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Il narcisismo di morte e l’illusione della Non Vita

Il narcisismo di morte è lo stato emotivo che, al di là di un senso di infallibilità supervalutante, nasconde il fantasma di un legame ferito

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 06 Set. 2022

L’introiezione dell’oggetto, mortifero e mortificante, della madre depressa può portare a un investimento illusorio nel Sé, fonte di un narcisismo siderale in cui l’iperinvestimento sul Sé cela il tentativo di nascondere un Sé interrotto, o ancor peggio inesistente.

 

La depressione e la rinuncia al Sé: il ruolo della “madre morta”

 Un vissuto depressivo è strettamente connesso alla disfunzionalità del contesto diadico. È infatti la madre che, con un atteggiamento contenitivo, riesce a dar vita ad un ambiente emotivo sintonizzato, permeato di un’interattività trasformativa cui il bambino può letteralmente aggrapparsi, in una sorta di grasping somatopsichico che lo sottrae ad angosce di frammentazione e annichilimento (Bick, 1963).

Il bambino cerca continuamente la madre, come fonte di vita e di scoperta del Sé: ella svolge un ruolo ausiliario, foriero di rassicuranti percezioni affettive maturate attraverso il canale sensoriale, quelle isole mnestiche destinate ad essere ricercate, come un’allucinazione gratificante, per il resto della vita (Mahler, 1968). Un abbraccio contenitivo, uno sguardo reciprocante, un contatto supportivo: sono i micro momenti diadici che il bambino afferra con volontà introiettiva, nutrendosi letteralmente della presenza della madre, per trarre dalla stessa il senso e la sicurezza del Sé (Bick, 1963).

Ma una madre assente e distaccata non è in grado di fornire questo aspetto securizzante. Una madre che non nutre emotivamente – ad esempio una madre depressa- è un oggetto che recide ogni tensione relazionale con il figlio, costringendolo a fronteggiare un abbandono traumatico, che non è possibile riparare se non con soluzioni altrettanto traumatiche e disfunzionali. Ella è una madre che resta in vita e muore psichicamente, tramutandosi da un oggetto vivo ad un Non Oggetto, abulico e inanimato, che impregna di sentimenti di lutto e mancanza la relazione stessa (Green, 1983).

Il bambino non si arrende subito a questo rifiuto: all’inizio cerca di ripristinare l’attenzione della madre, prova a rianimarne la vitalità, si sforza di ristabilire un contatto oculare con lei, ricorre persino a tentativi autoconsolatori. Solo dopo aver dato fondo a tutti i possibili espedienti l’infans realizza l’assenza psichica dell’oggetto materno; ed anche allora, pur di non separarsene completamente, accetta di interiorizzarne la presenza così come la percepisce. Fredda, abulica, avitale.

L’introiezione di questo oggetto, mortifero e mortificante, causa una serie di conseguenze devastanti:

  • la rinuncia ad una reciprocità relazionale, che comporta l’impossibilità di investire affettivamente e di instaurare una relazione che non sia meramente opportunistica;
  • la percezione di aver perduto definitivamente tutti gli oggetti buoni, da cui  si originano la negazione della dipendenza e l’incapacità di rispecchiarsi affettivamente nell’altro;
  • l’introiezione di un oggetto privo di vita, che si incista nel bambino come un Sé alieno e sabotante;
  • l’identificazione distruttiva con questo oggetto, che provoca l’interruzione dell’idioma del Sé (Bollas, 1999) e la demolizione dello stesso nucleo identitario;
  • un investimento illusorio nel Sé, fonte di un narcisismo siderale in cui l’iperinvestimento sul Sé cela il tentativo di nascondere un Sé interrotto, o ancor peggio inesistente.

La madre morta aveva portato via, nel disinvestimento di cui era stata oggetto, l’essenza dell’amore di cui era stata investita prima del suo lutto: il suo sguardo, il tono della sua voce, il suo odore, la traccia delle sue carezze. La madre amata del tempo che fu “era stata sepolta viva, ma la sua stessa tomba era scomparsa. Il buco che stava al suo posto faceva temere la solitudine, come se l’oggetto rischiasse di sprofondarcisi anima e corpo (Green, 1983, p. 280).

