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Non lavorare stanca. Il cambiamento del concetto di lavoro dall’antichità a oggi

Nel mondo moderno la realizzazione sociale dell'individuo cominciò ad essere vista come indissolubilmente legata al lavoro e alla funzione lavorativa

Di Francesco Consiglio

Pubblicato il 16 Nov. 2022

Come è cambiata la concezione del lavoro all’interno dalla società dall’antichità al mondo contemporaneo? Ripercorriamone le trasformazioni.

 

Il concetto del lavoro nell’antichità

Nell’antica Grecia il lavoro era considerato un impedimento allo sviluppo delle facoltà superiori. Nell’Economico, un dialogo di Senofonte, ascoltiamo Socrate sostenere che il lavoro manuale priva gli uomini della possibilità di avere cura degli amici e della città, cosicché chi vi si dedica è considerato un pessimo amico e pessimo difensore della patria.

Anche Platone e Aristotele consideravano negativamente le attività manuali, definendole appannaggio degli istinti bruti. La ragione principale del disprezzo era da riscontrare nel fatto che la società greca si basava sul lavoro degli schiavi, mentre l’uomo libero, quando non era impegnato in battaglia, conosceva unicamente gli esercizi ginnici, la filosofia, i giochi di intelligenza.

Aristotele afferma che lo schiavo è soltanto un esecutore di ordini, un mero strumento di lavoro, incapace di essere creativo e apportare idee e miglioramenti alle sue attività. L’opinione diffusa era che, in un mondo ideale, l’uomo non dovesse lavorare, ma gli dèi, per loro espressa volontà, lo avevano privato dei mezzi di sussistenza, facendolo decadere dalla mitica età dell’oro ad una condizione di regresso e dolore.

Nel mondo classico romano, esisteva un dualismo tra otium e labor, dove l’otium era da preferire in quanto volontario uso delle proprie forze da parte di uomini che si ritenevano liberi dal bisogno di faticare per procurarsi il cibo. Il termine latino labor significava pena, fatica, sofferenza. Laborare voleva dire essere alle prese con un’attività difficoltosa e per nulla gratificante.

Intorno all’anno 1000, il francese travail, con cui oggi si designa il lavoro, era usato per indicare uno strumento di tortura, il tripalium, costituito da tre paletti al quale si legavano i condannati. Travailler voleva dire torturare e il boia era chiamato travailleur. Stessa derivazione in spagnolo, dove vorrei far notare che trabajo, oltre che lavoro, significa ancora oggi mettere al mondo, partorire. La mente vola al passo della Genesi in cui Dio dice alla donna colpevole di avere mangiato dall’albero della conoscenza: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, e con dolore partorirai i tuoi figli”. Il trabajo come esercizio punitivo della divinità.

Il discorso si farebbe assai lungo se volessimo indagare i dialetti. In Sicilia e in Sardegna il lavoro viene definito travagliu e traballu, alla maniera francese e spagnola. Nel vocabolario dei napoletani non esiste la parola lavoro, al suo posto c’è fatica.

Il disprezzo per il lavoro manuale si mantenne per tutto il Medioevo, alimentato dalla contrapposizione tra lo stato contemplativo, inteso come un dono che Dio concede agli ecclesiastici, e la condizione di sofferenza di chi è costretto a procurarsi il pane con il sudore del suo volto. Unica eccezione, la Regola di San Benedetto, ora et labora, letteralmente “prega e fai fatica”, che poneva l’accento sulla necessità di quella parte dell’esistenza che ancora oggi i benedettini dedicano alla conduzione del convento, dei giardini, dell’amministrazione e della foresteria.

Con il protestantesimo di Lutero e Calvino si realizzò una rivoluzione concettuale: il lavoro smise di essere un castigo divino e diventò un modo per trasformare in meglio ciò che Dio ha donato agli uomini. Scrive infatti Lutero: “Quelli che non difendono e non mantengono nessuno, ma consumano, oziano e impoltroniscono soltanto, il principe non dovrebbe tollerarli nel suo paese, ma cacciarli o costringerli a lavorare: come fanno le api, che cacciano via i fuchi che non lavorano e mangiano il miele delle altre api”.

