigido come il guerriero tribale o cittadino antico, ognuno di noi deve inventarsi un mestiere, trovarsi un lavoro. Non ci sono schiavi che lavorino al posto nostro, per fortuna.

Il paradosso della modernità è proprio questo sogno di libertà assoluta, di potersi teoricamente ogni giorno reinventare e la necessità di accettare i limiti della vita lavorativa adulta. Una promessa che si infrange contro il muro della necessità. Di qui il rifugiarsi di ognuno di noi nel sogno privato. Non siamo più membri da secoli, anzi da un paio di millenni, di tribù o città stato in cui tutti conoscevano tutti. La formazione dei grandi organismi statali in cui la partecipazione politica non è più diretta ma si riduce allo sporadico rito del voto stimola il rifugiarsi dentro se stessi, nel dialogo interiore.

Di qui il sogno di una rinascita, di una seconda vita, che sembra un riproporsi secolarizzato della promessa cristiana di morte e resurrezione. In fondo questo fu “il cristianesimo, che è la forma presa dal problema della libertà alla fine del mondo antico” (Momigliano, 1996). Libertà da tutto, perfino dalla stessa razionalità. Un cristiano, Agostino, vescovo della città di Ippona in Africa, è il primo che riflette sulla volontà come principio di azione distinto dalla ragione. Mentre l’ideale del cittadino greco e poi romano è quello dell’Etica Nicomachea, l’uomo nobile che tiene a bada le passioni e le risolve tutte nella attività politica e pubblica. Ha una interiorità, ma essa non è mai dispiegata, ma semmai prosciugata e resa lineare, asciutta, in uno sforzo intenso di selezione e di separazione: solo le passioni nobili, prima di tutte l’orgoglio e l’amor proprio, sono accettate, mentre i moti più ignobili dell’animo non sono riconosciuti, ma ritenuti propri solo della plebe.

E mentre per i filosofi greci la volontà è sempre “appetizione razionale”, cosicché gli stati emotivi e impulsivi non sarebbero a rigore volontari, in Sant’Agostino troviamo una concezione della volontà come principio di azione che ha il suo fondamento proprio in questa libertà di poter decidere di fare e desiderare di essere tutto piuttosto che in un mero calcolo razionale. Agostino osservò che la volontà è in tutti gli atti mentali degli uomini, anzi tutti gli atti mentali degli uomini sono niente altro che volontà (De Civitate Dei, XIV, 6). Ogni atto è sempre volontario, che sia o meno ascrivibile a una decisione razionale o a un impulso di piacere. Mi rendo conto, e me ne scuso con il lettore, che qui vado in un argomento molto tecnico, ma questa intuizione di Agostino somiglia alla concezione modernissima di Adrian Wells (2002) per la quale l’attenzione non è un esito, una conseguenza di un ragionamento, ma è a monte del ragionamento. A posteriori noi giustifichiamo, ragionandoci sopra, quello a cui abbiamo dato importanza e attenzione  (per approfondire, intervista a Adrian Wells).

Purtroppo questa libertà di decidere e dare attenzione ci inebria, ma alla fine ci delude. L’uomo moderno è libero di tentare di diventare tutto, ma sarà inevitabilmente capace di diventare solo una cosa. Una simile libertà può inebriare, ma anche schiacciare, e determinare quella tensione tra la propria piccolezza individuale e l’astratta e impersonale totalità della vita sociale.

Torniamo ancora agli antichi. I nostri antichi non dovevano affrontare e mettere ordine, come noi, in un eccesso di possibilità, rischi, libertà, e occasioni. Per un libero cittadino greco o romano il corso da seguire era difficile e carico di oneri, ma anche ben più predeterminato del nostro. Si rischiava precocemente la vita, ma mai l’anonimato, l’oscurità, se si nasceva nelle famiglie dell’aristocrazia o del ceto equestre. Vi era quindi un senso della vita più pieno e più pratico, meno afflitto da intellettualismi e razionalismi, crisi di coscienza, interiorità tormentate e irritabili. Tutto era risolto nella vita pubblica, ricca di onori e di avventure che riempivano la vita e la ancoravano solidamente all’esterno (Meier, 1982).

È plausibile che il distacco dell’uomo moderno dalla vita pubblica, il suo ritirarsi dagli spazi aperti del Foro o dell’Agorà, il suo dedicarsi al lavoro e alla realizzazione di sé, il suo sperdersi in un oceano di individui tutti liberi (laddove l’uomo antico greco o romano splendeva di luce propria e di senso al di sopra di una massa indistinta di non cittadini confinati in mansioni schiavili o lavorative) abbia favorito una attitudine dapprima religiosa e poi filosofica sempre più consapevole della propria consapevolezza, sempre più cosciente della propria coscienza, e quindi disperata e solipsistica.

Non a caso noi moderni siamo, rispetto agli antichi, molto più consapevoli della libertà che godiamo nella nostra interiorità mentale. Mentre gli antichi pensavano che ogni stato mentale provenisse dall’esterno, da ispirazioni magiche, noi siamo consapevoli dell’indipendenza assoluta della nostra vita mentale cosciente.

È proprio tipico della mente la capacità di produrre rappresentazioni alternative, scenari immaginari, realtà mentali virtuali non sottoposte ai limiti esterni della realtà fisica e a quelli interni delle reazioni emotive. In tal modo la mente si sottrae alla schiavitù dell’istinto e diventa in grado di auto modificarsi e auto-manipolarsi. L’attività mentale cosciente è intrisa di sconfinata libertà, connessa con le infinite potenzialità immaginazione. Nell’atto di coscienza possiamo decidere di evocare la rappresentazione di qualunque oggetto, creando immagini mentali, producendo un discorso interno, o anche immaginando suoni, rumori, odori e qualunque percezione esterna o interna al corpo. Nella coscienza l’Io esperisce l’unica quinta che non lo limita. Nel chiuso della mente il controllo volontario è assoluto, non inceppato né dalla pesantezza della carne, né dai limiti dello spazio, e nemmeno dai cancelli del tempo.

Lo stato di consapevolezza cosciente permette atti di volontà, di deliberazione che non sono riducibili a puro calcolo. La deliberazione nasce da uno scarto, un salto oltre i limiti della razionalità calcolante, un atto non fondato ma piuttosto fondante. Il soggetto che sceglie non lo fa sempre in base a dei presupposti calcolati e razionali, ma piuttosto sceglie volta per volta quali sono i suoi principi cognitivi e morali nel momento in cui decide cosa fare, cosa pensare, cosa credere o in che cosa credere, da che parte stare.

Alla base di tutto questo riposa il sogno di piantare tutto, lavoro, coniuge e figli e aprire un baretto su una spiaggia caraibica.

 

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Motivazione e piramide di Maslow – Introduzione alla Psicologia Nr.08

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Comunemente il termine motivazione è utilizzato per indicare i bisogni, le ragioni e i desideri legati al comportamento umano. La motivazione è, dunque, considerabile come l’insieme dei bisogni che sono alla base del comportamento che rappresenta l’esito dell’agire.

Ogni persona è un insieme di diversi elementi, tendenze, credenze, idee, etc. unificate in un’unica struttura di personalità, nella quale la motivazione risulta essere un elemento centrale. La motivazione è determinata da due elementi: le competenze, che rappresentano ciò che l’individuo è in grado di fare, e i valori personali, che rappresentano il nucleo di idee che guidano l’individuo nelle cose che comunemente svolge. Questi due elementi fungono da tramite per determinare la spinta motivazionale in un processo d’azione.

La spinta motivazionale a sua volta è innescata quando l’individuo avverte un bisogno ovvero uno squilibrio tra una situazione attuale e una situazione meta desiderata. Ad esempio, se una persona ha sete è perché un suo equilibrio interno è stato interrotto da una situazione di disagio, la sete appunto. La motivazione è la spinta che attiva l’individuo all’azione e che lo spinge ad adoperarsi per ristabilire la situazione di equilibrio precedente, bevendo un bicchiere d’acqua.

Esistono tre categorie di classificazione, di crescente complessità, delle motivazioni umane:

Le motivazioni primarie: sono pulsioni di natura fisiologica che comprendono essenzialmente bisogni fondamentali per la sopravvivenza quali bere, mangiare e dormire.

Le motivazioni secondarie: sono bisogni di natura individuale e sociale che si sono formati nell’individuo a seguito dei vari processi di socializzazione. Sono, per esempio, il successo, la cooperazione e la competizione.

Le motivazioni di livello superiore: sono impulsi che appartengono in maniera specifica a ciascun individuo e riguardano il perseguire i propri obiettivi, coerentemente con i propri valori e con la propria gerarchia di ideali. Sono esempi di questa categoria il perseguire la propria soddisfazione personale, nel campo delle affettività, nell’ambito del lavoro e della professione, vivere in conformità con i propri principi morali.

Il contributo più importante e significativo sul tema della motivazione in ambito psicologico è dato dall’opera di Maslow (1954). Secondo Maslow l’uomo è considerato come una totalità dinamica e integrata, per cui un bisogno si riverbera sull’individuo nella sua globalità. Non esiste cioè un bisogno, come per esempio la fame, ma esiste un bisogno della persona nel suo complesso.

 

Piramide dei bisogni - Maslow (1954) copy

 

Nell’individuo esistono tendenze diverse, traenti origine da bisogni di differente natura, che si è pronti a soddisfare. Tali bisogni non sono isolati e a sé stanti, ma si dispongono in una gerarchia di dominanza e di importanza, che prende il nome di piramide. Alla base, ci sono tutti i bisogni fisiologici, essenziali per la nostra sopravvivenza fisica nell’ambiente. Prima di soddisfare i bisogni più alti nella scala, l’individuo tende a soddisfare quelli più bassi, ovvero quelli più importanti per la sua sopravvivenza. Per quello che riguarda i bisogni più alti degli individui essi tendono a variare molto nel tempo. Ogni persona compie un suo percorso di maturazione e sviluppo motivazionale all’interno del quale le mete e gli obiettivi di livello alto possono subire grandi modificazioni. Inoltre, un successo tende spesso a essere dimenticato e, il vecchio obiettivo, tende a essere sostituito da uno più grande e ambizioso. Mentre i bisogni fondamentali per la sopravvivenza una volta soddisfatti tendono a non ripresentarsi, almeno per un periodo di tempo, i bisogni sociali e relazionali tendono a innescare nuove e più ambiziose mete da raggiungere.

I bisogni nella piramide si dispongono e differenziano come segue:

– I bisogni fisiologici: sono i tipici bisogni di sopravvivenza (fame, sete, desiderio sessuale…). Secondo Maslow ogni bisogno primario serve da canale e da stimolatore per qualsiasi altro bisogno. Nella scala delle priorità i bisogni fisiologici sono i primi a dovere essere soddisfatti in quanto alla base di tali bisogni vi è l’istinto di autoconservazione, il più potente e universale drive dei comportamenti sia negli uomini che negli animali. Se in un individuo non trova soddisfazione di nessun bisogno, sentirà la pressione dei bisogni fisiologici come unica e prioritaria. Solo nel momento in cui i bisogni fisiologici sono soddisfatti con regolarità, allora ci sarà lo spazio per prendere in considerazione le altre necessità, quelle di livello più alto.