L’origine della madre morta e i “fantasmi nella culla”

I motivi di una depressione materna possono essere molteplici, e non tutti facilmente identificabili: ad esempio una gravidanza non desiderata o stressogena, angosce persecutorie, un vissuto abbandonico che la presenza del bambino spinge a ridestare dalla dimensione inconscia in cui era stato sepolto. A volte la madre è coinvolta in un rapporto di coppia frustrante, o porta con sé il lutto di una perdita affettiva lacerante (un genitore scomparso durante l’infanzia o un aborto recente); oppure la gravidanza enfatizza gli effetti patologici di un disturbo depressivo pregresso.

In ogni caso la depressione compromette la potenzialità responsiva della dimensione genitoriale, trasformando la madre in un oggetto affettivamente e materialmente deficitario.

Un umore flesso e anedonico raggela ogni velleità di vicinanza verso il bambino, disegnando i confini di uno spazio relazionale gelido e incolmabile. In molti casi è lei stessa a caricare il figlio di richieste compensative, adultizzandolo con responsabilità del tutto inadeguate. In altre occasioni lo percepisce come un oggetto estraneo, malvagio, o un intruso che si ciba delle sue risorse e dal quale si sente letteralmente invasa.

Non v’è nulla, nella genitorialità depressa, della maternità significante che dà la vita.

L’infans diventa la meta incidentale di pulsioni rabbiose, ab origine destinate verso oggetti abbandonici o irreversibilmente perduti; lutti evitati, oggetti parziali, lati sincretici della personalità tornano a farsi avanti con irruenza, frapponendosi nello spazio tra la madre e la culla. Ma anche traumi non risolti, introietti persecutori, vissuti di un’esperienza filiale inappagata possono riemergere con finalità rabbiosa e rivendicante.

 Sono quelli che Selma Fraiberg (1975) definisce suggestivamente come i “fantasmi nella stanza del bambino”: null’altro che rievocazioni di un vissuto doloroso, frammenti mnestici che hanno preso residenza nella mente della madre, impedendole di varcare con pulsioni affettive lo spazio psichico del figlio; il retaggio di un’eredità crudele, una sorta di lascito tormentoso che condanna all’eterna ripetizione di se stesso, dando vita ad un dolore senza tempo (Fraiberg, 1975; 1977).

Le transazioni di investimenti, affetti e fantasmi disegnati nella relazione diadica affondano le radici in un passato materno prelogico e presimbolizzato, scrutabile in un estrinsecarsi “trigenerazionale” (Lebovici, 1983). Quindi non è coinvolto soltanto il vissuto infantile della generazione materna, ma anche quello delle due generazioni precedenti, il cui contenuto di segreti, fantasie e aspettative, può aver contribuito ad influenzare la genitorialità, finanche determinandone la natura.

Sulla spinta di questo passato “presentificato” la madre inscrive il bambino in un circuito generazionale, abdicando alla propria funzione diadica; dunque il bambino non è più figlio suo, ma di tutta la famiglia. Comprese le “generazioni non generative” che l’hanno preceduta, e che con il loro contenuto persecutorio, costantemente in azione e retroazione, ne hanno precluso l’aspetto vitale.

Narcisismo di morte

La mancata interiorizzazione di un oggetto attendibile diviene un fantasma psichico persecutorio, inscindibilmente connesso a Tanatos (Freud, 1922; Spitz, 1958).

La trasformazione nella vita psichica, al momento del lutto improvviso per la perdita della madre che disinveste bruscamente suo figlio, è vissuta dal bambino come una catastrofe […] perché l’amore è stato perduto di colpo, senza segno di preavviso (Green, 1983, p. 138).

Il disamore per la madre si tramuta in amore per il Sé, ma si tratta di un investimento affettivo sterile, perché incapace di recepire l’alterità e di costruire una gratificante dimensione relazionale simmetrica e scambievole, in cui l’amore deriva da un’intenzione arricchente condivisa, e non da un’autoerotizzazione fantasticata.

L’aspettativa relazionale è assente, non esiste amore né tensione oggettuale, ma solo l’onnipotenza emergenziale di un Sè deluso dagli oggetti primari.

