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Siric e il filo della fiducia​ (2022)​ di Elisa Ciani – Recensione

“Siric e il filo della fiducia” offre uno strumento, tanto semplice quanto profondo, per costruire connessione, sicurezza e fiducia nella relazione terapeutica con i piccoli pazienti.

 

 Elisa Ciani, psicologa psicoterapeuta​ e practitioner EMDR​, con il contributo delle illustrazioni di Giusy Mondani, scrive questo libro con l’intento di ​trovare una modalità per spiegare ai bambini la psicoterapia, l’EMDR e il delicato lavoro di elaborazione delle esperienze avverse. Nasce così in lei l’idea di scrivere una storia illustrata per raccontare la psicoterapia, parlare di trauma ed introdurre la terapia EMDR ai bimbi e alle loro famiglie. Come scrive l’autrice: “Spesso i bambini con storie difficili e traumatiche hanno corpi che parlano molto, ma poca voce per esprimere ciò che sentono o hanno vissuto. Per aiutare i piccoli pazienti a guarire le proprie ferite, il clinico deve trovare l’accesso a quei luoghi nascosti. Ciò richiede tempo, pazienza, fiducia, ascolto, sintonia e creatività.

È ormai consolidato e accettato dalla comunità scientifica che l’EMDR è un metodo psicoterapeutico, completo e complesso, che può essere integrato in modo molto flessibile con altri orientamenti psicoterapeutici e può essere molto adatto nella terapia con i bambini. Altrettanto consolidato è quanto sia essenziale costruire una relazione di fiducia con il paziente, ancor più quando si tratta di “piccoli pazienti”. Soprattutto nelle fasi iniziali, infatti, fornire un’appropriata psicoeducazione ai bambini e alle loro famiglie e costruire un contesto di sicurezza e fiducia risulta fondamentale per gli esiti del trattamento. Ed è qui che può venire in soccorso il libro di Elisa Ciani, che con grande semplicità e altrettanta profondità, offre la strada per raggiungere il mondo interno dei bimbi e costruire con loro il “filo della fiducia” e quel senso di sicurezza così prezioso e fondamentale per l’elaborazione del trauma.

 Il libro di Elisa Ciani, con la profondità “semplice” di un bambino e allo stesso tempo una straordinaria preparazione nell’ambito della psicotraumatologia in generale, e della terapia EMDR con i bambini in particolare, riesce a tradurre concetti molto complessi del tema del trauma in un linguaggio comprensibile alla mente dei più piccoli, offrendo uno strumento prezioso per poter costruire quel contesto di fiducia e sicurezza, che sappiamo essere una conditio sine qua non per l’elaborazione del trauma. La potenza del libro di Elisa Ciani sta nella sua capacità di arrivare non solo alla mente dei più piccoli, ma anche ai loro cuori, nonché al cuore della parte bambina dei più grandi. Durante la lettura, pensavo che avrei voluto avere accanto a me una “Silvia” (la terapeuta della storia raccontata nel libro) quando ero piccola. Lei mi avrebbe sciolto quel nodo che si era creato nel mio “filo della fiducia”, quel nodo che mi faceva sentire spaventata e sola. Lei mi avrebbe aiutata a mettere le cose brutte nelle scatole, quando invece le mie cose brutte erano ammassate tutte insieme, ingarbugliate, incomprensibili ed io mi sentivo ancora più spaventata e sola, proprio perché non capivo ciò che sentivo e pensavo di essere io il problema perché non riuscivo a mettere ordine. La Silvia di questo libro mi avrebbe aiutata a “fare le scatole” e poi, una alla volta, aprirle e rielaborarle con lei, protetta da quel “filo della fiducia” che mi avrebbe fatto sentire che si poteva fare, si poteva guardare, si poteva stare, si poteva sentire. Questo è il dono meraviglioso che questo libro offre ai piccoli pazienti.

Infine, ma non meno importante, voglio sottolineare quanto il libro di Elisa Ciani sia indispensabile non solo per il clinico, ma per la popolazione generale, perché è un libro che può fare cultura. Ancora troppo spesso le parole “psicoterapia” e “bambini”, se messe vicine, fanno paura. Ancora troppo diffusa è la convinzione che “un bambino non capisce” o “un bambino non ricorda” o, forse ancora peggio, che “se non se ne parla non esiste”. Questo libro, invece, ci mostra che si può parlare di trauma con i bambini, si può parlare di psicoterapia con i bambini e lo si può fare senza paura. Si possono guardare, e poi guarire, le ferite dell’anima dei più piccoli e lo si può fare con la delicatezza, l’amore, la sicurezza e la fiducia che questo libro offre, costruendo quel “filo” così prezioso.

 

TikTok e Instagram: fattori perpetuanti del disturbo alimentare

Diversi studi sottolineano lo stretto legame tra specifici contenuti sui social network e l’insorgenza di numerose difficoltà emotive, che andrebbe ad incrementare la condizione di ansia, depressione e la manifestazione di disturbi alimentari.

Abstract

 Secondo un report del 2021, con la condizione pandemica degli ultimi due anni, sembra che la popolazione mondiale tenda a spendere il 42% del suo tempo davanti a foto e video di vario contenuto, divulgati dalle diverse piattaforme, soprattutto Instagram e Tiktok (Rai News, 2022). Le ricadute di questi cambiamenti hanno avuto un effetto rilevante sulla salute psicofisica degli individui e nello specifico sulle problematiche alimentari (Monteleone et al., 2021). Pertanto, in un’ottica bio-psico-sociale, il contenuto specifico delle diverse “app-immagini”, potrebbe rappresentare non solo un fattore di insorgenza, ma anche perpetuante della sintomatologia propria dei disturbi alimentari. Le immagini diventano dunque, un mezzo attraverso cui confrontare il proprio corpo sia con precedenti fotografie personali, sia con foto e video altrui, mantenendo il proprio focus attentivo sull’alimentazione.

Disturbi alimentari: una visione transdiagnostica

Sono diversi i giornali che hanno affrontato la relazione tra il lockdown e la compromissione della salute psico-fisica della popolazione. Secondo il “Journal of Eating Disorder”, il Covid-19, ha provocato un aumento del 36% dei sintomi associati a disturbi alimentari e un boom di ricoveri (aumentati del 48%). In accordo con tale studio, un’indagine svolta sul territorio italiano in una popolazione con disturbi alimentari, mostra un aumento significativo di ansia (+20%), depressione (+20%), sintomi post-traumatici (+16%), panico (+30%) e insonnia (+18%; Sanità, Il Sole 24 Ore, 2022). In linea con questo, nello studio di Monteleone e colleghi (2021), emerge che in un campione di 312 individui con diagnosi di disturbo alimentare la gravità delle psicopatologie è andata aumentando durante il primo periodo della pandemia, persistendo anche nella successiva fase di riapertura.

Nel 2022 il Ministero della Salute definisce i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, o Disturbi dell’alimentazione (DA): “patologie complesse caratterizzate da un disfunzionale comportamento alimentare, un’eccessiva preoccupazione per il peso con alterata percezione dell’immagine corporea”. In linea, la teoria transdiagnostica di Fairburn (2003) afferma come le persone con disturbi alimentari tendano a giudicare il proprio valore esclusivamente in termini di peso, forma del corpo e controllo sull’alimentazione. Pertanto, in quanto nucleo psicopatologico, si tratta di una caratteristica cognitiva centrale delle problematiche alimentari (AIDAP, 2021). La conseguenza di giudicare il valore della propria persona sulla base di tale criterio genera lo sviluppo di preoccupazioni ricorrenti che ruotano sempre intorno al tema dell’alimentazione, portando la persona a rimanere bloccata -“come un disco”- su questo stato mentale. Un comportamento comune nella popolazione con disturbi alimentari è il check della forma del corpo, eseguito con un’alta frequenza e in modo anomalo rispetto alla normale popolazione. Il motivo per cui viene messo in atto sembra associarsi a: 1) comprendere com’è la propria forma del corpo, 2) rassicurarsi di non essere cambiati o diventati grassi.

Nel panorama scientifico, sono state distinte diverse tipologie di check, per esempio: guardarsi allo specchio, pesarsi frequentemente sulla bilancia, toccare le ossa del corpo; verificare che ci sia uno spazio tra le cosce; confrontare il proprio corpo, con quello di altre persone, con foto proprie o altrui. A seguito di tali comportamenti, nonostante un iniziale senso di appagamento, un largo campione di persone con disturbi alimentari riferisce un vissuto di malessere e il ripresentarsi nuovamente di una stato apprensivo relativo alla forma fisica.

 Secondo la Terapia Cognitivo-Comportamentale Migliorata (CBT-E), infatti, i check del corpo rappresentano dei meccanismi di mantenimento della propria immagine corporea negativa. Di conseguenza, si associa un aumento dell’insoddisfazione corporea, in quanto non ci si focalizza sul corpo nella sua interezza, ma su specifiche parti del corpo. Lo scrutare minuziosamente aumenta la possibilità di rilevare difetti apparenti percepiti come enormi, conferma l’autocritica e la credenza che quella specifica parte del corpo è grassa, intensificando la probabilità di mettere in atto ulteriori comportamenti di controllo del peso, come la restrizione dietetica o cognitiva (Dalle Grave, 2020).

Contemporaneo incremento dei social media

Secondo il report del 2021 App Annie, dalla prima Pandemia Covid-19 il tempo viene speso prevalentemente sui social (42%) e sulle app di foto e video (25%). L’app più scaricata globalmente è stata TikTok, seguita da Instagram (Rai news, 2022). Sebbene le due applicazioni si differenziano specificamente per la durata dei reel, gli effetti grafici e la selezione musicale, entrambe presentano un algoritmo e alimentano la cultura basata sull’immagine sociale.

Diversi studi (Wilksch, 2019; Lonegarn, 2020, Zagarese, 2022) sottolineano lo stretto legame tra specifici contenuti social e l’insorgenza di numerose difficoltà emotive, che andrebbe ad incrementare la condizione di ansia, depressione e la manifestazione delle problematiche alimentari. Nello specifico, è stato notato che nonostante il divieto di specifici contenuti pro-ana, i “For you” continuino ad essere invasi da immagini e video nascosti dietro hashtag differenti come #smallwaist (532,6 milioni di visualizzazioni), #sideprofile (818,9 milioni), #jawlinecheck (264,9 milioni). Ulteriormente, attraverso “body challenges”, sfide di misurazione di parti corporee, “body-checking trends” video, in cui in maniera subdola, l’utente inquadra il proprio corpo fermo allo specchio con un bicchiere di vino (Usa Today Life, 2021), o più a scopo motivazionale attraverso strategie “prima e dopo” in seguito a specifici regimi alimentari (Fabbrini, 2022).

Dunque, in un’ottica più Bio-Psico-Sociale, potrebbe essere fondamentale osservare che tali contenuti potrebbero giocare un ruolo fondamentale non solo nell’esacerbare una sintomatologia inducendo un disturbo alimentare, ma anche come fattore perpetuante della condizione psicopatologica stessa. Infatti, coloro i quali già presentano una sensibilità a un’immagine del proprio corpo negativa e pertanto si valutano in base alla forma fisica, se bombardati da una persistente esposizione a contenuti di foto, video, challenges, nonché alla propria personale narrativa social, potrebbero mantenere la sintomatologia fulcro del disturbo alimentare attraverso il continuo confronto con immagini del proprio corpo o di quello altrui. In tal senso, l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo verrà mantenuta in quanto queste persone tendono a eseguire un confronto selettivo con individui con una specifica magrezza, più attraenti o idealizzate, e giudicano il corpo “atipico” altrui (modelle, attrici) in seguito ad un’osservazione superficiale.

 

Disturbo dipendente di personalità: caratteristiche, funzionamento interpersonale e trattamento

Un paziente apparentemente “facile” con disturbo dipendente di personalità può in realtà essere molto difficile da trattare in psicoterapia, comportando manovre di interazione specifiche già nelle prime fasi del processo terapeutico.

 

 Il disturbo di personalità dipendente (DPD; dependent personality disorder) ha una prevalenza che oscilla tra l’1% e il 5% della popolazione generale (APA, 2014; Dimaggio, 2015; Loranger, 1996). Il disturbo dipendente di personalità è frequente nei pazienti psichiatrici ricoverati (Jackson et al., 1991; Mezzich et al., 1987; Oldham et al., 1995) e nelle donne, che sono più frequentemente diagnosticate con un tale disturbo rispetto agli uomini (Bornstein, 1993, 1998; Bornstein et al., 1996; Loranger, 1996). Questi pazienti sono più soggetti a depressione, disturbi alimentari, somatizzazione e panico, rispetto a persone che presentano altri disturbi di personalità (Barzega et al., 2001; Bienvenu et al., 2009; Coyne & Whiffen, 1995; Overholser, 1996; Tisdale et al., 1990). Il disturbo dipendente di personalità, inoltre, può essere associato al disturbo d’ansia da separazione in pazienti che presentano abuso di alcol e droghe (Loas et al., 2002). Le malattie fisiologiche croniche (problemi gastrointestinali, disturbi del sonno) possono essere osservate come problemi coesistenti e potrebbero predisporre o essere la conseguenza del disturbo (Fasbender et al., 2014).

Le caratteristiche del disturbo dipendente di personalità

È stato riportato che i pazienti con disturbo dipendente di personalità presentano un modello ripetitivo di espressione di bisogni specifici, in particolare il bisogno di essere accuditi, insieme a un modello sistematico di sottomissione, mancanza di assertività e una difficoltà a prendere decisioni di routine. Questi pazienti possono sembrare accondiscendenti, ma in realtà spesso si ribellano silenziosamente alle opinioni altrui (con possibili scoppi di rabbia; Bornstein, 1998). Questo modello può avere una funzione di autoprotezione (così facendo, il paziente evita di perdere il contatto con l’altro e non deve mettersi nei panni dell’altro). Clinicamente, questo modello può assumere la forma di una tipica relazione “dipendente” – non autonoma – caratterizzata da comportamenti cosiddetti “appiccicosi” (Millon, 2011; Millon & Davis, 1996). Le difficoltà di base possono riguardare la paura del paziente di essere abbandonato o di essere separato a livello interpersonale, che porta, ad esempio, all’incapacità di prendere decisioni di routine senza il consiglio di altri, alla convinzione di non essere in grado di funzionare senza un supporto, alla paura di esprimere il disaccordo con gli altri, alla sensazione di vulnerabilità e impotenza quando si è soli e alla ricerca disperata di un’altra relazione quando questa finisce (APA, 2014; Bornstein, 1998; Bornstein et al., 1996; Shilkret & Masling, 1981; Simpson & Gangestad, 1991; Sroufe et al., 1983).