– I bisogni di sicurezza: i bisogni di appartenenza, stabilità, protezione e dipendenza, che giocano un ruolo fondamentale soprattutto nel periodo evolutivo, insorgono nel momento in cui i bisogni primari sono stati soddisfatti. Anche questi bisogni danno forma ad alcuni comportamenti tipici, soprattutto di carattere sociale. La stessa organizzazione sociale che ogni comunità si dà a seconda della propria cultura, è un modo di rendere stabile e sicuro il percorso di crescita dell’individuo.

– I bisogni di affetto: questa categoria di bisogni è fondamentalmente di natura sociale e rappresenta l’aspirazione di ognuno di noi a essere un elemento della comunità sociale apprezzato e benvoluto. Più in generale il bisogno d’affetto riguarda l’aspirazione ad avere amici, ad avere una vita affettiva e relazionale soddisfacente, ad avere dei colleghi dai quali essere accettato e con i quali avere scambi e confronti.

– Il bisogno di stima: anche questa categoria di aspirazioni è essenzialmente rivolta alla sfera sociale e ha come obiettivo quello di essere percepito dalla comunità sociale come un membro valido, affidabile e degno di considerazione. Spesso le autovalutazioni o la percezione delle valutazioni possono differire grandemente rispetto al loro reale valore. Molte persone possono sentirsi molto valide al di là dei loro meriti e riconoscimenti reali, mentre altre possono soffrire di forti sentimenti di inferiorità e disistima anche se l’ambiente sociale ha un atteggiamento globalmente positivo nei loro confronti.

– Il bisogno di autorealizzazione: si tratta di un’aspirazione individuale a essere ciò che si vuole essere, a diventare ciò che si vuole diventare, a sfruttare a pieno le nostre facoltà mentali, intellettive e fisiche in modo da percepire che le proprie aspirazioni sono congruenti e consone con i propri pensieri e con le proprie azioni. Non tutte le persone nelle nostre società riescono a soddisfare tutte e a pieno le loro potenzialità, infatti l’insoddisfazione sia sul lavoro che nei rapporti sociali e di coppia è un fenomeno molto diffuso.

L’autorealizzazione richiede caratteristiche di personalità, oltre che competenze sociali e capacità tecniche, molto particolari e raffinate. Secondo Maslow le caratteristiche di personalità che una persona deve avere per raggiungere questo importante obiettivo sono: realismo, accettazione di sé, spontaneità, inclinazione a concentrarsi sui problemi piuttosto che su di sé, autonomia e indipendenza, capacità di intimità, apprezzamento delle cose e delle persone, capacità di avere esperienze profonde, capacità di avere rapporti umani positivi, democrazia, identificazione con l’essere umano come totalità, capacità di tenere distinti i mezzi dagli scopi, senso dell’ironia, creatività, originalità.

 

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Ideale corporeo in adolescenza: bellezza o salute?

L’eccessiva importanza riservata all’immagine corporea è frutto dell’errata convinzione che per essere socialmente accettati bisogna apparire in forma uguale, se non addirittura migliore, a quella dei modelli proposti dai media.

Che cos’è l’adolescenza? È quel periodo da tutti definito come fase di passaggio da fanciullezza a età adulta. I limiti non sono chiaramente specificati; si estende grossomodo tra gli 11 e i 18 anni e durante questo periodo i giovani sviluppano la maturità sessuale e stabiliscono un’identità individuale indipendente. Si tratta di un periodo della vita estremamente complesso e di un momento di discontinuità nello sviluppo del ragazzo. Se si potesse ridurre ad una parola, l’adolescenza potrebbe definirsi una “metamorfosi”, un cambiamento non solo relativo al proprio aspetto fisico, ma anche una modalità nuova di vedere e di vivere il mondo che ci circonda (Mian, 2006).

L’adolescenza inizia con la pubertà, ma i due concetti non vanno confusi, in quanto la pubertà si riferisce esclusivamente al passaggio dalla condizione fisiologica del bambino a quella dell’adulto. L’età puberale ha un inizio molto variabile e dipende da svariati fattori. Ad ogni modo porta sempre con sé importanti modificazioni fisiche, psicologiche e sociali. Simili cambiamenti, solitamente dalla venuta repentina e inaspettata, sono spesso di difficile accettazione. Potrebbe talvolta verificarsi una crisi dell’identità personale: il corpo solitamente cambia in modo disarmonico facendo nascere nell’adolescente grandi dubbi sulla propria normalità.

I marcati mutamenti fisici presentano caratteristiche diverse nei maschi e nelle femmine. Nei ragazzi accade che le loro spalle si allargano, aumenta il tessuto muscolare e tendono a perdere peso. Di contro nelle ragazze, a causa del rallentamento della velocità della crescita, tendono ad ingrassare e talvolta cambia radicalmente anche il metabolismo della giovane, così come il modo in cui il suo corpo assimila e consuma le calorie derivanti dal cibo.
Sono molti gli studi che hanno messo in luce il fatto che l’insoddisfazione corporea è altamente prevalente in adolescenza, ed evidenti prove empiriche indicano che le ragazze mostrano una maggiore insoddisfazione rispetto ai ragazzi (Knauss, et all. 2007).

Come mai? Il perché è facilmente immaginabile. Possiamo  ricollegarlo ai mass media. Nel giro degli ultimi anni i media hanno creato un’immagine di bellezza standard per le ragazze. La definizione dell’attrattività femminile sembrerebbe basata su un ideale corporeo perfetto e magro. Relativamente ai ragazzi, piuttosto che un ideale di magrezza, è presentato un ideale di corpo snello e muscoloso. Bisogna notare come i cambiamenti fisici della pubertà possano avvicinare i ragazzi al loro ideale di corpo, mentre vi allontanano le ragazze.

L’eccessiva importanza riservata all’immagine corporea è frutto dell’errata convinzione che per essere socialmente accettati bisogna apparire in forma uguale, se non addirittura migliore, a quella dei modelli proposti dai media. Questi ultimi fungono da elementi decisivi per la formazione di ideali e convinzioni dei giovani d’oggi. L’adolescente, trovandosi a vivere un periodo di discontinuità del suo sviluppo psicologico, teme di non riuscire a reggere il confronto con tali modelli, cresce quindi l’insoddisfazione corporea e il senso di inadeguatezza rispetto ad essi.

Per le ragazze, il vedersi grasse si associa molto spesso ad una percezione negativa di sé e del proprio corpo e ciò potrebbe comportare l’inizio di diete severe. Il conflitto tra mente e corpo solitamente sfocia nella non accettazione di sé e ad un grado estremo potrebbe dare origine ad un vero disturbo dell’alimentazione, con conseguente controllo del peso mediante pratiche ortodosse, quali digiuno o condotte compensatorie.

Talvolta l’insoddisfazione corporea potrebbe sfociare anche in patologie del comportamento alimentare. A tal proposito è opportuno orientare la nostra attenzione sul sintomo più frequente di tali disturbi: la “dismorfofobia”. Tale termine indica una “sensazione soggettiva di deformità per la quale il paziente ritiene di essere notato dagli altri, sebbene il suo aspetto rientri nella norma” (bollettino dell’Accademia di Scienze Mediche di Genova, 1986). In termini più semplici: il soggetto interessato valuta correttamente l’aspetto delle persone che lo circondano, mentre, quando osserva se stesso allo specchio si sbaglia! La dismorfofobia è considerata un “criterio diagnostico” dell’anoressia nervosa, patologia frequente soprattutto per le ragazze di età adolescenziale.

Interessante è notare i risultati emersi da uno studio condotto nel 2006 che ha investigato la soddisfazione corporea mettendo a confronto delle adolescenti europee con delle adolescenti abitanti delle isole Fiji. È stato possibile ritenere che le figiane, sebbene siano notevolmente più grasse delle europee, appaiono più soddisfatte del proprio corpo e tendono a privilegiare un ideale corporeo centrato sulla salute e sulla buona alimentazione, piuttosto che sulla bellezza e sulla magrezza (Williams et all. 2006). Come si spiega? È ipotizzabile che nelle isole Fiji le televisioni occidentali sono state introdotte solo di recente e quindi queste ragazze subiscono l’influenza dei media in maniera nettamente inferiore rispetto alle adolescenti europee.

In che modo è quindi possibile prevenire l’insoddisfazione corporea in adolescenza? È chiaro che i mass media e la cultura sociale incoraggiano delle determinate preferenze riguardo al corpo di ragazzi e ragazze. Ma alla fine dei conti numerosi studi hanno messo in luce che ad incoraggiare e ad enfatizzare la salute è la cultura più prossima della famiglia e degli amici (Kelly et all. 2005). Il gruppo di coetanei acquista un’importanza cruciale in età adolescenziale. Allo stesso modo anche la famiglia di appartenenza ha un ruolo essenziale nel consentire all’adolescente di costruirsi diverse componenti della propria identità.

È da aggiungere che nel periodo adolescenziale il sistema familiare è mosso da due forze antagoniste: una tende a promuovere l’autonomia, l’indipendenza e la differenziazione dei singoli membri mentre l’altra si muove in direzione opposta, verso l’appartenenza e il rafforzamento dei legami di dipendenza.

La risoluzione di tutti questi svariati conflitti contribuisce notevolmente ad accrescere l’autostima e la percezione di autoefficacia del ragazzo. L’adolescente, in un momento in cui è particolarmente vulnerabile, tende ad accettare come reale qualsiasi valutazione che il gruppo gli trasmette. È quindi necessario che sia genitori che coetanei imparino ad incoraggiare e promuovere una sana alimentazione, de-enfatizzando la dieta come strumento per la perdita di peso. Solo in questo modo l’adolescente entrerà in confidenza con il proprio corpo e ne prenderà contatto in assoluta tranquillità e senza alcun timore del giudizio altrui.

 

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La solitudine riduce la longevità!

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La mancanza di connessioni sociali rappresenta un rischio aggiunto, mentre la presenza di rapporti un fattore di protezione per la salute di tutti.

La maggior parte delle persone è consapevole che per godere di buona salute e vivere a lungo bisogna svolgere attività fisica, prestarsi quando necessario a cure mediche e seguire un regime alimentare equilibrato.

Una ricerca dell’Università Brigham Young mostra che la solitudine e l’isolamento sociale sono fattori chiave che influenzano la longevità così come avviene per l’obesità. I ricercatori infatti sostengono che l’effetto della solitudine sul benessere dell’individuo sia comparabile agli effetti dell’obesità, per cui si invita a prendere sul serio le relazioni sociali.

La solitudine e l’isolamento sociale possono sembrare concetti molto differenti. Per esempio qualcuno potrebbe essere circondato da molte persone ma sentirsi comunque solo, altre persone potrebbero isolarsi perché preferiscono stare soli, ma in entrambi i casi l’effetto sulla longevità è comunque lo stesso.

A differenza di quanto si creda, l’associazione tra la solitudine e il rischio di morte è più alta nella popolazione giovanile anziché tra persone più vecchie. Benché le persone più anziane abbiano maggiori probabilità di essere soli e di essere esposti a un rischio di mortalità più elevato, l’associazione tra la solitudine e l’isolamento sociale e la mortalità coinvolge maggiormente popolazioni di età inferiore a 65 anni.

