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Panico ed Agorafobia: non tutto il male vien per nuocere

Roberto Lorenzini parla dei suoi attacchi di panico alla luce del nuovo libro di Pankseep, Archeologia della mente, che si occupa di neuroscienze affettive.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 08 Apr. 2015

Aggiornato il 05 Set. 2016 09:59

Se c’era una cosa secondo me chiara nella modellistica cognitiva dei disturbi d’ansia era il rapporto tra panico ed agorafobia. Con queste poche certezze vedevo pazienti cui spiegavo questi meccanismi, scrivevo libri sui disturbi d’ansia e vivevo dunque in grazia di Dio. Poi per la prima volta nella tarda primavera di tre anni fa un’esperienza di grande timore a ritrovarmi in spazi aperti con conseguente evitamento degli stessi.

Se c’era una cosa secondo me chiara nella modellistica cognitiva dei disturbi d’ansia era il rapporto tra panico ed agorafobia. In sintesi riassumibile così: il panico può essere innescato da qualsiasi paura per una minaccia esterna ma immediatamente dopo la minaccia diviene interna. Il soggetto non riconosce come tali i segni dell’attivazione adrenergica della paura ma li interpreta come una gravissima minaccia interna alla propria salute fisica o mentale (teme di morire o di impazzire) ed entra in quel loop di autorinforzo chiamato circolo di Clark noto anche come la paura della paura. L’esperienza dell’attacco di panico è così brutta che il soggetto inizia ad evitare i luoghi in cui l’ha sperimentata o prevede possa verificarsi e questa è l’agorafobia che si presenta dunque come una sorta di cura fai da te del terribile panico.

Con queste poche certezze vedevo pazienti cui spiegavo questi meccanismi e prescrivevo ottime pilloline preventive (SSRI) ed altre ancora più miracolose da tenere in borsa (BZD), scrivevo libri sui disturbi d’ansia e vivevo dunque in grazia di Dio. Poi per la prima volta nella tarda primavera di tre anni fa un’esperienza di grande timore a ritrovarmi in spazi aperti con conseguente evitamento degli stessi. Non mi dilungo sui possibili motivi (ambientali e psicologici) dello scompenso né sui secondari facilmente immaginabili per uno che da trenta anni deve mettere insieme il pranzo con la cena in gran parte proprio grazie a Notre dame de la peur protettrice dei cognitivisti.

Quello che è interessante e può aprire ad una maggiore comprensione del disturbo è piuttosto la sintomatologia, il mio vissuto.

 Non avevo alcun timore di morire e tanto meno di impazzire e nessun parametro fisiologico era alterato. L’unica cosa che sperimentavo era l’assoluta impossibilità di muovermi, avviarmi verso spazi aperti. I muscoli (anche quelli che ancora sanno farlo) non rispondevano alla mia volontà. Ero costretto a costeggiare dei confini anche senza appoggiarmici. Non avevo timore di cadere sapendo che non sarebbe successo nulla di grave né tanto meno di fare brutta figura.

Allora cercai in tutti i modi di risolvere la situazione, soprattutto forzando gli evitamenti, senza impegnarmi in speculazioni filosofiche (Primum vivere deinde philosophare, come diceva Seneca). La vita riprese normalmente seppure una volta persa la verginità e sperimentata quella brutta sensazione il pensiero ci torna ed ho ad esempio rinunciato al progetto che avevo di traversata dell’antartico in solitaria.

Poi qualche mese fa ho letto un libro, l’unico che cito in bibliografia di questo articoletto (Archeologia della mente di J. Pankseep) che si occupa di neuroscienze affettive ed in particolare dei sette sistemi affettivi di base delle regioni sottocorticali degli uccelli e dei mammiferi. Più avanti lo spiegherò meglio. Mi ha messo la pulce nell’orecchio e quando qualche settimana fa a Milano nel museo del novecento ho riavuto un vissuto iniziale analogo a quello di tre anni fa ho colto l’occasione per cercare di capire meglio cosa mi stava accadendo con i nuovi costrutti fornitimi da Pankseep e, per così dire, me la sono andata a cercare traversando Piazza del Duomo.

In effetti ho riprovato tutto quello che avevo messo da parte tre anni fa. Stesso malessere e stessa ricerca di un confine, stessa incapacità a muoversi. Si può discutere su che nome dare a quell’esperienza. Attacco di panico? Panico paucisintomatico? Crisi agorafobica? Angoscia abbandonica? Crisi dissociativa? Depersonalizzazione e/o de realizzazione? In attesa di decidere la chiamerò B.B. (Brutto Blocco). Quello che è certo è che se appartiene alla grande famiglia della paura somiglia più al freezing che alla fuga/attacco.

Soggettivamente non mi sarei descritto come spaventato ma piuttosto come sperso, sperduto.

