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Il contributo di Roberto Lorenzini al cognitivismo clinico

Oggi ricorre il secondo anniversario della morte di Lorenzini, in questo articolo si ripercorrono le tappe principali del contributo teorico e clinico che Roberto Lorenzini ha sviluppato lungo l’arco di un quarantennio all’interno del movimento cognitivista.

Riassunto

 È riassunto il suo pensiero, i primi contributi in collaborazione con Sandra Sassaroli relativi all’inquadramento dei disturbi d’ansia che prefigura la svolta processuale, dei disturbi di personalità con il collegamento tra i pattern di attaccamento e la personalità attraverso la mediazione dello stile di conoscenza e della patologia grave riguardante principalmente la dimensione delirante, dimensione che, secondo l’autore, attraversa tutta la psicopatologia ed è presente anche nel pensiero comune.

Nell’excursus si ricapitolano altri contributi che riguardano la psicologia evolutiva “scopi-credenze”, la massimizzazione della capacità predittiva che presuppone, attraverso l’eliminazione degli errori, la gestione delle invalidazioni, la terapia modulare con il superamento dell’applicazione rigida dei protocolli per trattare processi e credenze presenti nei disturbi d’ansia con moduli d’intervento specifici, la formulazione del caso con l’importanza attribuita alla storia di vita del paziente e vari contributi su temi specifici.

Si sottolinea l’importanza del lascito culturale e morale di questo autore, recentemente scomparso, che ha fatto parte per lungo tempo del mainstream del cognitivismo clinico.

Il contesto culturale

Roberto Lorenzini, dopo aver conseguito la Laurea in Medicina e la specializzazione in Psichiatria, dal 1983 al 1986 frequentò il corso quadriennale di formazione alla psicoterapia cognitivo comportamentale della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) con Cesare De Silvestri, uno dei maggiori artefici della diffusione in Italia della Rational Emotive Behaviour Therapy (REBT). Entrò così a far parte di un gruppo di psichiatri romani, Francesco Mancini, Sandra Sassaroli e Antonio Semerari, che costituivano la scuola romana cognitivista, tra i cui esponenti di spicco vi erano Vittorio Guidano e Giovanni Liotti di una decina di anni più anziani degli altri. In quegli anni, dopo la prima diffusione del comportamentismo importato da Victor Meyer, si andava diffondendo la seconda ondata del cognitivismo sulla scia dei paradigmi di Aaron Beck e Albert Ellis con una vena di originalità, molto apprezzata a livello internazionale, illustrata in “Cognitive processes and emotional disorders: a structural approach to psychotherapy” che vinse il premio Guilford Press negli Stati Uniti come miglior volume di psicoterapia pubblicato nel 1983. Il libro di Guidano e Liotti ha rappresentato uno dei nuclei teorici da cui sono partiti i successivi sviluppi del cognitivismo italiano. Era presente lo sforzo di unire una dimensione strutturale-organizzativa ed evolutiva alla spiegazione della psicopatologia e una dimensione, forse meno marcata, integrativa e regolativa-processuale. Sicuramente, il contributo di Guidano e Liotti ha stimolato il dibattito e la riflessione sia a livello nazionale, sia a livello internazionale e favorito una temperie culturale in cui nasce la collaborazione stretta tra Roberto Lorenzini e Sandra Sassaroli, sua relatrice alla tesi di specializzazione in Psichiatria all’Università Cattolica Agostino Gemelli nel 1982, che produce il primo contributo rilevante, tradotto in più lingue, “La paura della paura” (Lorenzini e Sassaroli, 1987).

Nel 1983, il nostro, aveva iniziato a lavorare nel servizio pubblico con passione e dedizione verso quelli che chiamava “i matti veri”. Eravamo agli albori della Riforma Sanitaria (L. 833/78) e della Legge Basaglia (L. 180/78) che disegnava la chiusura degli Ospedali Psichiatrici e l’organizzazione di una psichiatria territoriale volta all’inclusione e alla riabilitazione dei malati, più attenta alla prevenzione e alla salute mentale che al controllo sociale. L’entusiasmo dei professionisti della salute mentale che si sono trovati a lavorare in psichiatria è stato l’elemento che più di ogni altro ha caratterizzato la prassi operativa in questo periodo storico.

Questo entusiasmo e la sua riconosciuta autorevolezza, qualche anno più tardi, portarono Lorenzini al vertice del Dipartimento di Salute Mentale della ASL di Viterbo, ma non essendo molto contiguo alle dinamiche di potere, sarà questo per lui un periodo molto stressante che culminerà con il primo episodio di malattia.

Al nostro piaceva sporcarsi le mani con quell’umanità traviata che percorreva traiettorie stigmatizzate. Nell’ultima parte della sua, purtroppo, breve vita raccolse molte storie di pazienti e terapie in alcuni libri (“Psicopatologia Generale”, 2010; “Storie di Terapie”, 2013; “Trame di Vita Intrecciate”, 2016; Scampoli, 2018), che traspirano tutta la sua abnegazione e il suo sense of humor, mai contrapposti a un rigore tecnico e a un’appropriata competenza con cui affrontava la psicopatologia, sempre con il massimo rispetto del malato.

Era arrivato al cognitivismo leggendo Matte Blanco, quella lettura era stata per lui una folgorazione, giacché la psicodinamica non l’aveva mai conquistato. Diceva spesso che era intrisa di spiegazioni ad hoc, qualsiasi interpretazione poteva essere plausibile, e lui, appassionato di epistemologia – era un cultore di Popper, ma conosceva bene anche Kuhn, Fayerabend e Lakatos –, non poteva accettare spiegazioni astruse, molte delle quali erano dal suo punto di vista incomprensibili. Per carità, massimo rispetto per Freud e i suoi epigoni per il ruolo storico svolto, ma lui, appassionato di matematica e logica, aveva una prospettiva meno soggettiva e romantica, più aperta all’autenticità dell’incontro che non doveva certo penalizzare le linee guida di trattamento validate empiricamente.

Il primo periodo: la collaborazione con Sandra Sassaroli

Ripartiamo, però, dal primo lavoro che suscitò un grande interesse, “La paura della paura: Riconoscere e curare le proprie fobie” edito da La Nuova Italia Scientifica nel 1987. Nel libro si mettevano in evidenza i circoli viziosi del panico in una prospettiva di costruttivismo realista. Infatti, Lorenzini e Sassaroli avevano all’epoca pubblicato diversi articoli su riviste nazionali e internazionali sulla teoria dei costrutti personali di George Kelly. I nostri sostenevano che “La sofferenza psicologica si verifica se, dopo una previsione o dopo molte previsioni errate, dopo che le ipotesi sulla realtà si dimostrano false, il sistema non riesce a integrare questa falsificazione, ma in diversi modi la ignora o la rifiuta o la disconosce” (Sassaroli e Lorenzini, 1987, p. 102). I riferimenti citati erano Karl Popper, Jean Piaget e George Kelly. Così la lettura errata dell’emozione che non è riconosciuta come tale, l’evitamento, il controllo, il rimuginio fanno si che” la paura della paura cresca e si innesti così il circolo vizioso che fa sperimentare al soggetto un’ansia sempre più crescente e un pericolo sempre più forte” (Sassaroli e Lorenzini, 1998, p. 76). Se vogliamo, possiamo riscontrare in questa impostazione i germi di un approccio processualista che si svilupperà nel mondo cognitivo-comportamentale molti anni dopo. Infatti, i due parlavano di stili di conoscenza piuttosto che di credenze sul sé, e questi concetti saranno sviluppati più tardi, soprattutto nel lavoro del 1995 su “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità”. Come sostiene Giovanni Maria Ruggiero “preferendo la nozione funzionalista di stili di conoscenza a quella contenutistica di credenze sul sé, prefiguravano la svolta processuale” (Ruggiero, 2022, p. 189).

Il costruttivismo di Lorenzini e Sassaroli (1987, 1995) ha consentito anche di recuperare alcuni aspetti importanti trascurati dalla terapia cognitiva standard: il ruolo dei significati personali e della storia di vita all’interno della formulazione del caso clinico. Questa impostazione riprendeva una tradizione del comportamentismo (Meyer e Turkat 1979; Turkat, 1985) permettendo di condividere con il paziente il suo funzionamento e concordare gli obiettivi del trattamento e la gestione del processo terapeutico. In anni recenti il nostro ha avuto modo di illustrare un modello di formulazione del caso in cui l’evoluzione verso una psicologia “scopi-credenze” è ampiamente e dettagliatamente illustrata (Lorenzini et al., 2021).

Attaccamento, Conoscenza e Disturbi di Personalità

Tracciando le tappe principali di un’elaborazione teorico-concettuale sviluppatasi nell’arco di un quarantennio dobbiamo rilevare che il punto più alto della collaborazione tra Lorenzini e Sassaroli fu raggiunto con il volume “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità” del 1995, nel quale i due autori mettono in relazione lo stile di conoscenza personale, la relazione d’attaccamento e le diverse caratteristiche stabili di personalità.

L’idea portante è la motivazione del comportamento degli esseri viventi volta alla costruzione di mappe sempre migliori di sé stessi e dell’ambiente. La costruzione della conoscenza che avviene per congetture e confutazioni, in quest’ottica, è fondamentale e dovrebbe portare alla massimizzazione della capacità predittiva che presuppone, attraverso l’eliminazione degli errori, la gestione delle invalidazioni. Così il sistema cognitivo si arricchisce utilizzando creatività e imitazione. Sono definiti quattro stili cognitivi: la ricerca attiva che esplora e allarga i confini della conoscenza; l’evitamento che restringe il campo e cerca di non incorrere in invalidazioni; l’immunizzazione che annulla gli effetti dell’invalidazione; l’ostilità che scredita la fonte dell’invalidazione.

La crescita della conoscenza è dovuta alla capacità di relazionarsi degli esseri umani, in primis con la figura d’attaccamento, anche se alcuni criteri epistemologici si stabilizzano ancor prima che si possa parlare di relazione d’attaccamento, e della nascita degli Internal Working Model per effetto della conoscenza innata concernente quattro domini: gli scopi, le percezioni, le azioni, le emozioni che determinano gli stati di benessere e di malessere e gli schemi d’azione che li riproducono.

Gli stili cognitivi sono comunque in relazione agli stili d’attaccamento: stile ricerca attiva/attaccamento sicuro; stile immunizzante/attaccamento insicuro-evitante; stile evitante/attaccamento insicuro-resistente; stile ostile/attaccamento disorganizzato. La personalità si articola sullo stile cognitivo e nei disturbi di personalità è particolarmente evidente. Esiste quindi una via che collega i pattern di attaccamento e la personalità attraverso la mediazione dello stile di conoscenza (Lorenzini e Sassaroli 1995, p. 8-10).

Anche l’approccio di questo libro in fondo è processualista perché non accetta una visione dei problemi dell’attaccamento come problemi di tipo deficitario o strutturale ma li colloca su modalità di apprendimento del rapporto con la realtà e della gestione delle emozioni.

Spunti molto interessanti che avrebbero avuto bisogno di una validazione empirica rispetto alla correlazione dei tre fattori, stile di attaccamento, stile di conoscenza e caratteristiche di personalità. Ultimamente Peter Fonagy e i suoi collaboratori (2019) stanno portando avanti uno studio su un fattore, definito epistemic trust (ET) che si riferisce alla fiducia nella conoscenza comunicata. Secondo l’autore la posizione epistemica svolge un ruolo importante nel minare l’adattamento e aumentare il rischio di sviluppo di problemi di salute mentale. Alcuni studi hanno rilevato che diversi stili di attaccamento sono associati a differenze di posizione epistemica (Campbell et al., 2021).

Per Fonagy l’epistemic trust rappresenta un elemento transdiagnostico, insieme all’apprendimento sociale e al miglioramento della mentalizzazione, importante per trattare qualsiasi tipo di psicopatologia. Questo concetto di fiducia epistemica ha molte analogie con gli stili di conoscenza di “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità”. Le ricerche e gli studi empirici condotti dal suo gruppo sono ancora in una fase preliminare e sarà molto interessante seguirne gli sviluppi.

La terapia modulare e l’approccio “scopi-credenze”

Le strade di Sassaroli e Lorenzini iniziarono a divergere nel 2006, l’una imboccò decisamente il percorso del processualismo e dei modelli clinici formalizzati in protocolli, mentre l’altro, pur apprezzando gli interventi supportati empiricamente, rifuggì una modalità rigida di applicazione di procedure e tecniche e seguì linee guida flessibili e un modello di terapia modulare. Nel libro del 2000 “La mente prigioniera” questa differenziazione iniziò a manifestarsi. Il libro definiva un modello semplice e comprensibile con linee strategiche d’intervento per diversi disturbi, un modello che si era andato definendo negli anni di collaborazione e di lavoro clinico. Erano utilizzate categorie d’analisi che avevano suscitato l’interesse dei due da sempre: le credenze e i processi implicati nei disturbi d’ansia, la massimizzazione della capacità predittiva, il falsificazionismo popperiano, gli studi sull’attaccamento, l’approccio scopistico, gli insegnamenti della REBT, le teorie psicologiche naif. L’elaborazione successiva di questo lavoro pubblicata in “Psicoterapia cognitiva dell’ansia” (Lorenzini, Sassaroli e Ruggiero, 2006) presenta ancor più gli accenti di questa differenziazione. Infatti, è in questo volume che Sassaroli accenna per la prima volta al rimuginio e alla ruminazione e Lorenzini alla terapia modulare.

Le diagnosi non sono persone e le persone non sono le loro diagnosi” (Lorenzini, 2006, p. 371). Lorenzini espone la sua proposta di una terapia commisurata a ogni paziente che tenga in considerazione la sua specificità e complessità senza rinunciare al rigore scientifico, alla manualizzazione dell’intervento e alla valutazione dell’efficacia. Spinge verso un superamento dell’applicazione rigida dei protocolli per trattare processi e credenze presenti nei disturbi d’ansia con moduli d’intervento specifici. Quindi, non fa riferimento al trattamento completo applicando il protocollo per l’intero disturbo, ma applica nel tempo diversi moduli per i diversi aspetti specifici di malfunzionamento del paziente, “mini protocolli d’intervento trasversali ai vari disturbi che agiscono a livello molecolare piuttosto che molare del disturbo” (Lorenzini, 2006 p. 374).

La psicologia evoluzionistica, la teoria dell’attaccamento, la psicologia “scopi-credenze”, la terapia modulare, la psicopatologia come disfunzione del normale processo di crescita della conoscenza caratterizzerà ancora il lavoro di Lorenzini, che ha sempre manifestato una forte avversione verso regole assolute, categorie, protocolli, setting rigidi che vadano a intralciare “l’incontro tra due anime, fulcro vitale di ogni psicoterapia” (Lorenzini, 2020).

L’uomo è un agente cognitivo orientato da scopi e guidato da credenze. Le conoscenze orientano le scelte e incrementano la capacità predittiva.

 Le credenze guidano al raggiungimento degli scopi e se si articolano in teorie efficaci, migliorano l’adattamento. Se si rivelano inefficaci in un sistema ben funzionante sono modificate continuamente e ricorsivamente quando le emozioni forniscono informazioni sul posizionamento rispetto allo scopo perseguito, in modo da aggiustare le strategie e cambiare o abbandonare lo scopo stesso. Le invalidazioni producono l’accrescimento della conoscenza e un buon adattamento (Lorenzini, 2010).

Vedremo in seguito come partendo da questa concettualizzazione Lorenzini spiegherà anche la psicopatologia grave.

Il contributo alla sessuologia

Nel 1991 Lorenzini si era occupato di sessuologia con diversi articoli, e sempre in quegli anni registrò degli audiovisivi educativi condotti con Giorgia Della Giusta e pubblicò con Antonio Fenelli –con cui gestiva la Scuola di Sessuologia Clinica del Centro Italiano di Sessuologia– “Clinica delle disfunzioni sessuali” (Lorenzini e Fenelli, 1991), testo sull’approccio mansionale integrato che reinterpreta secondo una prospettiva cognitivo-costruttivista le tradizionali terapie sessuali d’impronta comportamentista. Il libro ha avuto numerose ristampe, l’ultima è del 2016. Lorenzini continuerà a svolgere formazione e attività clinica in quest’ambito durante tutta la sua carriera professionale.

La patologia grave e il delirio

Prima di muoversi su “convergenze parallele”, utilizzo questo ossimoro preso in prestito dal linguaggio politico della Prima repubblica poiché, in definitiva, una certa collaborazione c’è sempre stata tra Lorenzini e Sassaroli, il lavoro sul campo con i malati psichiatrici portò nel 1992 i due a concettualizzare la genesi e il mantenimento dei disturbi del pensiero: il delirio paranoico, la schizofrenia, le ossessioni. Prese la luce il volume “Cattivi Pensieri” (Lorenzini e Sassaroli, 1992) con la premessa di Mario Rossi Monti. I due colleghi e amici, mentre in macchina attraversavano l’Italia, ebbero all’improvviso l’idea di andare a scambiare qualche idea con il professore Rossi Monti di cui avevano letto. Il professore, quando vide sull’uscio questi due sconosciuti, li accolse un po’ sorpreso e davanti a una bottiglia di vino si confrontò ben volentieri constatando l’arguzia e la perspicacia dei suoi interlocutori.

Il tema di “Cattivi pensieri” è il senso profondo della follia che sgomenta l’interlocutore e la motivazione degli autori è quella di avvicinare un mondo da esplorare e comprendere.

La prospettiva epistemologica è la riduzione della capacità predittiva di un sistema cognitivo, è una posizione costruttivista non “argomentabile in termini di verità o falsità, quanto piuttosto di capacità euristica e di produrre teorie con alto contenuto empirico” (Lorenzini e Sassaroli, 1992, p. 15).

Anche in questo lavoro, come già in precedenza in altri, i processi di costruzione del mondo, del sé e degli altri partono dalla conoscenza e la psicopatologia si manifesta attraverso l’incapacità del sistema cognitivo di imparare dalle invalidazioni, la delusione di un’aspettativa, un errore previsionale, un’incongruenza tra ciò che ci si aspettava e ciò che è accaduto.

Le tre sindromi sono accomunate dal significato del sintomo “che appare come il tentativo di mantenere un minimo di previsionalità, costi quel che costi con una rinuncia alla verosimiglianza delle previsioni nel caso della paranoia; con la vaghezza e l’inconsistenza nel caso della schizofrenia; con il restringimento esasperato in una ristretta area del sistema nel caso delle ossessioni.” (Lorenzini e Sassaroli 1992, p. 15). In definitiva il sistema schizofrenico accomoda minacciando l’identità, il sistema paranoico ipertrofizza l’assimilazione e l’ossessivo mostra un funzionamento duplice nell’area sintomatica del sé e nell’area delle relazioni interpersonali.