Gli autori della ricerca sostengono che visto l’aumento considerevole di persone che oggi vivono situazioni di solitudine si potrebbe assistere negli anni ad una “Epidemia della solitudine”.

Nauert e i suoi collaboratori hanno analizzato informazioni tratte da più studi che includevano dati sulla solitudine, l’isolamento sociale, e che coinvolgono persone che vivono sole. Complessivamente, il campione comprendeva più di tre milioni di partecipanti. Quando gli autori controllarono variabili come lo status socioeconomico, l’età, il genere e le condizioni di salute preesistenti essi trovarono che la presenza o l’assenza di supporto sociale aveva un effetto determinante per la salute.

La mancanza di connessioni sociali rappresenta un rischio aggiunto, mentre la presenza di rapporti un fattore di protezione per la salute di tutti.

Una precedente ricerca degli autori pone la solitudine come maggiore fattore di rischio per la mortalità pari al fumo di 15 sigarette al giorno o all’essere alcolizzato. Questo studio non solo conferma l’elevato rischio di mortalità dato dai comuni fattori di rischio ma ne specifica la dannosità per la salute al pari dell’obesità.

Ci sono molte cose che aiutano ad attenuare gli effetti della solitudine. Con l’evoluzione di internet, le persone possono rimanere in contatto nonostante le distanze. Tuttavia, la superficialità di alcune esperienze online compromette gli aspetti emotivi della relazione.
La ricerca infatti suggerisce che l’uso di troppi sms con l’altro può effettivamente danneggiare una relazione significativa, anche se di messaggi piacevoli potrebbero beneficiarne tutti.

 

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Resilienza: rialzarsi, più forti di prima

La resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo. 

[blockquote style=”1″]ciò che non lo uccide, lo rende più forte.[/blockquote]

(Friedrich Nietzsche)

Resilienza nella storia

Fin dalle epoche più remote, gli esseri umani si sono distinti per la capacità di sopravvivere a disastri naturali, guerre, e a ogni sorta di carestia o malattia. Ciò è stato possibile perchè l’uomo è “programmato” per resistere alle sventure, superarle, e convivere quotidianamente con lo stress, al punto che si potrebbe dire che l’abilità di combattere e rialzarsi  più forti di prima (piuttosto che la fragilità) è la regola nel mondo umano.

La necessità di combattere ha la sua ragion d’essere nell’inevitabilità delle sconfitte, delle delusioni e dei conflitti quotidiani, fino a quegli sconvolgimenti esistenziali, come una violenza o la perdita di una persona cara, che, spezzando un equilibrio preesistente, pongono colui che li ha subiti di fronte a una serie di interrogativi: Perché proprio a me? Che senso ha quanto mi è accaduto?

Domande da cui non è possibile sfuggire: solo cercando una risposta chiarificatrice, un senso, seppur a volte mai definitivamente compiuto, è possibile infatti ridefinire la propria sofferenza, che, al di là del dolore gratuito, può essere vista come un valore aggiunto, e fonte di maggiore sensibilità verso le bellezze dell’esistenza, nonchè per le sofferenze altrui.

Se è vero che certe ferite non si rimargineranno mai completamente, qualunque trauma, se non vissuto passivamente come punizione o negazione della felicità, può rappresentare, nel suo accadere repentino e imprevedibile, un’occasione di realizzazione superiore, al pari della condizione del cigno che si è sviluppato a partire dal brutto anatroccolo della nota favola di Andersen (Cyrulnik, 2002).

Le difficoltà quindi come opportunità, come sfida, che mobilita le proprie risorse, sia interne che esterne, una sfida dalla quale non ci si può esimere, in nome del raggiungimento di un equilibrio più funzionale.

Affrontare le inevitabili calamità della vita mette in moto un’abilità nota come resilienza, termine ripreso dall’ambito ingegneristico per indicare la capacità di un materiale di resistere a un urto improvviso senza spezzarsi (De Filippo, 2007). La sua azione può essere paragonata a quella del nostro sistema immunitario chiamato a proteggerci dalle aggressioni esterne.

 

Definizione di Resilienza

La resilienza è in altri termini la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo. 

Essere resilienti non significa infatti solo saper opporsi alle pressioni dell’ambiente, ma implica una dinamica positiva, una capacità di andare avanti, nonostante le crisi, e permette la costruzione, anzi la ricostruzione, di un percorso di vita. Si tratta di un dono inestimabile, che permette di superare le difficoltà, ma che non rende invincibili, e non è neppure presente sempre e comunque: possono infatti verificarsi momenti in cui le situazioni sono troppo pesanti da sopportare, generando un’instabilità più o meno duratura e pervasiva. Non esistono i Superman, e non si è dei supereroi per il solo fatto di essere stati resilienti in passato, anche se è indubbio che la forza delle battaglie superate predispone l’individuo a lottare con maggior consapevolezza (dei rischi assunti e della probabilità di riuscita).

Gli individui resilienti hanno, insomma, trovato in se stessi, nelle relazioni umane, e nei contesti di vita, quegli elementi di forza per superare le avversità, definiti fattori di protezione contrapposti ai fattori di rischio, che invece diminuiscono la capacità di sopportare il dolore.

 

Fattori di rischio per la Resilienza

Tra i fattori di rischio che espongono a una maggiore vulnerabilità agli eventi stressanti, diminuendo la resilienza, secondo Werner e Smith (1982) troviamo i fattori emozionali (abuso, bassa autostima, scarso controllo emozionale), interpersonali (rifiuto dei pari, isolamento, chiusura), familiari (bassa classe sociale, conflitti, scarso legame con i genitori, disturbi nella comunicazione), di sviluppo (ritardo mentale, disabilità nella lettura, deficit attentivi, incompetenza sociale).

 

Fattori protettivi per la Resilienza

Tra i fattori protettivi, invece, gli autori ne individuano di individuali e familiari. Tra i primi, l’essere primogenito, un buon temperamento, la sensibilità, l’autonomia, unita alla competenza sociale e comunicativa, l’autocontrollo, e la consapevolezza e fiducia che le proprie conquiste dipendono dai propri sforzi (locus of control interno). A questi si aggiunge una risorsa di estrema importanza: il comportamenti seduttivo, che consente di essere benvoluti e di riconoscere e accettare gli aiuti che vengono offerti dall’esterno.

I fattori protettivi familiari comprendono l’elevata attenzione riservata al bambino nel primo anno di vita, la qualità delle relazioni tra genitori, il sostegno alla madre nell’accudimento del piccolo, la coerenza nelle regole, il supporto di parenti e vicini di casa, o comunque di figure di riferimento affettivo.

Esplorando i fattori protettivi, è possibile individuare cinque componenti che contribuiscono a sviluppare la resilienza (Cantoni, 2014).

 

I 5 componenti che sviluppano la Resilienza

1. L’Ottimismo. La disposizione a cogliere il lato buono delle cose, è un’importantissima caratteristica umana che promuove il benessere individuale e preserva dal disagio e dalla sofferenza fisica e psicologica. Chi è ottimista tende a sminuire le difficoltà della vita e a mantenere più lucidità per trovare soluzioni ai problemi (Seligman, 1996).

2. L’autostima si accoppia all’ottimismo. Avere una bassa considerazione di sé ed essere molto autocritici, infatti, conduce a una minore tolleranza delle critiche altrui, cui si associa una quota maggiore di dolore e amarezza, aumentando la possibilità di sviluppare sintomi depressivi.

3. La Robustezza psicologica (Hardiness). Essa è a sua volta scomponibile in tre sotto-componenti, il controllo (la convinzione di essere in grado di controllare l’ambiente circostante, mobilitando quelle risorse utili per affrontare le situazioni), l’impegno (con la chiara definizione di obiettivi significativi che facilita una visione positiva di ciò che si affronta) e la sfida, che include la visione dei cambiamenti come incentivi e opportunità di crescita piuttosto che come minaccia alle proprie sicurezze.

4. Le emozioni positive, ovvero il focalizzarsi su quello che si possiede invece che su ciò che ci manca.

5. Il supporto sociale, definito come l’informazione, proveniente da altri, di essere oggetto di amore e di cure, di essere stimati e apprezzati. E’ importante sottolineare come la presenza di persone disponibili all’ascolto sia efficace poichè mobilita il racconto delle proprie sventure. Raccontare è liberarsi dal peso della sofferenza, e l’accoglienza gentile e senza rifiuti o condanne da parte degli altri segnerà il passaggio da un racconto tutto interiore, penoso e solitario (che può sfociare in forme di comunicazione delirante) alla condivisione partecipata dell’accaduto.

In definitiva, ciò che determina la qualità della resilienza è la qualità delle risorse personali e dei legami che si sono potuti creare prima e dopo l’evento traumatico. Parlare in termini di resilienza vuol dire modificare lo sguardo con cui si leggono i fenomeni e superare un processo di analisi lineare, di causa ed effetto, per cui non è più corretto ragionare dicendo per esempio: “E’ stato gravemente ferito, quindi è spacciato per tutta la vita!”

 

Il profilo della Resilienza

Se volessimo tracciare un profilo della persona resiliente, questa dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche:

Sopporta i dolori senza lamentarsi e regge le difficoltà senza disperarsi;

Ha il coraggio di intraprendere con consapevolezza una via che sa essere tortuosa o, comunque, non la più semplice;

Ama la vita per quello che è nel presente, e coltiva una propria spiritualità e virtù che moderano i timori di morte;

Ricorda di essere esposta al pericolo in quanto mortale, e nel contempo affronta ciò che lo ostacola per cercare di superarlo con saggia audacia.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La resilienza e i disturbi depressivi – SOPSI 2014

 

BIBLIOGRAFIA:

Scopi e funzioni cognitive-metacognitive: il ruolo della ricerca scientifica

Gli interventi di Dimaggio e Ruggiero, successivi al mio post, hanno toccato argomenti sicuramente importanti ma ho l’impressione che, trascinati dalla passione per le idee, hanno rischiato di dare una rappresentazione non del tutto chiara di alcune questioni. Cercherò di riportare il dibattito su un piano, spero, più utile per chi legge.

Dimaggio afferma:

“la dicotomia … tra una psicopatologia scopi/credenze e una psicopatologia deficit funzioni mentali superiori è falsa.”

Ruggiero, al contrario, afferma:

“Il nocciolo del processualismo è la critica della psicopatologia delle credenze e la sua sostituzione con una psicopatologia delle funzioni.”

I due, dunque, la pensano in modo opposto. Il primo appare favorevole alla integrazione, il secondo alla dicotomia.

Per parte mia, come ho già scritto (vedi il mio ultimo post su State of Mind), la questione è complessa e la soluzione non può che essere empirica. Le ragioni per le quali un paziente ha difficoltà a compiere determinate operazioni cognitive/metacognitive possono essere tante. Alcune rimandano a deficit di competenze cognitive/metacognitive, e, in questo caso, i deficit coinvolti possono essere molto diversi tra loro.

Ad esempio, deficit generali, come basso QI; deficit specifici, ad es. deficit di ToM e deficit di funzioni esecutive; o anche scarsa esperienza. Altre ragioni possono essere gli stati mentali del paziente, cioè il contenuto della sua mente, vale a dire scopi/credenze attivi in un dato momento, e, in questo caso, è opportuna una successiva distinzione.