È quello che Green chiama il narcisismo di morte (1983), intendendo con questo termine lo stato emotivo che, al di là di un senso di infallibilità supervalutante, nasconde il fantasma di un legame ferito che impedisce la resilienza e l’elaborazione di un dolore arcaico.

Il Sé morto del narcisista è il Sé del bambino la cui istanza vitale è stata negata dalla madre.

Egli si compiace del proprio vuoto e cerca di arricchirsene, ma la sua esistenza è il frutto di una mera apparenza (Bollas, 2022). Per sopravvivere al no della madre, egli è stato costretto a negare la sua stessa esistenza. A renderla un Non Oggetto. A de vitalizzarla, a trasformarla in una Non-Cosa, assente e tuttavia capace di distruggerlo.

A dispetto dell’onnipotenza dietro cui si trincera, il narcisista non cessa di essere quel bambino rifiutato, ucciso da una madre che, con la sua morte, lo ha privato della vita. E con questa non vita egli si rivitalizza, contagiando col proprio istinto mortifero un’esperienza vitale originata da un Non Essere, da un incontro mancato, da una fallita evoluzione. E dunque soltanto apparente.

Nel narcisismo di morte tutto deve essere negato, per esistere veramente: l’altro, affinché la sua presenza non invada i fragili confini dell’Io, polverizzandone l’illusoria onnipotenza (il c.d. Narcisismo Anale, Green, 1983); la dipendenza oggettuale, di cui si rifiuta il valore grato e gratificante; lo stesso Sé, considerato una Non Cosa, in quanto originato da un autoinganno, la menzogna compensativa di un rifiuto distruttivo.

E se anche l’affetto deve essere negato, perché frutto di una bugia crudele, ecco che il narcisista riempie il vuoto emozionale ricorrendo all’iperproduzione intellettiva, un’identità “riflettente” ma non riflessiva, un iperinvestimento epistemologico con cui analizza i sentimenti in una prospettiva autoptica, al solo fine di controllarne il flusso imprevedibile. Ma il pensiero stesso del narcisista è un Non Pensiero. Un’altra menzogna, un’altra mera apparenza: privato di un idoneo apparato per pensare – ove il pensiero corrisponde ad uno strumento di contenimento, rielaborazione e trasformazione (Bion,1962), le sue speculazioni raziocinanti non sono che l’illusoria conversione di un pensiero non pensabile, di un’angoscia senza nome evacuata in una Ragione irrazionale.

Tra narcisismo libidico e narcisismo di morte

Il narcisista reputa il Sé onnipotente, ed è solo sul Sé che imbastisce la propria dimensione inter ed intrapsichica. Potremmo definirla una reazione difensiva, potenzialmente adattativa: il bambino investe nel Sé per non lasciarsi travolgere dall’assenza materna. Lo stesso Reich (1933) sostiene che il carattere sia una forma di protezione narcisistica, e che le struttura difensive stabilite durante l’infanzia siano finalizzate a fronteggiare più o meno adattivamente i vissuti ansiogeni di separazione. Ma in questo narcisismo c’è ben poco di adattivo. Ben poco di salvifico. Esso prende le sembianze di una corazza isolata, raggelante, in cui l’amore per il Sé non è autentico amore, e neppure il Sé iperinvestito è reale, perché indebolito da vissuti frustranti e privativi che ne hanno impedito la coesione.

In termini adattivi il narcisismo comporta effetti valorizzanti, arricchenti e confermativi. È un modo per esaltare il Sé riconoscendosi nell’altro, e per trovare in questo riconoscimento un appagamento vitale, una gratificazione reciproca.

Nel narcisismo libidico, pur essendo presente un’autoidealizzazione, è possibile individuare degli elementi utili alla costruzione di una sana autostima. Il narcisismo di morte, al contrario, è foriero di un’onnipotenza illusoria, costruita sulla base di un introietto materno abbandonico che ha sabotato, con la sua presenza-assenza, ogni tensione vitale. Per quanto presente, l’idealizzazione è rivolta alle parti non vitali del Sé, quelle che negano le relazioni oggettuali positive e i bisogni di dipendenza, sotto la spinta di un Sé improduttivo originato dall’introiezione della madre morta (Rosenfeld, 1987).