Gli obiettivi strategici generali della terapia sono tracciati intorno alla costruzione di spiegazioni alternative che abbiano tre caratteristiche: spieghino quello che già spiegava il delirio; spieghino quello che il delirio non spiegava; che siano falsificabili e non falsificate, e allo sviluppo dell’ombra, nuove costruzioni ipotizzate applicate al sé per scoprire come esse consentano un adattamento migliore.

Anche il contributo sulla patologia grave si completerà anni più tardi, nel 2008, con la pubblicazione in collaborazione con la sua compagna di vita, Brunella Coratti, di “La dimensione delirante” (Coratti e Lorenzini, 2008).

Il contributo si pone in contrasto con la tradizione che considera il delirio incomprensibile, perché questa tesi produce un effetto paralizzante sugli sforzi terapeutici, abbraccia viceversa la tesi che sia psicologicamente comprensibile e radicato nella storia evolutiva del paziente che riceve un’invalidazione concernente gli schemi centrali della propria identità.

Si parla di dimensione perché attraversa tutta la psicopatologia ed è presente anche nel pensiero comune. I significati personali con cui ordiniamo la nostra esperienza diventano in alcune circostanze impermeabili al confronto, inattaccabili e la tendenza all’autoreferenzialità della conoscenza favorisce l’intuizione delirante che spiega tutto.

La crescita della conoscenza avviene solo e proprio nel momento dell’invalidazione altrimenti i meccanismi confermazionisti rafforzano le mappe già esistenti. I viventi temono la mancanza di previsionalità, una sorta di “horror vacui” per cui è meglio avere una brutta idea che non averne alcuna. In questa condizione si presenta l’umore predelirante con smarrimento e confusione. Di fronte ad una tale invalidazione inassimilabile, se gli schemi cognitivi non sono in grado di accomodarsi alla nuova sconosciuta prospettiva, saranno loro a imporre una loro verità privata manipolando i dati di realtà e rinunciando alla consensualità con gli altri e alla verosimiglianza pur di mantenere una residua comprensione del reale.

In sintesi, il delirio è in continuità con il pensiero normale ed è una potenzialità presente in tutti gli esseri umani, consistente nel rifugiarsi in un autoinganno quando non si hanno strumenti per comprendere e gestire la realtà che ci si presenta.

La stessa difficoltà di cambiamento la ritroviamo in tutta la psicopatologia senza che alcuni disturbi assumano una forma così pervasiva e massiccia.

Nella vita di tutti i giorni il confermazionismo spinge a trovare i dati a sostegno delle proprie convinzioni e ignorare selettivamente le disconferme. Insomma, si tenta in tutti i modi di aver ragione e si è tendenzialmente testardi nati. Quando un’invalidazione più consistente bussa alla porta e ci chiede di fare i conti con una realtà diversa dalle attese si usa l’autoinganno e si è bravissimi a raccontarsi favole autoconsolatorie per salvare la propria immagine o l’idea che si ha delle cose più importanti (Lorenzini e Sassaroli, 1992; Coratti e Lorenzini, 2008).

Il periodo seguente la malattia

Un evento importante nella vita di Lorenzini è stata la sua malattia, nel 2006 fu colpito da un ictus che ne minò la motricità, ma non la lucidità mentale. Non rappresentò per nulla un impedimento nel continuare a formare giovani psicoterapeuti, soprattutto delle scuole di Sandra Sassaroli e Francesco Mancini, a partecipare a congressi e seminari, a produrre ulteriori importanti contributi. Nel corso della degenza per la riabilitazione lo si trovava a correggere le bozze dei suoi libri.

Finita la convalescenza, nel 2010 cura “Errare umanum est” (Lorenzini e Scarinci, 2010) un testo sull’errore nella pratica psicoterapeutica in cui si sostiene che l’errore è ineludibile e lo si ritrova nei processi che danno origine alla psicopatologia e costantemente in agguato nell’operare degli psicoterapeuti. La tesi centrale è che, se accettato e utilizzato terapeuticamente, può portare a un cambiamento di ordine tale da rappresentare un’opportunità di progettazione del reale in termini più adattivi e di crescita personale del paziente e del terapeuta.

Nel 2012 pubblica “Territori dell’incontro. Strumenti di psicoterapia” (Coratti, Lorenzini, Scarinci e Segre, 2012) un volume in cui per ogni disturbo descritto si elencano una serie di film e libri utili in terapia e nella formazione degli allievi. Sono proposte linee guida e schede operative sulle tematiche e le patologie per la pratica clinica.

Nel 2013, vede la luce per Franco Angeli “Dal Malessere al benessere. Attraverso e oltre la psicoterapia” (Lorenzini e Scarinci, 2013) in cui è proposto un intervento che può collocarsi come un modulo di una più ampia psicoterapia, ma può interessare anche persone senza una specifica psicopatologia che vogliono migliorare la qualità della loro vita. L’obiettivo è quello di riappropriarsi di una pienezza esistenziale e per questo sono illustrate quelle che Lorenzini chiama “tribolazioni”, sofferenze che amareggiano l’esistenza senza esitare in una vera e propria patologia. Nel testo se ne descrivono i meccanismi comuni e alcune strategie di risoluzione. Di pari passo si prendono in considerazione il concetto di benessere e le sue determinanti, il bisogno di significato, la relazionalità correlati a una dimensione di trascendenza, consapevolezza e accettazione, indicando una proposta specifica finalizzata alla promozione di esso.

Nel 2015 l’attenzione è posta a una prima importante sistematizzazione del Disturbo di dismorfismo corporeo (Scarinci e Lorenzini, 2015) che manifesta una sintomatologia clinica al crocevia nosografico di diversi disturbi e con compromissioni nelle aree di vita molto importanti. Sono fornite indicazioni per la diagnosi e il trattamento secondo il modello cognitivo-comportamentale anche negli sviluppi di terza ondata. Una parte innovativa riguarda il trattamento di soggetti in cui l’insight è assente, con una serie di tecniche e procedure che Lorenzini mette a punto per i pazienti con delirio.

La formazione degli psicoterapeuti

Per lunghi anni il nostro si è occupato di formazione in diversi contesti, definendo anche linee guida didattiche per le scuole di specializzazione in psicoterapia.

L’esperienza pluriennale nel campo della didattica e della formazione è compendiata in un contributo molto originale e creativo che propone come gioco, “Psychogame” (Lorenzini, 2018), con una prima parte teorica sul fare psicoterapia e una seconda parte pratica in cui è illustrato il gioco dell’intervisione, una specie di gioco da tavola con lo scopo di allenare al ragionamento clinico.

D’altra parte la creatività, l’originalità e la genialità erano caratteristiche che gli erano riconosciute da molti e sicuramente dal mainstream cognitivista.

È proprio nel libro “Ciottoli. Minute certezze e grandi dubbi che un vecchio terapeuta a fine corsa propone ai colleghi giovani” (Lorenzini, 2020) che raccoglie l’esperienza di tanti anni di lavoro sia nel pubblico, sia nel privato e con la sua generosità propone una serie di riflessioni sulla teoria e la prassi della psicoterapia. L’autore dichiaratamente si pone fuori dalla tendenza verso la protocollizzazione e la scelta d’interventi di Evidence Based Medicine e ribadisce la sua visione organica e unitaria della psicopatologia come disfunzione del normale processo di crescita della conoscenza. Nelle sue riflessioni, qualche volta ironiche e spesso dissacranti, non dobbiamo però vedere una sfida al metodo scientifico, anzi, risalta solo una profonda diffidenza per l’assoluto, per il fondamentalismo.

Lorenzini, popperiano da sempre, era pronto a rimettere in discussione ogni assunto, ogni teoria, pronto a confutare qualsiasi certezza, persino la sua fede religiosa, perché era aperto alla conoscenza e riteneva che questo fosse il metodo che consentiva di farla crescere.

Era, peraltro, anche pragmatico nell’affrontare la psicopatologia, si era imbattuto nel lavoro pubblico in situazioni concrete di disagio e marginalità che difficilmente potevano essere affrontate secondo canoni e procedure suggerite dai “testi sacri” della professione e le caratteristiche di questo suo approccio pragmatico sono state raccolte in un volume postumo “Piccole lezioni di pratica clinica” (Lorenzini e Coratti, 2022). Nelle conclusioni del volume, tra l’altro, sono svolte alcune riflessioni sulla funzione e il ruolo della psicoterapia nel più ampio contesto culturale e sociale, che hanno una certa similitudine rispetto alle riflessioni di Semerari (2022) relativamente alla visione dell’uomo e alla concezione del soggetto, influenzate dal contesto sociale e culturale, che emergono nelle teorie della relazione terapeutica dei vari orientamenti psicoterapeutici.

Lorenzini riafferma l’importanza dell’ascolto e della comprensione del modo con il quale il paziente ha costruito il suo equilibrio instabile e dolente senza avere la presunzione di offrirgli il “golden standard” della sanità mentale, “non c’è un solo modo sano e giusto di essere uomini…e la normalità non può essere commisurata ai valori della cultura weired e a una prospettiva che potremmo definire egocentrismo edonico“ (Lorenzini e Coratti, 2022, p. 105). Anche perché “la definizione di qualcosa che si presume essere nella realtà esterna a noi, si trascina appresso gli enormi problemi epistemologici sulla possibilità di una conoscenza oggettiva”. La fisica quantistica ci insegna che gli oggetti si manifestano solo nell’entrare in relazione e quindi “un matto da solo non esiste. Ci vuole qualcun’altro che non lo capisce e lo definisce tale” (Lorenzini e Coratti, 2022, p. 105).

In sostanza, “anche la scientificità non è una caratteristica assoluta, ma uno strumento” (Lorenzini e Coratti, 2022, p. 105). Ogni teoria, così come ogni psicoterapia, è destinata a essere superata da una teoria più omnicomprensiva in un processo evolutivo in cui l’errore e l’imperfezione sono il motore del cambiamento.

Le ultime opere

Prima di lasciare un grande vuoto con la sua morte Lorenzini ha dato vita ad altre due opere. Un volume curato in collaborazione con Mariapina Accardo, “Pestare i Piedi all’Anima” (Accardo, Lorenzini, 2020), un testo sull’offesa nelle relazioni significative con contributi di molti colleghi con i quali si confrontava assiduamente, Francesco Mancini, Nicola Petrocchi, Barbara Barcaccia, Cristiano Castelfranchi, Giuseppe Romano, Carlo Buonanno e altri. I temi presi in considerazione sono questioni cui Lorenzini aveva iniziato a strizzare l’occhio negli ultimi tempi. Aveva partecipato con molto interesse a un training sulla Compassion Therapy ad esempio, ma anche il perdono, e l’offesa, che com’è detto nella quarta di copertina del libro è un “prequel”, l’antefatto del perdono stesso, lo interessava molto. D’altra parte i temi del rispetto della dignità della persona per lui che aveva tanto combattuto contro lo stigma e aveva con tanta amorevolezza e gentilezza accolto tanti pazienti gravi, anche quando qualche volta lo avevano inseguito con intenzioni non proprio benevole fin sotto la sua abitazione, non gli potevano essere indifferenti.

L’ultimo contributo è un volume curato con Clarice Mezzaluna e Antonio Scarinci con la Prefazione di Antonio Semerari su “Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale” (Scarinci, Lorenzini e Mezzaluna, 2020) che illustra i temi controversi su cui si sta dibattendo non solo in ambito cognitivista. Anche questo libro è stato scritto da Lorenzini insieme a tanti colleghi con cui intratteneva una interlocuzione continua, Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli, Marika Ferri, Valeria Valenti, Sofia Piccioni e altri con i quali ha discusso i problemi concernenti la concettualizzazione del caso, la relazione e l’alleanza terapeutica, l’utilizzo delle tecniche, la formazione degli allievi e la supervisione, l’integrazione tra approcci di prima, seconda e terza ondata, i problemi legati alla diagnosi categoriale o dimensionale, la preminenza da dare ai contenuti o ai processi, il rapporto tra terapie manualizzate e ragionamento clinico, i problemi della ricerca sull’efficacia e l’utilizzo dei farmaci.

Conclusioni

Riguardo ai temi sui quali mi sono soffermato, Lorenzini ha pubblicato anche numerosi articoli a livello nazionale e internazionale che approfondiscono le sue principali concettualizzazioni. Sicuramente nel tempo l’importanza del suo contributo, che spero di aver riassunto se non in modo esaustivo almeno avendo centrato sufficientemente gli aspetti preminenti, potrà essere messo maggiormente in evidenza.

In questi anni, i molti che hanno avuto l’onore e il piacere di collaborare con Roberto, hanno potuto apprezzare la sua fervida intelligenza, il suo umorismo, la sua competenza e perizia, ma soprattutto la sua costante disponibilità a mettere a disposizione di chiunque le sue conoscenze e la sua esperienza. Ha formato centinaia di psicoterapeuti che hanno appreso da lui, oltre alla teoria e alla pratica di cui era un formidabile e geniale maestro, la capacità di rispettare ogni persona con un sentimento di altruismo che lo portava a essere sempre disponibile soprattutto nei confronti di chi si trovava in una condizione di fragilità, angosciato da qualche problema e dal malessere che intratteneva.

Non credo sia un’esagerazione se dovessimo considerare la scomparsa di Lorenzini, insieme con quella quasi contemporanea di Giovanni Liotti, con il quale negli ultimi tempi aveva stretto un rapporto confidenziale e quasi intimo, una grande perdita umana e culturale per tutto il cognitivismo.

La speranza è che il suo lascito morale e culturale possa essere conservato e ancora sviluppato negli anni a venire dal movimento cognitivista.

 


Lorenzini è uno degli autori più letti e più amati di State of Mind, consigliamo la lettura delle sue rubriche e dei suoi articoli, testimonianza diretta dell’ironia, della professionalità e della genialità di Roberto. 

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Questo bimbo ci sta mostrando forme di inversione di ruolo: ma che cos’è questo fenomeno? Vediamolo insieme.

La relazione genitore-bambino

 I bambini, durante il loro sviluppo, sperimentano un lungo periodo di dipendenza fisica e psicologica da chi li accudisce (Bellow et al., 2005) e così, nel tempo, si sviluppa una relazione genitori-figlio, estremamente importante per un sano sviluppo del bambino (Macfie et al., 2015). Infatti, il modo in cui i genitori (o altri caregiver primari) interagiscono con il loro bambino influenza il suo sviluppo socio-emotivo (Macfie et al., 2015). Può capitare però che l’adulto, nell’accudire il figlio, fatichi a soddisfare i bisogni socio-emotivi del suo bambino o non sia in grado di soddisfare tali bisogni in modo ragionevolmente efficace (Bellow et al., 2005). Di conseguenza, il bambino potrebbe sviluppare un modello comportamentale chiamato “inversione di ruolo” (Macfie et al., 2015).

Che cos’è l’inversione di ruolo?

Come dicevamo, può succedere che ci sia una rottura dei ruoli attesi tra genitore e figlio: il bambino viene così elevato a un ruolo simile a quello di un adulto, incaricato di soddisfare i bisogni del genitore (Jurkovic, 1997; Kerig, 2005; Minuchin, 2012). Quando questo avviene, si assiste a ciò che fu definito negli anni Sessanta con il termine “inversione di ruolo” (Morris & Gould, 1963).

Nel tempo sono stati poi coniati diversi termini per riferirsi a questo fenomeno come: “bambino genitore” (Earley & Cushway, 2002), “parentificazione” (Bellow et al., 2005; Boszormenyi-Nagy & Spark, 1973), “genitore come coetaneo” (Earley & Cushway, 2002; Kerig, 2005) e “genitore come coniuge” o “spousification” (Kerig, 2005; Macfie et al., 2015).

Tutti i termini sopra citati evidenziano un cambiamento nei ruoli genitore-figlio in cui il bambino sacrifica i propri bisogni di attenzione, conforto e guida per soddisfare e prendersi cura dei bisogni strumentali (ad esempio, cucinare, pulire, occuparsi dei fratelli più piccoli) e/o emotivi del genitore (ad esempio, dare consigli, confortare e rassicurare, tenere compagnia al genitore; Alexander, 2003; Mayseless et al., 2004).

L’inversione di ruolo tra normalità e disfunzionalità

In generale, l’inversione di ruolo non è considerata patologica di per sé (Jurkovic, 1997; Robinson & Chase, 2001): questo fenomeno fa parte di un processo normativo nella socializzazione dei bambini, che li porta a diventare membri responsabili e moralmente adatti delle famiglie e della società (Jurkovic, 1997). Si è evidenziato, infatti, l’appropriatezza dell’assunzione di responsabilità familiari che rientrano nelle capacità di sviluppo del bambino e che non interferiscono con il suo sviluppo, contribuendo alla formazione di un’identità sana, di una buona autostima e di un senso di autoefficacia e di competenza (Bellow et al., 2005; Macfie et al., 2005, 2015). Di conseguenza, è considerato sano e appropriato che il bambino soddisfi, in qualche misura, i bisogni emotivi del genitore, ma questo deve essere bilanciato dalle cure che il bambino riceve dal genitore stesso (Earley & Cushway, 2002).

Questo processo normativo diventa inversione di ruolo distruttiva quando la relazione genitore-figlio manca di reciprocità emotiva e/o quando le richieste e le aspettative superano le capacità del bambino (essendo inadeguate alla sua età) verificandosi a spese del soddisfacimento dei suoi bisogni di sviluppo (Bellow et al., 2005; Macfie et al., 2005, 2015). Il bambino si trova quindi a tenere il “carico emotivo della relazione”, aumentando il rischio di psicopatologia (Jurkovic, 1997).

Precursori dell’inversione di ruolo: il contesto

L’inversione di ruolo è stata associata a molti tipi di disfunzioni familiari (Alexander, 2003). I fattori che, ad oggi, risultano associati all’inversione di ruolo sono principalmente: il genere del bambino, il conflitto coniugale, il maltrattamento infantile, la storia di perdita o trauma dei genitori e la malattia organica e/o mentale dei genitori (Macfie et al., 2015).

Per quanto riguarda il genere del bambino, sembrerebbe che le figlie femmine abbiano un maggiore propensione all’inversione di ruolo, poiché ci si aspetta che le donne nutrano e mantengano le relazioni (Buchanan et al., 1991). Nonostante ciò, essa può avere un effetto più deleterio sugli uomini (Chodorow, 1999).

Anche il conflitto coniugale sembrerebbe essere associato all’inversione di ruolo, soprattutto nella relazione madre-figlia: quando i genitori sono impegnati in un conflitto, aumenta la probabilità che i figli si alleino con le madri contro i padri (triangolazione; Alexander, 2003; Macfie et al., 2015). In particolare, questo fenomeno risulta associato anche a disfunzioni familiari tra cui il divorzio e stili genitoriali “intrusivi” (Alexander, 2003; Jacobvitz & Sroufe, 1987; Weiss, 1979).

