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Je suis Charlie: il rovescio della tolleranza in momenti di crisi culturale

Ogni idea ha un rovescio e dentro di sé il suo contrario: la tolleranza nasconde l’intolleranza di ritenere che il nostro modello sia comunque superiore?

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 21 Gen. 2015

Aggiornato il 29 Ago. 2022 09:50

La tolleranza che raccomanda la fiducia e la pazienza di attendere l’inevitabile laicizzazione del medio-oriente nasconde l’intolleranza di ritenere che il nostro modello sia comunque superiore, così superiore che il tempo lavora per noi.

 

 L’umore psicologico rimane segnato dall’attentato di Charlie Hebdo, con i consueti tic automatici immediatamente attivati: la diffidenza verso l’altro da sé e l’odio verso di sé, la colpa e l’orgoglio, il perdono e la fermezza, la comprensione verso l’altro e la definizione di se stessi. Il tutto versato e mescolato nella solita pappa concettuale inevitabilmente confusa. Parlando con i nostri conoscenti, spesso più intelligenti di noi, accadono cose fastidiose. Si scopre che qualunque idea ha il suo rovescio e dentro di sé il suo contrario. La tolleranza che raccomanda la fiducia e la pazienza di attendere l’inevitabile laicizzazione del medio-oriente nasconde l’intolleranza di ritenere che il nostro modello sia comunque superiore, così superiore che il tempo lavora per noi. E chi oggi ha il coraggio di ritenersi superiore? Perfino la colpa può essere un’intolleranza, l’intolleranza di chi si ritiene talmente potente e responsabile da pensare che qualunque disgrazia mondiale dipenda solo dalla nostra colonizzazione culturale. Una bella hybris anche questa. Il che vuol dire che queste culture oppresse siano talmente fragili e del tutto incapaci di strategie proprie da non aver giocato alcun ruolo nella propria crisi. La loro condanna sarebbe un’eterna reazione impotente alla nostra violenza culturale.

Insomma, siamo in crisi, come da un po’ di tempo e come al solito. La psicologia può rispondere a questa confusione consolandoci con la letteratura sulla crisi come opportunità e come occasione di sviluppo.

Soprattutto la psicologia umanistica ed esistenzialista ha promosso questa visione ottimistica, fin dagli anni ’50 con Werner Wolff (1950). La crisi come occasione? Già sentito, però suona bene. E funziona? Qualcuno si è chiesto quando gli squali del capitalismo, quegli executive privi di illusioni delle grandi corporation, davvero vedono una crisi come occasione (Brockner e Hayes James, 2008). La risposta rischia di essere pleonastica: la crisi diventa un’opportunità quando chi è in crisi riesce a individuare cosa (o chi) non funziona e a trovare nuove soluzioni. Insomma, ogni crisi è un’opportunità se la risolvi. Altrimenti prevarrà il timore di fondo che sia tutta un’illusione: non staremo per caso cantandocela e suonandocela da soli?

Torniamo alla specifica crisi culturale legata all’episodio di Charlie Hebdo. Un aspetto disorientante è che la cronologia della radicalizzazione religiosa del medio-oriente ci racconta una sfasatura temporale. Il fenomeno esplode alla fine degli anni ’70, e quindi dopo la de-colonizzazione (Moaddel, 2005; Martin e Barzegar, 2010). Anche tra chi emigra nei paesi occidentali la radicalizzazione convolge più òe generazioni successive (Epstein e Kheimets, 2000). È noto che nei paesi del medio oriente di lingua araba o persiana le fotografie di vita quotidiana risalenti agli anni ‘50 ci raccontano un ambiente occidentalizzato, in cui i vestiti sono quelli comodi e pratici della modernità. Le donne non sono coperte e lavorano. Guardiamo alcune foto dell’Afghanistan: l’atmosfera ricorda quella dell’Italia degli stessi anni.

Afganistan-women in the 50-60 - 2 Afganistan-women in the 50-60 - 3 Afganistan-women in the 50-60

È solo dopo, a partire dagli anni ’60, con l’indipendenza politica, che sembra scatenarsi la reazione. Del resto anche in Occidente negli stessi anni la modernizzazione, da moderata e ancora non in conflitto con i valori comunitari e gerarchici, esplode definitivamente. Con risultati opposti: in Occidente un’accelerazione dell’individualismo, magari unito a un idealismo rivoluzionario che però nulla aveva di realmente comunitario. In Medio Oriente un vero ritorno al comunitarismo tradizionale.

Un’altra idea gonfia di contraddizioni è l’invocazione a non fare facili generalizzazioni e ricordarci che esistono anche forme non radicali di adesione alla propria cultura. Giusto. Per esempio c’è l’Islam moderato. Ma anche questo appello così tollerante si presta a obiezioni ancora più tolleranti.

 Da una parte, perché chiamare intere culture Islam? E perché ridurre il meglio di queste culture al termine Islam moderato? Si tratterebbe di una forzatura. Significa suggerire che l’unico orizzonte in cui riusciamo a vedere l’estraneo è la lente religiosa. Questa obiezione finisce per confluire in un’obiezione posizionata a una latitudine più liberaleggiante: che per ottenere una definitiva laicizzazione del medio-oriente non basta mica solo un Islam moderato. Ci vorrebbe un medio-oriente ateo e razionalista, iconoclasta e perfino un po’ nichilista. Un’avanguardia che giochi lo stesso ruolo delle avanguardie occidentali. Il che sarebbe un’opportunità per il medio-oriente, per chi ritiene che ridurre tutto il medio-oriente all’islam è una cosa un po’ da razzista (avete notato come anche in questo articolo ho preferito il termine geografico e neutro medio-oriente?) e per chi ritiene che la laicizzazione del medio-oriente non può essere affidata solo ai moderati, islamici e non. Per ora rimaniamo così, in attesa del prossimo conoscente intelligentissimo che ci farà notare il lato intollerante di questo provvisorio approdo.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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