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La trasmissione intergenerazionale della violenza: un’ipotesi sistemica sui contesti di apprendimento

I bambini che assistono a violenza all’interno della coppia genitoriale correrebbero un rischio maggiore di riviverla nelle relazioni intime da adulti

Di Redazione

Pubblicato il 05 Mag. 2014

Laura D’Aniello

 

 

Trasmissione intergenerazionale violenza - Immagine:  ©drubig-photo - Fotolia.com Un bambino o una bambina che abbiano vissuto un’infanzia caratterizzata da abusi e maltrattamenti, siano essi fisici, psicologici o entrambi, potrebbero reiterare o rivivere la violenza sperimentata in famiglia come modalità di “entrare in relazione con l’altro” appresa dai modelli genitoriali.

La trasmissione della violenza familiare di generazione in generazione è attualmente oggetto di studio, con particolare attenzione alla connessione con la regolazione emotiva e gli aspetti di relazionalità familiare che svolgono un ruolo fondamentale nello stabilire il benessere emotivo e lo sviluppo relazionale dei bambini.

Siegel (2013) sottolinea come i bambini che assistono a violenza all’interno della coppia genitoriale correrebbero un rischio maggiore di riviverla nelle relazioni intime da adulti.

Esplorando il contesto d’apprendimento delle famiglie d’origine, emerge quanto possano essere diversificate le situazioni in cui i bambini si trovano ad essere testimoni di violenza: essa può essere perpetrata sia dal padre che dalla madre e, nelle rispettive famiglie, uno o entrambi i genitori possono essere stati vittime di abuso (Barner & Carney, 2011). E spesso il maltrattamento fisico è accompagnato da quello emotivo, sebbene non tutte le relazioni emotivamente abusanti culminino poi in violenza fisica.

I bambini, crescendo in un ambiente familiare di questo tipo, sarebbero esposti a conflittualità e ostilità tra partner, che è stato dimostrato danneggiarli anche in assenza di abuso vero e proprio (Amato, Loomis & Booth, 1995; Gottman & Katz, 1989; McNeal & Amato, 1998). Inoltre, un clima di violenza familiare può causare triangolazione dei figli e loro coinvolgimento nella relazione di coppia, creazione di alleanze insane (ad esempio, madre-figlia e padre-figlio) e tendenza all’auto-colpevolizzazione da parte dei bambini che possono pensare di essere, in qualche modo, la causa del marasma familiare (Grych, Raynor, & Fosco, 2004; Kerig & Swanson, 2010); non è insolito, infine, che essi possano vivere rifiuto o aggressioni conseguenti al conflitto genitoriale da parte di uno dei genitori o da entrambi.

In questa cornice, una prospettiva sistemica che indaghi una possibile ereditarietà della violenza riconosce come tali dinamiche di coppia possano riverberarsi sui figli e come le riorganizzazioni e le ristrutturazioni dei ruoli familiari che ad esse fanno seguito possano innescare reazioni o collocazioni dei bambini in ruoli familiari che vanno contro uno sviluppo emotivo e cognitivo “ideale” e che potrebbero dare origine all’apprendimento della violenza (Gagne, Drapeau, Saint-Jacques, & Lepine, 2007; Struge-Apple, Skibo, & Davis, 2012).

Ciò accade, ad esempio, quando adulti che non sono capaci di consolarsi da soli (forse in virtù di un apprendimento a sua volta derivato dalla famiglia d’origine) si rivolgono inappropriatamente ai loro figli per avere conforto: possono crearsi così modalità relazionali in cui i bambini vengono collocati in ruoli con responsabilità non adeguate all’età e che, di conseguenza, precludono una risposta adeguata ai loro bisogni oppure vengono disillusi nell’aspettativa che le loro necessità d’affetto siano notate o soddisfatte dai genitori (Hooper, 2007).

In questi casi, i figli possono anche mettere in atto tentativi di protezione del genitore maltrattato o vittimizzato (Amato et al., 1995; Cummings & Davies, 2010) “perdendo di vista” se stessi: i bambini, traendo la conclusione che un genitore sia incapace di proteggersi, non crederanno facilmente che sia in grado di fornire loro protezione, per cui non solo “prenderebbero il suo posto”, amandolo e cercando di meritare il suo amore, ma apprenderebbero anche che la violenza perpetrata dall’altro genitore sia un modo per esprimere e dimostrare l’amore.

Alla luce di questa prospettiva, le donne si sentirebbero amate nella cornice di una relazione violenta perché questa, in qualche modo, ripropone le antiche modalità relazionali vissute nella famiglia d’origine dove l’amore ricevuto era in funzione di quello dato “nonostante tutto”, della sopportazione e dell’idea che una buona partner debba rimanere al suo posto anche “nella cattiva sorte”. È così che si instaurerebbe il circolo vizioso di desiderare intensamente di essere amata proprio da chi convalida quest’idea.

Siegel (2013) approfondisce, inoltre, l’apprendimento dei bambini che assistono alle aggressioni incontrollate di uno dei genitori (di solito il padre), sottolineando come possano sperimentare un’identificazione vicaria che cambi il loro livello di fiducia e sicurezza nei confronti del genitore aggressivo. Ciò significa che per poter tollerare e controllare la paura, diventerebbero a loro volta violenti.

La violenza, in questi termini, potrebbe essere intesa come un apprendimento del tipo “È così che papà controlla la paura, è così che ama, è così che si fa”, per cui, parallelamente all’apprendimento ipotizzato per la donna, questo potrebbe essere il versante maschile, dove l’uomo reitererebbe comportamenti violenti perché appresi dai modelli genitoriali.

Introducendo i contributi della ricerca neurobiologica (Briere, 2002; Gunnar & Fisher, 2006; Perry, 2009; Yates, 2007), Siegel collega, inoltre, la violenza perpetrata ad un danneggiamento nella funzione della regolazione emotiva: i maltrattanti sarebbero carenti nella capacità di osservare, comprendere e gestire l’escalation delle emozioni, così come nelle competenze necessarie per risolvere le divergenze ed i problemi in modi costruttivi e non violenti.

Un bambino o una bambina che abbiano vissuto un’infanzia caratterizzata da abusi e maltrattamenti, siano essi fisici, psicologici o entrambi, potrebbero reiterare o rivivere la violenza sperimentata in famiglia come modalità di “entrare in relazione con” appresa dai modelli genitoriali.

 

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