 L’inversione di ruolo, inoltre, sembrerebbe più probabile in famiglie maltrattanti: abusi e maltrattamenti dei genitori rappresentano tipologie di disfunzioni familiari a cui si associa l’inversione di ruolo del bambino (Morris & Gould, 1963), soprattutto l’abuso fisico e l’abuso sessuale (Burkett, 1991; Macfie et al., 1999). A tal proposito, si è visto anche che i genitori che hanno subito abusi da bambini hanno una maggiore probabilità di dipendere dai figli per la cura emotiva, soprattutto se esperiti dalle madri (Bellow et al., 2005; Burkett, 1991). Infatti, storie parentali di traumi o perdite infantili (come abusi subiti dai genitori e la morte di un genitore), sembrerebbero potenziare la confusione di ruoli poiché il genitore, faticando ad elaborare la propria esperienza, si affida al figlio per trovare conforto (Burkett, 1991).

Un ultimo fattore che può creare un contesto di inversione di ruolo è la malattia mentale dei genitori come alcolismo, abuso di sostanze, sintomi depressivi e ansiosi, disturbo borderline di personalità, schizofrenia (Earley & Cushway, 2002; Macfie et al., 2015; Mayseless et al., 2004), mostrando il genitore come una figura vulnerabile e bisognosa di aiuto.

Esiti nel breve termine e nel lungo termine dell’inversione di ruolo

In generale, l’inversione di ruolo rappresenta un importante fattore di rischio che può portare a compromissioni sullo sviluppo del bambino (Macfie et al., 2005, 2015): sembrerebbe che l’inversione di ruolo interferisca con lo sviluppo dell’autonomia e dell’individuazione (sviluppo del sé) nel periodo della prima infanzia e questo può a sua volta influenzare futuri problemi di sviluppo, come problemi di autoregolazione nel periodo prescolare (Jacobvitz & Sroufe, 1987; Macfie et al., 2015). In caso di inversione di ruolo patologica, sono state associate conseguenze significative per il bambino come depressione, bassa autostima, pensieri suicidari, isolamento sociale, sintomi psicosomatici e sintomi esternalizzanti come il disturbo della condotta o l’iperattività (Bellow et al., 2005).

Alcuni studi (per esempio, Earley & Cushway, 2002) hanno poi dimostrato l’esistenza di effetti a lungo termine dell’inversione di ruolo: la responsabilità di accudimento da bambini sembrerebbe influenzare il funzionamento di un individuo nelle relazioni adulte. In particolare, è stato osservato che da adulti tendono a continuare ad adottare comportamenti di cura compulsivi nelle relazioni con altre persone adulte in età più avanzata: questo fenomeno viene definito come “sindrome del prendersi cura” (Earley & Cushway, 2002). Inoltre, sembrerebbero mostrare una formazione dell’identità meno coesa con livelli inferiori di esplorazione della propria identità ed essere esposti ad un maggior rischio di disturbi di personalità, depressivi e ansiosi (Bellow et al., 2005; Macfie et al., 2005; Mayseless et al., 2004).

Conclusione

In definitiva, l’inversione di ruolo può essere sia normale, sia disfunzionale e ha una maggiore probabilità di presentarsi in contesti specifici (Bellow et al., 2005). Questo fenomeno si manifesta nei primi anni di vita, può influenzare lo sviluppo dall’infanzia all’età adulta e si trasmette da una generazione all’altra (Macfie et al., 2015). Tuttavia, ad oggi, non è ancora chiaro come la traiettoria evolutiva differisca per l’inversione di ruolo patologica rispetto a quella non patologica (Bellow et al., 2005).

Dipendenza affettiva. Diagnosi, assessment e trattamento cognitivo-comportamentale – Recensione

Il libro “Dipendenza affettiva” è organizzato in tre parti principali: (1) la descrizione clinica e la spiegazione del modello di origine della dipendenza affettiva, (2) la fase di valutazione e assesment con il paziente e infine (3) la fase di intervento e trattamento.

La dipendenza affettiva

 Non è facile dare una definizione univoca e un inquadramento diagnostico alla dipendenza affettiva anche se questo termine è ad oggi largamente diffuso. Negli ultimi decenni, il tema della dipendenza affettiva ha conosciuto un rapido sviluppo anche a causa del crescente numero di pazienti che si sono rivolti a professionisti della salute mentale per sintomi ansiosi o depressivi riconducibili a relazioni sentimentali interrotte ma ancora dolorosamente presenti e indispensabili per la loro vita. Nonostante essa non sia ancora riconosciuta dai sistemi nosografici attuali e manchi di conseguenza di un protocollo efficace di trattamento, rimane presente sulla bocca di tutti.

Alla luce di queste lacune, il volume di Antonella Lebruto, Giulia Calamai, Laura Caccico e Valentina Ciorciari, edizioni Centro Studi Erikson, rappresenta il tentativo di offrire un modello di concettualizzazione della dipendenza affettiva, che tenga conto dei fattori di vulnerabilità e di mantenimento, oltre che di valutazione e trattamento. In questo originale modello, la dipendenza affettiva appare simile ad una “sindrome” che ha una sua origine in uno stile di attaccamento disfunzionale e in specifici fattori temperamentali che predispongono l’individuo ad una difficoltà nella regolazione delle emozioni. In particolare la difficoltà nella regolazione della paura dell’abbandono e l’intolleranza della sofferenza rappresentano il motore che influenzerebbe la strutturazione di processi cognitivi e strategie di coping impulsive e compulsive volte a mantenere la relazione con l’oggetto d’amore. Il dipendente affettivo, attivato da specifici stimoli, attraverserebbe dapprima una “fase impulsiva”, in cui è preponderante la ricerca del contatto con il partner, e successivamente una “fase compulsiva” dove è dominante e incessante il controllo della relazione.

Il sano entusiasmo e la gratificazione che caratterizza e arricchisce una relazione romantica, nella dipendenza affettiva lascia il posto all’impoverimento e all’incapacità di rinunciare e lasciare andare un legame che genera sofferenza e insoddisfazione. Il trattamento pertanto avrà come obiettivo la modifica e la cessazione dei comportamenti di dipendenza e ciò che mantiene la persistenza dell’esperienza di craving.

Il libro

Il libro “Dipendenza affettiva” è organizzato in tre parti principali: (1) la descrizione clinica e spiegazione del modello di origine della dipendenza affettiva, (2) la fase di valutazione e assesment con il paziente e infine (3) la fase di intervento e trattamento.

 La prima parte è pertanto dedicata all’illustrazione dei meccanismi che darebbero origine alla dipendenza affettiva, che integrano le evidenze neurobiologiche sul circuito della ricompensa con i meccanismi cognitivi e comportamentali di rinforzo. Una predisposizione biologica e temperamentale associata ad una vulnerabilità nello stile di attaccamento favorirebbe il rischio di una mancata capacità di regolazione delle emozioni nella persona che si ritroverebbe di conseguenza a ricercare massicciamente il partner nel tentativo di gestire vissuti intollerabili legati alla paura dell’abbandono. La relazione amorosa e il partner non rappresentano più una fonte di sicurezza, protezione e vicinanza ma diventano “strategie” a cui la persona ricorre compulsivamente per gestire vissuti sgradevoli e ricercare sollievo.

A sua volta, la messa in atto di comportamenti compulsivi (es. controllo dei profili social del partner, richieste sempre maggiori di passare del tempo insieme in maniera esclusiva) aumenterebbe nella persona la percezione di mancanza di controllo e lo stato di tensione generato dall’astinenza; la persona persiste nel comportamento problematico nonostante gli elevati costi e i danni a lungo termine. In poche parole, la sofferenza va a sostituire la piacevolezza della relazione emotiva.

La seconda parte è dedicata all’assesment dei diversi fattori predisponenti, precipitanti e di mantenimento, oltre che alla valutazione degli aspetti sintomatologici, cognitivi, metacognitivi e comportamentali della dipendenza affettiva tramite l’uso di diversi strumenti e tecniche come: il diagramma di concettualizzazione cognitivo, l’analisi funzionale del comportamento, l’identificazione di metacredenze positive e negative sul rimuginio desiderante associato al craving.

Infine, l’ultima parte si concentra sul trattamento integrato che prevede una fase iniziale di psicoeducazione sulla dipendenza affettiva, di accertamento dello stato motivazionale della persona al cambiamento, alla riduzione degli stati corporei legati al craving, all’identificazione e alla comunicazione assertiva dei propri bisogni psicologici fino allo sviluppo e all’apprendimento di abilità nuove e alternative di regolazione emotiva. Le autrici sottolineano come l’intervento per questo tipo di “sindrome” debba essere necessariamente integrato, ovvero debba prendere in considerazione l’utilizzo di diverse tecniche e strumenti afferenti a diversi approcci come quello cognitivo-comportamentale, metacognitivo, mindfulness e della terapia dialettico-comportamentale.

In conclusione, il libro risulta molto scorrevole, ricco di esperienza clinica e prove basate sull’evidenza. Dunque, ci sentiamo di consigliarlo a quei professionisti che si misureranno con le relazioni “malate” e disfunzionali dei loro pazienti e che potrebbero trovare supporto grazie al protocollo integrato proposto dalle autrici del manuale. Molto interessanti le pagine dedicate alle diagnosi differenziali e agli aspetti sintomatologici che potrebbero aiutare il clinico a distinguere la dipendenza affettiva da quella sessuale, dalla co-dipendenza, dal disturbo ossessivo-compulsivo, dal disturbo dipendente di personalità e dall’ansia da separazione.

Heets et nunc: comprendere l’era dei prodotti a tabacco riscaldato

NDR: pubblichiamo questa Flash News sui fattori che portano i fumatori a scegliere le Iqos rispetto alle sigarette tradizionali, tuttavia ci preme sottolineare che il fumo, anche sottoforma di sigaretta elettronica, ha effetti altamente nocivi per la salute.

 La risposta più recente della “Big Tobacco” alla lotta contro il tabagismo è stata il lancio di prodotti a tabacco riscaldato (Heated Tobacco Products, HTP). In auge tra i più l’IQOS, un dispositivo a batteria simile a una penna sviluppato da Phillip Morris International (PMI) e immesso sul mercato nel 2014. Gli utenti lo utilizzano inserendo un bastoncino di tabacco (con il marchio HEETS) che viene riscaldato elettricamente a una temperatura elevata senza accendersi e bruciare come una sigaretta combustibile tradizionale (Tabuchi et al., 2018). L’IQOS viene commercializzato come un’alternativa pulita alle sigarette, utilizzando materiale promozionale che presenta il dispositivo come sofisticato, altamente tecnologico e in grado di fornire tutti i benefici del fumo, ma con meno cenere e odore.

A causa della maggiore disponibilità di IQOS e della sua rapida diffusione in alcuni Paesi (Stoklosa et al., 2020) è fondamentale sviluppare una migliore comprensione delle percezioni e delle risposte dei fumatori a questo nuovo sistema.

Tompkins et al. (2020) hanno condotto uno studio qualitativo che ci permette di esplorare ciò che porta i fumatori a iniziare e portare avanti l’uso di IQOS.

Esperienze sensoriali: vista, olfatto, gusto e tatto

L’influenza sui sensi della vista e dell’olfatto spiega perché i fumatori si sono avvalsi di IQOS. I partecipanti sono stati attratti da IQOS per il suo aspetto elegante, le dimensioni discrete e le finiture di alta qualità, che si differenziano dalle classiche sigarette elettroniche a serbatoio. Anche la promessa che IQOS emettesse pochi odori ha attirato i partecipanti e si è contrapposta all’odore sgradevole delle sigarette a combustione e agli odori fruttati delle sigarette elettroniche. I partecipanti hanno spesso affermato che l’esperienza sensoriale complessiva dell’uso di IQOS era equivalente o migliore di quella del fumo di sigarette combustibili. Hanno elogiato aspetti della vista (l’attrattiva visiva dei pacchetti HEETS con il marchio, il volume “più chiaro” e ridotto delle emissioni, la mancanza di macchie sulle dita e sui denti e la pulizia dovuta all’assenza di cenere), dell’olfatto (la natura inodore degli HEETS e la mancanza di odore residuo su mani, alito, vestiti e arredi), il gusto (il sapore paragonabile a quello delle sigarette a combustione e la mancanza di retrogusto) e il tatto (la sensazione tattile del dispositivo e la consistenza familiare degli HEETS sulle dita e sulle labbra). Inoltre, i partecipanti che avevano fumato sigarette combustibili, dopo il passaggio a IQOS, hanno descritto come le esperienze sensoriali repulsive fossero in contrasto con l’uso di IQOS. Di conseguenza, i partecipanti spesso prevedevano di continuare a usare IQOS anche se i danni per la salute erano identificati come equivalenti o peggiori rispetto al fumo di sigarette combustibili, grazie all’esperienza complessiva più pulita.

Fattori psicologici

 I partecipanti si sono detti motivati a continuare a usare IQOS perché rispecchiava i loro rituali e le loro routine di fumatori di sigarette combustibili. Hanno riportato dei parallelismi tra le situazioni in cui usavano IQOS e hanno identificato delle somiglianze tra l’estrazione di un HEETS dal pacchetto, l’azione mano-bocca dell’uso di IQOS, la quantità di aspirazioni/la durata di un HEETS e l’epilogo del processo. Infine, i partecipanti hanno discusso di come la ricarica e la pulizia di IQOS li abbia portati a sviluppare nuove abitudini e rituali. Alcuni partecipanti hanno utilizzato IQOS per la prima volta perché attratti dal design e dal fascino tecnologico. Utilizzando IQOS, i partecipanti si sono sentiti “alla moda” e all’avanguardia negli sviluppi tecnologici del fumo, percezioni che sono state rafforzate quando gli altri si sono complimentati per l’IQOS e quando hanno valutato i negozi IQOS “di fascia alta” e “simili ad Apple”. Di conseguenza, lo status symbol di IQOS e l’esperienza più esclusiva che offriva si differenziavano dalle sigarette combustibili e dalle sigarette elettroniche, spingendo i partecipanti verso questo prodotto.

Fattori sociali

I partecipanti hanno discusso diverse conseguenze sociali dell’uso di IQOS, che ne hanno incoraggiato l’uso continuativo. In primo luogo, a causa della minore visibilità, quantità, odore e percezione di nocività delle emissioni, i partecipanti hanno affermato che IQOS era “migliore” da usare in presenza di non fumatori rispetto alle sigarette a combustione o alle sigarette elettroniche. Inoltre, poiché l’uso di IQOS attirava poca attenzione, i partecipanti si sentivano più a loro agio nell’usarlo in pubblico o in compagnia di non fumatori. I partecipanti si sono sentiti meno “diffamati” e hanno sperimentato meno stigma e giudizi negativi con IQOS rispetto a quando fumavano sigarette combustibili. Altri hanno attribuito i miglioramenti nelle relazioni con i partner e i colleghi di lavoro all’assenza di fumo di sigaretta nell’alito, nei capelli e nei vestiti.

Nel complesso, questo studio qualitativo ha rilevato una serie di fattori che possono spigare la decisione di iniziare e continuare con l’uso di IQOS.

Le opportunità di un Centro Diurno. La riparazione della bicicletta come metafora di riparazione del Sé

Questo articolo descrive la nascita e lo sviluppo di un laboratorio di ciclo-officina in un Centro Diurno (CD) romano.

La vita è come andare in bicicletta. Per restare in equilibrio devi muoverti. Einstein.

Introduzione

 Il Centro Diurno è uno spazio del Servizio Sanitario Regionale che ospita persone con difficoltà di tipo psichiatrico che necessitano di aiuto per riprendere in mano la propria vita e padroneggiare quelle competenze o abilità che la sofferenza psichica ha bloccato o non ne ha permesso il pieno sviluppo. Abilità sociali, familiari, professionali, autostima, risoluzione dei problemi, resilienza e gestione dello stress sono alcune delle abilità che il lavoro clinico e riabilitativo contribuisce a rafforzare.

Proprio perché ogni individuo è unico, per progettare e costruire un programma che l’aiuti a trovare nuovi significati di vita, di speranza e di crescita personale, è fondamentale individuare insieme i suoi punti di forza (Rapp & Goscha, 2006; Bello et al., 2008) e i suoi bisogni. Nel Centro Diurno lavorano operatori sanitari di varie discipline e spesso maestri d’arte che trasferiscono ai pazienti, attraverso un approccio non giudicante e cooperativo, il loro sapere tecnico e ne verificano il percorso. Tutti gli operatori provano ad integrare interventi e competenze, pensando insieme nello spazio della riunione d’équipe. Questa resta uno strumento unico perché fornisce la possibilità di sospendere l’azione, di pensare emozioni e reazioni controtransferali e di riformulare il progetto offerto al singolo paziente. Il Centro Diurno si pone l’obiettivo di essere un luogo sicuro affinchè i suoi ospiti possano sperimentare socializzazione, esprimere e dare un senso alle proprie emozioni ed apprendere anche competenze professionali. È noto infatti, che se ci sentiamo produttivi in ambito lavorativo, anche l’autostima, l’umore e le relazioni sociali migliorano.

La bicicletta

La bicicletta è un mezzo di locomozione consueto nella vita di tutti i giorni, la usiamo per andare a comprare il giornale, per fare la spesa o l’attività sportiva. È diffusa in tutto il mondo proprio perché è versatile, leggera ed economica e non richiede alcun carburante per essere alimentata, se non la forza muscolare della persona che pedala. Per molti di noi è stato il primo oggetto per esplorare il mondo circostante e per spostarci velocemente da un luogo ad un altro.

Il primo a disegnare una “macchina” con due ruote, un’asse di legno che le teneva insieme, un manubrio e una specie di catena che collegava i pedali alla ruota posteriore, è stato Leonardo da Vinci. Per la sua invenzione però, dobbiamo attendere il barone tedesco Karl von Drais che nel 1817 realizzò la draisina, dalla quale è derivata l’attuale bicicletta che, nel tempo, ha assunto moltissimi significati. Possiamo dire che rappresenta una forma di libertà e che ci fornisce quella forza per sentirci padroni di un pezzo di mondo, ma in cambio richiede equilibrio, controllo del corpo e dei movimenti. Alcuni ricollegano la bicicletta a quei movimenti per la riappropriazione delle strade, o che combattono contro il riscaldamento globale, contro le guerre per il petrolio, che rifiutano la vita moderna e scelgono di vivere in un modo diverso.

Di certo, la bicicletta è entrata con forza nella nostra vita e nel nostro immaginario, tanto da diventare protagonista di brani musicali, oggetto di poesia, di racconti e di storie cinematografiche. Per quanto riguarda il cinema, si ricorda “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica (1948) e il film d’animazione “Appuntamento a Belleville” di Sylvain Chomet (2003), che le conferisce il potere di curare la tristezza del giovane protagonista. Recentemente, l’artista Roberto Sironi le ha dedicato una mostra personale dal titolo “Arte su due ruote”. Infine, è doveroso ricordare che la bicicletta è protagonista di uno sport che ha entusiasmato intere generazioni, il ciclismo. È stato “[…] lo sport più seguito e amato fino agli anni ’60, quando, ormai svuotato di potenziale simbolico, gli succederà l’altro grande fenomeno sportivo di massa, il calcio” (Barsella, 1999, pag. 70).