Infatti, è possibile che gli stati mentali “orientino” le funzioni cognitive/metacognitive, di solito in modo da minimizzare il rischio di errori cruciali per gli scopi del paziente stesso (vedi la vastissima letteratura scientifica di psicologia cognitiva generale), ma è anche possibile che gli stati mentali ed emotivi del paziente siano tali da ostacolare le funzioni cognitive/metacognitive, come può accadere, ad esempio, in caso di rabbia molto intensa. Dunque le possibilità sono tante, ed è ragionevole richiedere le prove a chi sostiene che una o più di queste entrano in gioco in un determinato disturbo.

Personalmente non ho mai avuto grande fiducia nelle soluzioni nominalistiche, quindi mi sembra che possa non essere di molto aiuto il suggerimento di Dimaggio che ha “cercato di evitare l’uso del termine deficit, sostituendolo con termini quali: disfunzione, fallimento, carenza che più facilmente si prestano a descrivere il contesto di dipendenza del problema.”

Al contrario ho più fiducia nella ricerca sperimentale. Per illustrare con un esempio questo punto, approfitto di una ricerca che è in press sul JBTEP (Gangemi, Mancini e Dar, 2015). Da alcuni anni è stata proposta una teoria (Aardema et al., 2003, 2007; O’Connor & Robillard, 1995, 1999) per spiegare perché i pazienti ossessivi dubitano, ad esempio, che la porta di casa sia chiusa nonostante la vedano chiusa e nonostante possano toccar con mano che è chiusa. Secondo questa teoria ciò dipenderebbe da una disfunzione cognitiva: l’inferential confusion.

L’inferential confusion sarebbe una forma di elaborazione delle informazioni caratterizzata da sfiducia nei confronti delle informazioni che provengono dai propri sensi, come la vista e il tatto, e un eccesso di fiducia nelle possibilità che il paziente considera o immagina. In un certo senso si potrebbe dire che l’inferential confusion è strettamente connessa con la difficoltà a discriminare tra fatti e proprie rappresentazioni dei fatti, quindi con un deficit metacognitivo.

Secondo questa teoria il paziente ossessivo continua a sospettare che la porta di casa non sia chiusa, nonostante veda e tocchi con mano che è chiusa, perché si affiderebbe di più a delle possibilità astratte che immagina, “potrei non avere girato del tutto la chiave”, che alle informazioni provenienti direttamente dai sensi: vedere e toccare la porta chiusa.

Credo che Ruggiero la definirebbe una teoria funzionalista poiché non fa alcun riferimento a scopi e credenze del paziente ma solo a disfunzioni strettamente cognitive o, forse, metacognitive.

Questa teoria ha due meriti, entrambi rari in questo campo. Il primo è il supporto sperimentale, il secondo è che la teoria è formulata in modo sufficientemente preciso da essere falsificabile.

L’esperimento più robusto a sostegno è il seguente. Lo riferisco per sommi capi. A pazienti ossessivi e a un gruppo di controllo è stato chiesto di immedesimarsi nel protagonista di una vignetta.

“Immagina che stai guidando l’auto per andare in ufficio. Questa mattina hai letto sul giornale di un incidente in cui l’autista di camion ha investito una persona e si è allontanato senza essersene accorto. Ti chiedi come sia possibile che non ci si accorga di una cosa del genere. Mentre guidi, arrivi ad un incrocio e ti fermi al semaforo. C’è molta gente che aspetta di attraversare. Noti un gruppo di ragazzi che si inseguono correndo avanti e indietro attraverso la strada. Appena il semaforo diventa verde parti accelerando. Attraversando l’incrocio odi un grido e senti un colpo.”

A questo punto gli sperimentatori chiedevano ai soggetti di indicare le probabilità attribuite alla possibilità di aver causato un incidente. Poi ai soggetti erano presentate delle informazioni del tipo:

“Guardi nello specchietto retrovisore e vedi una buca”, cioè una informazione proveniente dalla realtà percepita visivamente. A questa informazione seguiva un’altra informazione “La buca potrebbe non essere stata profonda abbastanza da causare il colpo”. Questa informazione riguardava una possibilità astratta, non sostenuta dai fatti percepiti.

Seguivano altre due coppie d’informazioni in cui si alternavano informazioni provenienti dalla realtà percepita attraverso i sensi e informazioni riguardanti possibilità astratte.

Dopo ogni informazione si chiedeva ai partecipanti di rivalutare le probabilità attribuite alla possibilità di aver causato un incidente.

I risultati sono stati che i pazienti ossessivi aumentavano le probabilità attribuite all’incidente molto più dei controlli soprattutto dopo che avevano ricevuto informazioni su possibilità astratte e, a differenza dei controlli, non tenevano in gran conto le informazioni provenienti dalla realtà percepita.

Secondo gli autori ciò dimostrerebbe la teoria della inferential confusion.

Sembrerebbe, quindi, che una teoria funzionalista del DOC abbia ricevuto una conferma sperimentale, a discapito delle Appraisal Theories, cioè di quelle teorie che intendono spiegare il DOC ricorrendo agli scopi/credenze del paziente.

Tuttavia, nell’esperimento che ho riassunto c’è un possibile baco. Infatti, a ben vedere, le informazioni di realtà erano sempre rassicuranti mentre quelle astratte erano sempre di pericolo. Quindi è possibile che i pazienti ossessivi abbiano dato peso alle informazioni astratte perché erano informazioni più rilevanti per i loro scopi, cioè rispetto alla preoccupazione di aver commesso un errore colpevole.

Due teorie a confronto, quindi, una funzionalista e una contenutista, cioè un’Appraisal Theory.

 

Ottima occasione per un esperimento cruciale.

Per realizzarlo abbiamo utilizzato lo stesso scenario e la stessa procedura dell’esperimento originario ma abbiamo invertito la valenza delle informazioni, cioè abbiamo fatto in modo che le informazioni di realtà fossero di pericolo (“guardi nello specchietto retrovisore e non vedi alcuna buca nella strada”) e quelle astratte fossero rassicuranti (“La buca potrebbe non essere visibile attraverso lo specchietto”).

L’esperimento così congegnato ha dato risultati contrari alle previsioni della teoria funzionalista ma compatibili con le Appraisal Theories. I pazienti ossessivi hanno cambiato la probabilità attribuita all’evento temuto sulla base della valenza delle informazioni ricevute (informazioni di pericolo o rassicuranti) senza tener conto se l’informazione era proveniente dalla realtà percepita o se riguardava una possibilità astratta.

I pazienti ossessivi, quindi, sospettano, ad esempio, che la porta di casa sia aperta nonostante la vedano chiusa e nonostante possano toccar con mano che è chiusa, non per una disfunzione cognitiva ma perché elaborano le informazioni in modo congruo con le proprie preoccupazioni. Vale a dire, come numerose altre ricerche suggeriscono (vedi mio post precedente su State of Mind), congrue con il timore di doversi rimproverare di aver lasciato aperta la porta di casa e dunque di aver facilitato l’ingresso dei ladri.

Se temo di dovermi rimproverare di aver lasciato aperta la porta di casa, allora è meglio non sottovalutare la possibilità che sia rimasta aperta.

Tutto questo è congruo con tanti altri risultati della ricerca sul DOC, ma non dice NULLA su cosa accade in altri disturbi. Tuttavia suggerisce dove cercare una risposta alla domanda:

“ha ragione Ruggiero quando critica la psicopatologia di scopi/credenze e propone di sostituirla con una psicopatologia delle funzioni?”

e anche alla domanda:

“ha ragione il Dimaggio degli ultimi tempi, quando suggerisce che entrano in gioco sia scopi/credenze sia deficit, disfunzioni, carenze o fallimenti delle funzioni cognitive superiori?”

La risposta, come spesso accade, è da cercare attraverso il metodo scientifico. E, dunque, modelli chiari e falsificabili ed esperimenti.

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia cognitiva: quali scopi, quali processi e quali credenze?

Il tema di questo dibattito è il rapporto tra processi, scopi e credenze cognitive.

Un dibattito acceso qui su State of Mind che delinea quanto il cognitivismo italiano e internazionale stia attraversando una fase di riflessione critica circa i propri limiti, figlia anche dei recenti sviluppi scientifici legati a metacognizione e a nuove forme di psicoterapia.

Il tema di questo dibattito è il rapporto tra processi, scopi e credenze cognitive.

Giovanni Ruggiero (https://www.stateofmind.it/2015/03/psicoterapia-cognitiva-processi-credenze/) sottolinea tra i limiti del cognitivismo standard la concezione di cognizione come una struttura monolitica rappresentata in modo fisso nella mente dell’individuo, una visione a tratti ideologica che non ha ricevuto un sostegno scientifico stabile nel tempo (Teasdale & Barnard, 1993). Si oppone ad essa una crescente attenzione ai processi cognitivi: il pensare come flusso dinamico e strategico che ha un impatto sia sugli stati emotivi che sulle credenze relative a sé e al mondo. In un recente articolo sottolineo come le credenze negative su di sé possano essere il frutto e non la causa di una tendenza ruminante e di uno stato depressivo (https://www.stateofmind.it/2015/02/depressione-ruminazione/).

Il ruolo dei processi cognitivi concede di uscire da  uno strutturalismo monolitico che strizza l’occhio a una prospettiva per cui i pazienti sarebbero, almeno temporaneamente, deficitari o  malfunzionanti, quindi nella condizione di dover essere riparati o riabilitati. L’alternativa è una prospettiva funzionalista in cui l’attivazione di determinati processi cognitivi e comportamentali, anche quando costosi e controproducenti, ha una funzione appresa o sorretta da regole, credenze e scopi.

Un esempio è il rimuginio, vale a dire la tendenza a preoccuparsi di ciò che può accadere di brutto in situazioni di incertezza. Questo processo cognitivo è percepito spesso come automatico e incontrollabile nonostante sia sorretto da regole implicite per cui preoccuparsi aiuta ad essere pronti, a prevenire il peggio, a trovare soluzioni.

I processi cognitivi sono quindi sorretti da scopi (proteggersi, ridurre il disagio) e credenze (preoccuparsi mi è utile o anche se inutile non riesco a smettere di farlo). Poi questi processi divengono controproducenti e rinchiudono nella gabbia di un disturbo psicologico.

Per esempio, nel Disturbo di Panico il paziente si concentra costantemente e monitora propri segnali fisici. Questo automonitoraggio corporeo ha la funzione (scopo) di cogliere prima possibile segnali di minaccia per proteggersi ma ottiene l’effetto indesiderato di aumentare la percezione dei segnali corporei minacciosi.

Francesco Mancini (https://www.stateofmind.it/2015/03/psicoterapia-cognitiva-scopi-disposizioni/) suggerisce come il vero vulnus dell’approccio cognitivista in generale e dei filoni di ricerca citati da Ruggiero è proprio la mancanza di attenzione al concetto motivazionale di scopo, e ancora che il concetto di scopo è cruciale per la spiegazione della sofferenza psicopatologica mentre processi e credenze non sono sufficienti.