 I modelli specifici di funzionamento interpersonale (Bornstein, 2012; Carcione et al., 2001; Dimaggio, 2015) includono: scarsa autostima (ad esempio, “Se il mio ragazzo ride con i suoi amici, non ha bisogno di me e io mi sento inadeguata”); scarsa autoefficacia (ad esempio, “Senza mia madre non sono niente! Da sola sono paralizzata”); stato di disorganizzazione (ad esempio, “Voglio accontentare tutti, ma alla fine perdo la capacità di stabilire le priorità”) e scarsa metacognizione (al livello di un disturbo di personalità completo; Carcione et al., 2011; Semerari et al., 2014). Quando una persona con disturbo dipendente di personalità non è d’accordo con gli obiettivi di un’altra persona, può ribellarsi a ciò che percepisce come una costrizione interpersonale della propria identità. Di conseguenza, invece di affermare la propria identità e i propri confini, questi pazienti, nutrendo il timore di essere rifiutati e separati dall’altro, possono sviluppare sensi di colpa, vergogna, rimpianto, autocommiserazione e paura della punizione.

Il trattamento del disturbo dipendente di personalità: uno studio sulla Clarification-Oriented Psychotherapy

Un paziente apparentemente “facile” con disturbo dipendente di personalità può in realtà essere molto difficile da trattare in psicoterapia, comportando manovre di interazione specifiche già nelle prime fasi del processo terapeutico (Bornstein et al., 1996; Sachse, 2013; Sachse et al., 2015; Sachse & Kramer, 2019). Una terapia pensata per questi pazienti è la Clarification-Oriented Psychotherapy (COP), una forma di trattamento integrativo che affonda le sue radici nella psicoterapia umanistica. Questa si concentra sui fattori interni che sono alla base delle manovre di interazione (cioè schemi, emozioni, cognizioni, modelli). È così che lo studio condotto da Sachse e  Kramer (2019) si propone di valutare se la qualità dei processi di interazione (cioè i contributi del paziente e del terapeuta in seduta) aumenta durante la Clarification-Oriented Psychotherapy e se questi cambiamenti nei processi di interazione in seduta sono correlati all’esito terapeutico (cioè ai cambiamenti pre-post in depressione, autoefficacia, problemi interpersonali e dipendenza) alla fine del trattamento.

Allo studio hanno partecipato un totale di 74 pazienti di lingua tedesca con disturbo dipendente di personalità, che sono stati seguiti presso un centro di consulenza specializzato nel trattamento dei disturbi della personalità.

Dai risultati è emerso che la Clarification-Oriented Psychotherapy può essere efficace per il trattamento del disturbo dipendente di personalità. Durante la fase di lavoro, infatti, la qualità dell’interazione terapeutica è aumentata e il cambiamento dei comportamenti del terapeuta in seduta sembra predire la diminuzione dei problemi di dipendenza, ma non il cambiamento dei comportamenti del paziente in seduta. Si è notato un miglioramento nei sintomi e nei problemi specifici, tra cui la diminuzione della depressione, dei tratti di dipendenza, dei problemi interpersonali e l’aumento dell’autoefficacia.

In generale quindi, i risultati indicano una tendenza al miglioramento nei pazienti che presentano modelli di dipendenza.

La presa in carico globale della persona con ADHD

Ogni educatore, pedagogista o insegnante dovrebbe determinare accuratamente tutti quei fattori fisici ostacolanti o facilitanti che influiscono in qualche modo nelle attività e, in generale, nella vita della persona con ADHD.

 

Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD)

 Il principio cardine dell’antropologia filosofica (e in generale di tutte le discipline che si occupano dell’uomo) prevede di prendere in considerazione, in ottica sistemica, l’essere umano considerato in tutta la sua complessa architettura. Sia in scenari normotipici, sia in condizioni di psicopatologia conclamata, nessuno dovrebbe avvicinarsi all’uomo con l’intento di frazionare fenomeni che, invece, per la loro complessità, hanno bisogno di considerazioni altrettanto globali.

La complessità è ormai il principio paradigmatico (ontologico ed epistemologico) irrinunciabile non soltanto per chi si occupa delle scienze fisico-biologiche, ma anche –forse soprattutto– per chi svolge la propria professione in ambito medico-psichiatrico e psicoterapeutico, e si occupa quindi di particolari condizioni psicopatologiche.

Sulla base di questa premessa di carattere epistemologico, anche per la persona con disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder – ADHD) non è opportuno parlare di intervento al singolare, ma bisogna sempre concepire una rete complessa di interventi, ricalibrati di volta in volta sull’unicità irripetibile delle sue particolari condizioni.

È questo, ad esempio, il principio epistemologico e antropologico su cui si basa il modello bio-psico-sociale dell’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF-CY), sviluppato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2001).  Tale principio considera il pensiero della complessità indispensabile per realizzare un’ermeneutica autentica del disagio, delle difficoltà e dei bisogni speciali della persona, intercettata nella sua unicità.

La persona torna, nella logica dell’ICF-CY al centro dell’attenzione genitoriale e pedagogico-assistenziale, conservando il suo insostituibile valore umano senza rischiare nessuna forma di riduzionismo biologistico e senza finire vittima di perturbanti alienazioni sociali. Il pensiero complesso ci spinge, quindi, a mettere in relazione gli aspetti medico-biologici coinvolti nel disturbo del soggetto con i fattori contestuali (ambientali e relazionali) che a ben vedere risultano imprescindibili per una piena presa in carico del soggetto.

L’analisi del contesto ambientale risulta un aspetto assai significativo per i casi di ADHD. Ogni educatore, pedagogista o insegnante dovrebbe determinare accuratamente tutti quei fattori fisici barrieranti o facilitanti che influiscono in qualche modo nelle attività e, in generale, nella vita della persona con ADHD.

È opportuno, inoltre, considerare anche i fattori contestuali sociali (l’insieme delle relazioni significative che la persona con ADHD vive ogni giorno con i familiari, e con le figure scolastiche e specialistiche di riferimento) e comprendere se i suoi bisogni siano sempre messi nella giusta prospettiva e siano sempre valorizzate le azioni della cura, del dialogo autentico e della relazione umana.

Contrariamente alla logica dell’imperante paradigma medico-riduzionista del nostro tempo, bisogna entrare nell’ottica (antropologica, prima ancora che pedagogica e terapeutica) che i disagi e i disturbi più o meno severi della persona non sono realtà ontologiche immutabili, ma si costruiscono in relazione ad un insieme di fattori sui quali le figure preposte alla cura possono, con coscienza e determinazione, intervenire attivamente.

In altri termini, il peso che una determinata condizione neuropsichiatrica può avere nell’esistenza di una persona dipende molto dal modo in cui il contesto intorno a lui si predispone al suo accoglimento. Questo vale sicuramente per tutte le esistenze disturbate da condizioni psicopatologiche e neuropsichiatriche, ma vale ancor di più per quelle persone i cui problemi –ed è la fattispecie dell’ADHD– si attestano soprattutto sul piano comportamentale e socio-relazionale.

In questi casi l’ambiente sociale circostante patisce molte pressioni, a cominciare dallo stress causato dal tentativo di gestire i comportamenti travolgenti (tale gestione non deve perdere mai la sua umanità e mai deve venir meno al rispetto autentico per la persona con ADHD).

La logica della complessità ci invita inoltre a considerare anche la prospettiva del soggetto iperattivo. Non possiamo infatti ignorare che anche la persona iperattiva, a sua volta, accumula una gran quantità di pressioni ambientali causate principalmente dalla frustrazione dei suoi impulsi e dalla mancata realizzazione dei suoi –pur disordinati– desideri. Questo potrebbe accrescere la rabbia nella persona con ADHD, aggravando quindi un quadro già di per sé assai delicato. Non si dimentichi, infatti, che una percentuale stimata tra il 40% e il 50% dei soggetti con ADHD tende a sviluppare un disturbo oppositivo-provocatorio (DOP) che s’innesta nel già difficile quadro del soggetto, concorrendo a peggiorare la qualità delle sue relazioni.

Una percentuale stimata tra il 10-15% tende a sviluppare un disturbo della condotta (DC), che spesso assume la forma di manifestazione di aggressività diretta verso cose e persone, animali o proprietà proprie e altrui (Muratori, 2005).

Ben oltre, però, la logica schematica e asettica delle categorie nosografiche, ciò che è importante evidenziare è che al fondo di tali condotte c’è una persona sofferente, la cui esistenza lacerata trova nel disordinato e violento rifiuto delle regole una certa forma di malsana realizzazione (fintantoché gli interventi rieducativi messi in atto non abituino il soggetto a realizzare nuove strategie comportamentali).

In queste delicate circostanze è importante stabilire fin da subito un’accurata pianificazione degli interventi, e organizzarli in modo tale da non lasciar scoperta alcuna dimensione della vita della persona con ADHD. L’aspetto fondamentale da tener sempre presente in sede di programmazione degli interventi, è che essi dovranno per l’appunto adeguarsi ad un soggetto incapace –per ragioni determinate neurobiologicamente– di pianificare, programmare, mantenere l’attenzione e restare nel qui ed ora del compito.

Interventi sulla sfera relazionale delle persone con ADHD

La cura delle persone con ADHD non può certamente prescindere da un approccio relazionale che faccia dell’empatia il suo cardine principale. È opportuno ribadire energicamente una tesi che, sebbene sia valida universalmente, acquista particolare rilievo in alcune complicate circostanze: il rapporto con i soggetti con ADHD è, prima di ogni altra cosa, una relazione umana. Nessuno, né insegnante, né educatore, né specialista, può derogare, all’imperativo morale del rispetto della persona. Inoltre, non soltanto ogni intervento educativo o terapeutico deve basarsi su una relazione fondata sull’empatia, ma è importante anche far sì che il soggetto iperattivo, realizzando con tali figure una relazione di forte spessore umano, impari col tempo a sviluppare relazioni più sane.

Tutto ciò diventa tanto più doveroso quanto più il soggetto stesso, nella dirompenza dei suoi comportamenti impulsivi, tende a trascinare i protagonisti impegnati nella cura ai limiti del burnout. Pertanto è assai raccomandabile che la comunicazione verbale e non verbale degli attori in gioco mantenga elevati i livelli di affabilità, assertività e umanità. È necessario che il tono della voce, quando ci si rivolge al soggetto con ADHD, sia rassicurante e disteso, e bisogna estromettere dall’azione pedagogico-terapeutica ogni tipo di punizione e umiliazione.

L’empatia è la capacità umana di poter provare in prima persona –automaticamente oppure volontariamente, con una immedesimazione voluta e consapevole– gli stati interni di un altro. È la capacità di sentire ciò che l’altro sente e sintonizzare così i vissuti emotivi. L’empatia è sì una capacità innata sulla quale si basa la relazionalità umana, ma è anche una virtù da affinare e, in un certo senso, da allenare con la pratica effettiva della cura insieme all’altro. Imparare a mettere da parte il proprio io per sentire ciò che l’altro sente è importante indistintamente per tutti, sebbene acquisti grande importanza soprattutto per chi è impegnato in relazioni di aiuto.

 Collocarsi al centro del mondo del soggetto con ADHD non è certamente semplice. Bisognerebbe infatti riuscire a immedesimarsi al punto da sperimentare la triade dei sintomi primari (impulsività, disattenzione e iperattività) per cercare di comprendere l’estrema difficoltà che egli incontra nello svolgimento anche del più semplice compito quotidiano. Ma porsi al centro del mondo ADHD aiuta anche a comprendere gli aspetti sui quali è più urgente lavorare con interventi mirati. Forse al lettore basterà un solo esempio per comprendere come ciò che a noi –in condizioni normali– può sembrare normale, come lo scorrere del tempo durante un compito più o meno significativo, per la persona con ADHD può facilmente diventare, invece, una situazione particolarmente ansiogena e perturbante. La percezione del tempo per il soggetto con ADHD è assai peculiare, soprattutto a causa della scarsa resistenza attentiva che li contraddistingue. Dal punto di vista fenomenologico si potrebbe dire che la loro percezione del tempo è assai frammentata e discontinua, poiché anche in un arco temporale assai breve, molto spesso ogni loro attività è sospesa e perturbata da impetuosi impulsi pressoché ingovernabili. Il loro tempo non scorre in modo continuativo, ma si dissolve in un’infinità disparata di direzioni diverse, prive molto spesso di logiche comprensibili e di coerenza.

Questo genere di immedesimazione fenomenologica provoca un brivido a noi che al tempo –pur sprecandone tanto– riusciamo comunque a dare una direzione (non certo cronologica, ma di senso). Si tratta di esperienze che non di rado raggiungono punte di profonda drammaticità. Eppure tutto ciò ci conferma che una delle strategie di elezione è proprio quella di una strutturazione del tempo ben precisa che sia resa nota al soggetto con ADHD, unitamente ad altre preziose informazioni (durata di ogni singola fase di lavoro, difficoltà del compito, prima pausa utile) in grado di alleviare la paura dell’imprevedibilità, il senso di impotenza e l’ansia anticipatoria.