Ogniqualvolta parliamo della bicicletta, parliamo anche di noi stessi perché essa “[…] fa parte della storia di ognuno di noi. Il momento in cui impariamo ad andare in bici appartiene ai ricordi speciali dell’infanzia e dell’adolescenza. È così che abbiamo scoperto un po’ del nostro corpo, delle nostre capacità fisiche e abbiamo sperimentato la libertà legata a queste scoperte” (Augé, 2009, pag. 7). La bicicletta aiuta a conoscere e comprendere limiti e capacità ed è una fonte di apprendimento della resilienza, ossia la capacità di superare le difficoltà ed adattarsi agli imprevisti.

La ciclo-officina in un Centro Diurno

Circa un anno fa, per pura coincidenza, il nostro Centro Diurno ha partecipato ad un progetto che ha permesso di allestire un laboratorio di ciclo-officina e di retribuire per un periodo circoscritto un meccanico esperto. Inizialmente abbiamo illustrato questa novità senza grosso slancio ed aspettative, nonostante l’entusiasmo mostrato da alcuni dei nostri utenti che si sono candidati immediatamente. Sin dalle prime riunioni, abbiamo registrato che gli utenti arrivavano puntuali, non si assentavano e progressivamente aumentava il desiderio di partecipazione. Si divertivano, erano più attivi che in altri laboratori e il clima generatosi dopo pochi mesi era giocoso, affettivo e cooperativo. Un utente ha chiesto di frequentare solo la ciclo-officina perché “[…] qui mi diverto davvero e imparo a fare cose pratiche ed utili; se continuo ad impegnarmi, tra un po’ potrò aggiustare la bicicletta di mia sorella!”. Questo inaspettato successo ci ha spinto a rivedere le aspettative iniziali e a cercare –ed infine a trovare– altri fondi per continuare l’esperienza. Dopo un anno dalla sua attivazione, siamo riusciti a rendere stabile e sicuro questo laboratorio e registriamo con piacere che continua ad essere molto gradito ai nostri utenti, tanto che qualcuno fantastica di farlo diventare una vera e propria fonte di reddito.

“L’officina nel suo complesso e la bicicletta più specificamente ospitano un determinato sistema di atti in cui le persone e le cose sono viste trasformarsi senza che alcun elemento della loro composizione fisica di base cambi davvero” (Marks 2021, pag. 1706). Non pensiamo però che aggiustare le biciclette in un Centro Diurno sia solo un’attività relazionale e socializzante dal forte impatto simbolico; sappiamo molto bene che, per farlo, bisogna usare le mani, sporcarsi, mettere in moto tutto il corpo e sviluppare capacità di problem solving. Gli utenti, dopo una prima fase di apprendimento di base, sono invitati ad intervenire insieme sull’oggetto da riparare mentre il meccanico osserva e indirizza, astenendosi dal suggerire soluzioni definitive. Aspetta pazientemente che il movimento o l’azione giusta emerga dal confronto e dagli errori. In questo modo, in un clima spesso ironico e giocoso, si rafforza l’interdipendenza positiva e si pongono le basi per un vero e proprio apprendimento cooperativo (Comoglio, 1999).

 Un paziente da anni chiuso in casa – che chiameremo Antonio –  ha accettato di frequentare la ciclo-officina a patto che non fosse obbligato ad indossare abiti da lavoro e a “sporcarsi le mani”. Gli piace osservare, commentare e, pur correggendo spesso chi, secondo lui, sta sbagliando l’intervento tecnico, non si pone in contrapposizione con il gruppo ed accetta le mediazioni del conduttore. Abbiamo permesso che in questo gruppo scegliesse dove posizionarsi per aiutarlo a tollerare ciò che per anni lo ha tenuto lontano dalla vita sociale. Il gruppo ha accettato il parziale coinvolgimento di Antonio, non vive le sue critiche come offensive e spesso ricorre all’ironia per tentare di avvicinarlo di più.

A differenza di Antonio, un altro utente prova piacere proprio nello sporcarsi le mani. Questo spazio assume caratteristiche terapeutiche non solo perché insegna nuove competenze, ma soprattutto perché, accettando le persone con i loro limiti e le loro stravaganze, permette di costruire e riparare anche relazioni.

Nella ciclo-officina “[…] la realtà è fatta ed agita (enacted) piuttosto che osservata […], viene manipolata da vari strumenti nel corso di diverse operazioni. […] La ciclo-officina promuove una serie di azioni che consentono di sperimentare la sensazione – inizialmente piuttosto singolare – che il proprio mondo interno riemerga in modo nuovo e senza limitazioni” (Marks 2021, pag. 1710). Mentre le mani lavorano, le persone si raccontano e potenziano il loro senso di appartenenza.

Mettere più mani su una bicicletta rotta diventa un gesto di cura ed attenzione gruppale che dall’oggetto si trasferisce simbolicamente alle persone; pensare e fare insieme, attraverso lo scambio di saperi ed esperienze concrete, stimola la condivisione di ricordi individuali che facilitano la tessitura di una trama di relazioni che spesso continuano anche all’esterno del laboratorio e del Centro Diurno. In quest’ottica, possiamo definire la bicicletta da riparare una specie di “oggetto transizionale ferito ma riparabile” sul quale mettono le mani e proiettano le loro emozioni tutti i partecipanti che, in maniera cooperativa e gruppale, la riparano e la rendono di nuovo utilizzabile. Da un punto di vista simbolico, riparare una bici diventa anche un gesto di potenziale riparazione del Sé che si completa con il collaudo finale. Questa operazione consiste nel “provare e sentire” l’oggetto riparato attraverso il pedalare all’aria aperta, cosa che non tutti sono in grado di fare spontaneamente e non solo per un mero problema di equilibrio o di capacità di pedalare. Pedalare una bici comporta autonomia, libertà, sensazione di benessere ed autodirezionalità, caratteristiche che spesso i pazienti psichiatrici hanno perso o temono di esternare. Colui che si offre per il collaudo, dalla posizione stabile (in piedi davanti al banco di lavoro), inforca la bicicletta, controlla l’equilibrio del proprio corpo nello spazio e comincia a pedalare nell’ampio cortile del Centro Diurno. Il collaudatore non solo diventa portavoce del lavoro gruppale ma anche motivatore poiché, condividendo le sue impressioni tecniche e soprattutto le emozioni provate, coinvolge anche gli altri nella condivisione del piacere appena sperimentato. Spesso è necessario eseguire un ulteriore intervento meccanico e ripetere il collaudo, che può essere eseguito anche da un’altra persona; alla fine è tutto il gruppo che ha riparato una bicicletta e insieme può anche gioire.

Tutto ciò può essere letto come una metafora della sofferenza mentale e dei suoi vari percorsi di cura e di miglioramento che possono avviarsi solo all’interno di uno spazio libero e protetto e in comunione con altre persone.

Infine, in questa dimensione educativo-relazionale e formativo-professionale, diamo risalto anche al recupero di biciclette abbandonate alle quali ridare nuova vita ed evitare che diventino rifiuti. Si avvia così un percorso, oltre che ecologico, anche etico e di riabilitazione della persona, sfruttando il forte potere simbolico che il riciclo e la bicicletta posseggono.

Conclusioni

Un concetto molto discusso negli ultimi decenni in ambito psichiatrico è quello di recovery (Anthony, 1993; Deegan, 2004; Peterson et al., 2006; Maone & D’Avanzo, 2015). È stato tradotto in italiano in molti modi, ma in nessuna accezione coincide con la scomparsa della malattia mentale, piuttosto rispecchia lo sviluppo di abilità perdute e il recupero di un ruolo valido e soddisfacente all’interno della società (Carozza, 2006). Liberman e Kopelowicz (2005) suggeriscono di parlare di recovery quando i sintomi della malattia non interferiscono più con il funzionamento della persona nella vita quotidiana. L’agenzia governativa statunitense SAMHSA (Substance Abuse and Mental Health Services Administration), lo definisce come:

“[…] un processo di cambiamento attraverso cui l’individuo migliora la propria salute e il proprio benessere, vive in modo self-directed e si impegna a vivere al meglio delle proprie potenzialità”.

La stessa organizzazione identifica quattro dimensioni che supportano il recovery:

  • Health: capacità di gestire la propria malattia.
  • Home: un luogo sicuro dove vivere.
  • Purpose: attività significative, ad esempio il lavoro, lo studio, il tempo libero.
  • Community: sentirsi parte di una rete sociale (ad es., amici, famiglia, quartiere o paese dove si vive).

Anche se i servizi di salute mentale italiani si sono mostrati sensibili a questo concetto, resta ancora da completare “[…] il loro ri-orientamento verso il supporto agli utenti nel raggiungimento dei propri obiettivi di vita, piuttosto che sugli obiettivi dei professionisti o sulle rappresentazioni di questi ultimi in relazione agli interessi dei loro utenti. In tale ottica, va proposto e valorizzato il processo di autonomizzazione degli utenti nella gestione del loro budget di cura. Conseguenze importanti della partecipazione degli utenti dei Servizi agli obiettivi da raggiungere sono la facilitazione della loro inclusione nella comunità e la riduzione della loro dipendenza dal sistema dei Servizi per la salute mentale” (Bruschetta et al., 2016). Il budget di cura o di salute può essere definito come “[…] insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie per innescare un processo finalizzato alla ri-acquisizione di abilità sociali della persona, attraverso un progetto terapeutico-riabilitativo individuale” (Gruppo europeo di cooperazione territoriale). Questo discorso vale anche per gli operatori dei Centri Diurni che, pur fornendo ascolto, comprensione e rispetto, non sempre riescono ad evitare di orientare il modo in cui una persona gestisce il proprio disturbo e la propria vita. Siamo sulla buona strada, ma c’è ancora del lavoro da svolgere, sia in ambito formativo, sia in ambito di stanziamento di risorse.

Per quanto riguarda l’oggetto di questo articolo –la ciclo-officina– vorrei concludere riportando la richiesta che mi ha fatto qualche giorno fa un paziente: “dottore, ma perché non apriamo una vera e propria officina per riparare le biciclette?”.

Spesso le persone sono più avanti delle istituzioni!

Procedure e strumenti di autoterapia umoristica (2022) – Recensione

Ridi che ti passa. Approfondimenti sul libro “Procedure e strumenti di autoterapia umoristica” di Antonio Scarinci, Giovanni Maria Ruggiero, Lorenzo Recanatini e Valentina Carloni.

 

 Antonio (Scarinci, insieme a Giovanni Maria Ruggiero, Valentina Carloni e Lorenzo Recanatini) ha scritto un altro libro, dove trovi il tempo non è dato sapere, risponderebbe con la consueta leggerezza, minimizzando. Lo apro pensando al privilegio di aver percorso ben otto anni di strada insieme a lui, mio Didatta e Maestro, e vedo la dedica a Roberto Lorenzini, con il quale non ho mai avuto la fortuna di parlare di persona, ma che, come dice la dedica, mi ha sicuramente formata alla psicoterapia ed alla vita. Mi piace molto raccontare di aver fatto colazione con lui, a sua insaputa, per molti anni, e credo che sorriderebbe al pensiero che, a sua insaputa, c’è invece chi ha ottenuto un attico vista Colosseo; ad ognuno il suo, direbbe, credo. Leggevo al mattino uno dei suoi racconti su questo webjournal, uno dei suo casi clinici, che davvero mi hanno divertita, molto, e cresciuta come persona, oltre che come professionista.

L’umorismo come strumento di psicoterapia è da sempre una delle passioni di Antonio Scarinci, il quale, senza perdere un millimetro in termini di rigore scientifico e clinico, qualche anno fa iniziava le sue lezioni con piccoli spezzoni di film, protagonista per eccellenza Alberto Sordi, facendo fare esperienza corporea, a noi allievi, di come in terapia si possano utilizzare, nel perseguire i nostri scopi clinici, strumenti diversi, veicoli di leggerezza, serietà e rigore. In linea anche un altro paio di suoi volumi, il primo recensisce film e libri, descrivendoli ed inquadrandone gli obiettivi di utilità clinica nella condivisione con il paziente (Scarinci, 2012) e l’altro proprio sull’utilizzo dell’umorismo in psicoterapia (Scarinci, 2018).

Quest’ultimo volume, “Procedure e Strumenti di autoterapia umoristica”, di recentissima uscita, già recensito su questo webjournal, segue il razionale di cui sopra e costituisce uno strumento molto utile ed efficace di autoaiuto, per la condivisione con i nostri pazienti, ma anche per “solidificare” le nostre lezioni di didattica, in particolare durante il primo anno di specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, attraverso sintesi teoriche di aspetti salienti, asciuttamente e magistralmente riportati con rigore scientifico, riguardo al funzionamento dell’essere umano, ed in particolare della nostra mente, sia dal punto di vista filogenetico che ontogenetico, nonché di come il nostro sistema cognitivo-affettivo sia orientato dai nostri scopi e desideri, in considerazione dei nostri valori e delle nostre credenze.

Il libro contiene inoltre alcuni capitoli dedicati in particolare ai disturbi d’ansia e depressione nonché un approfondimento delle tecniche CBT Standard e REBT per la gestione della sofferenza emotiva. Albert Ellis è stato infatti uno dei precursori dell’utilizzo dell’umorismo in psicoterapia asserendo, come riportato nel testo stesso del volume, che questo sicuramente non guarisce i nostri stati emotivi di sofferenza ma anche che, altrettanto certamente, non prenderci troppo sul serio rappresenti un ottimo passo in quella direzione.

Ci guidano inoltre gli autori alla ristrutturazione cognitiva umoristica, accompagnandoci nell’utilizzo di questo strumento anche attraverso alcune tecniche immaginative e condividendo il modello di somministrazione anche nel setting di gruppo, già ampiamente sperimentato dal Dott. Scarinci con gruppi di pazienti gravi (Scarinci et. al., 2021).

 Ma questo prezioso e rigoroso lavoro, che cerca di insegnarci a non prenderci troppo sul serio, si fonda e trova riscontro anche nelle più recenti scoperte di neuroscienze. L’utilizzo dell’umorismo potrebbe costituire in psicoterapia uno strumento che, sotto il profilo neuropsicologico, percorre la doppia via, top-down e bottom-up, aiutandoci in una maggior sedimentazione della ristrutturazione, ove possibile, e rendendosi utile anche con pazienti gravi, con poche risorse o con deficit metacognitivi (Semerari, 1999), più o meno stato-dipendenti; per esempio, i pazienti con Disturbo Bipolare in entrambe le fasi di umore (Cusi et al., 2012; Turchi et al., 2016; 2021).

L’umorismo porta la coppia terapeuta-paziente a sorridere e, attraverso il sorriso, ci fa “fare le facce”, facce che rimandano un’emozione universalmente riconosciuta (Ekman & Friesen, 2003) fra essere umani, che dunque la riconoscono, ma che corrisponde anche all’impegno di correlati corporei muscolari, il quale, a sua volta, coinvolge l’eccitazione di determinati gruppi neurali, corrispondenti all’esperienza dell’emozione stessa.

Succede quindi che mentre effettuiamo un intervento di ristrutturazione umoristica con i nostri pazienti, non ottemperiamo soltanto a perseguire lo scopo, già di per sé importante, di trasformare le loro idee irrazionali ed i loro pensieri disfunzionali in prospettiva umoristica, con l’obiettivo di modificare i loro schemi di sé, del mondo e dell’altro, ma favoriamo anche, nel condividere poi l’ABC con il paziente, anche l’esperienza incarnata del piano emotivo umoristico. Questo avviene sia attraverso l’impegno dei muscoli facciali coinvolti nell’emozione della felicità, i quali ecciteranno i corrispondenti gruppi neurali, passando anche attraverso il sistema limbico, e quindi rimandando di fatto la sensazione emotiva al paziente, sia attraverso l’ulteriore canale di riproduzione automatica, non consapevole e pre-riflessiva, dello stato mentale dell’altro (Gallese, 2003; 2005; 2006).

La simulazione incarnata, messa in atto in maniera del tutto automatica dai nostri pazienti –e dallo psicoterapeuta– in terapia, il luogo dove le menti si agganciano, permette di comprendere l’espressione emotiva dell’altro nella sua intenzione, poiché condivisa a livello neurale attraverso una risonanza non mediata (Goldman & Sparida, 2004), nonché di afferrare immediatamente il senso delle emozioni dell’altro (Gallese et al., 2006).

I due, paziente e terapeuta, si scambiano quindi, in modo del tutto pre-riflessivo –partendo dal basso– l’esperienza emotiva corporea, oltre a ristrutturare –dall’alto questa volta– i pensieri automatici negativi e le credenze, in senso umoristico, fra costruzione soggettiva della realtà ed emozione/imitazione incarnata.

In conclusione, questo mi sembra solo un punto di partenza per molte altre riflessioni teoriche, veicolo di utili applicazioni cliniche nel cercare di curare la sofferenza emotiva dei nostri pazienti e svolgere con cura, passione e rigore il nostro lavoro.

Le credenze metacognitive ed i problemi interpersonali

I problemi interpersonali sono una delle caratteristiche principali dei disturbi di personalità (Hopwood et al., 2013; Wilson et al., 2017) e sono comuni anche nei disturbi dell’Asse I, come i disturbi d’ansia (Tonge et al., 2020), il disturbo da stress post-traumatico (Elmi & Clapp, 2021), o il disturbo depressivo maggiore (Bird et al., 2018). 

I fattori associati alle problematiche interpersonali

Ci sono numerosi fattori che possono contribuire al mantenimento delle problematiche relazionali; uno di questi risulta essere il disagio emotivo (Grant et al., 2013; Hepp et al., 2017), associato ad una ridotta capacità di gestire gli affetti negativi ed i fattori di stress. Rispetto ad una prospettiva evolutiva, una revisione sistematica ha riscontrato un’associazione tra l’attaccamento adulto, in particolare quello evitante ed ansioso e le problematiche interpersonali (Hayden et al., 2017).

Anche i tratti di personalità sono risultati essere collegati; attraverso l’utilizzo delle cinque dimensioni del Big-5 (Nevroticismo, Estroversione, Apertura all’esperienza, Amicalità e Coscienziosità) il nevroticismo si è visto essere correlato positivamente, mentre l’estroversione e l’apertura all’esperienza hanno mostrato una associazione negativa (Nysæter et al., 2009).

Il modello metacognitivo e la psicopatologia

Il modello metacognitivo dei disturbi psicologici (Wells, 2019; Wells & Matthews, 1994) presuppone che i problemi interpersonali ed i disturbi emotivi siano causati da un modello di elaborazione e di auto-regolazione, definito sindrome cognitiva attentiva (CAS), caratterizzato da pensieri negativi perseveranti ed intrusivi come preoccupazione, ruminazione, monitoraggio delle minacce e comportamenti di coping (intenti a fronteggiare una determinata situazione/stato emotivo) disfunzionali. Le credenze metacognitive sono la risultante di distorsioni nel sistema di controllo metacognitivo e si sono viste essere alla base di differenti psicopatologie. In particolare, le credenze metacognitive negative sull’incontrollabilità e la pericolosità delle cognizioni compromettono l’autoregolazione contribuendo ad interpretazioni negative degli eventi (Wells, 2009). La terapia metacognitiva si è vista essere un trattamento efficace sia per i disturbi d’ansia che per il disturbo depressivo (Normann & Morina, 2018) e si è mostrata impattare positivamente anche sui problemi interpersonali. Nonostante questo, l’associazione diretta tra credenze metacognitive e problemi interpersonali non è ancora stata testata.