Per fare solo un piccolo passo nella teoria e tirarmi fuori da Piazza del Duomo mi viene da dire che se nell’attacco di panico vero e proprio il soggetto teme di perdere se stesso e la sua identità con la morte o la follia, nel B.B. il timore è di perdere l’altro: in ballo c’è l’angoscia di separazione (peraltro a me da sempre molto più familiare). Il secondo passo teorico di allontanamento da Piazza del Duomo è quello di ipotizzare i rapporti tra queste due diverse sindromi: Panico e B.B. Dunque la seconda non è la terapia fai da te della prima. Sono entrambi disturbi di ansia in cui si fugge da qualcosa, la perdita di sé e/o la perdita dell’altro, ed ognuno si può complicare, come è frequente nei disturbi d’ansia con l’evitamento delle situazioni temute che procura un sollievo immediato ed un danno grave a medio termine.

La seconda domanda è quale possa essere il legame tra le due che evidentemente spesso si presentano in comorbidità:

  • Ipotesi 1: L’esperienza dell’attacco di panico per la sua minacciosità estrema attiva il comportamento di attaccamento e dunque si diventa più sensibili ai segnali abbandonici: per cui la partenza è panicosa e poi si complica con il vissuto agorafobico.
  • Ipotesi 2: l’esperienza del B.B. inconsueta e inaspettata può essere a sua volta attivante la volgare ansia che non riconosciuta dal candidato al panico innesca il circolo di Clark. In questo caso il percorso è inverso dal B.B. al panico.

 Infine un’ulteriore annotazione su cui riflettere. Situazioni per me attivanti sono i musei con ampie sale ed in particolare il momento in cui resto improvvisamente fermo in piedi e il mio accompagnatore si allontana improvvisamente. Dimenticavo prima che il senso di B.B. si sperimenta soprattutto quando il movimento deve partire e molto meno quando si è già in movimento (in questo c’è qualche affinità col Parkinson?) per cui una soluzione, ad esempio è non fermarsi mai.

I motivi che possono spiegare il mio trigger museale possono essere due:

  • Un museo è uno dei pochi posti in cui si resta in piedi fermi anche per un tempo prolungato e non ti puoi appoggiare alle pareti che scattano gli allarmi.
  • Gli architetti si sbizzarriscono con gli spazi museali che sono spesso irregolari (anche i pavimenti non sono sempre piani) dunque estranei e inconsueti tanto più per il mio danneggiato emisfero cerebrale destro che dovrebbe occuparsi di informarmi dello spazio e della posizione del mio corpo in esso. Chissà che Stendhal a Santa Croce a Firenze non abbia avuto proprio un B.B.

Torno brevemente alle concettualizzazioni dell’illuminante Pankseep di cui consiglio vivamente la lettura. Pankseep con un occhio sempre attento alle ripercussioni cliniche delle sue osservazioni di neuroscienziato dei sistemi affettivi sottocorticali identifica 7 sistemi affettivi di base tutti interessantissimi per la nosografia psichiatrica e la clinica che tralascio per soffermarmi ad accennare a quelli più implicati nel tema dell’articolo quello della paura e quello della cura.

I sette sistemi sono:

  • Ricerca
  • Paura
  • Collera
  • Desiderio sessuale
  • Cura
  • Panico sofferenza
  • Gioco

Il sistema della paura garantisce la sopravvivenza attivandoci percettivamente e comportamentalmente di fronte alle minacce alla nostra integrità.

La paura inizialmente nei processi affettivi primari nasce senza oggetto, poi con l’apprendimento si connette nei processi secondari a singoli oggetti. L’evoluzione ha creato la possibilità di aver paura, di cosa va poi appreso.

Gli umani sono gli esseri più paurosi (forse a questo dobbiamo in parte il nostro successo evolutivo come specie è meglio aver paura che buscarle e professionale come cognitivisti) e possiamo esserlo di tutto nonché della paura stessa.

Il dolore attiva la paura ma non il contrario anzi può diminuirlo o farlo ignorare per scappare dai predatori. La paura è diversa dal panico/sofferenza. L’attacco di panico è riferibile piuttosto all’ansia di separazione del sistema della cura.

Il sistema della cura è decisivo per la sopravvivenza e connesso con l’attaccamento. La separazione genera panico.

Nel panico si è come un bambino che si è perso e che ha un pianto inconfondibile. Non fugge e non si congela, non c’è un pericolo da cui fuggire o difendersi ma richiama l’attenzione del care giver. Il panico è un dolore psicologico sviluppato sui circuiti del dolore fisico.

Pankeep a pagina 369 e seguenti argomenta perché gli attacchi di panico sono attacchi di separazione e dunque perché gli AD siano più efficaci delle BZD.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Agorafobia: la paura dell’Attacco di Panico nella grande città

BIBLIOGRAFIA

Consigliata:

  • Panksepp, J, Biven, L.. (2014) Archeologia della mente. Ed. Cortina

Sconsigliata:

  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (1987) La paura della paura: riconoscere e curare le proprie fobie. La nuova Italia Scientifica, Roma
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (1991) Quando la paura diventa malattia: come riconoscere e curare le proprie fobie. Ed. Paoline, Milano
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (1992) Cuando el miedo se vuelve enfermedad. Ed. Paulinas, Caracas Venezuela
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (1993) L’uomo nero : ansie, paure e fobie. La Nuova Italia Scientifica, Roma
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (1998) Paure e Fobie. Il Saggiatore, Milano
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