Se il ruolo degli scopi è stato trascurato dal cognitivismo standard di Beck (1967), molti ricercatori e clinici cognitivo-comportamentali tra cui lo stesso Francesco Mancini hanno avuto il merito di sottolineare il ruolo di questa componente nella genesi e mantenimento dei disturbi psicologici.

Su questo punto Giancarlo Dimaggio (https://www.stateofmind.it/2015/03/scopi-motivazioni-metacognizione/) ribadisce come diversi cognitivisti hanno considerato il concetto di scopo. Quello che differenzia gli autori citati da Dimaggio è la priorità a diverse categorie di scopi. Francesco Mancini cita come prioritari, gli scopi (motivazioni) connessi all’evitamento di situazioni temute (la perdita di coscienza nel Panico, la brutta figura nel Disturbo d’Ansia Sociale, la colpa nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo e così via).

Tra altri ricercatori il concetto di scopo ritorna rispetto al ruolo dei sistemi motivazionali e scopi basilari come attaccamento, accudimento, rango sociale, inclusione nel gruppo (Liotti, Gilbert, Farina) fino all’importanza di quelli che potremmo definire scopi e desideri interpersonali nella Terapia Metacognitivo Interpersonale di Dimaggio e colleghi (2013).

E infine la prospettiva metacognitiva, che conosco meglio, per cui lo scopo sostiene la patologia se è (1) autoregolatorio e (2) irrealistico. Uno scopo autoregolatorio irrealistico implica il tentativo di mantenere uno stato di quiete interna attraverso monitoraggio e prevenzione, risoluzione o soppressione di certi stati mentali, emozioni, sensazioni corporee o pensieri (autovalutazioni, ossessioni) che vengono considerati alla stregua di dati di realtà (es. la sensazione di perdere il controllo diventa un dato  affidabile di una imminente perdita di controllo) per cui importanti, pericolosi, da eliminare.

Tuttavia, l’importanza data a pensieri automatici e sensazioni corporee porta a incrementare frequenza, intensità e durata nella percezione soggettiva con il risultato che lo scopo autoregolatorio viene costantemente frustrato. Inoltre questa attenzione focalizzata sulla propria esperienza interna (a scopo autoregolatorio) ostacola l’acquisizione di una distanza critica dai propri stati mentali, vale a dire la percezione di una differenza tra “mi odia” ed “ecco che mi vengono pensieri paranoici”.

 In sintesi, credenze, processi e scopi hanno ruolo rilevante in numerose prospettive. Il dibattito scientifico però non si chiude con questa consapevolezza.

Primo, occorre spiegare quali sono gli scopi rilevanti per la psicopatologia e in che modo sostengono il malessere. Scopi di evitamento del danno, scopi e desideri interpersonali, scopi anche di fama e successo sono tutti comprensibili componenti della natura umana.

Secondo, non è chiaro quale sia la differenza negli scopi tra persone con disturbo psicologico e persone senza un disturbo psicologico. Cosa degli scopi discrimina le due popolazioni?  È possibile ipotizzare che popolazioni cliniche e non cliniche condividano simili scopi ma siano diverse per caratteristiche con cui questi vengono selezionati, perseguiti, abbandonati?

Terzo, se simili scopi sono condivisi da individui che non soffrono, allora quali sono caratteristiche che rendono uno scopo problematico? La problematicità degli scopi risiede nei contenuti o nel modo in cui vengono regolati?

Per citare alcune possibili caratteristiche: (1) criteri irrealistici, troppo stretti per considerare uno scopo raggiunto o troppo lassi per considerarlo compromesso, (2) difficoltà a disingaggiarsi da uno scopo quando necessario o quando definitivamente compromesso, (3) rigidità nel perseguirlo ignorando altri scopi pur rilevanti per l’individuo, (4) uso di strategie attentive e cognitive (processi) per soddisfare lo scopo che in realtà lo danneggiano, (5) convinzioni circa la possibilità di poter governare la propria reazione a una minaccia o compromissione di uno scopo.

Queste domande rilevano che anche gli scopi potrebbero essere sussunti a credenze circa il sistema di regolazione dei propri scopi, la selezione degli scopi prioritari, i criteri di compromissione e raggiungimento, le strategie utilizzate per soddisfarli.

Uno spunto riconosciuto da Dimaggio quando afferma che gli esseri umani agiscono guidati da scopi e desideri e da credenze sulle condizioni che permetteranno o meno di realizzarli e dall’interesse di Francesco Mancini per il problema secondario che può essere letto come una prospettiva auto-regolatoria a ridosso del problema primario. Forse il cerchio si potrebbe chiudere in futuro, ma è solo un’ipotesi, con la palla nelle mani di un certo tipo di credenze (metacognitive) che definiscono regole e criteri con cui il sistema si autoregola rispetto ai propri scopi, indipendentemente da quali siano.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Scopi esistenziali e psicopatologia

BIBLIOGRAFIA:

Scuola materna: una palestra di relazioni interpersonali

L’obiettivo primario della scuola materna dovrebbe essere quello di insegnare le competenze sociali necessarie a promuovere il benessere collettivo, in quanto si tratta del luogo privilegiato per apprendere le regole da seguire con gli altri, il rispetto dei turni, la collaborazione, la capacità di stare con adulti e coetanei, prima in relazioni diadiche e poi collettive.

Terzo anno di età: cosa succede? Sicuramente si tratta di una tappa di notevole importanza nello sviluppo del bambino. Quella che va generalmente dai 3 ai 6 anni è denominata la “prima fanciullezza”, o più comunemente “età prescolare”. È il famoso periodo che Piaget ha identificato come “stadio preoperatorio”. Secondo l’autore, in questa fase il bambino ha acquisito la capacità di interiorizzare azioni e di manipolare rappresentazioni mentali, tuttavia non è ancora in grado di organizzarle in modo coordinato (Berti, Bombi, 2005).

Ad ogni modo verso i tre anni di vita i bambini acquistano innumerevoli capacità, ad esempio aumenta la capacità di memorizzazione e la formazione dei primi ricordi episodici permanenti. A livello di coordinamento il bambino diviene capace di correre, giocare a palla, raggiungere e impadronirsi degli oggetti di cui ha bisogno e badare così da solo a se stesso.

Senza dimenticare che è proprio all’esordio dell’età prescolare che si assiste ad un grande sviluppo delle capacità linguistiche. Il bambino diviene capace di creare e formulare frasi complesse e composte da più proposizioni tra loro collegate. Senza dimenticare che il linguaggio si trasforma da egocentrico, e quindi rivolto solo nei confronti di se stesso, a socializzato, ossia volto a scambiare con gli altri il proprio pensiero, a chiedere informazioni e a influire sul comportamento altrui.

Durante la prima fanciullezza viene solitamente compiuto un passo molto importante: l’ingresso nella scuola dell’infanzia. Tale evento non è da sottovalutare, in quanto rappresenta per il bambino una grossa novità. Comporta l’entrata in un microsistema diverso da quello familiare, mettendolo in relazione con figure nuove e permettendogli di sperimentare relazioni interpersonali con le insegnanti e con il gruppo di pari. In questo contesto il bambino sperimenta per la prima volta l’appartenenza a un gruppo strutturato.

Diventa quindi importante apprendere le regole dettate dal nuovo ambiente in cui ci si trova al fine di raggiungere obiettivi sociali considerando il benessere altrui e di relazionarsi con adulti e coetanei in base alle richieste del contesto. Per il bambino diviene dunque necessario essere socialmente competente. Ma cosa si intende per competenza sociale?

Molinari (2002, cit in Berti, Bombi 2005) la definisce come la “capacità di interagire efficacemente con l’ambiente e di impegnarsi in complesse relazioni interpersonali, mirate a ottenere obiettivi sociali rilevanti e raggiungere traguardi ambiziosi come la popolarità e l’accettazione dei compagni”. L’obiettivo primario della scuola materna dovrebbe proprio essere quello di insegnare le competenze sociali necessarie a promuovere il benessere collettivo, in quanto si tratta del luogo privilegiato per apprendere le regole da seguire con gli altri, il rispetto dei turni, la collaborazione, la capacità di stare con adulti e coetanei, prima in relazioni diadiche e poi collettive.

È ben risaputo che, a partire dai tre anni di età, le relazioni instaurate dal bambino aumentano in quantità e qualità. I bambini di tre anni hanno acquisito una capacità linguistica e comunicativa che permette loro di interagire con gli altri e di condividere non più solo oggetti materiali, ma anche idee e pensieri. Il bambino socialmente competente parla di sé, comunica i suoi stati d’animo ascoltando attentamente anche l’interlocutore. Inoltre il superamento dell’egocentrismo permette di prendere il considerazione anche i pensieri, le credenze e le motivazioni delle persone che li circondano.

È inoltre da considerare il fatto che la competenza sociale è altamente correlata alla competenza emotiva, ossia la capacità di esprimere, comprendere e regolare in maniera adeguata le emozioni (Denham, 1998, cit. in Baumgartner, 2010). Non dovrebbe infatti sorprendere il fatto che bambini che sperimentano abitualmente emozioni positive, come la felicità, sono più amichevoli e popolari, si integrano più facilmente nel gruppo di pari e risultano più simpatici ai compagni e alle insegnanti.

B. E. Vaughn (2001, cit. in Coppola e Camodeca, 2010) identifica la competenza sociale come un costrutto multidimensionale a tre componenti: profilo individuale di caratteristiche comportamentali e psicologiche indicative di competenza sociale, coinvolgimento e motivazione sociale, grado di accettazione da parte dei coetanei. La preferenza sociale viene generalmente concepita come l’indicatore più affidabile dell’adattamento sociale in questa fase della vita. Infatti l’asilo rappresenta il primo contesto al di fuori della famiglia in cui i bambini mettono alla prova le proprie abilità sociali con persone diverse dai loro familiari.

Il “gruppo classe” è quindi una nicchia extrafamiliare dove il bambino dovrà poi adattarsi non solo al fine di raggiungere i propri obiettivi sociali, ma anche per apprendere nuove regole ed instaurare delle relazioni significative che gli permetteranno poi di rapportarsi agli altri in modo sempre più appropriato con l’andare avanti degli anni.

A tal fine diviene molto importante anche per le insegnanti cogliere qualsiasi comportamento che potrebbe mettere a rischio l’inserimento del bambino in questo suo nuovo contesto che sta sperimentando per poter successivamente agire in maniera adeguata e conveniente nei confronti del bambino. È infatti proprio in età prescolare che i bambini instaurano i primi rapporti con i coetanei e  riescono così anche  ad apprendere l’importante significato della parola “amicizia”.