Credenze metacognitive e problematiche interpersonali

Per questo, lo studio pubblicato nel 2021 (Nordahl et al., 2021), basandosi sui risultati ottenuti dalle ricerche precedenti, ha avuto come scopo la valutazione delle credenze metacognitive in associazione ai problemi interpersonali, controllando anche variabili quali l’attaccamento adulto e le dimensioni di personalità del Big-5, per cercare di identificare i fattori psicologici implicati nel modello metacognitivo.

Per la valutazione di queste variabili il progetto di ricerca ha preso in considerazione nel complesso 296 studenti universitari di psicologia ancora non laureati.

 Dai risultati è emersa un’associazione significativa tra tutte le sottoscale delle metacredenze ed i problemi interpersonali. In particolare, le credenze negative riguardanti l’incontrollabilità e la paura del rimuginio, a conferma delle ricerche precedenti, sono state riportate essere quelle maggiormente relazionate alla gravità dei problemi interpersonali.

Nonostante ciò, lo studio sottolinea il contributo delle credenze positive, dei bassi livelli di fiducia nella cognizione (ad esempio nella memoria) e degli alti livelli di consapevolezza sui propri processi di pensiero (consapevolezza delle proprie cognizioni) rispetto alle problematiche interpersonali.

Per quanto riguarda le dimensioni di personalità del Big-5, a conferma delle ricerche precedenti che sottolineano l’associazione tra alti livelli di coscienziosità e minori problematiche in ambito interpersonale (Du et al., 2021), solo la coscienziosità è risultata essere collegata negativamente ed indipendentemente; inoltre, questo dato ci indica che le metacognizioni potrebbero avere un impatto maggiore sul funzionamento interpersonale rispetto alle dimensioni di personalità.

Rispetto all’attaccamento adulto, lo stile maggiormente associato alle problematiche relazionali è risultato essere quello evitante, mentre per quanto riguarda le metacredenze disfunzionali, sono emerse delle correlazioni con gli attaccamenti insicuri; in particolare le credenze metacognitive positive, quelle negative e la fiducia cognitiva si sono mostrate essere relazionate a tutti e tre gli stili di attaccamento insicuro. Queste osservazioni sono state riportare anche da articoli precedenti (Myers & Wells, 2015) che, oltre a confermare queste associazioni, supportavano la richiesta di studi che andassero ad indagare ulteriormente l’attaccamento adulto nel modello delle metacredenze. Gli obiettivi principali della terapia metacognitiva sono la modificazione delle credenze metacognitive e la regolazione di queste ultime (Wells, 2009); studi precedenti (Wells, 2009) hanno mostrato che la terapia metacognitiva (MCT) è associata a miglioramenti in ambito relazionale nei pazienti con disturbi d’ansia, depressione e disturbo borderline di personalità, nonostante non miri direttamente al miglioramenti di quest’area; l’attuale studio (Nordahl et al., 2021) ha dimostrato che la MCT,  agendo sulle metacredenze, un’area che dai risultati si è riscontrata essere associata alle problematiche interpersonali, potrebbe essere efficace sia per quanto riguarda la riduzione della sintomatologia psicopatologica, sia per il miglioramento dell’area relazionale.

Conclusioni

In generale lo studio ha ampliato le conoscenze del modello metacognitivo relazionandolo anche al dominio interpersonale e riscontrando numerose associazioni tra le sottoscale delle metacredenze disfunzionali, l’attaccamento insicuro e le problematiche interpersonali. Nonostante ciò, sono necessari nuovi studi per la conferma e l’ampliamento di questi dati; infatti sarebbe interessante andare ad indagare queste dinamiche su un campione clinico di pazienti con disturbi di personalità oppure condurre studi longitudinali per la valutazione delle relazioni temporali.

Psicologia dell’aviazione: la salute mentale ad alta quota

Quello dell’aviazione è un settore tanto affascinante quanto complesso. Per questo la psicologia dell’aviazione agisce nel supporto e nella tutela della salute mentale di tutto il personale di viaggio, anche grazie all’integrazione di tecnologie sempre più avanzate.

 Il tema della salute mentale nel mondo dell’aviazione ha cominciato a destare l’interesse da parte dei professionisti in maniera più massiva in seguito all’attentato alle Torri Gemelle, quando molti piloti rimasero profondamente scioccati – come del resto ognuno di noi – da un evento di tale impatto, sviluppando in alcuni casi un quadro assimilabile al disturbo da stress post-traumatico (Bor et al., 2002).

Prima di allora c’era una grande disuguaglianza tra le fonti in letteratura: da una parte moltissimi scritti sulle procedure e gli strumenti di selezione del personale di volo, dall’altra quasi nessun contributo che indagasse nello specifico le sfide e le situazioni fortemente stressogene che la mente di un pilota doveva sopportare (Bor et al., 2002).

A più di vent’anni di distanza si può osservare un buon patrimonio redazionale che include materiale interessante sui trend dettati dalle nuove frontiere tecnologiche nel campo della salute mentale.

Tuttavia, ci sono voluti altri tragici eventi prima di raggiungere quella consapevolezza essenziale per prendere seriamente in considerazione il tema della cura mentale nel mondo dell’aviazione.

In questo senso, la moderna figura dello psicologo che opera in questo ambito è diventata essenziale nel supportare tutto il personale di volo a partire dalle prime selezioni fino alla formazione e al training vero e proprio.

Breve storia dell’aviazione

L’evento che battezzò il campo dell’aviazione fu l’esperimento condotto nel 1903 dai fratelli Wright: pionieri aviatori che provarono come anche “un mezzo più pesante dell’aria” potesse spiccare il volo e mantenere quota (Infante, 2022). Già dalla Prima Guerra Mondiale e successivamente con la Seconda, il campo dell’aviazione si consolidò e con esso anche l’attenzione nei confronti della figura del pilota, al quale erano richieste estrema lucidità, concentrazione e sprezzo del pericolo: l’obiettivo era mirare e colpire in modo preciso con l’artiglieria mentre si viaggiava ad alta quota e in scarse condizioni di sicurezza.

Successivamente, questa stessa figura è andata incontro a un’evoluzione dettata soprattutto dal progresso tecnologico che ha profondamente migliorato le condizioni di sicurezza e modificato l’ergonomia delle cabine di pilotaggio trasformandole in un coacervo di spie luminose, leve, pulsanti e complessi strumenti aerodinamici.

Psicologia dell'aviazione la salute mentale nei piloti e nel personale di volo - imm1

Oggigiorno essere un pilota non significa solo avere eccellenti capacità tecniche: è una professione molto più complessa che mette a dura prova oltre che la resistenza fisica anche quella mentale.

Il caso del volo Germanwings e la nascita della psicologia dell’aviazione

L’evento che ha portato il mondo dell’aviazione a valutare seriamente la possibilità di introdurre un regolamento a tutela della salute mentale, è stato il caso del volo Germanwings del 2015 in cui il copilota a bordo ha intrapreso un’azione suicidaria facendo schiantare il velivolo sulle Alpi francesi nella tratta Barcellona-Düsseldorf; una tragedia in cui persero la vita 150 persone (Pinsky et al., 2020; Vuorio & Bor, 2020).

Il copilota era un giovane di 27 anni con una buona esperienza di volo alle spalle, a cui qualche anno prima della tragedia era stata diagnosticata una depressione aggravata dalla presenza di manifestazioni suicidarie. Dopo undici mesi di sospensione, il ragazzo venne riammesso e reinserito, visto il superamento a pieno punteggio dei testi medici e psicologici.

La portata di tale evento ha creato grande riverbero mediatico, in seguito al quale l’Agenzia Europea per la Sicurezza Aera (EASA) prese provvedimenti per introdurre nel nuovo regolamento europeo una norma per la tutela della salute mentale, soprattutto dei piloti. Successivamente, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) ha deliberato la figura professionale di psicologo dell’aviazione con l’obiettivo, non solo valutare l’eventuale presenza di psicopatologie, quanto più di assicurare che l’assetto psicologico, emotivo e affettivo del soggetto sia coerente con quanto richiesto dalla professione, dando prova di essere responsivi anche in situazioni di emergenza. A conferma di quanto sia necessario il monitoraggio della salute mentale in tale ambito, a partire da agosto 2020 è stato istituito l’obbligo di valutazione psicologica a tutto il personale di viaggio.

Fattori predittori di outcome psicopatologici

 Variabili psicologiche come stress da lavoro, emotività e strategie di coping disfunzionali possono influenzare profondamente le performance del pilota durante l’attività di volo (Luciani et al., 2022; Cahill et al., 2021) e, nel lungo termine, portare allo sviluppo di quadri psicopatologici come ansia e depressione, che risultano tra i più comuni (DeHoff & Cusick, 2018). Si stima che circa il 40% dei soggetti sostiene di aver raggiunto la soglia per diagnosticare una depressione moderata, condizione psicopatologica che sembra diminuire con l’avanzare dell’età (Pasha et al., 2018; Wu et al., 2016). Tuttavia, stress da lavoro e disturbi del sonno, abbinati a un’alterazione dei ritmi circadiani, sono fattori predittivi di una sintomatologia depressiva, specialmente nella popolazione femminile (Pinsky et al., 2020).

Come illustra il disastro Germanwings, un altro scoglio importante nel mondo dell’aviazione riguarda il rischio suicidario tra i piloti, che, soprattutto durante il periodo di pandemia, ha registrato un picco in aumento del 15% (Fitzpatrick et al., 2020). Dai dati in letteratura, sembra che un quadro da Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) sia connesso a incidenti aerei fatali (Vuorio & Bor, 2020). Non solo, secondo uno studio del 2020 gli incidenti aerei di matrice suicidaria sono commessi da uomini con un’età media di 38 anni e che per sostenere i ritmi frenetici dettati dalla professione ricorrono a strategie di coping disfunzionali quali uso di alcol e stupefacenti. In particolare, il consumo di alcol e il sovradosaggio di farmaci è un dato molto allarmante. A questi si aggiungono fatica, stress, deprivazione del sonno e voli molto lunghi, tutti elementi che possono indurre distrazione, portando il pilota a sottovalutare segnali allarmanti (Pinsky et al., 2020; Gordon et al., 2017).

Prevenzione con realtà immersiva e biomarker

La tecnologia in questo sta dando un grande contributo, sia nella fase di training e formazione, sia nel caso in cui si deve valutare il margine di rischio nei piloti senior (Schaffernack et al., 2021).

Attraverso un simulatore di volo che sfrutta la modalità immersiva e il Machine Learning (un tipo di intelligenza artificiale che consente di migliorare alcune specifiche prestazioni), è possibile valutare la memoria visiva e quella prospettica, e predire con una certa accuratezza la probabilità di fare incidenti in base alla performance (Van Benthem & Herdman, 2021).

 

Per quanto concerne la sfera della psicopatologia, i dispositivi indossabili (wearable) permettono di monitorare in presa diretta le diverse modificazioni fisiologiche: in questo modo, sfruttando il fenotipo digitale (digital phonotype), si possono analizzare pattern di funzionamento psicofisiologico ricorrenti riconducibili a specifici quadri psicopatologici (Müller & De Rooy, 2021).

Sebbene il digital phonotype sia una risorsa straordinaria frutto delle nuove frontiere della tecnologia, è necessario condurre ulteriori studi empirici al fine di garantire la validità e l’affidabilità di tali strumentazioni in termini diagnostici e clinici.

La vita comune. L’uomo è un essere sociale (2023) di Tzvetan Todorov – Recensione

Cortina ripubblica nel 2023 il testo di Todorov “La vita comune. L’uomo è un essere sociale”, dato alle stampe in Francia nel 1995 e in Italia nel 1998.

L’autore

 Todorov è nato a Sofia nel 1939, dopo gli studi si allontana dalla Bulgaria comunista e approda nel 1963 in Francia, divenendone in seguito cittadino naturalizzato. A Parigi Todorov si afferma nella critica letteraria, nella filosofia e nell’antropologia, rivolgendo i suoi studi in particolare alla filosofia del linguaggio, disciplina che concepisce come un aspetto della semiotica. In Francia lavora con Roland Barthes, prima come allievo, poi con ruoli sempre maggiori; contribuisce alla divulgazione del formalismo russo, si avvicina allo strutturalismo ma, rispetto a esso, mantiene una posizione autonoma, caratterizzata dal suo interesse peculiare per le grandi questioni morali e per come esse sono state affrontate all’interno delle varie culture umane. Inoltre, si è occupato del ruolo del singolo e della sua responsabilità nella storia. È stato visiting professor di numerose università internazionali, soprattutto statunitensi, conseguendo importanti riconoscimenti. In Francia, è stato direttore di ricerca presso il Centre National de la Recherche Scientifique. Molto estesa la sua produzione letteraria saggistica e tra i temi affrontati nei suoi volumi storici vanno citati i campi di concentramento nazisti e stalinisti, le cause delle guerre, la conquista dell’America. In ogni caso, è possibile ritrovare un tratto unitario in tutta la sua ampia e diversificata opera: la ricerca di una posizione intellettuale e morale che, pur all’interno di un’eterogeneità di oggetti di studio, prova a discernere costantemente tra il bene e il male, il giusto e l’errore. È morto nel 2017 a Parigi, affetto da atrofia multi-sistemica.

Il testo La vita comune

“La vita comune” è considerato uno dei suoi scritti più importanti in quanto rappresenta una parziale sintesi dei suoi interessi e delle sue competenze. Gli interrogativi a cui il libro prova a dare una risposta sono sostanzialmente questi: “Cosa si vuole affermare quando si intende l’uomo un essere sociale? Cosa comporta la constatazione che non esiste un io senza un tu? Perché la vita comune è l’unico genere di vita per i gruppi e le collettività?”. In un certo senso, egli inverte i termini consueti della questione esplorando il ruolo che la società occupa nell’uomo piuttosto che interrogarsi sul posto dell’uomo nella società.

Nel primo capitolo il tema del rapporto tra uomo e società viene ripercorso all’interno del pensiero filosofico occidentale, dando particolare rilievo alle riflessioni di Jean-Jacques Rousseau, al cui pensiero Todorov dice esplicitamente di ispirarsi. Studiando le grandi tradizioni del pensiero filosofico occidentale emerge una tesi insospettata, ma non dichiarata apertamente, che egli confuta, secondo cui la dimensione sociale non è considerata necessaria alla vita dell’uomo. In seguito, il discorso si allarga al contributo della psicologia e della psicoanalisi. Todorov si dice particolarmente interessato alla psicologia dello sviluppo affettivo del bambino nella prima infanzia e alla psicoanalisi relazionale. Nell’introduzione chiarisce di fare largo uso del contributo di scrittori, poeti e romanzieri in quanto il pensiero letterario possiede pari dignità, come via conoscitiva dell’umano, delle scienze umane. Infine, riconosce nell’introspezione personale un’ulteriore fonte di conoscenza antropologica da cui ha attinto. A tal proposito, afferma come tutti i temi trattati nei suoi libri siano sempre nati da una passione e da un interesse profondo verso quell’argomento.

La concezione dell’uomo

Questo testo, come disciplina di appartenenza, va situato nell’antropologia, che egli intende collocata a metà strada tra la filosofia e le scienze umane, nel tentativo di costruire un ponte tra tali aree di pensiero. Essa si distingue da discipline quali la psicologia, la sociologia o l’etnologia in quanto, piuttosto che focalizzarsi su una certa forma o aspetto dell’esperienza umana, va a ricercare la definizione implicita dell’umano in sé.

 Un concetto fondamentale per comprendere l’importanza della dimensione sociale è quello del riconoscimento. L’uomo è un essere comunitario che da sempre vive in un contesto collettivo. Pertanto, l’individuo ha bisogno che il suo gruppo di riferimento, sia esso la famiglia, l’ambiente professionale o quello sociale, prenda atto di lui e ne riconosca l’identità. Il riconoscimento è proprio la legittimazione che ogni persona riceve dal proprio contesto sociale di appartenenza, necessario per ottenere un’immagine positiva di sé. La sua assenza ci rende monchi e incompleti.

Una tesi essenziale di Todorov è che non sia l’isolamento a rappresentare un’autentica minaccia per l’esistenza umana in quanto esso è di fatto impraticabile, finanche per gli eremiti e per chi vive in clausura. Piuttosto, un rischio reale proviene dalla rappresentazione individualistica della vita, che ci fa vivere drammaticamente la condizione umana, nel rapporto tra la nostra incompletezza originaria e il bisogno naturale che abbiamo degli altri.

Il testo mostra la complessità delle conoscenze di Todorov, a cavallo di numerose discipline che egli padroneggia mirabilmente. Tuttavia, proprio per l’ampiezza dei riferimenti teorici, le contaminazioni tra materie e la ricchezza delle suggestioni culturali che contiene, il libro è riservato a chi già possiede un minimo di conoscenze basilari e intende farne oggetto di studio, altrimenti la sua lettura può risultare inevitabilmente ostica.

La percezione di sé nell’Anoressia Nervosa: quando il corpo diventa un oggetto

L’anoressia nervosa (AN) ha un forte impatto sulla percezione corporea al punto che emergono alterazioni percettive nel caso di azioni reali e immaginarie.

La percezione del proprio corpo

 Quando percepiamo il nostro corpo in relazione allo spazio che ci circonda, possiamo assumere due prospettive diverse. Immaginate di essere seduti sul lato corto di un tavolo, al centro del quale c’è una mela che volete afferrare. Potete immaginare l’azione in base alla prospettiva del vostro corpo: muovete il braccio verso la mela, che è di fronte a voi, la afferrate e la portate alla bocca. Questa prima prospettiva è chiamata prospettiva centrata sul corpo, in prima persona o egocentrica, e dipende dalla posizione del nostro corpo e delle sue parti rispetto all’ambiente (Burgess, 2006; de Lange et al., 2008). In alternativa, si può assumere una prospettiva allocentrica, in terza persona, basata sulla conoscenza di come dovrebbe apparire un movimento o una postura quando lo si osserva dall’esterno, cioè dalla prospettiva di un osservatore esterno (Burgess, 2006; de Lange et al., 2006). Osservate vostra sorella, seduta accanto a voi a tavola, che afferra la mela e la mangia. In questo caso, il cervello elabora la posizione della mela in relazione alla posizione del corpo dell’altra persona. L’assunzione di una prospettiva egocentrica piuttosto che allocentrica modella la cognizione spaziale, le azioni nello spazio e le interazioni sociali (Vogeley et al., 2004). Inoltre, vivere lo spazio come centrato sul proprio corpo aumenta la percezione di noi stessi come agenti nell’ambiente (Vogeley et al., 2004).