L’importanza di un lavoro mirato sulla componente emotiva del disturbo

In questo quadro già assai ricco va compreso anche l’importante capitolo del lavoro sugli aspetti emotivi della persona con ADHD. I soggetti con particolari difficoltà attentive e con gravi disregolazioni emotive necessitano di un importante lavoro sulle componenti emotive, che prenda le mosse da un’adeguata conoscenza delle emozioni, la cui natura è da loro frequentemente ignorata. Questa ignoranza è dovuta al fatto che i loro vissuti emotivi sono esperiti in modo assai turbolento, caotico e disordinato e in simili circostanze è davvero difficile riuscire a riconoscere e classificare nel proprio vocabolario emotivo le emozioni sperimentate e sperimentabili colte nelle loro sottili differenze e sfumature. È importante quindi insegnare al soggetto iperattivo a saper riconoscere le più basilari manifestazioni dell’attivazione emotiva e a saper interpretare correttamente il proprio linguaggio corporeo. Nelle prime fasi del lavoro psico-pedagogico è importante far acquisire al soggetto con ADHD un buon vocabolario emotivo, prendendo le mosse dalle emozioni di base per poi procedere progressivamente e cautamente verso un’alfabetizzazione emotiva più complessa. In questa fase è importante che la figura di riferimento che ha in cura il soggetto riesca a strutturare una relazione sufficientemente sana da consentire, in una consolidata atmosfera di fiducia, di fargli vivere  –magari grazie alla realizzazione di giochi di ruolo e di realtà– tutto il ventaglio esperibile delle emozioni primarie.

Questa sperimentazione controllata delle emozioni primarie è in grado di creare una familiarità della persona con ADHD con la propria sfera delle manifestazioni emotive, togliendo ad esse quell’aura misteriosa di fenomeni incontrollabili, e rendendoli quindi episodi fisiologici che vanno invece gestiti e vissuti con la massima consapevolezza. Il beneficio derivante da questo genere di interventi consiste nel fatto che la sperimentazione controllata delle emozioni offre al soggetto iperattivo l’occasione preziosa di apprendere, in modo positivo e costruttivo, strategie comportamentali diverse rispetto a quelle che usualmente, alla prima attivazione emotiva, avrebbe impulsivamente messo in atto.

A questo scopo potrebbe rivelarsi assai utile come attività di apprendimento emotivo quella del mimo (realizzazione sia a scuola sia a casa, in ambiente familiare). La figura di riferimento potrebbe preparare un certo numero di scenette, ognuna delle quali dovrebbe coinvolgere almeno un paio di protagonisti in reciproca interazione. Dopo aver spiegato al soggetto, con linguaggio semplice e diretto, il compito specifico, lo si dovrebbe invitare a mimarla cercando di immedesimarsi nell’emozione osservata. Si dovrebbe poi invitare il soggetto a descriverne le cause e le sensazioni e a riflettere su quanti modi diversi (funzionali e disfunzionali) ci sono per esprimere un’emozione.

Il secondo gruppo di interventi riguardano la tolleranza emotiva. Sempre nell’ambito di una relazione positiva e accogliente, il lavoro dovrebbe quindi orientarsi verso un maggiore consolidamento della capacità del bambino di riuscire a tollerare una crescente attivazione emotiva senza mettere in atto subito comportamenti disfunzionali. In questa fase è essenziale che il bambino cominci ad esporsi in modo sempre più prolungato alle emozioni intense imparando a viverle in modo controllato, consapevole e sereno senza lasciarsi passivamente travolgere da esse.

L’elaborazione delle emozioni è un altro passo importantissimo, da non sottovalutare. Non soltanto occorre individuare le situazioni elicitanti (quelle cioè che attivano i comportamenti disfunzionali), ma è importante anche che, ad un certo punto del percorso educativo, il soggetto con ADHD sia in grado di cominciare a riconoscere in autonomia, e a saper poi ricostruire, in quali situazioni e a causa di quali fattori scatenanti ha realizzato poi comportamenti irregolari e disfunzionali.

Il soggetto, cioè, deve saper riconoscere tutti quei fattori in grado di attivarlo oltremisura per poter intervenire su di essi in modo autonomo o, se non altro, per poterli evitare oppure, se ciò dovesse essere impossibile, per poter scegliere strategie comportamentali alternative.

Infine è importante che il soggetto impari a modulare le emozioni, la cui manifestazione troppo intensa potrebbe avere conseguenze negative. Questo è un lavoro che necessariamente dovrebbe svolgersi nell’ambito di un percorso psicoterapeutico, nel quale il soggetto potrebbe beneficiare di tecniche di rilassamento e di gestione della rabbia e della frustrazione.

Questo genere di interventi potrebbe basarsi sull’attività immaginativa del soggetto. Si potrebbe chiedere al bambino iperattivo di immaginare scene particolarmente stressanti e ansiogene. Si potrebbe poi chiedere quali emozioni proverebbe se si trovasse in una situazione simile, oppure come gestirebbe un’esperienza così stressante, o ancora che comportamento metterebbe in atto se si trovasse a vivere veramente una simile occasione. Si dovrebbero poi elaborare insieme a lui tutte le risposte fornite per cercare di realizzare una più funzionale ristrutturazione interiore, sostituendo le modalità disfunzionali di gestione emotiva con strategie di coping più adattive.

Sono queste, in definitiva, le grandi linee del lavoro sulla dimensione emotiva importanti per intervenire sulla qualità delle esperienze interiori della persona con ADHD.

 

L’uso di test psicodiagnostici nei casi di abuso sessuale del minore

Di seguito alcuni dei test psicodiagnostici obiettivi e proiettivi usati nei casi in cui si sospetta l’esperienza di abuso sessuale nel minore.

 

 In caso di abuso su minore, o sospetto tale, si cerca di sondare il più possibile lo stato d’animo e i vissuti del bambino; in questo contesto si può evidenziare come il test della figura umana sia molto utilizzato anche nella terapia con i bambini con indicatori grafici, se non precisissimi, quantomeno utili ad una lettura che verrà poi integrata da interviste, esami medici o test proiettivi e semi-proiettivi.

I test maggiormente utilizzati per indagare ciò che il bambino non riesce a verbalizzare sono i seguenti.

  • Il test figura umana di Machover: il soggetto riproduce una proiezione dell’immagine di sé; nel caso di bambini abusati abbiamo la rappresentazione della figura dell’abusante. Non essendo una prova di bravura, il soggetto viene lasciato molto libero di disegnare come meglio preferisce, rimanendo sempre in un foglio A4 e utilizzando una matita. È importante che disegni la figura intera, annotare quanto tempo e in che ordine viene disegnata la figura, e successivamente far disegnare su un altro foglio una figura umana del sesso opposto alla prima. Lo sviluppo del disegno è correlato al variare dell’età, un campanello d’allarme può essere notare che lo sviluppo del bambino a livello grafico non coincide con l’età cronologica del soggetto stesso.
  • Il disegno dell’albero nel test di Koch: è un test in cui si richiede al bambino di disegnare un albero. In questo test è molto importante il simbolismo spaziale che si riferisce alla divisione del foglio in zona alta, bassa, destra o sinistra, rappresentanti rispettivamente la zona spirituale, quella materiale che coincide anche con l’inconscio, un’attitudine all’introversione oppure all’estroversione. Nel disegno è opportuno valutare la forma di rami, se sono presenti foglie, se vi sono ombre, frutti o stereotipie.
  • Il disegno della famiglia: proietta sentimenti, desideri o conflitti interni. Come per il disegno dell’albero, anche in questo caso al minore è richiesto di disegnare una famiglia inventata e si prende nota alla fine, con delle domande specifiche, di cosa si è disegnato. Questo test ha tre livelli di interpretazione (grafico, formale e dei contenuti) che permette un’analisi delle diverse funzioni del bambino, come la presenza di abusi o la gelosia.
  • Le bambole anatomicamente corrette: sono bambole utilizzate in ambito peritale per cercare di ricreare una descrizione della situazione di abuso. Il test in questione deve essere preso e somministrato con le giuste cautele, questo tipo di bambole infatti potrebbe accendere la curiosità del minore e suscitare, quindi, nell’intervistatore delle sensazioni che in realtà il bambino non sta riferendo.
  •  Il test di Rorscharch: può essere impiegato insieme ad altri strumenti nella delineazione della personalità del minore vittima di abusi, non è esattamente pensato per la ricerca dell’abuso quanto per la ricerca degli aspetti mentali del bambino. È uno dei test proiettivi più famosi al mondo, è spesso utilizzato per rilevare i modelli di pensiero sottostanti, inoltre viene usato per distinguere le disposizioni psicotiche da quelle non psicotiche nel modo di pensare di un soggetto. Comunemente conosciuto come “test delle macchie d’inchiostro”, è costituito da tavole opportunamente costruite con macchie che possono evocare figure diverse nei soggetti, a seconda della personalità, delle risorse inconsce e delle problematiche della persona.
  • Le favole della Düss: 10 inizi di storie che il bambino dai 3 anni in poi deve completare. In base al tipo di risposte, al tipo di storie che si vengono a creare o alle reazioni generali del bambino, possiamo avere un quadro su come il bambino interpreta la propria realtà.
  • Il Blacky Picture Test: questo test vuole portare alla luce i sentimenti e le sensazioni inconsce del soggetto. È composto da alcune tavole che ritraggono un cagnolino in diverse scene che rappresentano in maniera non immediatamente accessibile al bambino lo sviluppo psicosessuale. Risulterà chiaro quindi come la reazione del bambino o il racconto di alcuni episodi accaduti allo stesso potrebbero essere proiettati su queste tavole, che potrebbero portare a capire se effettivamente c’è un abuso in corso.

L’uso dei test psicodiagnostici sia obiettivi che proiettivi non è sufficiente per poter tratteggiare l’esperienza di abuso sessuale nel minore. Tuttavia, l’uso del disegno con il minore in difficoltà è importante perché “Non è l’uomo che va curato ma le immagini del suo ricordo perché il modo in cui ci raccontiamo e immaginiamo la nostra storia, influenza il corso della nostra vita” (Hillman, 1983).

Qual è la natura della bellezza?

Con un’industria della bellezza in continua espansione e una crescente preoccupazione per la rappresentazione di sé sui social media, il ruolo della bellezza nella società umana sta attualmente attirando l’attenzione di biologi, neuroscienziati e psicologi come mai prima d’ora.

 

 I progressi nei metodi di neuroimaging hanno permesso di cercare le basi biologiche dell’apprezzamento della bellezza, e anche la crescente evidenza di meccanismi coinvolti nell’accoppiamento degli animali ha sollevato domande sul ruolo che la bellezza svolge nel guidare la selezione sessuale (Skov, 2020). Questi e altri fattori hanno permesso e incoraggiato la ricerca scientifica a indagare perché alcuni oggetti sono percepiti come belli mentre altri no, e come la bellezza influisce sulle scelte e sulle interazioni sociali. Tuttavia, nonostante una notevole produzione di pubblicazioni, non vi è un accordo univoco rispetto all’origine di questo fenomeno.

La rassegna di Skov e Nadal (2020) sintetizza ciò che recenti esperimenti hanno rivelato sulla natura della bellezza.

La bellezza tra arte e filosofia

La bellezza è prima di tutto un’idea filosofica. Nella tradizione occidentale, il concetto di bellezza risale agli antichi greci, secondo i quali la bellezza era concepita come una proprietà degli oggetti, non come una risposta soggettiva ad essi (Beardsley, 1966). Questa teoria ha prevalso per quasi 2000 anni, finché diversi fattori hanno contribuito alla sua scomparsa nel corso del XVIII secolo. L’arte classica, che ne era stata la giustificazione tangibile, lasciò il posto all’arte barocca e romantica. Ma soprattutto, in risposta al razionalismo cartesiano e ai principi universali della ragione, l’empirismo elevò l’esperienza umana a sede della conoscenza e del sentimento. In linea con ciò, gli empiristi britannici rifiutarono la nozione di bellezza che risiede negli oggetti a favore di una nozione di bellezza come qualità della comprensione umana. La chiave per comprendere la bellezza non si trovava più nelle proprietà degli oggetti, ma in alcune qualità del giudizio estetico che lo rendevano affidabile e legittimo.

La bellezza nella psicologia e nelle neuroscienze

Attualmente, in psicologia e nelle neuroscienze, la bellezza è intesa come una forma di valutazione sensoriale, cioè una risposta affettiva che le persone possono sperimentare quando incontrano oggetti sensoriali (ovvero che stimolano i 5 sensi; Skov, 2019). Negli ultimi 150 anni, influenzati dalla tradizione filosofica sopra descritta, centinaia di studi comportamentali hanno cercato di determinare quali caratteristiche sensoriali le persone trovano belle manipolando sistematicamente le proprietà dello stimolo che veniva presentato in sede sperimentale. Sebbene questi studi abbiano riscontrato che alcune proprietà dello stimolo sono associate in modo affidabile alle risposte di bellezza nella maggior parte delle persone, hanno anche rivelato che le risposte di bellezza non sono fisse (Corradi, 2020). Non solo le persone differiscono nel trovare bella una proprietà dello stimolo ma, a seconda del contesto e delle circostanze, anche la stessa persona può trovare bello uno stimolo in un’occasione ma non in un’altra.

 Esperimenti in cui lo stesso gruppo di stimoli veniva valutato in base a diversi tipi di giudizi valutativi, come la piacevolezza, il gradimento o la bellezza, hanno costantemente riscontrato che i giudizi di bellezza sono altamente correlati con quelli di piacere. Russell e George (1990) avevano dimostrato che, sebbene i giudizi di piacevolezza e preferibilità fossero altamente correlati, le diverse caratteristiche percettive variavano nel grado in cui influenzavano i tre tipi di giudizi valutativi (ovvero, piacevolezza, gradimento, bellezza). Ad esempio, lo stile pittorico era un forte predittore di piacevolezza, ma un debole predittore di preferibilità. Questi risultati suggeriscono che le diverse forme di giudizio valutativo portano le persone a soppesare aspetti diversi dello stimolo quando ne valutano il valore estetico.

Più tardi, Brielmann e Pelli (2019) chiesero a un gruppo di soggetti con diverse capacità di provare piacere (alcuni dei quali presentavano alti gradi di anedonia) di valutare le immagini in base alla loro bellezza percepita. I risultati di questo studio indicano che l’incapacità di provare piacere riduce effettivamente la possibilità di percepire le immagini come belle.