Alla base del narcisismo di morte latita pertanto una pulsione subdola e occulta, non integrata con quella di vita, che “si oppone ad ogni progresso, e che implica una profonda attrazione per la morte e la distruttività….spesso il narcisista crede di aver distrutto per sempre il suo Sé capace di amore e di affettuosa sollecitudine per gli altri, e che nulla e nessuno possa cambiare questa situazione” ( Rosenfeld, 1987, p. 102).

Questa immobilità nichilistica, questa desertificazione dell’Io, si ripete drammaticamente nel setting terapeutico, rendendo difficile la costruzione di una relazione reciprocante e produttiva (Green, 2011). L’attaccamento identificativo alla madre morta – proposto come una coazione a ripetere – rende questi analizzandi refrattari ad ogni accesso comunicante, facendo naufragare l’operato del terapeuta in un controtransfert frustrato e avvilente: “Sono pazienti che nel trattamento mostrano un’assoluta indifferenza, come se nulla li toccasse, e a qualsiasi spiegazione del terapeuta rispondono: “E allora? Cosa me ne faccio? E con questo? Ciò significa che tutto ciò che arriva dal terapeuta viene immediatamente distrutto. Non succede niente, e il paziente dice: faccia qualcosa, se ci riesce. Si può andare avanti così per anni” ( Kernberg, 2020, p. 19). E ancora:

Questi analizzati, pur in pieno calore, si lamentano di sentire freddo. Hanno freddo sotto la pelle, nelle ossa, si sentono paralizzati da un brivido funereo, avviluppati in un loro sudario (il nucleo congelato dell’amore per la madre morta). Non sono più costoro a vivere, ma è l’altro morto a vivere in loro, e ciò dà origine ad un’illusione generativa (Green, 1983, p. 223).

Ecco la trappola, l’inganno più illusorio del narcisismo. Il Sé onnipotente cela la terrifica realtà di un Non Sé.

Ma è proprio nella fedeltà a questa pulsione antievolutiva che il narcisista trova il senso della non Vita, è in questa dipendenza dall’oggetto cattivo che si sente vicino a quella “madre morta” della quale non è riuscito a liberarsi. Piuttosto che separarsene completamente egli ne ha introiettato l’aspetto mortifero. Piuttosto che non sentirsene amato ha scelto di gratificarsi con il suo Non Amore.

“Tutto il dolore viene dal vivere”, sostiene Hanna Segal (1993). La vita stessa è una lotta, un compromesso continuo tra la pulsione di vita e quella di morte ( Freud, 1922).

Il narcisista ha scelto quest’ultima, e il senso nichilistico e annullante di cui Tanatos si fa portatore. Animato da inconsce fantasie di autodistruzione, rabbiose e ferine, solo distruggendo se stesso e l’altro egli sente di esistere: perché solo questa pulsione annichilente gli permette di dar vita a quella Non Madre che ha stabilmente interiorizzato, rendendola un fattore ostruttivo e distruttivo del Sé.

Non v’è nessun alone di vita nel narcisismo. Esso incarna piuttosto il vessillo di una sconfitta vitale. Il simbolo di una vita generata dalla morte.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bick, E. (1963) Notes on infant observation in psycho-analytic training. International Journal of psycho-analysis, 45, 558-566;
  • Bion, W. (1962) Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma;
  • Bollas, C. (1999), Il mistero delle cose: la psicoanalisi come forma di conoscenza, Raffaello Cortina, Milano, 2001;
  • Bollas, C. (2022) Tre caratteri. Narcisista, borderline, maniaco-depressivo,  tr. It. Raffaello Cortina, Milano;
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  • Fraiberg, S. (1977), Gli anni magici: i problemi dell’infanzia dalla nascita all’adolescenza, Armando, Roma;
  • Freud, S. (1922) L’IO E L’ES, Vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino;
  • Green, A. (1983)  Narcisismo di vita e narcisismo di morte, Borla, Roma;
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  • Segal, H. (1993), On the clinical usfulness of the concept of the Death Instinct, in Psychoanalysis, Literature and War, Paper, 1972-1975, Routledge, London;
  • Spitz, (1958) Il primo anno di vita del bambino, Giunti, Firenze.
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