Psicopatologia e percezione di sé

In particolare, esistono evidenze neuropsicologiche che suggeriscono un’alterazione della percezione di sé in diverse condizioni cliniche in cui è coinvolto il corpo, come i disturbi del movimento (Fiori et al., 2013, 2014; Scarpina et al., 2019), il dolore (Coslett et al., 2010; Schwoebel, 2001) e l’assenza congenita di parti del corpo (Funk & Brugger, 2008). Per altre condizioni, invece, le prove sono ancora scarse. È il caso dell’anoressia nervosa (AN), che ha un forte impatto non solo sull’aspetto fisico, ma anche sulla percezione corporea (Gadsby, 2017). Il suo effetto sul corpo è così pervasivo che emergono alterazioni percettive nel caso di azioni reali (Guardia et al., 2010, 2012; Keizer et al., 2011; Metral et al., 2014) e immaginarie (Beckmann et al., 2021; Guardia et al., 2010, 2012; Metral et al., 2014). Quando le donne affette da anoressia nervosa attraversano aperture simili a porte, ruotano le spalle più di quanto le loro dimensioni fisiche dovrebbero richiedere. Questo comportamento suggerisce che si comportano come se avessero un corpo più grande rispetto alle reali dimensioni fisiche, coerentemente con la sovrastima dei giudizi sulle dimensioni corporee (Keizer et al., 2011). In particolare, l’errore di valutazione sembra riguardare solo il proprio corpo e non quello degli altri (Guardia et al., 2012). Il fatto che le azioni reali e immaginarie siano distorte nell’anoressia nervosa non sorprende se si considera che entrambe le azioni si basano sulla stessa rappresentazione cognitiva del corpo, influenzata non solo da sensazioni e percezioni periferiche, ma anche da ricordi, sentimenti e cognizioni sull’anatomia propria e altrui (Coslett et al., 2010; Parsons, 1987; Schwoebel, 2001; Sirigu et al., 1996). Precedenti evidenze nel campo (Beckmann et al., 2021; Guardia et al., 2010, 2012; Keizer et al., 2011; Metral et al., 2014) si riferiscono ad azioni centrate sul corpo (ad esempio, camminare) in relazione a un ostacolo esterno (ad esempio, aperture simili a porte) da evitare. In questo caso, il cervello calcola la posizione e il movimento del corpo in relazione all’oggetto da evitare (Holmes & Spence, 2004).

Tuttavia, deve ancora essere chiarito se le differenze di azione corporea emergono anche in assenza di oggetti esterni. In questo caso, i calcoli cognitivi necessari per eseguire un’azione si basano solo sulla posizione e sulle caratteristiche del nostro corpo, in un riferimento più egocentrico, rispetto ai processi allocentrici che si verificano quando nelle azioni sono coinvolti oggetti (Scarpina et al., 2022). Pertanto, la conoscenza di come e, soprattutto, in quale prospettiva gli individui affetti da anoressia nervosa percepiscono sé stessi nel proprio ambiente ha implicazioni non solo in termini di teorie della patologia ma può contribuire allo sviluppo di approcci terapeutici più completi (Scarpina et al., 2022).

La percezione di sé nell’anoressia nervosa

 Per verificare se le alterazioni comportamentali compaiono nell’anoressia nervosa anche quando le azioni vengono elaborate in base a un quadro di riferimento interno centrato sul corpo, gli autori dello studio hanno utilizzato una serie di compiti (Brusa et al., 2021; Scarpina et al., 2019, 2022). Questo insieme comprende:

  • il compito di lateralità della mano (Hand Laterality Task) (Parsons, 1987), in cui gli individui giudicano se uno stimolo visivo rappresenta la mano sinistra o la mano destra (cioè il giudizio di lateralità) in modo indipendente dalla rotazione spaziale (cioè la mano è mostrata senza rotazione o ruotata di 180°) e dalla vista (cioè è mostrato il palmo o il dorso della mano);
  • il compito di cronometria motoria mentale (Mental Motor Chronometry Task) (Schwoebel & Coslett, 2005), in cui si chiede agli individui di immaginare di eseguire movimenti con gli arti.

Entrambi i compiti si basano sull’immaginazione motoria, senza un movimento manifesto (Parsons, 1987; Rumiati et al., 2010), ma differiscono in termini di livello di consapevolezza richiesto per risolvere il compito (McAvinue & Robertson, 2008; Schwoebel & Coslett, 2005): infatti, nell’Hand Laterality Task gli individui adottano un processo più implicito rispetto al Mental Motor Chronometry Task, poiché le istruzioni non chiedono direttamente al partecipante di utilizzare l’immaginazione motoria (F et al., 2022).

L’ipotesi di Scarpina e colleghi (2022) si basa sulle precedenti evidenze relative al compito di evitamento degli ostacoli (Beckmann et al., 2021; Guardia et al., 2010, 2012; Keizer et al., 2011; Metral et al., 2014). Infatti, il lavoro di Keizer et al. (2011), in cui ai partecipanti è stato chiesto di camminare attraverso diverse aperture mentre eseguivano un compito di interferenza, valutando quindi un’azione corporea più implicita, e di altri (Beckmann et al., 2021; Guardia et al., 2010, 2012; Metral et al., 2014), in cui i partecipanti sono stati invitati esplicitamente a pensare alle loro dimensioni corporee quando immaginavano azioni corporee, suggeriscono che il comportamento alterato nell’anoressia nervosa emerge indipendentemente dal livello di consapevolezza (F et al., 2022).

Nello studio sono state analizzate le prestazioni di undici donne affette da anoressia nervosa rispetto a diciotto controlli, nei due compiti di immaginazione motoria precedentemente illustrati. Inoltre, sono stati somministrati due compiti di controllo relativi all’immaginazione visiva (F et al., 2022).

Sono stati riscontrati i seguenti risultati:

  • nel compito di lateralità della mano, mentre i controlli hanno mostrato un comportamento (cioè un livello di accuratezza maggiore nel caso di stimoli visivi che mostravano le mani in una posizione comoda rispetto a una posizione scomoda) in accordo con le precedenti evidenze della letteratura (Brusa et al., 2021; Fiori et al., 2013, 2014; Parsons, 1987; Scarpina et al., 2019, 2022), i partecipanti con anoressia nervosa hanno ottenuto risultati migliori dei controlli: hanno giudicato la lateralità delle mani in posizione comoda e scomoda con lo stesso livello di accuratezza (Scarpina et al., 2022).
  • Per quanto riguarda invece il compito di cronometria motoria mentale, le prestazioni dei partecipanti con anoressia nervosa erano simili a quelle dei controlli per la mano destra (dominante), ma non per la mano sinistra (non dominante) (Scarpina et al., 2022). A differenza di quanto riportato nel compito precedente, non sono emerse differenze tra i gruppi nel compito di controllo che testa il processo di immaginazione visiva. Nell’anoressia nervosa è emersa una disfunzione dell’immaginazione solo quando tale processo riguarda le azioni corporee e non i movimenti degli oggetti (Scarpina et al., 2022).

Nel complesso, i risultati supportano l’ipotesi di un’alterazione dei processi di immaginazione motoria nell’anoressia nervosa, indipendentemente dal livello di consapevolezza richiesto. Inoltre, nell’anoressia nervosa potrebbe esserci la tendenza a considerare il corpo come un oggetto, adottando più prontamente una strategia di immaginazione visiva (che focalizza una prospettiva in terza persona) piuttosto che un compito di strategia motoria (in cui viene valorizzata la prospettiva in prima persona). Questo risultato è rilevante dal punto di vista clinico perché l’uso della prospettiva in terza persona può essere considerato l’equivalente neuropsicologico dell’auto-oggettivazione, che è un’esperienza corporea direttamente collegata al benessere e alla salute psicologica (Riva et al., 2015).

Psichiatri in Tribunale: troppo importanti ma troppo pochi – Comunicato Stampa

Zanalda: “Solo 1 psichiatra su 10 è disposto ad affrontare i casi in Tribunale per via della difficoltà della materia e della responsabilità che li aspetta. È urgente un intervento sugli investimenti”.

 A poche settimane dal Congresso che riunirà i maggiori esperti (21-23 aprile), il Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense spiega l’iter per entrare in Tribunale e richiama l’attenzione sulla necessità di una maggiore remunerazione per quanti decidono di firmarsi come psichiatri forensi per incrementarne il numero e la qualità.

Milano, 28 marzo 2023 –  Parte dalla recente riforma Cartabia l’appello di Enrico ZANALDA, Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense a favore della categoria che rappresenta e che ogni giorno in tribunale deve sostenere casi più o meno difficili che comportano importanti responsabilità decisionali per le conseguenze che possono avere sulla vita delle persone.

Questo e altri argomenti, saranno al centro del XXVI Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria Forense dal 21 al 23 aprile ad Alghero.

“Gli psichiatri che decidono di diventare periti sono un’esigua minoranza e questo è dovuto alla difficoltà della materia che comporta importanti investimenti di tempo in formazione a fronte dell’incertezza degli incarichi e della remunerazione tabellare degli stessi che non viene aggiornata da molti anni. I periti poi – precisa ZANALDA – devono avere la capacità di confrontarsi con le parti del procedimento e sostenere le loro convinzioni cliniche nel contraddittorio con i consulenti delle parti. Ci sono situazioni in cui si assiste a dei confronti anche aspri a cui molti colleghi non amano partecipare. La recente riforma Cartabia ha introdotto delle tempistiche procedurali telematiche, più stringenti e soprattutto la possibile valutazione sulla capacità della vittima di formulare la querela qualora questa non debba più essere formulata d’ufficio. Pur essendo la perizia psichiatrica un importante momento valutativo del procedimento penale, ad essa non è riconosciuta un’adeguata valorizzazione per cui sono sempre meno i giovani psichiatri che decidono di dedicarsi alla materia. In buona sostanza è un lavoro complesso, da svolgere in tempi limitati, esposto a critiche feroci, con importanti responsabilità e malretribuito”.

Psichiatri in Tribunale troppo importanti ma troppo pochi - Enrico Zanalda - Imm. 1
Imm. 1 – Dott. Enrico Zanalda, Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense

D: COSA SIGNIFICA FARE LO PSICHIATRA FORENSE?

R: “Lo psichiatra forense è un medico specializzato in psichiatria che lavora nel campo del diritto penale e civile. Il suo ruolo in un processo può essere diverso a seconda del tipo di processo e delle esigenze delle parti coinvolte. Ha come compito quello di fornire valutazioni e giudizi professionali in risposta a specifici quesiti posti dal Giudice sulla salute mentale di una persona coinvolta in un processo. Questi giudizi possono essere utilizzati per valutare aspetti diversi: la responsabilità penale di una persona, la sua capacità di prendere decisioni consapevoli, la sua capacità di partecipare al processo, la sua idoneità a testimoniare in tribunale e altri aspetti relativi alla salute mentale. Inoltre, vi è la valutazione delle vittime dei reati sia in rapporto a possibili circonvenzioni sia in rapporto al danno biologico di natura psichica che presuppone una diagnosi psichiatrica, In questi ultimi casi lo psichiatra talvolta collabora con il Medico Legale ma lo psichiatra forense è in grado di valutare la percentuale del danno anche in autonomia. Importante è la valutazione che viene effettuata per la volontaria giurisdizione nella quale si descrive la capacità di agire della persona fragile e si propone al giudice un progetto di tutela adeguato”.

D: CHI PUÒ DIVENTARE PSICHIATRA FORENSE E CHE PREPARAZIONE DEVE AVERE?

R: “È necessario anzitutto che sia un medico chirurgo specialista in Psichiatria, meglio se ha esperienza di lavoro nel servizio pubblico e abbia conseguito un master in psicopatologia forense o psichiatria. Vi sono poi alcuni docenti di psicopatologia forense o di psicologia forense che, se laureati in medicina, hanno le competenze per intervenire come periti psichiatri”.

D: QUANDO ENTRA IN GIOCO LO PSICHIATRA FORENSE?

R: “E’ necessario il suo intervento quando serve una valutazione sulla salute mentale di un soggetto autore o vittima di un reato in un processo penale o civile. Il Pubblico Ministero o l’avvocato, nella fase di indagine e il giudice di merito, formuleranno il quesito al consulente tecnico che per rispondere potrà anche avvalersi di psicologi (ad esempio per la somministrazione di test specifici). Il consulente tecnico nell’ambito del procedimento penale, può essere chiamato dal Pubblico Ministero, dall’avvocato o dal Giudice nella fase di cognizione della pena (tutto quello che precede la prima sentenza). Dovrà valutare la salute mentale dell’imputato e fornire un giudizio sulla capacità di intendere e di volere al momento dei fatti, sull’eventuale pericolosità sociale, sulla capacità di partecipare coscientemente al processo e sulla capacità di rendere testimonianza. Inoltre, durante la fase di esecuzione della pena, dovrà valutare eventuali infermità sopravvenute, per la compatibilità con lo stato di detenzione e per eventuali modificazioni delle misure di sicurezza detentive e non detentive. Nelle cause civili dovrà invece valutare le condizioni di una delle parti (attore o convenuto) di un contenzioso”.

D: QUANTI SONO GLI PSICHIATRI FORENSI IN ITALIA E NEL MONDO?

R: “Non essendoci un albo è difficile rispondere a questa domanda con dei numeri, si potrebbero contare gli psichiatri che sono iscritti come Consulenti Tecnici nei Tribunali italiani ma si dovrebbe avere un registro unico, invece ogni tribunale ha il suo. Essendo gli psichiatri in Italia circa 12.000, si potrebbe ritenere che un decimo sia accreditato come psichiatra forense per cui ritengo che siamo poco più di un migliaio potenzialmente ma forse il numero è inferiore. Bisogna anche dire che i giovani sono raramente attirati dall’effettuare perizie psichiatriche perché sono mal remunerate dai tribunali”.

D: QUALI SONO I DISTURBI MENTALI CHE VALUTA UNO PSICHIATRA FORENSE?

R: I disturbi mentali sono gli stessi che vedono gli psichiatri nella loro quotidianità. Non c’è una patologia a cui vengono attribuite maggiori propensioni a commettere reati. Nell’anziano, in ambito civile, sovente sono i declini cognitivi i disturbi che maggiormente vengono all’esame del consulente”.

D: CIVILE O PENALE: LA SITUAZIONE È LA STESSA?

 R: “Da un punto di vista retributivo la situazione nell’ambito civile è migliore poiché il compenso è affidato alle parti e non segue le lungaggini burocratiche dei Tribunali. Tuttavia i tempi richiesti per espletare un incarico in ambito civile sono più lunghi e articolati. Sono quasi sempre presenti le controparti e i contraddittori sono sicuramente più animati. Lo psichiatra in ambito civile viene chiamato per valutare la capacità di agire di un soggetto in relazione ai provvedimenti di tutela o a eventuali negozi, contratti o testamenti, argomenti molto complessi e controversi. Sempre nei contenziosi civili e anche in ambito del diritto del lavoro, lo psichiatra forense ha le competenze per la valutazione del danno biologico di natura psichica e la diagnosi clinica è di competenza solo ed esclusivamente del medico psichiatra”.

D: COSA SI ASPETTA DALLA RIFORMA CARTABIA?

R: “Francamente vi sono molte modifiche procedurali di cui ci faranno parte i Magistrati e gli avvocati. Per ora vi possono essere delle problematiche sulla procedibilità a querela di alcuni reati minori in cui la vittima se inferma di mente potrebbe non essere in grado di effettuarla. In questi casi andrà assistita da un rappresentante qualificato”.

D: COSA PREVEDE LA LEGGE SUL SUPERAMENTO DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI?

R: “Questa legge è il termine del percorso di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) iniziato nel 2003 con una famosa sentenza della corte suprema che escludeva l’automatismo: pericolosità sociale = Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Questo perché finalmente anche per il paziente autore di reato, veniva riconosciuto il diritto a una cura moderna non più eseguibile nel manicomio. Tale principio era stato riconosciuto per i pazienti non autori di reato nel 1978 (con la legge 180 così detta legge Basaglia), mentre i pazienti autori di reato hanno dovuto aspettare fino al 2014 per non essere più curati in manicomio”.

D: SI SENTE SPESSO PARLARE DI REMS: COSA SONO E COME LE VALUTA?

R: “È l’acronimo di Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza di tipo detentivo poiché il soggetto è costretto a rimanere all’interno per ordine del Giudice. Sono delle strutture sanitarie costituite sul modello di quelle residenziali psichiatriche e possono contenere un massimo di 20 posti. Vengono curati i pazienti autori di reato riconosciuti con vizio parziale o totale di mente la cui pericolosità sociale è tale che non si riesce a contenerla con un programma territoriale. La maggior parte dei pazienti con misure di sicurezza non detentive infatti viene inserita nelle strutture residenziali psichiatriche insieme a pazienti non autori di reato. Le REMS in poche parole sono delle comunità riabilitative chiuse”.

D: CI SONO ALMENO 3 COSE CHE CAMBIEREBBE NELL’ORDINAMENTO ATTUALE?

R: “La cosa più urgente è costituire i Punti Unici Regionali per il governo dei percorsi di cura. Un esempio vincente viene dalla Regione Piemonte in cui esiste un ufficio regionale in cui si incontrano regolarmente gli psichiatri delle ASL con i direttori delle REMS e quelli che lavorano nelle case circondariali. Questa collaborazione permette di studiare gli assegnati REMS e facilitare il percorso di uscita dalla REMS stessa per i pazienti che hanno completato il percorso “chiuso” e possono proseguirlo nelle strutture residenziali del territorio. In secondo luogo è urgente avere una struttura di psichiatri forensi nei Dipartimenti di Salute Mentale delle ASL che si raccorda con il Punto Unico Regionale per la gestione corretta dei percorsi dei pazienti autori di reato che devono poter essere realizzati con finanziamenti dedicati (in modo da non penalizzare i pazienti usuali). In terzo luogo sarebbe importante mettere mano al codice penale che è degli anni trenta e non è stato attualizzato alla moderna cura delle persone con malattia mentale, è ancora pieno di riferimenti ai manicomi che oggi sono considerati superati poiché dannosi anche per i pazienti autori di reato”.

 

A volte ritornano… il reato di istigazione all’anoressia

Ritorna la proposta di legge sull’istigazione all’anoressia e ai disturbi alimentari: cosa prevede e quali sono le criticità?

A ogni cambio legislatura, rispunta la proposta di introdurre l’articolo 580-bis del codice penale, cioè il reato di istigazione al ricorso a pratiche alimentari idonee a provocare l’anoressia o la bulimia.

L’eterno ritorno del DDL sul reato di istigazione all’anoressia

Questa volta tocca a Fratelli d’Italia, laddove nelle legislature passate ci hanno provato partiti come Lega, PDL, Italia dei Valori e PD (solo per citarne alcuni).