Per Calvino, solo alcuni uomini sono predestinati ad essere salvati dalla Grazia di Dio, indipendentemente dai loro meriti o colpe, e ciò implica una negazione del libero arbitrio. Chi volesse conoscere in anticipo l’identità dei salvati dovrebbe guardare ai loro stili di vita. Per l’etica calvinista, un uomo laborioso che accresce onestamente la propria ricchezza dimostra di essere benedetto da Dio ed è perciò una bestemmia disapprovarne l’attitudine al lavoro.

Il concetto di lavoro nel mondo moderno

Nel mondo moderno la realizzazione sociale dell’individuo cominciò ad essere vista come indissolubilmente legata alle funzioni lavorative.

Liberarsi del lavoro divenne un’idea da pazzi, irrealizzabile nella nascente società industriale. Anche agli occhi di Marx, il lavoro è potenzialmente una manifestazione di libertà e realizzazione, e il limite dei sistemi politici sta nel non essere riusciti a trasformarlo in qualcosa di attraente che costituisca l’autorealizzazione dell’individuo. Non è dunque il lavoro che va demonizzato, ma i suoi aspetti schiavistici.

Rimasero inascoltate alcune voci contrarie. Nietzsche scrisse che il lavoro è una sorta di polizia di Stato che controlla i cittadini e li rende mansueti, poiché “chi lavora è innocuo, nel lavoro consuma la maggior parte della sua energia nervosa che viene sottratta alla riflessione, al sogno, all’amore o all’odio e soprattutto a ogni seria forma di progettualità”. Paul Lafargue, scrittore e genero di Marx, pubblicò nel 1887 un polemico pamphlet intitolato Le droit à la paresse (Il diritto alla pigrizia) nel quale deplora la follia che si era impadronita di uomini e donne della società capitalista: l’amore per il lavoro.

A queste riflessioni nessuno bada più. Oggi la disoccupazione viene fuggita come la peste. Le donne e gli uomini occupano gran parte del loro tempo a lavorare e amano definirsi attraverso i consumi, le vacanze, i viaggi.

Il lavoro non garantisce solamente un salario, ma anche una rispettabilità sociale, la possibilità di creare relazioni, un senso di autostima. Provate a conoscere gente nuova e la prima domanda che vi sentirete rivolgere è: “Cosa fai nella vita?”, come se lavoro e identità personale fossero inscindibili. Un chirurgo che incontra una persona non avrà difficoltà a rispondere, ma pensiamo a un disoccupato: egli proverà vergogna nel definirsi tale. Diversi studi scientifici hanno dimostrato che la disoccupazione incide sul benessere generale degli individui, provocando ansia, stress e depressione.

Difficile pensare a un tempo futuro in cui l’otium torni ad essere più importante del negotium.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Avallone A. (2021) Psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Costruire e gestire relazioni nei contesti professionali e sociali. Carocci, Roma.
  • Cortellazzo M. ZOLLI P. (1979) Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna.
  • Godelier M. (1979), Lavoro, in Enciclopedia Einaudi, vol. XII. Einaudi, Torino.
  • Negri A. (1980) Filosofia del lavoro. Marzorati, Milano.
  • Rutigliano E. (2011) Lavoro: appunti per la metamorfosi di un concetto, in Quaderni di Sociologia n.57. Rosenberg & Sellier, Torino.
  • Tilgher A. (1983) Storia del concetto di lavoro nella civiltà occidentale (homo faber). Massimiliano Boni Editore, Bologna.
  • Totaro F. (1997) Ripensare il valore del lavoro, in Bellotto M. (a cura di) Valori e lavoro. Franco Angeli, Milano.
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