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Senso di appartenza e apertura verso l’altro

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 12 Set. 2011

Aggiornato il 03 Dic. 2018 12:13

Rainbow Flag - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/myloonyland/430364996L’appartenere a un gruppo, a una cultura, e –perché no- a un popolo, o a tutte queste vecchie cose di pessimo gusto è uno di quei bisogni umani che tendono a essere disconosciuti dalla mentalità dei nostri tempi. Roy F. Baumeister è stato colui che ha dedicato i propri sforzi scientifici a studiare il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto, indipendente da altri bisogni e dotato di funzioni proprie. Certo, come tutti i bisogni può anche produrre danni quando ricercato in maniera pervasiva e distorta. Ma rimane un bisogno umano che va compreso e controllato, ma non eliminato (Baumeister, Leary, 1995).

Il bisogno di appartenenza è una componente fondamentale del più ampio bisogno di socializzazione dell’uomo. Ma la socializzazione presuppone non solo apertura, ma anche chiusura. Certo, un grado di chiusura che non dovrebbe mai degenerare in aggressione attiva e ingiustificata. Ma la chiusura, anche se parziale e controllata dalle forze della ragione, trova il suo carburate originario in un bisogno emotivo di sicurezza e di ragionevole prevedibilità del comportamento e delle intenzioni altrui. Per capirci: è verissimo che, da un punto di vista strettamente logico, è irrazionale la tendenza comune a fidarsi di più di coloro che classifichiamo come culturalmente affini (o peggio, etnicamente affini). Ma si tratta ancora una volta di una di quelle scorciatoie emotive che la mente utilizza per tirare avanti in un mondo complesso e difficile. Fingere che sia possibile eliminare all’istante le barriere culturali è un’operazione gratificante per se stessi. Ma è un piacere sterile e la vera apertura, quando è genuina e fruttifera è fatta di disagio, quel disagio che è sagnale di un vero sforzo assimilativo, e non di superficiale amichevolezza.

Negli altri si cercano anche le somiglianze, le conferme, le similitudini di gusto, sensibilità, storia personale, cercano perfino le stesse idiosincrasie e le stesse antipatie. Le persone, scrivono Baumeister e Leary (1995) cercano nel contatto non solo la novità e lo stimolo, ma anche un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi. Brewer (1991) ha riscontrato il benessere personale e il senso di stabilità del proprio sé dipendono non solo dalla personalità individuale, ma anche dalla possibilità di aderire a norme culturali condivise. Senza questa possibilità, il disagio e l’angoscia fanno le loro apparizioni.

L’uomo occidentale a volte sembra soffrire di una percezione di esclusione e di risentimento verso la propria stessa cultura. È vero che spesso la cultura occidentale -soprattutto europea- appare un frutto troppo maturo che ha perso la capacità di rigenerarsi. Mi viene in mente l’esempio della musica classica: sarà semplicistico dire che è troppo perfetta per rinnovarsi, ma in parte è così. Stesso discorso potrebbe farsi per il romanzo o il cinema europei continentale, indeboliti dall’eccesso di sperimentalismo e introspezione e dalla rarità di scene d’azione e trame avventurose.

E tuttavia questo sentimento di esclusione dal proprio retaggio non può essere gestito solo con una fuga verso luoghi culturali che non sono i propri. Secondo alcuni, si tratta di una strategia che dietro il rifiuto si nasconde il sentimento di esclusione (Crocker, Major, 1989; Procacci, Pellecchia, Popolo, 2010). La percezione di esclusione si tramuta in un sentimento di separatezza e di compiacimento di una propria supposta singolarità, fino a cercare di integrarsi in gruppi minoritari estranei alla propria cultura di origine (Major, Gramzow, McCoy, e coll., 2002; Procacci, Pellecchia, Popolo, 2010). Insomma è plausibile che l’eccesso di tolleranza per il diverso, quando unito a un rigetto della propria cultura, non sia affatto sostenuto da un sincero e positivo desiderio di aiutare l’integrazione degli immigrati nella società occidentale. Al contrario, si tratta del desiderio di sfuggire alla propria cultura e di fondersi in un altro ambiente. Cosicché viene il sospetto che in fondo si desideri che questo ambiente culturale alternativo rimanga non integrato.

 

Bibliografia:

  • Baumeister, R.F., Leary, M.R. The need to belong: Desire for interpersonal attachments as a fundamental human motivation. In «Psychological Bulletin», 117, 1995, pp. 497- 529.
  • Brewer, M.B. The social self: On being the same and different at the same time. In «Personality and Social Psychology Bulletin», 17, 1991, pp. 475-482.
  • Crocker, J., Major, B. Social stigma and self-esteem: The self-protective properties of stigma. In «Psychological Review», 96, pp. 608-630.
  • Major, B., Gramzow, R.H., McCoy, S., Levin, S., Schmader, T., Sidanius, J. Ideology and attributions to discrimination among low and high status groups. In «Journal of Personality and Social Psychology», 82, pp. 269-282.
  • Procacci, M., Pellecchia, G., Popolo, R. Il bisogno di appartenenza come motivazione autonoma». In M. Procacci, R. Popolo, N. Marsigni (a cura di ), «Ansia e ritiro sociale». Milano. Cortina, 2010, pp. 49-88.
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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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