È Infatti da più di 10 anni che si cerca di introdurre il reato di istigazione all’anoressia senza successo. A partire dal 2009 delle oltre dieci proposte presentate alla Camera e al Senato solo un paio sono riuscite a superare i primi due step dell’iter legislativo (step 1: Presentazione del progetto di legge; step 2: Assegnazione a una commissione) e ad approdare all’esame della commissione, salvo poi arenarsi fino al termine della legislatura.

L’ultimo Disegno di Legge (DDL) proposto in ordine di tempo è stata depositato alla Camera nell’ottobre 2022 dalla Lega e ancora non è stata assegnato ad alcuna commissione.

Un DDL che è un deja vù

La notizia che Fratelli d’Italia presenterà in Senato un DDL sul reato di istigazione all’anoressia, annunciata lunedì 27 marzo 2023 in conferenza stampa presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato della Repubblica, è di fatto una non notizia.

Infatti la risonanza mediatica dedicata a questo progetto appare immotivata, considerando che si tratta di una proposta fotocopia dei 14 DDL precedenti che verosimilmente mai vedrà la luce.

Carcere e sanzioni amministrative per chi istiga all’anoressia

Proprio come negli anni passati, il DDL prevede sanzioni amministrative e reclusione per chi istiga al ricorso a pratiche alimentari idonee a provocare un disturbo alimentare. In particolare Fratelli d’Italia propone la reclusione fino a due anni e sanzioni amministrative da 20.000 a 60.000 euro, pene che aumentano a quattro anni di reclusione e sanzioni amministrative da 40.000 a 150.000 euro se il reato è commesso nei confronti di un minore di 14 anni, di una persona incapace di intendere e di volere o di una persona in minorata difesa (fonte: Open)

Un DDL contro i siti pro-Ana

La proposta di legge mira a colpire principalmente i siti pro-Ana ritenuti colpevoli di istigare al ricorso a pratiche che indurrebbero lo sviluppo di un Disturbo dell’Alimentazione.

Occorre però ricordare che i Disturbi dell’Alimentazione sono il risultato dell’interazione di più fattori: predisponenti (genetici, psicologici, ambientali e socioculturali), precipitanti (diete restrittive e difficoltà psicologiche personali) e di mantenimento (digiuno e il rinforzo positivo dall’ambiente).

L’idea che un disturbo così complesso possa svilupparsi a seguito dell’istigazione da parte di questi siti è estremamente riduttiva.

I disturbi alimentari, infatti, si sviluppano indipendentemente dai siti pro-Ana, che non causano disturbi alimentari, ma possono fungere da trigger o incoraggiamento, proprio come le critiche o i commenti sull’aspetto fisico percepiti come negativi possono scatenare, in persone predisposte, un esordio anoressico o bulimico.

Eppure non chiediamo la forca per ogni inopportuno “Ma sei ingrassata?!” che ci viene rivolto, anche se in alcuni casi questo rappresenta un chiodo in più su un’autostima di per sé già bassa e un ulteriore passo verso il tunnel del disturbo alimentare; perché? Perché alla fine ciò che fa la differenza è come una persona reagisce a ciò che le accade, non ciò che le accade in sé. “The problem is the user, not the site” (Hilton, 2018).

La soluzione non passa necessariamente dalla repressione

Promuovere progetti scolastici di educazione alimentare ed emotiva che trattano stili di vita, falsi miti, emozioni, credenze erronee legati a diete, alimentazione e disturbi alimentari potrebbe essere uno strumento molto più utile ed efficace. Come per ogni grande problema psicosociale sul web, dal bullismo all’hate speech, dal sessismo all’istigazione a mettere in atto comportamenti pericolosi, la soluzione più semplicistica è la repressione, quella più efficace è la psicoeducazione.

 

Come il cervello codifica la musica

Come riusciamo a memorizzare e riconoscere così tante musiche e canzoni? A ricordare spot e parti di colonne sonore? A recuperare in pochi secondi nella nostra mente tutte le informazioni che si sono ammassate negli anni? Semplice, il nostro cervello usa dei trucchi.

Diversa ma sempre uguale

 Immaginiamo di ascoltare una canzone, la stessa canzone, cantata prima da un uomo, poi da una donna, infine da un bambino. Il risultato finale sarà sicuramente diverso eppure la nostra capacità di riconoscere quel pezzo sarà la stessa, indipendentemente da chi l’abbia cantato. Stessa cosa se ascoltassimo quella medesima canzone eseguita con strumenti diversi o modificata per adattarsi, per esempio, a uno spot pubblicitario. La riconosceremmo comunque.

Questo avviene perché il modo in cui elaboriamo una melodia si basa sul rapporto tra i suoni (altezza e ritmo) più che sui suoni stessi. Questa strategia a cui ricorriamo inconsapevolmente è detta astrazione musicale. Quando il nostro cervello ascolta una musica effettua un’analisi acustica e la trasforma in materia musicale astratta, ossia ne crea una rappresentazione in cui ogni suono si identifica in base al rapporto con il suono che lo precede (sarà ad esempio più basso, più lungo, più dolce e così via).

Astrazione musicale

Questo processo implica una capacità di astrazione che a sua volta deriva da una serie di operazioni cognitive. La nostra mente, infatti, raccoglie, codifica e immagazzina nozioni per poi compiere quelle operazioni che le consentono di organizzare le informazioni che già possiede, trovando o costruendo relazioni tra esse allo scopo di dare loro un significato e costruire una nuova conoscenza.

Grazie alla capacità inconscia di compiere queste operazioni, quando ascoltiamo un brano che ci è noto siamo in grado di riconoscerlo in una frazione di secondo, siamo in grado di canticchiarlo e di recuperare nella nostra memoria una serie di informazioni che lo riguardano come l’autore, il titolo, le parole.

 Come avviene questo processo? La melodia viene elaborata da due sistemi che agiscono separatamente. Uno si occupa di analizzare la struttura del brano, la distanza tra le note, la tonalità, l’altezza dei suoni. L’altro effettua un’analisi temporale, la variazione della durata dei suoni, gli aspetti metrici e ritmici. Entrambi i sistemi mandano le loro informazioni al cervello che le archivia insieme a tutte le informazioni specifiche che abbiamo accumulato nel corso della nostra vita e che sono pronte per essere utilizzate all’occorrenza.

Memorizzare delle melodie reali renderebbe difficile riconoscerle se eseguite in modo differente, al contrario, le proprietà astratte che noi memorizziamo non cambiano e consentono al nostro cervello di fornirci gli strumenti per riconoscere un pezzo appena lo ascoltiamo.

Un esempio

Per capire come un ritmo possa essere “catalogato” facciamo un esempio. Immaginiamo di ascoltare dei suoni identici ripetuti a intervalli uguali. Dopo poco tempo il nostro cervello tenderà a suddividerli in gruppi. Conteremo, per esempio, 1, 2, 3, 4… per poi ricominciare e ricominciare ancora. Questo fenomeno è detto appunto raggruppamento ritmico o ritmizzazione collettiva, e ha un carattere percettivo e spontaneo.

Le regole che consentono che si realizzi sono di due tipi: uno percettivo, ossia prossimità e somiglianza dei suoni, e uno relativo alla struttura musicale, cioè l’uso di forme ritmiche stereotipate che ci consentono di collegare gli eventi sonori. Affinché il raggruppamento ritmico si possa realizzare, è necessario che si realizzino delle condizioni, ossia che la sequenza di suoni avvenga in un intervallo di tempo non troppo rapido e nemmeno troppo lungo; se ciò dovesse accadere i suoni non risulterebbero più percepiti come una sequenza ma scollegati fra loro.

Una curiosità

Un’ultima piccola curiosità è legata alla capacità di sincronizzazione, ossia di coordinare i nostri movimenti con la musica che stiamo ascoltando. Quante volte ci è capitato di battere le mani a ritmo di musica, di muovere un piede o picchiettare con un dito su un tavolo riproducendo un certo ritmo? Già a tre anni i bambini sono in grado di sincronizzare i movimenti della mano con la musica e questa azione, che può apparire semplice ed istintiva, implica in realtà l’utilizzo di complessi processi di acquisizione di informazioni. Per essere in grado di battere le mani seguendo il tempo della musica bisogna essere in grado di analizzare la serie temporale dei suoni, creare una struttura che ci permetta di prevedere il futuro e anticipare la pianificazione motoria in modo da essere in sintonia con il suono che deve ancora arrivare. Tutto questo può avvenire grazie al modo in cui abbiamo “archiviato” le informazioni raccolte.

ADHD e funzionamento sessuale

Gli studi relativi al funzionamento sessuale in adulti con ADHD sono ancora limitati ma alcuni studi hanno mostrato, in un campione femminile, difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo e, conseguentemente, scarso soddisfacimento sessuale, mentre in un campione maschile, eiaculazione precoce e disfunzione erettile.

Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD)

 Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) è un disturbo caratterizzato da sintomi di disattenzione, iperattività e impulsività che non corrispondono al normale livello di sviluppo del bambino (APA, 2013). L’ADHD è un disturbo spesso valutato durante l’infanzia ed è correlato a livelli più bassi di dopamina nel cervello (Qin et al., 2016).

Sono stati identificati tre tipi di ADHD: iperattivo-impulsivo, disattento e combinato. Il tipo iperattivo-impulsivo è caratterizzato da una mancanza di autocontrollo; le persone affette da questa variante hanno un bisogno costante di attività e sono molto impazienti. Il tipo disattento ha difficoltà a prestare attenzione, soprattutto ai dettagli. Il tipo combinato presenta caratteristiche di entrambi (Betchen, 2003).

L’ ADHD negli adulti si manifesta attraverso una serie di sintomi, alcuni dei quali influenzano non solo le attività lavorative e ricreative, ma anche le relazioni intime (Ben-Naim et al., 2017). Diversi sintomi di iperattività diminuiscono in età adulta, ma l’impulsività e i deficit legati alle funzioni esecutive diventano tendenzialmente più pronunciati (Resnick, 2005). Le funzioni esecutive comprendono una serie di processi cognitivi, tra cui la pianificazione, la memoria di lavoro, l’attenzione, l’inibizione, l’autocontrollo e  l’autoregolazione (Goldstein et al. 2014).

Nello specifico, i sintomi ADHD negli adulti spesso comprendono procrastinazione, disorganizzazione e dimenticanza, anche nel dedicarsi ad attività per loro piacevoli. L’iperattività è invece vissuta come tensione e irrequietezza, disturbi del sonno e difficoltà di gestione del tempo (Resnick, 2005; Bilkey et al., 2014). L’impulsività può portare a guida spericolata, stile comunicativo e relazioni interpersonali dominate da rabbia e impazienza, spese economiche eccessive e comportamenti sessuali a rischio, come ipersessualità (Reid et al., 2011; Blankenship & Laaser, 2004; Hosain et al., 2012).

Relativamente alla sfera sessuale, un altro fattore negativo è quello legato alle relazioni: la letteratura ha mostrato una maggiore presenza di paura e minori aspettative di intimità nelle relazioni sessuali in studenti universitari con ADHD (Marsh et al., 2015). Le caratteristiche sintomatologiche legate alla disattenzione nell’ADHD si ipotizza siano associate a una inferiore capacità di sviluppare intimità, la quale modella le aspettative riguardanti il dialogo reciproco, la passione, la fiducia, il sostegno, l’accettazione, l’amicizia e il rispetto (Ben-Naim et al., 2017).

ADHD e sessualità

Gli studi relativi al funzionamento sessuale in adulti con ADHD sono ancora limitati ma, in ogni caso, alcuni studi hanno mostrato, in un campione femminile, difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo e, conseguentemente, scarso soddisfacimento sessuale, mentre in un campione maschile, eiaculazione precoce e disfunzione erettile (Pakyurek, 2017; Bijlenga et al., 2018).

 Uno studio di Amani Jabalkandi e colleghi (2020) ha esaminato il funzionamento sessuale in adulti con ADHD (31 donne e 32 uomini), mettendoli a confronto con un gruppo di individui privi di diagnosi ADHD, definito “gruppo di controllo” (31 donne e 35 uomini). L’età dei partecipanti selezionati doveva essere compresa nel range 18-55 anni d’età. Una condizione necessaria per partecipare allo studio implicava l’interruzione della terapia farmacologia almeno nei due mesi precedenti all’inizio dello studio. Il funzionamento sessuale è stato valutato tramite il Female Sexual Function Index (FSFI) nelle donne e l’International Index of Erectile Function (IIEF) negli uomini.

I risultati hanno evidenziato la presenza, nel campione femminile con ADHD, di punteggi significativamente più bassi in tutti i domini del Female Sexual Function Index (ovvero desiderio, eccitazione, orgasmo, soddisfazione sessuale, dolore e lubrificazione) rispetto al gruppo di controllo. Anche per quanto riguarda il campione maschile con ADHD i punteggi medi dell’International Index of Erectile Function sono risultati più bassi in quasi tutte le sottoscale (ovvero, orgasmo, funzione erettile, soddisfazione del rapporto sessuale e soddisfazione generale) rispetto al gruppo di controllo; l’unica sottoscala priva di significatività è risultata essere quella del desiderio. La funzione orgasmica è risultata correlare negativamente alla presenza di sintomi ADHD, misurati tramite la Conners Adult ADHD Scale-Self Report, questo significa che a una maggior presenza di sintomi ADHD la capacità di avere un orgasmo diminuiva.

L’insoddisfazione sessuale può essere giustificata da molteplici fattori, come la mancanza di piacere fisico durante l’atto, ma anche fattori individuali come l’immagine negativa del corpo. Infatti, la letteratura evidenzia come questo fattore predica la soddisfazione sessuale nelle donne (Van Eck et al., 2018). Inoltre, è stato riportato che la disattenzione in soggetti con ADHD, necessaria per mantenere la stimolazione e raggiungere l’orgasmo in entrambi i sessi, può essere correlata a una debole eccitazione sessuale poiché i problemi di concentrazione sugli stimoli sessuali rendono difficile raggiungere un livello di eccitazione sufficiente a facilitare l’esperienza dell’orgasmo (Bijlenga et al., 2018).

 

Lo stress e i disturbi dell’alimentazione: una relazione complessa

La reazione di stress è un potente modulatore dell’assunzione di cibo: la relazione che vi è tra regolazione di un comportamento complesso, come quello alimentare, e lo stress è intuibile sia a livello psicologico che a livello endocrino-immunitario. Ma qual è la relazione tra lo stress e i disturbi alimentari?

 

Stress, asse HPA e alimentazione

 Le ultime ricerche nel campo dello stress (per esempio, Monteleone et al., 2018) evidenziano quanto lo stress, regolato dall’asse asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), provochi una serie di cambiamenti a livello fisiologico in grado di alterare la funzione nutritiva assumendo, quindi, un ruolo anche nel mantenimento dei disturbi alimentari.

In letteratura ci sono vari studi (per esempio, Klatzkin et al., 2018) che approfondiscono le relazioni tra le reazioni stressogene, il funzionamento dell’asse HPA e i disturbi alimentari, suggerendo la presenza di alcune alterazioni dell’asse dello stress nei soggetti affetti. L’iperattività dell’asse HPA, che sottende uno stato di attivazione stressogena, è ampiamente documentata soprattutto nelle fasi acute, sia nell’anoressia che, in forma più lieve, nella bulimia. Per quanto riguarda il disturbo da alimentazione incontrollata, anche abbreviato in BED (dall’inglese Binge Eating Disorder), il funzionamento di questo asse rimane ancora poco chiaro a causa del numero ridotto di studi.

Le alterazioni di questi sistemi stress-correlati, come si nota dai risultati di alcuni studi (per esempio, Omodei et al., 2015), sembrano essere coinvolte nell’insorgenza e nel mantenimento dei disturbi dell’alimentazione, e il loro ruolo sta acquisendo sempre più importanza sia per la comprensione della patogenesi sia per il modellamento di potenziali trattamenti integrati che tengano conto del loro coinvolgimento. Le anomalie psicopatologiche, comportamentali e biologiche, come la restrizione alimentare, l’attività fisica compulsiva, la disfunzione sessuale, l’amenorrea, l’osteoporosi, la compromissione delle funzioni tiroidee, le alterazioni immunoendocrine e la sindrome metabolica sono elementi centrali dei disturbi alimentari e tutti sembrano in qualche modo essere modulati dalla ipo o iper reattività dell’asse HPA.

Coping e disturbi alimentari

Dal punto di vista comportamentale, come possiamo vedere dai criteri diagnostici del DSM-5 (APA, 2014), pazienti con disturbi alimentari sembrano avere difficoltà ad elaborare adeguate risposte di coping allo stress, sia esso fisico o psicologico. Non essendo in grado di identificare e descrivere adeguatamente i propri sentimenti, oltre che risultare poco consapevoli del legame tra essi e i propri comportamenti, presentano una bassa tolleranza alla frustrazione e risposte disadattive agli stimoli stressanti. Ad aggravare il quadro della reazione stressogena vi è l’alto tasso di comorbidità psichiatrica presente nella popolazione disturbi alimentari, che aumenta ulteriormente il rischio di iperisposta agli stimoli peggiorando le risposte di coping e sovrattivando il sistema dello stress. Anche l’aspetto dell’attività fisica compulsiva e intensiva, tipico di anoressia e bulimia, induce l’organismo in uno stato di stress fisico cronico indotto dagli sforzi costanti al quale il corpo viene sottoposto, inficiando ulteriormente il funzionamento dell’asse dello stress.

I pazienti con disturbi alimentari, quindi, potrebbero essere considerati come soggetti cronicamente esposti a stress. Il loro atteggiamento patologico nei confronti del cibo e del corpo implica una vigilanza costante, determinando conseguentemente un perenne stato di allarme e necessità di controllo con una conseguente riduzione della vita sociale che viene inevitabilmente pregiudicata da questo.

Stress ed eziologia dei disturbi alimentari: il ruolo delle avversità infantili

Lo stress sembra avere un ruolo anche nell’eziologia del disturbo: gravi eventi avversi di vita sono spesso presenti nella storia dei pazienti con disturbi alimentari. È nota, infatti, una correlazione positiva tra l’insorgenza di disturbi alimentari ed eventi traumatici come abusi sessuali e fisici nella prima infanzia, come sottolineato dai risultati nella metanalisi condotta da Caslini e colleghi (2016), i quali riferiscono che “la presenza di varie forme di abuso sui minori è associata in modo differenziato con i vari disturbi alimentari”.

La relazione tra eventi avversi precoci della vita e l’asse HPA è stata verificata da numerosi studi (per esempio, Caslini et al., 2016), e non è quindi inaspettato un suo funzionamento anomalo in questi pazienti. Nello studio condotto da Hulme (2010) i risultati suggeriscono che i cambiamenti nella regolazione dell’asse HPA sono presenti in molti adulti che hanno subito abusi sessuali in infanzia, con e senza una diagnosi attuale di disturbo da stress post traumatico.