Non è ancora chiaro cosa definisca la bellezza di un’esperienza. I dati del lavoro di Brielmann e Pelli (2019) rivelano che le persone considerano belli solo gli stimoli per i quali provano un piacere intenso. Altre aspettative che le persone possono avere per gli oggetti ritenuti belli potrebbero includere la tipologia dello stimolo, la complessità, l’originalità o l’unicità, fattori utilizzati per definire la bellezza nella tradizione filosofica. Inoltre, da un punto di vista biologico, l’apprezzamento della bellezza è radicato in meccanismi che regolano i bisogni fondamentali che orientano gli animali verso o lontano da oggetti e luoghi che sono significativi per la sopravvivenza, conferendo loro un valore di ricompensa.

Conseguenze della bellezza percepita

Proprio come altre forme di valutazione edonica influenzano il modo in cui interagiamo con gli oggetti che incontriamo, la bellezza percepita influenza in modo sostanziale il modo in cui valutiamo i comportamenti e gli attributi personali degli altri. In particolare, agli individui attraenti vengono attribuite qualità personali e interpersonali più positive rispetto agli individui meno attraenti. Questa associazione emerge molto presto nello sviluppo e influenza il modo in cui le persone trattano gli altri. Sembra che le persone attraenti siano trattate meglio e ricevano migliori opportunità rispetto a quelle considerati non attraenti (Frevert, 2014). Allo stesso modo, con un facile accesso a una pletora di opzioni per molte classi di prodotti di consumo, le persone trovano sempre più difficile scegliere sulla base del prezzo, delle specifiche tecniche o della qualità. Le scelte dei consumatori sono quindi spesso guidate principalmente dalle caratteristiche estetiche del design dei prodotti, degli imballaggi, degli espositori e degli interni dei negozi, dei siti web e degli spot pubblicitari (Patrick, 2016). La bellezza dei prodotti di consumo e dei negozi che li vendono influenza le intenzioni di acquisto, il passaparola e la disponibilità a pagare (Reimann et al., 2010).

Conclusioni

I risultati della rassegna presentano un quadro complesso rispetto alla natura della bellezza, un quadro che tuttavia può permettere a psicologi e neuroscienziati di iniziare a delineare le caratteristiche computazionali, funzionali e fisiologiche che caratterizzano le risposte e i giudizi di bellezza.

Una metanalisi sull’efficacia della videoterapia online comparata con la psicoterapia in presenza

In una recente meta-analisi di Fernandez e colleghi (2021) si è voluto verificare a livello meta-analitico l’efficacia della videoterapia erogata online (VDP) a confronto con la psicoterapia in presenza (IPP) analizzando sia il target della terapia in termini di diagnosi sia l’approccio terapeutico utilizzato.

 

La psicoterapia tradizionalmente e sin dagli albori è stata erogata in presenza, cioè attraverso incontri fisici tra terapeuta e paziente, nello studio del terapeuta caratterizzati da prossimità fisica all’interno di un setting clinico, educativo o forense. Con il termine inglese in-person psychotherapy (IPP) quindi ci si riferisce alla psicoterapia erogata dal vivo, definita anche in letteratura come psicoterapia in presenza. 

Dalla psicoterapia in presenza alla videoterapia

Tuttavia, i rapidi progressi della tecnologia, nonché alcune condizioni contingenti legate alle misure di distanziamento sociale, isolamento e quarantene che hanno caratterizzato la pandemia da COVID-19 hanno oltremodo accelerato l’esigenza di considerare e implementare modalità alternative di erogare servizi medici e legati alla salute mentale basate sulla tecnologia (Burgoyne & Cohn, 2020; Grohol, 1999).

In tal senso, diversi interventi di salute mentale vengono tuttora forniti e definiti come “digital mental health interventions” (DMHIs), telepsicoterapia, tele psichiatria, telemedicina, terapia da remoto, e-therapy. Considerando la videoterapia, è stata descritta come innovativa modalità di erogare la psicoterapia che risulta essere sincrona, “faccia a faccia ma non nello stesso luogo” (Franklin et al., 2017).

In questo articolo ci riferiremo alla videoterapia con il termine “video-delivered psychoterapy(VDP), intesa come modalità di psicoterapia che mette in comunicazione il terapeuta e il paziente attraverso Internet, utilizzando un dispositivo tecnologico dotato di webcam e microfono che consente di avere scambi interattivi sincroni a livello video e audio.

Una meta-analisi sull’efficacia della videoterapia e della terapia in presenza

Alcune review pubblicate in letteratura evidenziano che tale metodo di erogazione è considerato fattibile e ben accettato da molte tipologie di pazienti (Backhaus et al., 2012; Bouchard et al., 2004), non soltanto per coloro che vivono in aree remote con maggiori difficoltà ad accedere ai servizi di salute mentale in presenza, ma anche da coloro che possono avere impedimenti logistici e da coloro che vivendo in aree urbane, evitando gli svantaggi legati al tempo e costi negli spostamenti per raggiungere lo studio del terapeuta.

In una recente meta-analisi di Fernandez e colleghi (2021) si è voluto verificare a livello meta-analitico l’efficacia della videoterapia erogata online (VDP) a confronto con la terapia in presenza (IPP) analizzando sia il target della terapia in termini di diagnosi sia l’approccio terapeutico utilizzato. Nella meta-analisi sono stati inclusi 56 studi con disegno di ricerca entro i gruppi (1681 soggetti) e 47 studi con disegno di ricerca tra i gruppi (3564 soggetti).

In particolare, per comprendere l’efficacia della VDP negli studi considerati in funzione di diverse condizioni diagnostiche, sono stati analizzati alcuni sottogruppi in riferimento al target del trattamento erogato: l’effect size nel pre-post test per le terapie VDP è stato disaggregato per diverse condizioni diagnostiche quali disturbi d’ansia, depressione, disturbo da stress post-traumatico (PTSD), disturbo ossessivo-compulsivo, disturbi alimentari e altre difficoltà psicologiche varie. Inoltre, nella meta-analisi si è voluto analizzare l’effect size e dunque l’efficacia della videoterapia erogata online (VDP) comparata con la terapia in presenza (IPP) per diverse tipologie di psicoterapia: la terapia CBT (terapia cognitivo-comportamentale) è stata quindi comparata con approcci non CBT nella modalità VDP.

I risultati della meta-analisi

Dai risultati della meta-analisi di Fernandez et al. (2021) sono emersi diversi aspetti interessanti, tra cui una grande dimensione dell’effetto statisticamente significativa per la VDP. Da tale risultato si evince che in generale la videoterapia erogata online presenta significativi livelli di efficacia clinica nella comparazione con gruppi di controllo (soggetti in lista d’attesa per il trattamento) e non evidenzia differenze significative in termini di efficacia rispetto alla psicoterapia erogata in presenza (IPP).

Considerando invece il target di trattamento, è emerso che la videoterapia erogata online avrebbe un’efficacia maggiormente pronunciata nel caso del trattamento di tre condizioni cliniche: i disturbi d’ansia, la depressione e il disturbo post-traumatico da stress con effect size particolarmente elevati per tali categorie diagnostiche. Per quanto riguarda la tipologia di terapia erogata, i risultati dimostrano che l’efficacia della terapia VDP è risultata più elevata se la tipologia di trattamento erogato era cognitivo – comportamentale (CBT) (g = 1.34) rispetto a trattamenti non CBT (g = 0.66), seppure in entrambe le condizioni la VDP si è comunque rivelata efficace.

In generale, quindi la VDP appare particolarmente adatta per la psicoterapia cognitivo-comportamentale, e per alcune categorie diagnostiche, quali ansia, depressione e PTSD. 

Superando alcuni iniziali scetticismi, anche grazie al proliferare di studi e meta-analisi, la videoterapia o video-delivered psychotherapy (VDP) si configura ad oggi come una modalità di erogazione della psicoterapia che non solo è fattibile e ben accolta dai pazienti, ma che produce risultati simili alla terapia erogata in presenza (IPP) in termini di efficacia clinica. Ulteriori studi dovranno approfondire il tema, considerando anche forme integrate di protocolli di trattamento stepped-care, che possano includere alcune sessioni di videoterapia in alternanza a sedute in presenza in funzione di specifici obiettivi terapeutici.

In generale, tali considerazioni sono in linea con una recente review (Naskar et al., 2017) sulla telepsichiatria in diversi paesi (tra cui Finlandia, Australia, India, Regno Unito, Stati Uniti e Sudafrica) in cui vengono illustrati come emergenti diversi servizi di salute mentale erogati attraverso teleterapia e supportandone dunque l’efficacia e l’utilità verso un modello consolidato (McCord et al., 2020).

 

L’intervento cognitivo-comportamentale per l’età evolutiva – Recensione

Il libro “L’intervento cognitivo-comportamentale per l’età evolutiva” descrive in modo esemplare la fase di accoglienza dei genitori e del bambino/adolescente ed in seguito le varie tecniche cognitivo-comportamentali che è possibile utilizzare in psicoterapia.

 

Avere una guida chiara quando si intraprende il lavoro con i bambini e gli adolescenti è molto importante per un clinico, sia, nello specifico, se si è nella fase iniziale della propria carriera professionale, sia soprattutto per le difficoltà di lavoro con questa tipologia di utenti. Infatti, essendo in una fase evolutiva, quindi ricca di rapidi cambiamenti, ed essendo anche particolarmente soggetti all’influenza dell’ambiente esterno (in particolare quello familiare), non è facile capire se ci sia un problema di rilevanza clinica e di che tipologia specifica, perciò avere strumenti da poter utilizzare e un modus operandi generale che possa orientare sul da farsi risulta particolarmente rassicurante per il clinico.

Cerca di fornire questo orientamento e questi strumenti il libro di Mario Di Pietro “L’intervento cognitivo-comportamentale in età evolutiva” pubblicato da Erickson nel 2013. Già dal titolo si intende che si tratta di un testo che approfondisce gli aspetti dell’intervento terapeutico vero e proprio secondo un ben preciso orientamento teorico e in tal senso potrebbe non interessare a chi si sente distante da quell’orientamento. Tuttavia, il libro contiene alcuni capitoli di interesse generale per il clinico indipendentemente dalla sua formazione, utili a orientarsi appunto durante la fase di accoglienza e diagnosi del minore che accede al servizio.

Il libro descrive in modo esemplare la fase di accoglienza dei genitori e del bambino/adolescente con alcuni utili consigli, alcuni aspetti tipici di questa fascia di età che possono aiutare nella distinzione tra ciò che può considerarsi normale e ciò che invece può essere di rilevanza clinica, una riflessione sull’area del problema principale del paziente (se internalizzante o esternalizzante), infine la presentazione di alcuni strumenti (ovvero questionari) di facile e rapido utilizzo che sono inclusi nel CD-Rom allegato al libro e che permettono di fare un rapido screening dei problemi iniziali del giovane paziente.

 La restante parte del testo, che è quella principale, è costituita dalla descrizione delle varie tecniche cognitivo-comportamentali che è possibile utilizzare in psicoterapia, direttamente in seduta o attraverso i genitori. E sebbene appunto si tratti di informazioni che alcuni clinici, data la loro formazione, magari non utilizzeranno, può essere molto utile studiare alcune di queste che sono –a mio avviso– più trasversali e comunque possono essere utilizzate (e nella pratica certamente lo sono) anche da chi non aderisce a quello specifico orientamento teorico. Per esempio, alcuni interventi utili a rafforzare la consapevolezza emotiva o legati all’uso dei rinforzi e delle “punizioni” per modificare il comportamento, aspetto quest’ultimo che costituisce un elemento molto importante nel lavoro di potenziamento delle competenze educative dei genitori.

Un libro, come dicevo, dal chiaro taglio pratico (i capitoli sono brevi, ben strutturati e facilmente leggibili), che costituisce un’importante lettura per chi volesse avvicinarsi per la prima volta al lavoro con i pazienti in età evolutiva e affrontarlo in un modo strutturato ed economico, cosa molto importante in particolare per chi, lavorando come psicologo in ambito pubblico, si confronta sempre di più con la necessità di ottimizzare tempo e risorse a disposizione per la valutazione dei pazienti.

Ansia, depressione e disturbo da stress post-traumatico nei migranti

Uno studio pubblicato recentemente (Henkelmann et al., 2020) ha condotto una revisione sistematica ed una meta-analisi riguardante la prevalenza di disturbi d’ansia, disturbi depressivi e disturbo da stress disturbo post-traumatico in campione di rifugiati adulti, bambini ed adolescenti.

 

La salute dei rifugiati

 La maggior parte dei rifugiati, obbligati a lasciare il loro paese per via di violenze, persecuzioni o guerre, sono esposti a stress ed eventi traumatici che avvengono sia nel loro luogo di origine, sia durante il viaggio verso aree sicure (Schick et al., 2016). Durante il reinserimento, inoltre, devono spesso affrontare il peso della solitudine, della disoccupazione e dell’incertezza riguardo al futuro e alle procedure di accoglienza. Tutti questi fattori possono contribuire all’insorgenza di svariati disturbi mentali (Burnett, 2001; Porter & Haslam, 2005).

Dai vari studi (per esempio, Morina et al., 2018) riguardanti lo stato di salute dei rifugiati, è emersa una grande difficoltà nello stimare la prevalenza di psicopatologie in questa popolazione; infatti, le revisioni mostrano una variazione molto ampia, che può andare dal 3% all’88% per il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e dal 5% all’80% per la depressione. Questi dati sono stati confermati da una revisione condotta nel 2018 (Morina et al., 2018) che ha rilevato grandi differenze non solo riguardo ai tassi di prevalenza dei disturbi dell’umore, ma anche per i disturbi da dipendenza da alcol e per i sintomi psicotici, concludendo che questi risultati, così diversi fra loro, siano causati da una mancanza di studi in merito.

Informazioni accurate ed aggiornate sulla salute mentale dei rifugiati sarebbero necessarie per una valutazione più precisa dei loro bisogni e dei rischi, in modo da sviluppare politiche di salute pubblica più mirate per l’accoglienza e la prevenzione (Henkelmann et al., 2020).