 

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Disturbi Specifici dell’Apprendimento – Intervista a Elena Simonetta

 

BIBLIOGRAFIA:

Col seno di poi. Il carcinoma mammario raccontato dalle pazienti: uno studio empirico

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

“Col seno di poi”. Il carcinoma mammario raccontato dalle pazienti. Uno studio empirico

Autrice: Alessandra Ferri (Università degli Studi di Bergamo)

Abstract

Obiettivo: Questa ricerca si propone di studiare gli aspetti psicologici connessi al carcinoma
mammario e di verificare se esistono delle similitudini nelle modalità di adattamento alla malattia
messe in atto dalle pazienti. Metodo: Per perseguire tale obiettivo è stata effettuata un’analisi qualitativa delle narrazioni scritte e condivise sul web 2.0 da un campione di donne affette da carcinoma mammario. Per sottolineare l’importanza del vissuto soggettivo delle pazienti è stata adottata una metodologia coerente con gli assunti fondamentale della Grounded Theory. L’analisi è stata supportata da ATLAS.ti, un software utilizzato in vari ambiti disciplinari per lo studio qualitativo di materiale testuale. Risultati: Dai testi esaminati sono emerse numerose regolarità; esse riguardano principalmente: la struttura narrativa dei racconti, le tematiche esposte, il lessico utilizzato, le strategie di coping messe adottate per fronteggiare il cancro, le cognizioni e le emozioni descritte dalle pazienti.

Abstract in inglese

Aim: The research aims to investigate the psychological aspects of breast cancer and to verify if
there are similarities in the ways to cope with the disease. Method: The stories written by a group of women who decided to share their own experience on the web 2.0. were analyzed. A methodology consistent with the fundamental assumptions of Grounded Theory was adopted to highlight the importance of women’s subjective experience. The analysis has been facilitated by ATLAS.ti, a software used in many disciplines to study qualitative data. Results: Many similiarities were found between the texts analyzed. The most important similarities concern: the narrative structure of the stories, topic discussed, vocabulary used, coping strategies, cognitions and emotions described by patients.

ALLEGATO 1 ALLEGATO 2

KEYWORDS: Carcinoma mammario, web 2.0, narrazioni, scrittura espressiva, ATLAS.ti

 

PREMIO STATE OF MIND 2014

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Dermatillomania: tormentarsi la pelle per noia o frustrazione

FLASH NEWS

La Dermatillomania, nota in inglese anche con il termine di “compulsive skin-picking”, è un disordine del controllo degli impulsi, che spinge una persona a stuzzicarsi, toccarsi, strofinarsi, tormentarsi, graffiarsi o incidere la pelle del viso o del corpo, spesso nel tentativo di eliminare piccole irregolarità o imperfezioni cutanee, reali o immaginarie.

All’origine di questo, come di molti altri comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo, quali per esempio arrotolarsi i capelli con le dita o mangiarsi le unghie, secondo il modello della regolazione affettiva, sembrerebbe esserci un’esperienza caratterizzata da un vissuto emotivo negativo.

Nonostante si tratti di comportamenti che possono indurre un certo grado di sofferenza fisica, la loro messa in atto permetterebbe di soddisfare un impulso urgente, generando in questo modo una sorta di gratificazione, è questo il motivo che porta gli individui a mettere in atto in maniera ripetitiva tali comportamenti, spiega O’Connor, principale autore di un recente studio condotto presso l’Università di Montreal.

Sulla base di queste premesse, i ricercatori che hanno preso parte allo studio ritengono sia possibile ipotizzare che sono soprattutto le persone che mostrano una generale tendenza al perfezionismo a mettere in atto questo tipo di comportamenti. Si tratta, infatti, di individui che sono per loro natura impazienti, portati ad annoiarsi facilmente e che incontrano molte difficoltà nello svolgere un compito ad una velocità “normale”. Spesso faticano a rilassarsi e tendono a sentirsi frustrati o insoddisfatti quando non riescono a raggiungere i propri obiettivi.

La ricerca ha coinvolto un campione di 48 soggetti, la metà dei quali riferiva di mettere in atto una qualche forma di comportamento ripetitivo focalizzato sul corpo. A ciascuno di essi, dopo una breve intervista telefonica, è stato chiesto di rispondere ad un questionario che includeva una scala volta a valutare il proprio stato affettivo generale. Successivamente, ogni partecipante è stato esposto individualmente a quattro situazioni sperimentali, costruite in modo da indurre un differente stato emotivo: stress, rilassatezza, frustrazione e noia.

Mentre nelle prime due condizioni venivano mostrati dei filmati in cui erano rappresentati rispettivamente un aereo che precipitava e delle onde che si infrangevano sulla spiaggia, nella terza condizione per generare uno stato di frustrazione veniva assegnato ai soggetti un compito che si presupponeva essere facile ma che in realtà non lo era affatto. Nell’ultima condizione, invece, i partecipanti venivano lasciati da soli per circa 6 minuti al fine di indurli alla noia.

I risultati ottenuti hanno permesso di confermare le ipotesi dei ricercatori dell’Università di Montreal. Coloro che generalmente tendevano a mettere in atto comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo riferivano di aver sentito una forte urgenza nel mettere in atto questo tipo di comportamenti, rispetto invece a soggetti che normalmente non erano portati a farlo.

In modo particolare tale esigenza insorgeva in condizioni di noia e frustrazione invece che in situazioni di rilassatezza. Ciò potrebbe indicare che il mettere in atto questo tipo di comportamenti non sia il risultato di una generale tendenza all’essere nervosi o irritabili, valutata attraverso i questionari self report, bensì dell’influenza di particolari circostanze esterne. Queste persone potrebbero quindi beneficiare di un trattamento volto a modificare le proprie credenze perfezionistiche ed il loro modo di reagire ad esperienze di frustrazione e noia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

l’inconsistenza scientifica del concetto di “Ideologia del gender” – Comunicato AIP

COMUNICATO STAMPA AIP (Associazione Italiana Psicologi) DEL 12 MARZO 2015

 

Sulla rilevanza scientifica degli studi di genere e orientamento sessuale e sulla loro diffusione nei contesti scolastici italiani

Oggi si assiste all’organizzazione di iniziative e mobilitazioni che, su scala locale e nazionale, tendono a etichettare gli interventi di educazione alle differenze di genere e di orientamento sessuale nelle scuole italiane come pretesti per la divulgazione di una cosiddetta “ideologia del gender”.

L’AIP ritiene opportuno intervenire per rasserenare il dibattito nazionale sui temi della diffusione degli studi di genere e orientamento sessuale nelle scuole italiane e per chiarire l’inconsistenza scientifica del concetto di “ideologia del gender”. Esistono, al contrario, studi scientifici di genere, meglio noti come Gender Studies che, insieme ai Gay and Lesbian Studies, hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari (dalla medicina alla psicologia, all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali) e alla riduzione, a livello individuale e sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni basati sul genere e l’orientamento sessuale.

Le evidenze empiriche raggiunte da questi studi mostrano che il sessismo, l’omofobia, il pregiudizio e gli stereotipi di genere sono appresi sin dai primi anni di vita e sono trasmessi attraverso la socializzazione, le pratiche educative, il linguaggio, la comunicazione mediatica, le norme sociali. Il contributo scientifico di questi studi si affianca a quanto già riconosciuto, daormai più di quarant’anni, da tutte le associazioni internazionali, scientifiche e professionali, che promuovono la salute mentale(tra queste, l’American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ecc.), le quali, derubricando l’omosessualità dal novero delle malattie, hanno ribadito una concezione dell’omosessualità come variante normale non patologica della sessualità umana.

L’Unicef, nel Position Statement del novembre 2014, ha rimarcato la necessità di intervenire contro ogni forma di discriminazione nei confronti dei bambini e dei loro genitori basata sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere. Un’analoga policy è da tempo seguita dall’Unesco. Favorire l’educazione sessuale nelle scuole e inserire nei progetti didattico-formativi contenuti riguardanti il genere e l’orientamento sessuale non significa promuovere un’inesistente “ideologia del gender”, ma fare chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell’affettività, favorendo una cultura delle differenze e del rispetto della persona umana in tutte le sue dimensioni e mettendo in atto strategie preventive adeguate ed efficaci capaci di contrastare fenomeni come il bullismo omofobico, la discriminazione di genere, il cyberbullismo. La seria e appropriata diffusione di tali studi attraverso corrette metodologie didattico-educative può dunque offrire occasioni di crescita personale e culturale ad allievi e personale scolastico e a contrastare le discriminazioni basate sul genere e l’orientamento sessuale nei contesti scolastici, valorizzando una cultura dello scambio, della relazione, dell’amicizia e della nonviolenza.

L’AIP riconosce la portata scientifica di Gender Studies, Women Studies, Lesbian and Gay Studies e ribadisce l’importanza della diffusione della cultura scientifica psicologica per la crescita culturale e sociale del nostro paese.

 

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Cosa succede nella mente di un uomo al primo appuntamento?

Questo simpatico video di animazione mostra cosa accade nella mente di un uomo durante il primo appuntamento.

Le due fazioni, emozione e ragione, rappresentate da due buffi neuroni, si contendono la priorità sulle decisioni da prendere e le azioni da mettere in atto per conquistare la giovane donzella, ma il risultato è disastroso!

Il video è di Josiah Haworts ed è stato prodotto al Ringlin College of Art and Design insieme a Joon Soo Song e Joon Shink Song.

In apertura, è interessante notare come la “ragione” metta in atto comportamenti di controllo (sistemare le forchette sul tavolo) per gestire l’ansia dell’attesa, mentre l’emotività è occupata a rappresentarsi mentalmente scenari gratificanti, ovvero impegnata in attività che rimandano al concetto di pensiero desiderante (Caselli e Spada, 2001).

Conclude il video un finale inatteso e sorprendente.

https://youtu.be/3Fd7j6vyoL4

 

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Legami d’amore: i rapporti di potere nelle relazioni amorose (2015) – Recensione

In legami d’amore Jessica Benjamin ricostruisce a partire dal rapporto madre-bambino la struttura del dominio erotico e ci aiuta a capire in che modo un atto d’amore può trasformarsi in pratica di sottomissione.

Questo libro utilizza la critica femminista e la reinterpretazione della teoria psicoanalitica per analizzare l’azione reciproca tra amore e dominio, dove la dominanza è intesa come un percorso a due sensi, un sistema che implica la partecipazione sia di chi si sottomette al potere sia di chi lo esercita.

Nel primo capitolo del libro l’autrice cerca di dimostrare in che modo le dinamiche di dominanza e sottomissione abbiano origine proprio a partire dalle caratteristiche del primo legame d’amore, quello tra madre e figlio/a.

Il dominio e la sottomissione sono il risultato del venir meno della tensione necessaria tra l’affermazione del sé e il riconoscimento reciproco che permette al sé e all’altro di incontrarsi su un piano di assoluta parità. Hegel dimostrò che questa lotta per farsi riconoscere dall’altro, volta alla ricerca di conferma personale, costituisce il nucleo delle relazioni di dominio.

Il dominio è una distorsione dei legami d’amore. Chi prende questa strada per stabilire il proprio potere trova un’assenza là dove dovrebbe esserci l’altro, un vuoto dovuto ad un mancato riconoscimento, l’altro appare così minaccioso per il proprio sé – o per eccessiva pericolosità o per estrema debolezza o entrambe le cose- che deve essere controllato. Si crea quindi un circolo vizioso: più l’altro viene soggiogato, meno è vissuto come soggetto umano e maggiore diventa la distanza e la violenza che il sé deve usare contro di lui.