 L’effetto bidirezionale delle disregolazioni neuroendocrine che vengono considerate sia fattore predisponente sia conseguenza di un disturbo alimentare, oltre che il ruolo dell’iperattività dell’asse HPA e della sua influenza sulla funzione nutritiva e viceversa, risultano quindi temi centrali da esplorare nell’intervento su questi disturbi (Gibson e Mehler, 2019). Risulta quindi sempre più importante comprendere il ruolo del sistema neuroendocrino come anche quello dell’asse HPA nell’eziologia, nella patogenesi ma anche nel trattamento dei disturbi alimentari: un approfondimento di questi campi critici potrebbe consentire nuovi studi affidabili sulla natura e l’estensione delle associazioni tra psicopatologia specifica dei disturbi alimentari e disfunzioni dell’asse dello stress.

Il lato biologico dello stress: cortisolo e anoressia

I livelli di cortisolo, anche conosciuto come l’ormone dello stress, risultano anomali nella stragrande maggioranza della popolazione con anoressia. La disregolazione dell’asse HPA in pazienti con anoressia è ormai verificata dai risultati di molte ricerche (per esempio, Schmalbach et al., 2020) ma la difficoltà principale in questo tipo di indagini risulta essere l’attribuzione delle cause dell’alterazione, ovvero individuare se lo squilibrio del sistema dello stress sia dovuto alla eccessiva perdita di peso e malnutrizione o alla patologia in sé. Come si può notare dai risultati dello studio precedentemente citato, la perdita di peso, il ridotto apporto calorico e lo stato catabolico sarebbero in grado di influenzare l’asse HPA e altri sistemi endocrini, ma il cambiamento allostatico sembra vada oltre la mera condizione fisica di sottopeso. L’iperattivazione dell’asse HPA che si osserva nell’anoressia, infatti, si traduce anche in un aumento della secrezione di cortisolo in condizioni basali o dopo stimoli di stressanti. Lo studio condotto da Schmalbach e colleghi (2020) ha indagato la risposta del cortisolo salivare a un fattore di stress psicosociale in condizioni di laboratorio altamente standardizzate in pazienti ricoverati con anoressia e un campione abbinato di partecipanti senza anoressia. È stata riscontrata infatti una iperattivazione costante dell’asse HPA nei pazienti anoressici, la quale si riflette con livelli basali elevati di cortisolo in stato di riposo, oltre che una attenuata risposta del cortisolo in seguito all’esposizione stressogena. Rispetto ai controlli, inoltre, i pazienti anoressici e i pazienti esposti a stati di malnutrizione causata da malattie diverse dall’anoressia o indotta dalla fame, mostrano livelli maggiormente elevati di cortisolo plasmatico e un tasso ridotto di metabolismo del cortisolo, e queste anomalie sembrano essere invertite dal ripristino del peso.

Il lato biologico dello stress: il cortisolo nel binge eating

Il ruolo dell’asse HPA nell’obesità e nelle sue comorbilità è attualmente dibattuto. Come già citato precedentemente, il ruolo dello stress e delle emozioni negative risulta centrale in quanto questi precedono solitamente gli episodi di abbuffata. Un numero crescente di ricerche (per esempio, Gluck et al., 2004) mostra che il cortisolo rilasciato durante l’esposizione allo stress potrebbe promuovere la fame emotiva e il comportamento alimentare incontrollato (Tataranni et al., 1996). Come per l’anoressia, anche gli individui con binge eating disorder mostrano una reattività anomala dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, oltre che un’elevata sensibilità agli eventi stressanti. Lo studio di Gluck e colleghi (2004), ha riscontrato un aumento della secrezione di cortisolo dopo l’esposizione a uno stress fisico somministrato in laboratorio in persone affette da disturbo da alimentazione incontrollata rispetto ad individui obesi senza BED. È stato riportato infatti come la risposta variasse a seconda del tipo di fattore stressante: uno stress fisico (immergere una mano in acqua gelida), ha portato all’iperattività dell’asse HPA, mentre uno stress psicologico ha provocato una risposta non significativa. Tuttavia, il dato interessante è che il desiderio post-stress di abbuffarsi e di assumere dolci era significativamente più alto nel gruppo con binge eating disorder rispetto ai partecipanti senza, a prescindere dalla tipologia di stimolo stressante.

Questo risultato appare in linea con le conoscenze scientifiche attuali acquisite tramite gli studi scientifici evidenziati nel corso di questo articolo; è noto come sia nell’uomo e che negli animali, l’assunzione di cibo appetibile riduce l’entità della risposta allo stress poiché crea un’associazione tra il sollievo dallo stress e l’assunzione di tale cibo definito “confortante”. Secondo questa visione, il binge eating può essere un tentativo di ridurre lo stress e l’ansia attraverso una forma di automedicazione edonica basata sul piacere ottenuto dal cibo.

Tutte queste evidenze informano in merito al ruolo centrale dello stress in queste patologie e quanto, in effetti, la modulazione del cortisolo che riflette le risposte alterate degli assi dello stress sembra essere un campo meritevole di attenzione. Alla luce di queste evidenze empiriche, la speranza è che la ricerca si muova in questa direzione e che definisca sempre più la gestione dello stress, così come la reazione da stress alterata, come alcune tra le caratteristiche tipici del disturbo alimentare, importanti per una maggiore comprensione, cura, e gestione dello stesso.

Schemi maladattivi precoci e disturbi di personalità

Lo studio di Kunst e colleghi (2020) ha lo scopo di indagare quali relazioni sussistono fra i disturbi di personalità borderline, evitante, dipendente e ossessivo-compulsivo e i 18 schemi maladattivi precoci ad oggi conosciuti.

La letteratura correlazionale

 I disturbi di personalità sono dei pattern di percezione e comportamento pervasivi, persistenti e patologici tali da deviare dalle aspettative della cultura di riferimento e da creare disagio al funzionamento cognitivo, affettivo, interpersonale e del controllo degli impulsi dell’individuo (DSM-5, APA, 2013).

Diversi interventi clinici assumono che al nucleo dei disturbi di personalità ci siano degli schemi, ossia strutture cognitive correlate a sistemi di credenze disfunzionali del soggetto (Kellogg e Young, 2006). Nel contesto della Schema-Focused Therapy, il disturbo di personalità è legato agli schemi maladattivi precoci (Young, 1999), ossia a forti e stabili credenze su di sé e sul mondo che si sono sviluppate in infanzia in relazione a eventi avversi (Lumley e Harkness, 2007), stili genitoriali (Muris, 2006; Thimm, 2010), temperamento, tratti caratteriali (Halvorsen et al., 2009) e stili di attaccamento (Simard, Moss e Pascuzzo, 2011). I differenti schemi maladattivi precoci si attivano in risposta a certe situazioni che portano a sperimentare intense emozioni e a utilizzare strategie di coping disadattive (Mairet, Boag e Warburton, 2014). Essi, in questo modo, filtrano le esperienze dell’individuo e guidano le sue interazioni con gli altri e l’ambiente. Ciò rafforzerebbe gli schemi nel tempo, portando a ulteriori difficoltà resistenti al cambiamento (Jovev e Jackson, 2004).

Ad oggi sono stati definiti 18 diversi schemi maladattivi precoci, distinguibili in cinque domini:

  • Distacco e rifiuto (nel quale troviamo gli schemi maladattivi precoci di Deprivazione emotiva, Abbandono/Instabilità, Sfiducia/Abuso, Isolamento sociale/Alienazione, Inadeguatezza/Vergogna);
  • Ridotta autonomia (che comprende gli schemi maladattivi precoci di Fallimento, Dipendenza/incompetenza, Vulnerabilità al danno o alla malattia, Invischiamento/sé non sviluppato);
  • Limiti compromessi – mancanza di regole (in cui troviamo gli schemi maladattivi precoci di Diritto (pretese)/grandiosità, Autocontrollo/autodisciplina insufficienti).
  • Eterodirezionalità – eccessiva attenzione ai bisogni altrui (a cui corrispondono gli schemi di: Sottomissione, Abnegazione, Ricerca di approvazione/Ricerca di riconoscimento);
  • Ipercontrollo e inibizione emotiva (con i corrispondenti schemi: Inibizione emotiva, Standard severi/ipercriticismo, Negatività/pessimismo, Punizione);

18 Schemi Maladattivi Precoci - RIVISTO

La letteratura correlazionale ha identificato diverse relazioni fra gli schemi maladattivi precoci e i disturbi di personalità (Lobbestael e Arntz, 2012), anche se con risultati contraddittori. Questi ultimi potrebbero essere dovuti alle numerose differenze metodologiche riscontrate fra gli studi sull’argomento (Kunst et al., 2020): l’eterogeneità della popolazione studiata (clinica o sana, giovane o anziana), il tipo di campione (misto con diagnosi cliniche o puro con soli disturbi di personalità), la considerazione degli schemi maladattivi precoci (per domini o ciascuno singolarmente), la tipologia delle analisi statistiche utilizzate e la concettualizzazione dei disturbi di personalità (categoriale o dimensionale).

Lo studio di Kunst e colleghi (2020)

Partendo dall’assunto che queste differenze hanno limitato la generalizzabilità dei risultati circa i legami fra schemi maladattivi precoci e disturbi di personalità, lo studio di Kunst e colleghi (2020) si è posto l’obiettivo di ottenere informazioni più specifiche riguardo a tale relazione; identificare gli schemi maladattivi precoci che fanno da substrato alle patologie di personalità significa considerare una componente critica nel trattamento di queste ultime (Jovev e Jackson, 2004).

 Superando i limiti precedenti, lo studio ha incluso un’ampia popolazione clinica ospedaliera con tratti di disturbo di personalità e diagnosi valutate dai clinici. Gli schemi maladattivi precoci sono stati considerati separatamente e non come domini per stabilire relazioni più specifiche fra essi e i disturbi di personalità; infine, a causa delle caratteristiche del campione sono stati considerati i disturbi di personalità borderline, evitante, dipendente e ossessivo-compulsivo.

In accordo con la letteratura precedente, i risultati hanno mostrato che i tratti dei suddetti disturbi sono positivamente correlati con la maggior parte degli schemi maladattivi precoci, supportando la rilevanza di un approccio dimensionale e basato sui tratti (Bach, Sellbom, Skjernov, & Simonsen, 2018). In particolare:

  • Il disturbo borderline di personalità ha dimostrato relazioni specifiche con gli schemi di abbandono/instabilità, diffidenza/abuso, inadeguatezza/vergogna, vulnerabilità al danno, diritto, insufficiente auto-controllo, soggiogazione e inibizione emotiva. La relazione positiva con il dominio del distacco/rifiuto è in linea con il primo criterio diagnostico del disturbo che cita “sforzi disperati per evitare l’abbandono reale o immaginario”, mentre il collegamento con gli schemi di diritto (cioè la svalutazione altrui) e sottomissione (cioè l’evitare l’abbandono) si adatta al secondo criterio diagnostico del disturbo, che cita “un modello instabile e intenso di relazioni interpersonali caratterizzate dall’alternanza fra idealizzazione e svalutazione” (APA, 2013).
  • Il disturbo evitante di personalità ha dimostrato relazioni specifiche con gli schemi di deprivazione emotiva, inadeguatezza/vergogna e isolamento sociale. La deprivazione emotiva è caratterizzata dall’assenza di sentimenti di sicurezza e amore, che a loro volta potrebbero essere legati alla soppressione dei conflitti o a bassi livelli di espressione emotiva in famiglia, frequentemente riscontrati nei pazienti evitanti (Taylor, Laposa, & Alden, 2004).
  • Il disturbo dipendente di personalità ha dimostrato relazioni uniche con gli schemi di sottomissione e auto-sacrificio; del resto, il dominio dell’eterodirezionalità corrisponde in larga parte al criterio diagnostico per cui questi individui sono disposti a offrirsi anche per cose spiacevoli pur di ottenere cure dall’altro (APA, 2013).
  • Il disturbo ossessivo-compulsivo ha dimostrato relazioni uniche con gli schemi di diritto (pretese) e di standard elevati. Quest’ultimo rifletterebbe il bisogno di raggiungere risultati eccellenti, che riflette i tratti tipicamente ossessivo-compulsivi di perfezionismo, rigidità e ossessiva devozione al lavoro (APA, 2013).

Conclusioni

In conclusione, è emerso che alcuni schemi maladattivi precoci erano correlati con la maggior parte dei tratti descriventi i disturbi di personalità; in particolare gli schemi di isolamento sociale e inibizione emotiva potrebbero essere considerati delle caratteristiche generali condivise da diversi disturbi di personalità. Altri schemi maladattivi precoci, invece, hanno mostrato di essere correlati in modo univoco a specifici tratti di alcuni disturbi di personalità, come la vulnerabilità al danno per il borderline, la deprivazione emotiva per l’evitante, l’abnegazione per il dipendente e gli standard elevati per l’ossessivo-compulsivo. Ciò suggerisce come i disturbi di personalità possano essere meglio riflessi da un modello ibrido di schemi maladattivi precoci: da un lato esso potrebbe incorporare convinzioni generali di isolamento sociale e inibizione emotiva, che dovrebbero essere affrontate a livello globale negli interventi terapeutici, dall’altro dovrebbe considerare che ciascun disturbo di personalità è diversamente caratterizzato da determinate credenze che potrebbero essere specificamente prese di mira nel corso del trattamento.

Psicologia degli atteggiamenti (2022) di Maio, Haddock e Verplanke – Recensione

Il libro “Psicologia degli atteggiamenti” ripercorre le principali teorie di formazione e cambiamento degli atteggiamenti, dalla costituzione della definizione attuale, all’influenza delle componenti cognitiva, emotiva, linguistica e comportamentale sullo sviluppo degli attuali modelli.

Capire cosa sono veramente gli atteggiamenti e perché sono importanti

 Quante volte abbiamo esordito dicendo “Hai un brutto atteggiamento!”. Ma cosa si intende veramente con il termine atteggiamento? Nel tempo le definizioni che si sono susseguite sono diverse, ma tutte hanno sempre enfatizzato la componente valutativa del giudizio su un oggetto, per cui ad oggi un atteggiamento è una “Valutazione complessiva, con valenza positiva, negativa o neutra, su un oggetto, che può basarsi su informazioni cognitive, affettive e comportamentali e che presenta o meno, una stabilità nel tempo che ne determina la forza di resistere ai tentativi di persuasione” (Eagly & Chaiken, 1993, 1998; Petty & Krosnick, 1995).

Ad esempio, potremmo avere una certa reticenza (valenza negativa) ad assaggiare cibi come i broccoli, nonostante i nostri nonni o genitori attuano da anni messaggi persuasivi per convincerci ad assaggiarli (forza elevata che resiste alla persuasione). Qualcun altro invece, sebbene non gradisca molto i broccoli, li mangerà ugualmente, seppur di rado (minor forza).

Conoscere gli atteggiamenti, ma soprattutto la loro funzione, diventa così importante per comprendere quali possono considerarsi forti, e quindi resistenti al cambiamento, e quando invece è possibile modificarli e plasmarli, predicendo il comportamento che ne consegue.

Il libro “Psicologia degli atteggiamenti” ripercorre le principali teorie di formazione e cambiamento degli atteggiamenti, dalla costituzione della definizione attuale, all’influenza delle componenti cognitiva, emotiva, linguistica e comportamentale sullo sviluppo degli attuali modelli, analizzando con accuratezza i possibili elementi che possono facilitare o inibire i messaggi persuasivi, inducendo al cambiamento degli atteggiamenti.

Conoscere le tre streghe degli atteggiamenti

Così come le tre streghe descritte da Shakespere in Macbeth, anche gli atteggiamenti sono composti da tre elementi interdipendenti, che interagiscono fra di loro: a) Contenuto (componente cognitiva, affettiva, comportamentale); b) Struttura (valenza positiva, negativa o neutra); c) Funzione.

Gli atteggiamenti possono soddisfare dei bisogni psicologici, sociali, di espressione di sé e dei propri valori, permettendo di orientarci all’interno dell’ambiente sociale ed instaurare delle relazioni con le persone con cui ci sentiamo più affini. Possono svolgere anche una funzione ego-difensiva, attivandosi quando l’individuo deve proteggere la propria autostima, o valutativa, permettendo agli atteggiamenti di orientare più velocemente e semplicemente i giudizi, risparmiando “energia”.

Scoprire come si misurano gli atteggiamenti, quando predicono i comportamenti e come è possibile cambiarli

 Non sempre ciò che dichiariamo, corrisponde al reale atteggiamento verso un determinato oggetto. Ne è esempio un famoso studio condotto da Richard LePiere (1934) nel 1934 negli Stati Uniti d’America, in un periodo in cui vi era un forte pregiudizio anti-asiatico. LePiere, insieme ad una coppia di amici cinesi soggiornò in alberghi e ristoranti. Solo una struttura su 250 si rifiutò di servirli ed accoglierli. Dopo il viaggio LaPiere spedì una lettera a ciascun albergo/ristorante chiedendo se ospitassero una coppia di cinesi, il 90% delle risposte fu negativa. Sebbene le lacune metodologiche, la ricerca è stata considerata interessante in quanto aprì una riflessione su quanto in gli atteggiamenti si potessero considerare predittivi del comportamento e come non sempre la misurazione esplicita attraverso survey e questionari, sia efficace per rilevare il corretto atteggiamento. Nascono così le tecniche implicite, cioè le misure degli atteggiamenti che non richiedono al soggetto di riportare in maniera diretta la sua valutazione su un oggetto.

G.R. Maio, G. Haddock e B. Verplanke, all’interno del libro “Psicologia degli atteggiamenti” ripercorrono l’evoluzione delle tecniche di misurazione degli atteggiamenti, sia implicite che esplicite, mettendone a confronto i vantaggi, le implicazioni ed i limiti. L’obiettivo è rendere il lettore consapevole degli strumenti messi a disposizione dagli studi scientifici e dell’ambito di applicazione degli stessi.

Comprendere gli atteggiamenti ha quindi un risvolto pratico nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, la maggior parte delle persone che leggeranno questo articolo auspicano ad uno stile di vita sano, a ridurre l’impatto del climate change, ma perché nella quotidianità è difficile fare costantemente esercizio fisico, o utilizzare meno l’auto?

Il libro illustra chiaramente gli elementi fondamentali per comprendere le implicazioni pratiche degli atteggiamenti a partire dalla politica, all’area sanitaria, al marketing o alla sostenibilità, ricostruendo con precisione i contributi scientifici.

Con questo obiettivo, i capitoli sono arricchiti con dei box, dedicati ad argomenti di ricerca che trovano un riscontro pratico nella vita di tutti i giorni, associati ai concetti chiave riscontati all’interno della lettura.

Il lettore è stimolato alla riflessione grazie a delle domande presenti all’inizio di ciascun capitolo, cosicché possa ricondurre i modelli e le teorie agli ambiti di applicazione concreti.

Un’ottima lettura per chiunque voglia approfondire che cosa sono e come possono modificarsi gli atteggiamenti, come orientano il nostro comportamento ed essere consapevoli degli elementi di influenza e dei messaggi persuasivi.

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