Ansia, depressione e PTSD tra i rifugiati

Uno studio pubblicato recentemente (Henkelmann et al., 2020) ha condotto una revisione sistematica ed una meta-analisi riguardante la prevalenza di disturbi auto-riferiti e diagnosticati in campione di rifugiati adulti, bambini ed adolescenti, reinseriti nei Paesi ad alto reddito. In particolare, sono stati valutati i disturbi d’ansia, i disturbi depressivi ed il disturbo da stress disturbo post-traumatico.

Lo studio, analizzando in totale 66 articoli, stima che 1 rifugiato su 3 presenta una diagnosi di depressione e di disturbo da stress post traumatico, mentre la presenza di disturbi di ansia è stata stimata essere di 1-2 rifugiati ogni 10. Questi dati suggeriscono sofferenza mentale frequente che potrebbe ostacolare il funzionamento degli individui e conseguentemente le loro capacità adattive (UNHCR, 2019; Edlund et al., 2018).

 Nonostante le percentuali riportate siano simili a quelle di altre popolazioni con vissuti di traumi e con associazioni significative di disturbo da stress post-traumatico, depressione e disturbi di ansia (Dorahy et al., 2016; Spinhoven et al., 2010), la prevalenza di disturbi tra i rifugiati è risultata essere maggiore. Questo sembrerebbe suggerire che i fattori post-immigrazione, come viaggi pericolosi, procedure lunghe di asilo, separazione familiare, disoccupazione e discriminazione, in aggiunta ai fattori di pre-immigrazione, come l’esposizione a guerre, torture, o persecuzioni, incidono ulteriormente sulla gravità e sulla prevalenza dei disturbi mentali (Kartal et al., 2019; Li et al., 2016; Siriwardhana et al., 2014).

I dati riguardanti i bambini e gli adolescenti si sono dimostrati simili a quelli degli adulti, tuttavia gli studi a riguardo sono molto pochi, solo 5 articoli riguardanti l’ansia e 7 riguardanti il disturbo da stress post-traumatico, pertanto non possono essere considerati sufficienti per fornire una stima di prevalenza attendibile (Henkelmann et al., 2020).

Come intervenire

Visto che non è possibile agire sui fattori pre-immigrazione, per poter attuare strategie di prevenzione mirate ad aiutare i rifugiati che hanno bisogno di cure, è fondamentale individuare i fattori post-immigrazione che influiscono sull’insorgenza di disturbi mentali (Giacco & Priebe, 2018). Per questo, nello studio (Henkelmann et al., 2020) sono state indagate le differenze tra i rifugiati e l’unico aspetto che è stato osservato come rilevante riguarda il disturbo da stress post-traumatico, più frequente tra gli adolescenti che negli adulti. Questo dato conferma uno studio precedente (Fazel et al., 2005), tuttavia sono pochi gli studi a riguardo.

Purtroppo, i pochi studi sulla tematica non permettono di fornire ulteriori dati riguardanti la significatività di età, genere, differenti traumi ed eventi di vita stressanti o caratteristiche personologiche; sarebbero necessarie ulteriori ricerche per maggiori confronti.

Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (UNHCR, 2019; OCHA, 2017) ha dichiarato l’importanza di considerare i disturbi mentali dei rifugiati, al fine di poter sviluppare politiche efficaci. I dati dello studio (Henkelmann et al., 2020) hanno mostrato che la vulnerabilità ai disturbi mentali permane anche dopo anni nel nuovo stato. Questi dati dovrebbero sottolineare l’importanza di condurre nuove ricerche sulla prevenzione e sull’intervento in una popolazione così ad alto rischio di insorgenza di sofferenza mentale.

Teddy, il thriller psicologico di Jason Rekulak, presto dal libro alla TV

Prossimamente su Netflix la scrittura e lo stile di Jason Rekulak confermano l’autenticità del thriller psicologico intitolato “Teddy”, impregnato di quegli ingredienti capaci di suscitare quel mistero e quelle paure ancestrali, pronte a bussare alle porte della nostra ragione e dei nostri pensieri.

 

Attraverso le illustrazioni, il lettore viene sin da subito catturato e accompagnato all’interno di una trama intrisa di mistero, viceversa sullo schermo, l’immaginario di una dimensione infantile prenderà vita trascinando chiunque desideri guardarla in una spirale apparentemente senza fine, ma dai risvolti inimmaginabili.

Sotto il profilo psicologico l’autore presenta con la giusta sensibilità un insieme di tematiche capaci di coniugarsi con l’immaginario del lettore, ma al contempo di toccare con delicatezza quei punti che durante il dispiegarsi del racconto, sembreranno quanto più lontani dalla dimensione terrena.

Grazie inoltre ai disegni di Will Staehle l’evoluzione e il prosieguo del racconto, assumono gradualmente un ritmo sempre più veloce, ricco di colpi di scena e in continua trasformazione. Il connubio tra la dimensione infantile e quella temporale rappresenta pertanto il cardine principale attorno al quale ruotano gli eventi passati, presenti e futuri di una storia che non può non catturare chiunque desideri leggerla.

Sotto il profilo psicodiagnostico viceversa, se all’inizio i disegni del piccolo Teddy consentono un primo approccio circa il suo mondo interno e il suo stile relazionale, i medesimi elementi presentati su carta trovano poi ampio spazio per una graduale trasformazione.

 Una trasformazione accurata, a tratti leggera e proprio per questo promotrice di nuovi spunti sui quali riflettere, e rispetto ai quali il lettore non sarà esente da quello stupore pronto a tradursi in una paura e in una meraviglia lontani nel tempo, che pagina dopo pagina renderanno questo thriller unico nel suo genere.

Leggerlo dunque non solo consentirà di conoscere o approfondire determinate tematiche, ma permetterà al contempo di apprezzare e prendere consapevolezza di quell’equilibrio sottile tra ciò che vediamo e ciò che all’apparenza diamo per scontato non esista e che per questo definiamo come inesistente, non vero e impossibile. Tuttavia questo racconto sembra offrire quella possibilità, non solo di rimettere in discussione ciò che si riteneva ormai assoluto o peggio ancora un dato di fatto, bensì di far emergere in ciascuno di noi quel labile e delicato rapporto tra la vita e la morte, che ognuno dovrebbe avere la responsabilità di non catalogare come inesistente, ma al contrario percepirne quell’essenza sottile in grado di connettere la nostra parte antica con quello che apparentemente non si vede, ma che di contro sembra chiamarci indissolubilmente da lontano. Dalle profondità della nostra anima.

Le ragioni cliniche della differenza tra tre società cognitivo comportamentali. Seconda risposta alla lettera aperta di Antonio Semerari

Giovanni Maria Ruggiero aggiunge qui altre osservazioni come risposta alle convinzioni esposte nel forum della SITCC, ovvero quali siano le circostanze pratiche e concrete dell’esistenza di più società di psicoterapia cognitivo-comportamentale e quali sono le ragioni cliniche e non solo teoriche e scientifiche.

 

 Poche settimane fa abbiamo pubblicato la lettera aperta di Antonio Semerari “Perché tre società diverse di terapia cognitivo-comportamentale? Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia” in cui si interrogava appunto sull’esistenza di più di una società di psicoterapia cognitivo comportamentale in Italia. Nel frattempo si è sviluppato un dibattito sul forum della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) il cui succo si può riassumere -a mio parere e in base a quel che ho capito leggendo i messaggi di alcuni colleghi- nella convinzione, legittima, di alcuni membri della SITCC che ritengono che ci siano le condizioni per l’esistenza di un’unica società italiana di terapia cognitiva e comportamentale e che questa società unica possa essere tendenzialmente la SITCC, la quale sarebbe in possesso delle caratteristiche sia scientifiche che di orientamento teorico atte a renderla in grado di accogliere tutti gli psicoterapeuti cognitivo comportamentali italiani.

Nello stesso articolo dove era apparsa la lettera aperta di Semerari avevo pubblicato una mia prima risposta su quelle che sono a mio vedere le ragioni storiche, scientifiche e teoriche dell’esistenza di diverse tradizioni sotto l’ombrello cognitivo comportamentale, tradizioni sufficientemente diverse da giustificare l’esistenza di più società. Aggiungo qui altre osservazioni come risposta alle convinzioni esposte nel forum della SITCC, ovvero quali sono le circostanze pratiche e concrete dell’esistenza di più società e quali sono le ragioni cliniche e non solo teoriche e scientifiche. Ribadisco che queste considerazioni sono da considerarsi come mio parere personale e non rappresentano assolutamente la posizione di una società o di una Istituzione tra quelle a cui appartengo. Inoltre, mi scuso se scriverò spesso l’espressione “a mio parere” in questo articolo ma, credetemi, non la scriverò mai abbastanza, dato che spesso mi si obietta -forse a ragione- di non aver capito molto degli argomenti di cui troppo frequentemente tratto: di qui la frequenza dei miei “a mio parere”.

La prima osservazione è che -a mio parere- una società unificata davvero in grado di accogliere tutti gli psicoterapeuti italiani di orientamento cognitivo comportamentale sarebbe potuta nascere da una parte ereditando le precedenti tradizioni cliniche e scientifiche, per anzianità e spessore soprattutto quelle della SITCC e dell’AIAMC, ma dall’altra assicurandosi contro il condizionamento esercitato dai gruppi di prestigio (pur meritato) che inevitabilmente influenzano le direzioni scientifiche e cliniche delle precedenti società, e qui di nuovo sono costretto a indicare SITCC e AIAMC, proprio in ragione del prestigio storico che le accompagna. È possibile che alla fine degli anni ’10 di questo secolo la SITCC poteva candidarsi a essere quella società italiana unificata di psicoterapia cognitivo comportamentale che Semerari sogna, perché in quel momento CBT-Italia ancora non era nata e l’AIAMC attraversava quella che mi sembrava (ma posso sbagliarmi: ancora una volta è solo il mio parere) una crisi di partecipazione. Tuttavia, a tal fine, la SITCC avrebbe dovuto fare uno sforzo di ampliamento ecumenico che la rendesse in grado di accogliere immediatamente e al massimo livello nuovi soci di lunga esperienza provenienti da altre società cognitivo comportamentali ed estranei all’identità della SITCC, al legame col costruttivismo e all’insegnamento di Guidano e Liotti. Insomma, per avere una trasformazione della SITCC in società unificata del cognitivismo clinico italiano era -a mio parere- necessario che la SITCC rinunciasse almeno in parte alla sua forte caratterizzazione costruttivista e guidano-liottiana. Tutto questo non è accaduto ed è forse per questo che chi non si riconosceva più del tutto nella SITCC o nell’AIAMC ha finito per fondare CBT-Italia, chiudendo la finestra temporale aperta per la candidatura della SITCC a società unificata della psicoterapia cognitivo comportamentale in Italia.

La seconda osservazione sviluppa l’argomento dell’irriducibilità delle differenze teoriche esposto nella mia prima risposta e la estende alla irriducibilità delle differenze cliniche e di procedure terapeutiche e formative. Le differenze cliniche dipendono dalla risposta data alla promessa -così tipica delle psicoterapie cognitivo comportamentali– di fornire modelli di efficacia controllabile e non fondate sul prestigio intellettuale di un padre fondatore. Come si sa, la risposta iniziale fu quella dei manuali, in particolare quelli di Beck, e fu su quei manuali che si scatenò la frizione teorica sempre contenuta e nascosta ma destinata poi a esplodere prima o poi tra cognitivismo standard e costruttivismo. È vero che in seguito hanno avuto in parte ragione i costruttivisti a segnalare i limiti dei manuali ma il problema rimane: quale è stata la risposta clinica alla presa d’atto di questi limiti? Può la psicoterapia cognitivo comportamentale, perfino nella sua incarnazione costruttivista, rinunciare alla sua promessa di riproducibilità empirica dei suoi risultati e diventare una psicoterapia come le altre, una delle tante che più o meno funzionano perché così percepiscono intuitivamente i suoi praticanti e così sostengono i suoi padri fondatori?

A mio parere, ancora una volta cognitivisti standard e costruttivisti (scusate anche queste semplificazioni della nomenclatura in cui, giustamente, nessuno si indentificherebbe ma che hanno il merito di fare il loro sporco lavoro) diedero una risposta diversa. Quali furono -sempre a mio parere- queste risposte alla crisi dei manuali?

I cognitivisti standard rimediarono accettando la soluzione additata -ancora una volta a mio parere- da Marsha Linehan: prendere atto che i manuali sono solo un supporto dell’apprendimento e che fosse necessario costruire un’affiliazione forte, un’appartenenza a un ambiente formativo e culturale coinvolgente e appunto affiliante che seguisse la formazione del clinico non solo nel suo percorso didattico iniziale ma anche per tutta la sua carriera, carriera da realizzarsi in una condizione di formazione continua, di ripetuto e costante aggiornamento, di continua supervisione e intervisione. Era qualcosa che gli psicoanalisti avevano sempre fatto, magari esagerando e rischiando forme di controllo sociale al limite della molestia legate alla pratica dell’analisi personale e della strutturazione della carriera clinica per livelli successivi che dovevano corrispondere a gradi di competenza ma che spesso decadevano in ranghi onorifici di nobiltà e notabilato.

A questo rischio di settarismo ed esoterismo iniziatico la psicoterapia cognitivo comportamentale si era opposta generando una sana reazione libertaria che proponeva una formazione più leggera che però a volte rischiava di stimolare la tendenza a una pratica clinica fondata su una intensa formazione iniziale basata sui manuali non sempre seguita da un periodo successivo di apprendistato strettamente supervisionato e controllato. Che i manuali da soli non bastassero se ne accorse Clark in persona quando ebbe l’occasione di diffondere il suo modello di psicoterapia cognitivo comportamentale in tutto il sistema sanitario pubblico britannico, come racconta egli stesso nel suo “Thrive. The Power of Evidence-Based Psychological Therapies” (Layard e Clark, 2014) appena pubblicato in italiano sotto il titolo di “Il potere della terapia psicologica. Come migliorare la vita delle persone e della società” (Layard e Clark, 2022). Era necessario formare le persone a un livello di competenza superiore in cui la pratica ripetuta e la sua valutazione fossero perfezionate continuamente in un rapporto di formazione prolungata mediante l’uso estensivo e intensivo di scale di valutazione, esercitazioni, supervisioni, intervisioni, visioni di sedute registrate, e così via.

