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Per l’ultima giornata del congresso SITCC il Prof. Fabrizio Benedetti ha discusso in plenaria di effetto placebo: quell’affascinante interazione fra mente e corpo in cui eventi mentali complessi sono in grado di influenzare l’organismo e la sua chimica.
Il placebo è un farmaco o una terapia inerte, che di per sé non ha proprietà terapeutiche, nato per i gruppi di controllo nella ricerca scientifica. Negli anni però oltre alle scoperte sui farmaci, si è reso via via più evidente che nonostante fosse privo di un potere curativo intrinseco, anche il placebo produceva effetti simili alla cura che simulava. Perché?
Perché anche le parole cambiano il cervello.
Quando un medico somministra un farmaco ad un paziente non gli sta dando solo una molecola ma gesti, parole e strumenti insieme ad essa. E diversi studi mostrano che è il farmaco più il contesto psicosociale che lo accompagna (stimoli sensoriali e stimoli sociali) a mettere il paziente in uno stato di aspettativa positiva. È il rituale dell’atto terapeutico nella sua interezza a provocare il cambiamento dell’attività neuronale in grado di indurre un cambiamento clinico, in un eccezionale connubio tra biologia e psicologia.
Numerosi studi dimostrano che mettersi in uno stato di aspettativa positiva (di beneficio terapeutico) è un’attività mentale complessa e un’attività mentale complessa può produrre un cambiamento a livello cerebrale: tutti questi rituali infatti attivano gli stessi recettori e le stesse vie biochimiche dei farmaci riuscendo a produrre un cambiamento dell’attività neuronale.
Parlare di effetto placebo al singolare è però impreciso: esistono diversi meccanismi e diversi effetti placebo, i modelli più studiati sono quelli per il dolore e per il Morbo di Parkinson.
In questi due casi è stato provato che suggestioni verbali positive inducono aspettative positive nel paziente che hanno un effetto analgesico.
Le suggestioni verbali sono in grado di attivare i recettori oppioidi (i recettori mu, specifici per la morfina), gli endocannabinoidi, la via della ciclossigenasi e i recettori della dopamina, esattamente come fanno i farmaci.
Ci sono ovviamente delle differenze, precisamente: nella durata, variabilità e grandezza dell’effetto che sono minori con il placebo rispetto al farmaco.
Ma non solo, un’altra più curiosa differenza è che non tutti rispondono al placebo.
Per provare a spiegare come questo sia possibile sono state avanzate tre ipotesi principali:
- L’apprendimento: aver esperito l’efficacia di un farmaco porta il paziente ad avere fiducia nel farmaco stesso e dunque ad aspettarsi un effetto positivo dopo la sua assunzione. Questo gioca un ruolo fondamentale: lo dimostra il fatto che l’effetto placebo è più significativo in chi è stato esposto a trattamenti efficaci prima di prendere il placebo.
- La genetica: diversi genotipi rispondono bene al trattamento placebo, altri no.
- La personalità: chi presenta una predominanza di quelli che possono essere definiti tratti dopaminergici (chi cerca novità,rischio,…) sembra rispondere meglio al placebo.
La ricerca ha indagato anche gli effetti dei farmaci somministrati senza rituale (hidden drug) come controprova dell’effettiva influenza del contesto.
Il farmaco ha funzionato ma in una misura inferiore rispetto alla condizione precedente a conferma del modello dell’effetto placebo: la componente psicologica ha effetti rilevabili. Le aspettative del paziente attivano delle molecole del cervello che si vanno a legare agli stessi recettori dei farmaci, sebbene in aree diverse del cervello.
Gli effetti sono dunque additivi ma non solo: usando le medesime vie biochimiche dei farmaci, l’effetto placebo è in grado di modulare persino l’azione dei farmaci stessi.
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