Il ruolo dell’”altro” non è meno complicato, coloro che vengono soggiogati e non riconosciuti, possono nell’atto stesso di emanciparsi, restare innamorati dell’ideale di potere che hanno subito e che è stato loro negato. Talvolta riescono a respingere il diritto del padrone a dominarli, non respingono però la sua personificazione del potere, si limitano a rovesciare i termini della questione, agendo gesti di “rivalsa narcisistica” che mantengono il ciclo di potere.

Per fermare il ciclo di dominio l’altro deve introdurre una differenza,

“vogliamo che l’altro soggetto sia fuori dal nostro controllo e tuttavia abbiamo bisogno di lui”.

Accettare questo paradosso, sostiene l’autrice, è il primo passo per dipanare i legami d’amore. Procedendo nella lettura si giunge ad un interessante approfondimento dei rapporti erotici sadomasochistici, nei quali possiamo scorgere la “pura cultura” del dominio, una dinamica che mette in campo sia il dominio sia la sottomissione.

L’autrice sottolinea come la fantasia di dominio erotico incarni sia il desiderio di indipendenza sia quello di riconoscimento; il sadico ricerca tramite il potere sul corpo dell’altro l’affermazione del sé mentre l’individuo che si sottomette al dominio erotico cerca di arrivare alla libertà passando per la sua schiavitù, alla liberazione sottomettendosi al controllo, sogna di dominare subendo prevaricazione.

Si tratta di un enorme paradosso a cui l’autrice cerca di dare una risposta, ponendosi la domanda “In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono”? Viene affrontato in modo dettagliato il desiderio femminile, cercando di capire in che modo il desiderio mancante della donna si manifesti così spesso in una forma di adorazione dell’uomo che invece lo vive in prima persona e si cerca di delineare le dinamiche che portano alcune donne ad avere una propensione per quello che comunemente possiamo chiamare “amore ideale”, dove la donna si sottomette e adora un altro, ovvero quello che lei pensa di non poter essere.

Per spiegare ciò l’autrice ripercorre il mondo freudiano del padre, in cui le donne vengono definite dalla mancanza di quello che gli uomini possiedono, il fallo. Nella teoria freudiana il fallo simboleggia allo stesso tempo potere, desiderio e differenza e come portatore del fallo il padre simboleggia la separazione dalla madre; il potere del padre viene giustificato in quanto sarebbe l’unica strada verso l’individualità. L’autrice cerca di decostruire la teoria psicoanalitica classica suggerendo una rappresentazione alternativa e dimostrando che non è l’anatomia ma la totalità della relazione di una bambina con il padre, in un contesto di polarità di genere, che spiega quella che viene percepita come “mancanza” della donna.

La parte successiva del saggio si concentra sull’ “enigma edipico”, dove la Benjamin analizza il modello edipico freudiano, proponendo una versione edipica meno scissa che lascia spazio a livelli successivi e antecedenti di integrazione tra il ruolo di “padre liberatore” e quello di “madre divorante” tipico del modello classico.

La difficoltà risiede nel fatto che nel modello edipico freudiano il potere del “padre liberatore” viene usato come difesa nei confronti della “madre divorante”. Per i bambini di entrambi i sessi tale scissione significa che l’identificazione e l’intimità con la madre devono essere barattate con l’indipendenza, così viene a formarsi un ideale paterno di separazione che finisce per incarnare il rifiuto assoluto della femminilità.

Ciò accresce la scissione tra soggetto maschile e oggetto femminile e con essa l’unità duale di dominio e sottomissione. Questa struttura polarizzata della differenza di genere lascia due sole alternative: unità irrazionale (quella con la madre) o autonomia razionale (quella del padre). Partendo da questa riflessione l’autrice dedica la parte finale dal saggio ad alcune riflessioni sul modo in cui tale scissione di genere si ripete nella vita intellettuale e sociale, ed elimina la possibilità di riconoscimento non solo degli essere umani come coppia ma dell’intera società nel suo insieme.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Benjamin, J. (2015). Legami d’amore: i rapporti di potere nelle relazioni amorose. Raffaello Cortina Editore: Milano.

Gambling: credenze metacognitive e comorbilità psichiatrica

Giovanni Mansueto, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Le credenze metacognitive potrebbero contribuire al mantenimento delle condotte patologiche di gioco, probabilmente, favorendo l’esacerbazione e/o il mantenimento di stati affettivi (per lo più di natura ansiosa) concorrenti.

Il gambling appare un fenomeno in costante crescita e di significativa complessità. La classificazione diagnostica del gioco patologico ha subìto alcune modifiche con il passaggio dal DSM-IV TR (American Psychiatric Association, APA, 1994), classificato nella categoria dei “Disturbi del Controllo degli impulsi non classificati altrove” e denominato Gioco d’azzardo Patologico (GAP), al DSM-V (APA, 2013) nel quale viene collocato nella categoria delle “dipendenze comportamentali” e rinominato Disturbo da gioco d’azzardo (Gambling Disorder). Studi epidemiologici stimano tassi di prevalenza compresi tra 1.1% e 5.3% nella popolazione adulta (Castrén et al. 2013; Lorains, Cowlishaw, & Thomas, 2010; Raylu & Oei, 2002) e in particolare nel contesto italiano si stimano tassi di prevalenza pari al 2.3% per i giovani e il 2.2% per gli adulti (Bastiani et al. 2013).

Un importante aspetto da considerare nel trattamento del gambling è rappresentato dal problema della comorbilità. Si stima che circa il 6.7 – 12 % di pazienti psichiatrici manifesti comportamenti di gioco patologico e in particolare il gioco d’azzardo patologico appare associato ad elevati tassi di comorbilità rispetto a disturbi dell’umore, ansia, abuso di sostanze e disturbi di personalità (Johansson, Grant, Kim, Odlaug & Go¨testam, 2009).

La comorbilità psichiatrica rappresenta da una parte un significativo fattore di rischio per l’insorgenza del gambling e allo stesso tempo si associa ad un maggiore gravità e decorso clinico negativo (Raylu & Oei, 2002; Johansson et al., 2009).

Sebbene una recente revisione sistematica della letteratura e meta-analisi (Gooding & Tarrier, 2009) evidenzia un significativo effetto della CBT nella riduzione del gambling nei primi 3 mesi dalla cessazione della terapia, allo stesso tempo le evidenze sull’efficacia in un lungo periodo di tempo (es. 12 mesi) sono ancora limitate (Spada, et al.,2014).

Alla luce di ciò, in un recente studio (Mansueto et al., 2015) si è cercato di indagare se la terapia metacognitiva (MCT) possa rappresentare una strategia terapeutica funzionale a tale complessità. La base teorica della MCT è rappresentata dal modello della Funzione Esecutiva Regolatoria (S-EF) (Wells, 2012) secondo il quale i disturbi emotivi sono mantenuti da peculiari modalità di elaborazione delle informazioni, ovvero, il modo di usare il pensiero, l’attenzione, la memoria.

Secondo il modello metacognitivo proposto da Wells (2012), i disturbi psicologici sono determinati dall’attivazione della Cognitive Attentional Symdrome (CAS), ovvero, una modalità disfunzionale di elaborazione dell’informazione caratterizzata da stili di pensiero perseveranti (es.: rimuginio, ruminazione, iper-monitoraggio attentivo), comportamenti di evitamento e strategie di coping non adattive (Spada et al., 2014).

L’attivazione della CAS è determinata a sua volta da specifiche credenze metacognitive (Wells, 2012). Studi empirici supportano il ruolo delle credenze metacognitive nei disturbi d’ansia, depressivo, ossessivo-compulsivo e nelle dipendenze da nicotina, alcool e gambling (Caselli & Spada, 2010; Lindeberg et al., 2011; Normann, van Emmerik & Morina, 2014; Spada, Giustina, Rolandi, Fernie, & Caselli, 2014; Wells, 2012).

Uno dei primi studi sul rapporto tra metacognizoine e gambling è stato condotto da Lindeber et al. (2011) in un campione di 91 giocatori patologici, evidenziando il ruolo predittivo delle metacredenze cognitive (metacredenze negative e metacredenze relative alla necessità di controllo) nel gambling, indipendentemente dalla presenza di stati ansiosi e /o depressivi. Come evidenziato dagli autori, le “metacredenze negative” e la “necessità di controllo” fanno riferimento a un range di credenze secondo cui certi pensieri non dovrebbero essere sperimentati in quanto negativi, e, l’esperienza di tali pensieri, se non controllati, potrebbe condurre a conseguenze negative.

Pensieri negativi e stati emotivi nei giocatori possono essere rappresentati dal pensiero relativo ai gioco, dal desiderio di giocare o da bassi livelli di umore, rappresentando per il giocatore potenziali trigger o possibile prova di perdita di autocontrollo.

Lindeberg et al. (2011), ipotizzano che il soggetto può ruminare e/o rimuginare su tali pensieri e stati emotivi, cercando di monitorarli o sopprimerli, esacerbando stati affettivi negativi. Secondo gli autori (Lindeberg et al., 2011) ciò a sua volta potrebbe incrementare la probabilità di ricorrere al gioco come strumento, seppur temporaneamente, di contenimento. Sulla scia di questo studio, successivi disegni sperimentali hanno fornito ulteriore evidenza del potenziale coinvolgimento delle credenze metacognitive nel gambling.

Spada et al. (2014), identificano in un campione di 10 giocatori patologici, la presenza di metacredenze positive e negative relative al gioco, il quale rappresenterebbe per gran parte dei soggetti una strategia di coping finalizzata alla risoluzione di problemi economici e/o alla regolazione degli propri stati interni emotivi-cognitivi. Un ulteriore rafforzamento del potenziale coinvolgimento della prospettiva metacognitiva nel gambling è fornita da Caselli et al. (2014), evidenziano il ruolo predittivo, indipendentemente dalla presenza di emozioni negative e craving, del pensiero desiderante a sua volta associato a credenze metacognitive positive e negative (Caselli e Spada, 2010).

Infine, in un recente studio (Mansueto et al., 2015) è stato indagato il ruolo delle credenze metacognitive in relazione alla comorbilià psichiatrica. In un campione clinico di giocatori patologici (n=69) e un campione di soggetti estratti dalla popolazione generale di (n= 58) è stata indagata la relazione tra credenze metacognitivie, sintomatologia psichiatrica e comportamenti legati al gioco, attraverso la somministrazione di questionari self-report quali South Oaks Gambling Screen (SOGS, Lesieur & Blume, 1987), Metacognition Questionnaire 30 (MCQ-II, Wells & Cartwright-Hatton, 2004), Symptom Checklist-90-R (SCL-90, Derogatis, 1994). Tale studio ha condotto ai seguenti risultati:

rispetto alla popolazione generale, i giocatori patologici sono caratterizzati dalla presenza di credenze metacognitive negative, credenze metacognitive relative alla necessità di controllo dei pensieri, e maggiore sintomatologia ansiosa, depressiva, ossessiva-compulsiva, ipersenbilità interpersonale e ostilità;

– nel campione dei giocatori patologici la relazione tra metacognizione (credenze metacognitive negative e positive) e gambling appare essere mediata dalla concorrente sintomatologia psicologica; in particolare sembra rilevate nel rapporto di mediazione, la sintomatologia dell’area ansiosa, ossessiva-compulsiva e relativa all’ipersensibilità interpersonale e all’ostilità.