Così aveva iniziato a fare Marsha Linehan nel suo Istituto di Seattle per la terapia dialettico comportamentale e così iniziarono a fare le varie nuove terapie nate negli anni ’90, che fossero le terapie di processo o di terza onda nate nel campo cognitivo o altre terapie nate nel campo esperienziale e perfino psicodinamico, come la Mentalization Based Therapy di Bateman e Fonagy o la Transference Focused Therapy di Kernberg. Con un margine di ritardo nel primo decennio di questo secolo, la psicoterapia cognitiva standard si adeguò: come abbiamo visto lo fece Clark nel sistema sanitario pubblico del Regno Unito e lo fece Judith Beck all’Istituto Beck di Philadelphia, che ora fornisce formazione continua ai suoi affiliati. In tal modo il manuale di Beck smise di essere il nocciolo della formazione e divenne solo il supporto di una pratica reale continuamente applicata e riapplicata e raffinata in mille occasioni di formazione supervisionata e di addestramento concreto. Oggi, per capire cos’è la pratica della psicoterapia cognitivo comportamentale occorre adottare la formazione continua presso il Beck Institute di Philadelphia, i cui corsi sono anche disponibili online, invece che teorizzarne la supposta freddezza razionalista in base alla lettura di testi teorici.

Per questo il costruttivismo, a mio parere (e da qui in poi gli “a mio parere” si sprecano, metteteli voi con abbondanza), da un lato ebbe ragione (ma anche facile gioco) a sottolineare i limiti dei manuali partendo dalla posizione -appunto costruttivista- della complessità e irriducibilità dei significati personali alle credenze ma ebbe torto a focalizzare la sua critica al mero aspetto teorico, senza esplorare in concreto le caratteristiche della pratica clinica reale del cognitivismo standard. Questa strada era percorribile ma solo per un periodo limitato di tempo e -a mio parere, lo ripeto- finiva per diffondere la diffidenza per i cosiddetti protocolli, accusati di essere inapplicabili e al tempo stesso la tendenza opposta a cercare altrove -ovvero al di fuori dei modelli cognitivi- quelle procedure riproducibili che erano rifiutate negli spregiati protocolli riproducibili della psicoterapia cognitivo comportamentale standard.

 Ecco che l’ineffabilità dei significati personali finiva per cercare un po’ di carne reincarnandosi appunto nei paradigmi un po’ più modellizzabili della relazione terapeutica oppure delle tecniche esperienziali. Per un po’ sembrò possibile trattare di relazione terapeutica con sufficiente dovizia clinica schivando i protocolli e quindi al tempo stesso evitando sia il rischio della banale raccomandazione della relazione come accoglienza e buona pratica che la contraddizione del doversi incastrare in procedure controllabili, sia pure in questo caso relazionali e non tecniche. Ci riuscirono, nelle loro prospettive clinico-relazionali (in cui “prospettiva” si oppone consapevolmente al termine “protocollo”, come sostiene Farina nel 2021 in “The Role of Trauma in Psychotherapeutic Complications and the Worth of Giovanni Liotti’s Cognitive-Evolutionist Perspective (CEP): Commentary on Chapter “Strengths and Limitations of Case Formulation in Constructivist Cognitive Behavioral Therapies”. CBT Case Formulation as Therapeutic Process, 177-189) ci riuscirono -scrivevo- dapprima Liotti con Monticelli (“Teoria e clinica dell’alleanza terapeutica. Una prospettiva cognitivo-evoluzionista”, 2014, Cortina) e poi Bara (“Il terapeuta relazionale. Tecnica dell’atto terapeutico”, 2018, Bollati Boringhieri) ma il rischio di scadere nel sapere aneddotico di una processione di casi clinici era -a mio parere- dietro l’angolo, con in più qualche eccesso di semplicismo nella descrizione della gestione dei sintomi come ad esempio nel caso clinico contenuto nel capitolo finale di “Teoria e clinica dell’alleanza terapeutica. Una prospettiva cognitivo-evoluzionista” (Farina, 2014). Naturalmente semplifico e qui gli “a mio parere” abbondano e sono pronto a contraddirmi ammettendo che quei libri sono anche ricchi di stimoli teorici e clinici.

Io credo -e qui aggiungo l’ennesimo “a mio parere”- che in realtà anche nel campo costruttivista le procedure riproducibili, anzi i protocolli, scacciati dalla porta rientravano spesso dalla finestra perché il sapere clinico non può sottrarsi alla moderna domanda della riproducibilità tecnica delle procedure, domanda che è un bisogno reale condiviso e richiesto dai pazienti e non un bisogno indotto da qualche potere forte (qualcuno addirittura ha sospettato lo zampino della CIA, i servizi segreti americani, oppure le rivoluzioni culturali delle varie lobby che si nasconderebbero dietro la cancel culture, dal woke fino al transumanesimo).

A mio parere questa riproducibilità tecnica -ora rinnegata ma poi ricercata- il costruttivismo se la è andata a cercare in paradigmi focalizzati su stati mentali meno distaccati e razionali di quella famigerata cognizione ponderata e consapevole che appassiona i cognitivisti standard, stati mentali più emozionali e meno controllabili e quindi in qualche modo più “costruttivisti” se non altro per analogia, come possono essere alcune procedure (peraltro a volte altamente protocollizzate) di tipo relazionale come il modello rotture e riparazioni di Safran e Muran (2000, “Negotiating the therapeutic alliance: A relational treatment guide”. New York: Guilford; trad. it. “Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica”. Roma: Laterza, 2003) o di tipo corporeo-esperienziale (come i modelli clinici di Ogden e Fisher, “Psicoterapia sensomotoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento”, Milano, Cortina, 2016) o, con qualche forzatura -non essendo propriamente esperienziale e tantomeno corporeo- l’EMDR (Shapiro, “Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) Therapy: Basic Principles, Protocols, and Procedures”, 2017).

Queste procedure a loro volta si sono altamente formalizzate in percorsi di formazione continua secondo il modello già descritto in precedenza per Marsha Linehan e Judith Beck ed è quindi qui che i costruttivisti trovano quel punto di incontro tra riproducibilità delle tecniche ed esecuzione concreta e non astratta dei manuali che tutti cerchiamo e che -a mio avviso, lo ripeto ancora- tutti troviamo non in complesse scorribande teoriche sulla relazione o sulla mente incarnata ma in maniera molto più concreta ed esperienziale in concreti percorsi formativi.

Il ricorso a queste tecniche e soprattutto a questi percorsi formativi è -a mio parere- un fenomeno comune sia in chi abbia avuto una formazione standard che costruttivista. In essi l’allievo appena diplomato che diventa terapeuta esperto è seguito e formato nella concretezza della supervisione continua in maniera regolare e duratura mediante la ripetuta frequentazione di corsi di aggiornamento sempre rinnovati. L’adesione a questi corsi avviene principalmente -ancora una volta mio parere e sapendo di non avere alcun dato empirico di conferma- per iniziativa degli allievi stessi che -alla lunga- non possono accettare di non avere a disposizione procedure esplicite ma solo riflessioni teoriche e descrizioni esemplari di casi clinici. Altre volte -ancora una volta mio parere e di nuovo sapendo di non avere alcun dato empirico di conferma- avviene ufficialmente per decisione delle scuole attraverso l’adozione eclettica di varie tecniche insegnate in workshop specifici, un’operazione che può essere legittima se ben condotta ma che, a mio parere, rischia di peccare della presunzione di poter adottare qualunque tecnica dall’alto di un paradigma teorico di superiore complessità, il che a ben vedere è un paradosso quando avviene per un paradigma come quello costruttivista che esprime perplessità per il sapere verbale e dichiarativo, ovvero meramente teorico.

In conclusione, mi pare che la soluzione data alla crisi della manualizzazione sia diversa nei diversi ambienti del costruttivismo e del cognitivismo standard e questa differenza in qualche modo ancora una volta si rifletta nei due mondi rappresentati da CBT-Italia e dalla SITCC. In CBT-Italia si è preferito soddisfare i bisogni di seguire percorsi di formazione continua definiti, adottando il modello di formazione continua delineato da Linehan e altri nel mondo della psicoterapia cognitivo comportamentale di terza onda e da Judith Beck nel mondo della psicoterapia cognitivo comportamentale standard. Nella SITCC invece -e ancora una volta a mio parere- si è preferito un approfondimento teorico sulla relazione e sull’intervento esperienziale privilegiati rispetto alla delineazione di percorsi ben definiti di formazione continua, con l’eccezione del caso della Terapia Metacognitivo Interpersonale di Semerari che invece, e ancora una volta mostrando la sua posizione equidistante tra le due posizioni, ha proposto anche percorsi di formazione continua. Al momento queste mi appaiono come soluzioni diverse per problemi simili e questa può essere un’altra ragione della differenza culturale tra CBT-Italia e SITCC.

Eppure, malgrado queste mie considerazioni che complessivamente giustificano la separazione tra CBT-Italia e SITCC, mi pare che al momento anche nell’ambiente delle scuole costruttiviste si stiano moltiplicando le occasioni formative di aggiornamento che presumibilmente mi paiono in procinto di organizzarsi in percorsi formalizzati di formazione continua. Forse si profila una nuova convergenza, ancora iniziale ma presente, nell’impostazione del problema formativo tra costruttivismo e cognitivismo standard. Se questa convergenza si rafforzerà ci si potrà incontrare su questo terreno comune. È arrivato però il momento di concludere queste considerazioni, sperando di aver risposto agli interrogativi di Semerari. Come nella prima risposta, anche qui ringrazio chi ha avuto la pazienza di arrivare fino in fondo e lo informo che queste righe, pur prolisse, sono una piccola parte di mie elucubrazioni personali sullo sviluppo del cognitivismo italiano e internazionale ancora più logorroiche nella loro estensione completa. Chi volesse consultarle nella loro interezza può trovarle in due miei libri che segnalo: “La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale” del 2021 e “La parola, il corpo e la macchina nella letteratura psicoterapeutica” del 2022.

Un caro saluto a tutte e tutti.
Giovanni Maria Ruggiero

ChatGPT trasformerà il mondo della psicologia? – Psicologia Digitale

Il più avanzato chatbot finora realizzato, ChatGPT, è in grado di interagire in maniera talmente credibile che è difficile distinguerlo da un umano. Come potrebbe rivoluzionare il mondo della psicologia?

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 37) ChatGPT trasformerà il mondo della psicologia?

 

Da quando è stato lanciato lo scorso novembre, ChatGPT ha generato parecchio interesse. Nessun software simile è mai stato in grado di simulare conversazioni e testi così bene da rendere difficile distinguerli da quelli di un umano.

Conosciamo chatbot che rispondono alle nostre domande, per esempio in quelle finestre di conversazione che si aprono quando siamo su un sito; siamo abituati a risultati più o meno soddisfacenti, più o meno funzionali allo scopo (di solito ottenere una informazione specifica riguardo ad un servizio o a un prodotto). Sono utili come prima scrematura per capire come orientarci rispetto al nostro bisogno ma difficilmente li scambieremmo per umani: non sono in grado di sostenere una conversazione che non ruoti intorno alle parole chiave per le quali sono specificatamente progettati.

La vera, fondamentale, differenza è che ChatGPT è capace di simulare un vero e proprio dialogo su qualsiasi richiesta o argomento (come medicina o letteratura), producendo delle risposte originali e del tutto simili a quelle umane per complessità e profondità.

Infatti, l’aspetto che anima di più il dialogo intorno a questo nuovo sviluppo dell’intelligenza artificiale è proprio questo: è difficile distinguere ChatGPT dalla scrittura umana.

Dove ci porterà tutto questo?

Che cos’è ChatGPT

ChatGPT (Chat Generative Pre-trained Transformer, in italiano “trasformatore pre-istruito generatore di programmi di dialogo”) è un chatbot sviluppato da OpenAI e lanciato sul mercato lo scorso Novembre. È specializzato nella conversazione (per ora solo testuale e non vocale) e si basa su modelli di intelligenza artificiale e machine learning.

Si differenzia rispetto ai modelli precedenti perché ha una comprensione del testo molto raffinata: dà risposte più pertinenti, più lunghe ed è in grado di argomentarle.

ChatGPT ricorda le interazioni avvenute all’interno della stessa conversazione ma non in conversazioni diverse ed ha conoscenze di cultura generale aggiornate al 2021 (per esempio da Wikipedia).

È progettato per evitare risposte inappropriate (come gli insulti), anche se sono stati riscontrati bias e pregiudizi (per esempio razziali) dovuti ai dati di apprendimento utilizzati per istruirlo.

Due chiacchiere con ChatGPT

È possibile provare a conversare con ChatGPT su questo sito. Basta registrarsi (è gratuito) e si può testare personalmente cosa vuol dire parlare con ChatGPT.

Ad un primo impatto colpisce la pertinenza e la profondità di dettaglio nelle risposte; esprime però il suo massimo potenziale nella scrittura di testi: dalle ricette (anche inventate al momento con ingredienti a caso), a contenuti per i social, saggi, testi letterari o giornalistici, pur mostrando qualche pecca nella ricerca di fonti attendibili e sicure (King, 2022). Per i più scettici, OpenAI ha anche sviluppato un tester che dovrebbe riconoscere se un testo è scritto da un umano o da un software.

Limitazioni e futuri sviluppi

Software come ChatGPT possono essere usati in molti ambiti: addirittura è tra gli autori di alcuni articoli scientifici come quello pubblicato lo scorso Gennaio della Dott.ssa O’Connor e ChatGPT, appunto, utilizzato per scrivere una parte dell’articolo.

Dato che è disponibile solo da poche settimane non sono ancora disponibili risultati di ricerca sull’uso di ChatGPT in ambito psicologico; sicuramente nei prossimi mesi avremo delle evidenze anche su questo fronte.

Tuttavia alcuni autori si sono spinti a fare qualche interessante riflessione. Prima di tutto, la versione attuale del software non ha memoria di conversazioni precedenti (ricorda solo le interazioni avvenute nella stessa conversazione) né raccoglie informazioni differenziate per utente. Quindi non è pensabile ritenerlo un sostituto di un colloquio. E questo è un importante limite: per il momento ipotizzare che possa sostituire la conversazione con un professionista è decisamente un azzardo, sebbene esistano e siano già utilizzate tecnologie simili come supporto in terapie (Xu & Zhuang, 2022).

ChatGPT non elabora input emotivi: è in grado di riconoscere e rispondere alle emozioni comuni e di esprimere empatia, ma le risposte possono mancare della profondità e delle sfumature di cui gli esseri umani sono capaci quando si tratta di esprimere e comprendere emozioni complesse.

Per cui attualmente non differisce dai chatbot già utilizzati e analizzati in letteratura: potrebbe supportare nell’acquisizione di competenze e abilità (come quelle sociali), ma la versione attuale non è in grado di essere autonoma nel sostenere un percorso come quello con un paziente o in generale con chi necessita di un supporto dedicato.

Mentre aspettiamo sviluppi futuri e testiamo le nuove tecnologie possiamo star sicuri che non ci troviamo (ancora!) in un mondo fantastico in cui le macchine sostituiscono gli umani; l’importanza del confronto tra persone rimane la variabile imprescindibile.

Vivere la paura (2022) di Elisa Veronesi e Paolo Maria Manzalini – Recensione

“Vivere la paura. Un viaggio nell’emozione più antica e potente” è un libro edito da San Paolo editore, la cui trattazione è stata effettuata da Elisa Veronesi (psicologa, psicoterapeuta di orientamento sistemico relazionale) e Paolo Maria Manzalini (medico, psicologo clinico e psicoterapeuta).

 

 Il volume vuole fornire “uno sguardo non impaurito alla paura”, nel tentativo di dare una definizione di questa dimensione emozionale utilizzando, a titolo esemplificativo, eventi recenti quali la pandemia da COVID-19 e le guerre. Per perseguire questo obiettivo e per far sì che la trattazione sia ben comprensibile a tutte le persone, il linguaggio utilizzato è fluido e non specialistico. Il libro si struttura in otto capitoli che cercano di dare una visione quanto più completa della paura, sia patologica che fisiologica, arrivando alla riflessione di come la paura ci porti a essere noi stessi. Da qui l’importanza di vivere la paura: avere il coraggio di accettarla e avere fiducia nelle nostre risorse per ascoltarla e affrontarla.

Nel primo capitolo vengono definiti i contorni e i significati della paura da diversi punti di vista quali quelli del paradigma biologico e psicologico e secondo una lettura antropologica e sociologica. A questo segue un capitolo in cui vengono trattati più nello specifico il significato e le funzioni della paura nell’essere umano, approfondendo il sistema di attacco-fuga e quello di attaccamento e introducendo i concetti di coraggio e fiducia come possibili “antidoti” alla paura.

 Con il terzo capitolo gli autori provano a differenziare le paure naturali (cioè innate) e quelle acquisite (cioè socialmente apprese). Viene, inoltre, evidenziato come l’emozione “paura” in alcune circostanze sia del tutto normale e indice di una psiche in buona salute, mentre in altre può essere disfunzionale, portando a sofferenza e difficoltà nella vita quotidiana delle persone. La paura disfunzionale viene meglio approfondita nel quarto capitolo, che affronta il tema dei disturbi psichici quali: fobie specifiche, disturbo da stress post-traumatico e attacco di panico. Vengono anche presentati i possibili fattori di genesi, tra cui il ruolo del trauma e i fattori predisponenti delle relazioni infantili precoci, offrendo una comprensione più clinica degli aspetti disfunzionali della paura.

Nel capitolo successivo lo zoom viene spostato, in modo descrittivo, nella fase delicata dell’adolescenza, andando a ragionare su fenomeni frequenti in questa fase del ciclo di vita: il ritiro sociale e la sovraesposizione virtuale.

Proseguendo, le ricadute delle trasformazioni sociali sulle paure individuali, costituiscono l’argomento principale del capitolo sesto. In particolare, sul piano individuale, viene evidenziato come l’elevata velocità richiesta dalla società odierna possa portare a maggiore solitudine, senso di inadeguatezza e controllo che possono sfociare in comportamenti disfunzionali come l’autolesionismo, approfondito nel capitolo. Invece, sul piano collettivo, gli autori provano ad evidenziare le possibili conseguenze in ambito economico che si innescano nei particolari momenti storici in cui la paura diventa un vissuto pervasivo della società.

Col settimo capitolo si prendono in considerazione alcune esperienze artistiche in cui la paura viene posta al centro: questo consente di scoprire, attraverso alcune narrazioni artistiche, da un lato come gli uomini di altri tempi hanno descritto la paura e dall’altro gli strumenti che hanno proposto per superare le situazioni avverse che l’avevano scatenata. In particolare, vengono presentati esempi sia letterari, come i “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, sia musicali, come “Pierino e il Lupo” di Sergej Prokofiev.

Infine, l’ultimo capitolo tira le fila dell’intero discorso e prova a proporre soluzioni. Gli autori suggeriscono antidoti, rimedi, buone pratiche per un sano vissuto della paura, nella convinzione che una maggiore chiarezza su cosa siano e a cosa servano paura e coraggio permetterebbe una consapevolezza migliore per affrontare serenamente la complessità del mondo in cui viviamo.

Per concludere, questo libro è uno strumento utile nel percorso di acquisizione di consapevolezza e di normalizzazione di un’emozione così comune quale la paura: provare paura è normale, ma lo è anche affrontarla e superarla, seppure in un percorso che può essere faticoso e carico di sofferenza.

 

L’empatia nella Psicopatia: che ruolo ha il testosterone?

La Psicopatia (o Disturbo psicopatico della personalità) è un disturbo della personalità determinato da specifici pattern interpersonali, comportamentali e soprattutto affettivi.

 

Psicopatia ed empatia

 Benché le concezioni della Psicopatia si estendano per diversi secoli, le caratteristiche di questa condizione non furono sistematicamente delineate fino agli anni ’40, quando Harvey Cleckley scrisse il suo libro fondamentale, “The Mask of Sanity”. Il titolo del libro è rivelatore. Cleckley considerava la Psicopatia come una condizione ibrida; anzi, descrisse gli psicopatici come “paradossali” (Lilienfeld et al., 2019). Per Cleckley, gli psicopatici presentano una “maschera” di sano funzionamento: tendono ad essere affascinanti, coinvolgenti e sicuri di sé in superficie, ma allo stesso tempo sono caratterizzati da profondi deficit affettivi e interpersonali; sono gravemente carenti nella capacità di colpa e legami emotivi intimi, sono egocentrici, disonesti e manipolatori. Questo tipo di condotta sembra essere associata a una profonda mancanza di empatia.

In generale, l’empatia si riferisce a una vasta gamma di processi e fenomeni psicologici che hanno a che fare con la nostra capacità di riconoscere lo stato mentale dell’altro e di essere emotivamente influenzati da come le altre persone si sentono e pensano (Stueber, 2013). In particolare, il costrutto di empatia può essere diviso in due componenti: empatia cognitiva ed empatia affettiva. L’empatia cognitiva è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, processo che può essere svolto in modo puramente razionale e che è totalmente intatto nella Psicopatia. Al contrario, l’empatia affettiva è la risonanza emotiva automatica al disagio degli altri, oltremodo limitata nella Psicopatia. L’empatia è una componente cruciale nell’esperienza emotiva umana e nell’ambito delle interazioni sociali. La capacità di condividere gli stati affettivi degli altri individui ci consente di prevedere e comprendere i loro sentimenti, motivazioni e azioni (Bernhardt & Singer, 2012).

La Psicopatia trova la sua maggiore diffusione nella popolazione maschile rispetto a quella femminile, con espressioni più gravi e precoci del comportamento antisociale negli uomini rispetto che nelle donne. A causa di queste ben note differenze di genere nel tasso di prevalenza e nella gravità della Psicopatia, molti ricercatori hanno mostrato un crescente interesse per il potenziale ruolo del testosterone nel comportamento psicopatico.

Empatia e testosterone

Il testosterone è un ormone steroideo maschile (gli uomini sono naturalmente esposti a livelli più elevati di testosterone fetale e circolante rispetto alle donne) che ha forti influenze sulla maturazione e sulla reattività di vari circuiti neurali corticali e sottocorticali associati al funzionamento socio-emotivo e sessuale e, di conseguenza, il testosterone può mediare comportamenti specifici di genere. I livelli di testosterone aumentano notevolmente durante l’adolescenza e durante situazioni competitive, socialmente stressanti o sessualmente eccitanti, mediando così la risposta comportamentale a questi eventi. Tuttavia, esiste un’elevata eterogeneità interindividuale nella tipica risposta comportamentale al testosterone, che è più evidente nelle reazioni comportamentali specifiche di genere alla somministrazione dell’ormone. Questa eterogeneità può essere spiegata con l’ipotesi che la risposta comportamentale al testosterone sia fortemente dipendente dai modi specifici in cui i livelli fetali di testosterone hanno influenzato la maturazione dei circuiti neurobiologici coinvolti nella risposta comportamentale all’evento corrispondente. Un’elevata esposizione al testosterone nell’utero e alti livelli di testosterone circolanti durante importanti fasi della vita (in particolare l’adolescenza) o in risposta a sfide sociali (per esempio stress sociale, competizione) potrebbero essere un importante fattore di rischio eziologico nell’emergere del comportamento psicopatico (Yildirim & Derksen, 2011).

 La ricerca comparativa ed evolutiva sull’empatia, così come la ricerca sui possibili substrati neurali e fisiologici dell’empatia, ha suggerito che l’empatia è biologicamente radicata e, almeno parzialmente, regolata dal sistema endocrino. Poiché gli uomini, in media, hanno un testosterone molto più alto delle donne, è possibile che il testosterone sia inversamente correlato all’empatia e che le differenze di sesso nell’empatia siano spiegate, almeno in parte, dalle differenze di sesso nel testosterone (Zilioli et al., 2015). Inoltre, la ricerca ha indicato che la somministrazione di testosterone è causalmente correlata ad alcuni dei deficit di elaborazione delle emozioni osservati nella Psicopatia, come una ridotta interferenza emotiva durante il processo decisionale (Hermans et al., 2006), e un minor rispecchiamento facciale alla vista di espressioni emotive (Yildirim & Derksen, 2011).

Psicopatia e testosterone

In termini di meccanismi, il testosterone può influenzare l’attività dell’amigdala, con conseguente riduzione dell’empatia (Zilioli et al., 2014). Inoltre, l’amigdala mostra una ridotta attivazione durante la vista di segnali di disagio altrui (ad esempio, espressioni facciali tristi o spaventate) nella Psicopatia. È stato suggerito, pertanto, che un’adeguata attivazione dell’amigdala in risposta a questo tipo di segnali emotivi possa essere un importante prerequisito per lo sviluppo dell’empatia. L’amigdala segnala queste informazioni affettive alla corteccia orbitofrontale, che è principalmente coinvolta nella loro valutazione. Quindi, la funzionalità delle strutture orbitofrontali durante le interazioni sociali è fondamentale per un sano coinvolgimento emotivo dei segnali sociali (Yildirim & Derksen, 2011). Mehta e Beer (2009) hanno dimostrato che alti livelli di testosterone sono associati a una minore attivazione della corteccia orbitofrontale durante situazioni sociali e livelli più elevati di aggressività sia nei maschi sia nelle femmine. In effetti, dati i legami correlazionali tra tendenze antisociali e livelli di testosterone, non sorprende che sia stato trovato anche il testosterone elevato come marker biologico della Psicopatia (Stalenheim et al., 1998).

Ad ogni modo, oltre ai livelli di testosterone, si dovrebbe prestare attenzione anche al funzionamento di altri sistemi neurochimici e ormonali, che potrebbero esacerbare l’influenza del testosterone sulla psicopatologia. Sarebbe quindi opportuno esaminare le interazioni tra testosterone fetale e circolante e vari livelli endocrinologici (ad esempio cortisolo, estrogeni, progesterone) ma anche i fattori di rischio prenatale/ambientale (come stress prenatale, disturbi dell’attaccamento, abuso infantile, relazioni sociali) sul successivo sviluppo di tratti psicopatici.

Il Modello Bidimensionale dei Sistemi Comportamentali

Il Modello Bidimensionale dei Sistemi Comportamentali (MBSC; Salzano & Conson, 2022a; 2022b) utilizza i principi di classificazione del sistema di attaccamento per descrivere specifici stili di attivazione individuali anche per altri sistemi comportamentali quali il sistema di accudimento, il sistema agonistico, il sistema sessuale e il sistema cooperativo.

I Sistemi Comportamentali

 I sistemi comportamentali sono schemi di risposta che perseguono obiettivi utili alla sopravvivenza dell’individuo. A tale scopo, ogni sistema prevede una strategia primaria caratterizzata da comportamenti funzionali all’obiettivo. Nel corso della vita, tuttavia, questa strategia può essere sostituita da strategie secondarie che vengono definite strategie di iperattivazione e strategie di deattivazione. Le strategie di iperattivazione determinano un aumento nell’utilizzo della strategia primaria e comportano una cronica attivazione del sistema che corrisponde alla dimensione di iperattivazione. Le strategie di deattivazione determinano una riduzione nell’utilizzo della strategia primaria e comportano l’inibizione dell’attivazione del sistema che corrisponde alla dimensione di deattivazione. In base ai livelli con cui ciascun individuo utilizza l’iperattivazione o la deattivazione si definiscono i quattro stili di attivazione: funzionale, iperattivato, inibito e problematico.

Gli stili di attivazione

Nello stile funzionale entrambe le dimensioni (iperattivazione–deattivazione) sono basse e il sistema si attiva in risposta a situazioni o stimoli rilevanti, si disattiva al raggiungimento della meta e viene utilizzata prevalentemente la strategia primaria.