Questa ricerca fornisce un ulteriore supporto a precedenti evidenze empiriche (Caselli & Spada, 2010; Lindeberg et al., 2011; Spada et al., 2014) sul coinvolgimento delle credenze metacognitive nel gambling. Sebbene i limiti impliciti dello studio dovuti all’ampiezza del campione e l’impiego di test self-report, tali risultati portano ad ipotizzare che le credenze metacognitive potrebbero contribuire al mantenimento delle condotte patologiche di gioco, probabilmente, favorendo l’esacerbazione e/o il mantenimento di stati affettivi (per lo più di natura ansiosa) concorrenti. Sulla base di quanto riportato, gli studi sopradescritti forniscono alcuni punti di riflessione in relazione a possibili implicazioni terapeutiche:

(a) forniscono preliminari evidenze sulla possibilità di considerare la Terapia Metacognitiva (Wells, 2012) un’utile integrazione nel trattamento del comportamento legato al gioco patologico e della relativa sintomatologia psicologica concorrente;

(b) in linea con il modello teorico (Wells, 2012), diversamente dalla CBT, l’intervento terapeutico non dovrà mirare a monitorare e testare la veridicità dei pensieri e delle credenze, ma dovrà focalizzarsi sul modo in cui il soggetto reagisce a queste idee, fornire strategie di gestione e cambiamento di stili di pensiero disfunzionali, nonché esser centrato sulla modifica di credenze metacognitive;

(c) si sottolinea l’importanza durante la fase di assessment di una approfondita valutazione psicodiagnostica e di un accurato assessment metacognitivo;

(d) focalizzarsi sulle credenze metacognitive disfunzionali potrebbe favorire la riduzione dei sintomi psicologici concorrenti contribuendo alla riduzione e/o contenimento delle condotte funzionali al comportamento di gioco patologico.

In conclusione i dati sembrano incoraggianti nel considerare il potenziale contributo della Terapia Metacognitiva nel Gambling, inoltre, la cornice teorica delineata appare ricca di stimoli per ulteriori studi al fine di chiarire ulteriormente il ruolo delle credenze metacognitive nell’esacerbazione e mantenimento del gambling.
Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Neuroscienze: i circuiti neuronali che regolano l’appetito

FLASH NEWS

Nel nostro cervello vi sarebbero specifici circuiti di neuroni che regolano la sensazione di appetito e sazietà nel senso che sono deputati all’atto stesso del nutrimento. Ma non solo.

Secondo un nuovo studio della Yale School of Medicine, questi stessi circuiti conosciuti da tempo per regolare la sensazione di fame avrebbero una ulteriore funzione in quanto coinvolti nell’attuazione di comportamenti ripetitivi e stereotipati finalizzati a uno scopo specifico, e cioè il reperimento del cibo quando si ha fame.

Si tratta di una popolazione di neuroni presenti nell’ipotalamo, conosciuti come neuroni AGRP. In uno studio sui roditori è stato dimostrato che in assenza di cibo i topi attuano comportamenti ripetitivi in relazione all’ attivazione di tale popolazione neuronale.

In tal senso, secondo gli autori, questa primitiva regione ipotalamica sarebbe alla base anche di comportamenti più complessi rispetto alla sola gestione della sensazione di fame. Dunque l’attivazione dei neuroni AGRP in assenza di cibo stimola la ricerca di nutrimento e comportamenti ripetitivi e stereotipati che corrispondono a una diminuzione dei livelli di ansia e che regrediscono a seguito del consumo di cibo.

Secondo gli autori dunque il coinvolgimento di questa popolazione neuronale in comportamenti stereotipati, ripetitivi e compulsivi legati alla sensazione di fame potrebbe essere utile per comprendere dal punto di vista neurocognitivo gli aspetti comportamentali dei disturbi dell’alimentazione.

 

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Tracce del tradimento: perché si lasciano e perché si cercano – Introduzione

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – Introduzione (01)

Una serie di articoli sul tradimento. E sul lasciare e cercare tracce del tradimento. Quasi a tradire la segretezza del tradimento. Per State Of Mind, a partire da oggi, ci chiediamo con una serie di articoli come e perché si lasciano tracce nel tradimento.

All’inizio c’è una coppia. Un uomo e una donna. Due uomini. Due donne. Insomma, una coppia. Adolescenti, adulti, anziani, coetanei, amanti, al primo incontro, fidanzati, conviventi, sposati, in via di separazione. Che s’interessano, desiderano, stimano, dedicano, amano, inseguono, cercano, fuggono, ritrovano.

Poi appare un altro, nuovo, diverso, precedente, reale, immaginato, disponibile, seduttivo, sfacciato, sfuggente, irraggiungibile. Uno dei due guarda fuori, vede l’altro, mette un piede oltre il confine, furtivamente, senza che il compagno se ne accorga, esclude il compagno da questa vicenda che è sua e non della coppia; si è ritagliato uno spazio privato, forse se ne sta andando.

L’altro dei due a volte, non sempre, avverte un cambiamento, l’esclusione; sospetta, teme l’inganno, l’abbandono, l’umiliazione e allora vuole vederci chiaro e chiede spiegazioni, controlla, diffida, minaccia. Questa è la consumata figura del tradimento che tutti conosciamo per averla interpretata almeno una volta nella parte del traditore, del geloso o del rivale.

E’ la modalità più frequente con cui si transita da una coppia all’altra: il rimpasto delle relazioni avviene così nel 99% dei casi ma il restante 1% non è mai arrivato alla nostra osservazione e forse non esiste. La nuova coppia che nasce resterà tale fino a quando si metterà di nuovo in scena la figura del tradimento; e così via di coppia in coppia fino alla vedovanza.

E’ comprensibile che le cose vadano così perché gli interessi in gioco del traditore e del tradito sono in contrasto. Il traditore prima di lasciare la vecchia coppia vuole accertarsi che la nuova sia praticabile e funzioni meglio della precedente per cui è normale che cerchi un periodo di sovrapposizione in cui sperimentare il nuovo senza perdere il vecchio. E’ dunque suo evidente interesse tenere celata la nuova relazione.

Il tradito, al contrario, è interessato a non continuare a investire in una impresa che forse è già in liquidazione aumentando le perdite ed è dunque suo interesse scoprire al più presto come stanno le cose per interrompere l’investimento a fondo perduto o per impedire, per quanto è in suo potere, il proseguire della nascente relazione e ristabilire la coppia.

Questa storia è talmente antica e ripetitiva e su di essa sono state scritte un’infinità di pagine di saggistica, letteratura, poesia che non meriterebbe certo altro inchiostro. Infatti il tema di questo libretto non è il tradimento e la gelosia a cui pure si accennerà, ma una strana malformazione di entrambe, una perversione della figura classica e ben consolidata del tradimento.

Normalmente il traditore tradisce perché crede di poter star meglio (e spesso si sbaglia), il geloso cerca di scoprire il tradimento perché non vuole star peggio (e spesso si sbaglia): fino a qui ognuno gioca la sua parte sensata, coerente, efficace e di consumata tradizione. Talvolta però avvengono cose strane.

Il traditore invece di tenere con cura nascosto il tradimento ne lascia ovunque delle tracce visibili, dice di non voler essere scoperto e sembra far di tutto per esserlo, apparentemente si comporta in maniera contraddittoria ai suoi scopi, sembra volersi cacciare volontariamente nei guai perdendo il vantaggio della segretezza che gli consente di avere per un periodo di prova più o meno prolungato la situazione di “doppia coppia”.

Il geloso invece di cercare le prove del tradimento e agire di conseguenza e cioè smettere di cercarle se non ci sono o, se ci sono, interrompere il rapporto o blindarlo dalle interferenze con manovre deterrenti, cerca, cerca, si arrovella, continua a cercare, cercare e arrovellarsi.

Torniamo all’inizio: tradire ed essere traditi, lasciare e cercare tracce di questo tradimento.

Qual è il perché di questo apparentemente insensato seminare tracce e cercarle? Se varrà a evitare a qualcuno questo calvario tradendo ed essendo traditi con serietà, avremmo raggiunto il nostro scopo.

 

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Il disturbo da Accumulo: recensione del libro di Perdighe e Mancini

Le persone affette da disturbo da accumulo soffrono di una curiosa ossessione di accumulo di oggetti, con i quali finiscono per riempire la casa all’inverosimile, riducendo al minimo lo spazio percorribile fino a rendere difficile abitarci.

Il disturbo da accumulo (hoarding disorder) è una diagnosi relativamente recente, elaborata in USA da Randy Frost e il suo gruppo di ricerca clinica alla Smith University. Si tratta di un disturbo in qualche modo apparentato al disturbo ossessivo compulsivo ma non riducibile a esso. Le persone affette soffrono di una curiosa ossessione di accumulo di oggetti, con i quali finiscono per riempire la casa all’inverosimile, riducendo al minimo lo spazio percorribile fino a rendere difficile abitarci.

Negli Stati Uniti sembra esserci un’epidemia di questo disturbo, ma anche in Europa e in Italia si stanno moltiplicando i casi. La consapevolezza di questo disturbo iniziò col caso storico dei fratelli Collyer, che giunsero ad accumulare 103 tonnellate di oggetti vari (compresi 14 pianoforti) nella loro casa a Manhattan nel corso degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, fino a rimanere sepolti vivi nel loro stesso appartamento e a morirci nel 1947.

Si tratta certamente di un tipico disturbo della società affluente e consumistica con la sua larga disponibilità di oggetti da usare e gettare. O da non gettare, ma da conservare e collezionare, come accade in maniera perversa nel disturbo da accumulo.

Insomma per alcune persone l’attaccamento agli oggetti diventa un vero disturbo mentale: buttare è così difficile che continuano ad accumulare cose di nessun valore anche quando questo compromette la qualità della vita, la vivibilità della casa, i rapporti con gli altri.

Dal 2013 l’accumulo patologico è stato riconosciuto come disturbo autonomo e inserito con il nome di disturbo da accumulo nel DSM-5. Si tratta di un disturbo molto diffuso: ne soffre tra il 2 e il 5 per cento della popolazione.

In Italia se ne stanno occupando Claudia Perdighe e Francesco Mancini e il loro gruppo clinico, da sempre impegnati nello studio e nella cura delle varie forme di sofferenza ossessiva. Ora Perdighe e Mancini escono con un volume edito da Cortina che tratta a fondo questo disturbo ancora nuovo per noi. Il libro tratta il modello cognitivo-comportamentale del disturbo, e la sua cura. Fornisce una descrizione accurata di come alcune persone possano sviluppare un comportamento così strano. In genere costoro accumulano oggetti per due ragioni principali: potrebbe servirmi e mi sono affezionato. Una ragione emotiva e l’altra in qualche modo razionale.

Il trattamento proposto è naturalmente di tipo cognitivo-comportamentale e parte dall’analisi delle idee che sono alla base del comportamento da accumulo e dalla loro messa in discussione, insieme alla dismissione dal comportamento di accumulo. Il volume è rivolto a tutti coloro che si occupano di salute mentale, ma si presta anche a essere letto da chi semplicemente vuole comprendere meglio il disturbo (i soggetti che ne soffrono o i loro parenti).

 

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BIBLIOGRAFIA:

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