Nello stile iperattivato la dimensione della iperattivazione è alta e la deattivazione è bassa. In questo caso, il sistema si attiva facilmente anche in risposta a situazioni o stimoli irrilevanti, si disattiva con difficoltà anche al raggiungimento della meta e vengono utilizzate prevalentemente strategie di iperattivazione.

Nello stile inibito la dimensione della deattivazione è alta e l’iperattivazione è bassa. In questo caso, il sistema si attiva difficilmente anche in situazioni rilevanti, si disattiva facilmente anche senza raggiungere l’obiettivo e vengono utilizzate prevalentemente strategie di deattivazione.

Nello stile problematico entrambe le dimensioni sono alte. Il sistema si attiva e deattiva in modo caotico e disfunzionale e vengono utilizzate sia strategie di iperattivazione che strategie di deattivazione. Questo stile di attivazione è accompagnato da intense emozioni negative ed è considerato quello maggiormente correlato allo sviluppo di psicopatologia. Nel Modello Bidimensionale dei Sistemi Comportamentali per ciascun sistema comportamentale vengono descritti l’obiettivo, la strategia primaria, le dimensioni e gli stili di attivazione.

Il Sistema di Attaccamento

Il sistema di attaccamento ha l’obiettivo di mantenere o ripristinare la vicinanza protettiva con le figure di attaccamento.

La strategia primaria prevede comportamenti di richiesta di aiuto, protezione e conforto.

Le dimensioni del sistema di attaccamento sono l’ansia e l’evitamento. L’ansia corrisponde all’iperattivazione e comporta un aumento delle richieste di aiuto, protezione e conforto. L’evitamento corrisponde alla deattivazione e comporta una riduzione delle richieste di protezione, aiuto e conforto.

Gli stili di attivazione del sistema di attaccamento sono: sicuro, preoccupato, evitante e timoroso.

Lo stile sicuro corrisponde all’attivazione funzionale del sistema in cui sia l’ansia che l’evitamento sono basse. I soggetti con questo stile chiedono aiuto quando hanno bisogno ed agiscono in autonomia quando si sentono al sicuro.

Lo stile preoccupato corrisponde all’iperattivazione del sistema in cui l’ansia è alta e l’evitamento è basso. I soggetti con questo stile chiedono aiuto anche senza necessità e hanno significative difficoltà ad agire in autonomia.

Lo stile evitante corrisponde all’inibizione del sistema in cui l’evitamento è alto e l’ansia è bassa. I soggetti con questo stile non chiedono aiuto anche quando è necessario e preferiscono agire sempre in autonomia.

Lo stile timoroso corrisponde all’attivazione problematica del sistema in cui sia l’ansia che l’evitamento sono alte. I soggetti con questo stile alternano in modo caotico e disfunzionale eccessive richieste di aiuto alla totale autonomia.

Il sistema di accudimento

Il sistema di accudimento ha l’obiettivo di offrire cure e conforto all’altro in difficoltà.

La strategia primaria prevede comportamenti sincronizzati con le richieste e i bisogni dell’altro.

Le dimensioni del sistema di accudimento sono il controllo e l’indifferenza. Il controllo corrisponde all’iperattivazione del sistema e produce comportamenti di aiuto eccessivi e non sincronizzati con le richieste e i bisogni dell’altro. L’indifferenza corrisponde alla deattivazione del sistema e produce evitamento o rifiuto nell’offrire cure e conforto.

Gli stili di attivazione del sistema di accudimento sono: responsivo, intrusivo, rifiutante e confuso.

Lo stile responsivo corrisponde all’attivazione funzionale del sistema in cui il controllo e l’indifferenza sono bassi. I soggetti con questo stile mettono in atto comportamenti congrui alle richieste d’aiuto dell’altro e si fanno da parte quando il loro aiuto non è più necessario.

Lo stile intrusivo corrisponde alla iperattivazione del sistema in cui il controllo è alto e l’indifferenza è bassa. I soggetti con questo stile aiutano anche quando l’altro non ha bisogno, fino a diventare invadenti.

Lo stile rifiutante corrisponde all’inibizione del sistema in cui l’indifferenza è alta e il controllo è basso. I soggetti con questo stile non sono interessati ai bisogni altrui e negano l’aiuto anche se l’altro è in difficoltà.

Lo stile confuso corrisponde all’attivazione problematica del sistema in cui sia il controllo che l’indifferenza sono alti. I soggetti con questo stile alternano in modo caotico e disfunzionale comportamenti intrusivi al profondo disinteresse.

Il sistema agonistico

Il sistema agonistico ha l’obiettivo di ottenere l’accesso alle risorse e di raggiungere o mantenere il potere.

La strategia primaria prevede comportamenti volti a dimostrare la propria autorità, le proprie competenze e i propri diritti.

Le dimensioni del sistema agonistico sono la dominanza e la sottomissione. La dominanza corrisponde all’iperattivazione del sistema e produce comportamenti ostili e aggressivi. La sottomissione corrisponde alla deattivazione del sistema e comporta la rinuncia a combattere.

Gli stili di attivazione del sistema agonistico sono: assertivo, competitivo, rinunciatario e frustrato.

Lo stile assertivo corrisponde all’attivazione funzionale del sistema in cui la dominanza e la sottomissione sono basse. I soggetti con questo stile cercano di vincere di fronte alle sfide ma sanno accettare la sconfitta.

Lo stile competitivo corrisponde all’iperattivazione del sistema in cui la dominanza è alta e la sottomissione è bassa. I soggetti con questo stile affrontano tutte le situazioni come una sfida e non accettano la sconfitta.

Lo stile rinunciatario corrisponde all’inibizione del sistema in cui la sottomissione è alta e la dominanza è bassa. I soggetti con questo stile accettano la sconfitta senza cercare di vincere.

Lo stile frustrato corrisponde all’attivazione problematica del sistema, in cui sia la dominanza che la sottomissione sono alte. I soggetti con questo stile alternano in modo caotico e disfunzionale l’aggressività per la voglia di vincere all’evitamento del confronto.

Il sistema sessuale

Il sistema sessuale ha l’obiettivo di raggiungere il piacere e l’intimità attraverso il rapporto sessuale.

La strategia primaria consiste nel mostrare ed accettare segnali di seduzione e nella ricerca di piacere e intimità.

 Le dimensioni del sistema sessuale sono il desiderio e il ritiro. Il desiderio corrisponde all’iperattivazione del sistema e produce comportamenti seduttivi invadenti e inappropriati. Il ritiro corrisponde alla deattivazione del sistema e porta al rifiuto della sessualità.

Gli stili di attivazione del sistema sessuale sono: interessato, seduttivo, indifferente e trattenuto.

Lo stile interessato corrisponde all’attivazione funzionale del sistema in cui il desiderio e il ritiro sono bassi. I soggetti con questo stile seducono se incontrano un soggetto desiderabile e ricercano il piacere e l’intimità.

Lo stile seduttivo corrisponde all’iperattivazione del sistema in cui il desiderio è alto e il ritiro basso. I soggetti con questo stile seducono indipendentemente dalla desiderabilità e ricercano più il piacere dell’intimità.

Lo stile indifferente corrisponde all’inibizione in cui il ritiro è alto e il desiderio è basso. I soggetti con questo stile non seducono e non sono interessati al piacere e all’intimità.

Lo stile trattenuto corrisponde all’attivazione problematica del sistema in cui sia il desiderio che il ritiro sono alti. I soggetti con questo stile alternano in modo caotico e disfunzionale l’iper-seduzione e il rifiuto del sesso.

Il sistema cooperativo

Il sistema cooperativo ha come obiettivo il raggiungimento di una meta comune attraverso condotte basate sulla reciprocità.

La strategia primaria prevede la cooperazione condizionata in cui i soggetti coinvolti partecipano in egual misura all’interazione.

Le dimensioni del sistema cooperativo sono la partecipazione e l’indipendenza. La partecipazione corrisponde all’iperattivazione del sistema e porta alla collaborazione incondizionata. L’indipendenza corrisponde alla deattivazione del sistema e porta all’egoismo.

Gli stili di attivazione del sistema cooperativo sono: collaborativo, incondizionato, individualista e incostante.

Lo stile collaborativo corrisponde all’attivazione funzionale del sistema in cui la partecipazione e l’indipendenza sono basse. I soggetti come questo stile partecipano a progetti comuni ma considerando anche i propri interessi.

Lo stile incondizionato corrisponde all’iperattivazione del sistema in cui la partecipazione è alta e l’indipendenza è bassa. I soggetti con questo stile partecipano senza verificare il contributo degli altri e senza tenere conto dei propri interessi.

Lo stile individualista corrisponde all’inibizione del sistema in cui l’indipendenza è alta e la partecipazione è bassa. I soggetti con questo stile non partecipano a progetti comuni e considerano esclusivamente i propri interessi.

Lo stile incostante corrisponde all’attivazione problematica del sistema in cui sia la partecipazione che l’indipendenza sono alte. I soggetti con questo stile alternano in maniera caotica e disfunzionale la partecipazione incondizionata e l’egoismo.

Il Modello Bidimensionale dei Sistemi Comportamentali si presta ad essere ampliato nella sua concettualizzazione teorica e nella sua applicazione clinica.

Sistemi Comportamentali e processi neuropsicologici

Il Modello Bidimensionale dei Sistemi Comportamentali, nel volume “Neuropsicologica delle differenze individuali” (Salzano & Conson, 2022b), viene descritto non solo in base ai suoi contenuti, ma anche in base ai processi neuropsicologici e le reti neurali che ne sottendono il funzionamento. Il testo, infatti, rappresenta un contributo innovativo sull’applicazione di teorie, metodi e procedure della neuropsicologia allo studio della personalità. Seguendo questa concettualizzazione, il funzionamento dei sistemi comportamentali viene descritto su tre livelli: automatico, riflessivo e strategico.

Il livello automatico si basa sulle reti neurali bottom-up e sui processi di memoria implicita, di cognizione sociale implicita e di regolazione esecutiva comportamentale. Questo livello descrive il funzionamento dei sistemi in base alle strategie comportamentali.

Il livello riflessivo si basa sulla rete di default e sui processi di memoria semantica e di cognizione sociale esplicita. Questo livello descrive il funzionamento dei sistemi in base alle rappresentazioni semantiche di sé e dell’altro.

Il livello strategico si basa sulle reti top-down e sui processi di memoria episodica e di regolazione esecutiva cognitiva. Questo livello descrive il funzionamento dei sistemi in base alle strategie di regolazione.

L’applicazione dei tre livelli di funzionamento neuropsicologico al Modello Bidimensionale dei Sistemi Comportamentali permette di estendere la descrizione gli stili di attivazione considerando sia le strategie comportamenti sia aspetti cognitivi quali la consapevolezza di sé e dell’altro e la regolazione comportamentale, cognitiva ed emotiva.

Il Modello Bidimensionale dei Sistemi Comportamentali nella pratica clinica

Il Modello Bidimensionale dei Sistemi Comportamentali rappresenta un modello teorico ma è da considerarsi anche un utile strumento in ambito clinico. Su un piano conoscitivo, il clinico può utilizzare la conoscenza degli stili di attivazione del paziente al fine di migliorare la comprensione dei meccanismi che generano o mantengono la sofferenza. Su un piano applicativo, è possibile attuare interventi di psicoeducazione sul funzionamento dei sistemi comportamentali volti ad aumentare la consapevolezza del paziente circa i suoi stili di attivazione e favorire la comprensione del proprio funzionamento interpersonale. Questo tipo di intervento può essere implementato sia all’interno di un trattamento psicoterapeutico sia come percorso di sostegno psicologico e può essere applicato sia in età evolutiva sia in età adulta.

 

Il rimprovero e la sua funzione educativa nella prospettiva psicodinamica

Viene proposta una trattazione del rimprovero e della sua funzione educativa basata sui principi fondamentali dell’approccio psicodinamico.

 

 La funzione educativa del rimprovero viene messa in ombra dalla valutazione generalmente negativa ad esso collegata. È infatti pressoché automatico che al concetto di rimprovero vengano associati vissuti di disagio, disconferma e squalifica, lesivi dell’autostima e della percezione globale del Sé. Il rimprovero genera un senso di vergogna che colpisce il nucleo identitario più profondo, talvolta destabilizzandone l’equilibrio: il suo contenuto di critica mette in discussione, spinge al dubbio, a crisi di certezze a fatica acquisite.

Ma non è il solo effetto possibile. In realtà il rimprovero può rivelarsi un’occasione di crescita e progresso, ove dotato di caratteristiche in grado di amplificare le potenzialità evolutive.

I principali effetti del rimprovero e della sua assenza

Nella fase evolutiva il rimprovero fornisce funzioni di:

  • tutela da condotte pericolose che il soggetto, sotto la spinta di una mancata consapevolezza del Sé e del proprio agito, potrebbe attuare;
  • contenimento ad un senso di onnipotenza ed egocentrismo dettato dal dominio dall’Es, che rende inaccettabili frustrazioni e posticipazioni dell’appagamento;
  • regolazione di stati emotivi contrastanti che il soggetto in età evolutiva, non possedendo le risorse egoiche per gestire, rischia di agire adesivamente, con conseguenze spesso deleterie per il Sé individuale e sociale.

Il bambino rimproverato è un bambino socialmente adattato, perché in grado di comprendere l’importanza del rispetto delle proprie necessità e di quelle dell’altro, e per questo munito degli strumenti necessari all’inserimento nella collettività. Lo stesso Freud (1929) esalta l’effetto della frustrazione definendola una componente fondamentale per la costruzione della società civile. La vita collettiva presuppone sacrifici e rinunce che si concretano, essenzialmente, attraverso limitazioni pulsionali dell’Es. L’essere umano non potrebbe appagare ogni istinto pulsionale, automaticamente e senza limiti, senza che ciò andasse ad impattare con le regole della convivenza, danneggiando la libertà e l’esistenza altrui. È pertanto giusto che tali limitazioni, necessarie alla costruzione della dimensione egoica, vengano impartite sin dalla prima infanzia, per consentire un incontro col principio di realtà quanto più possibile adeguato e consapevole.  È tuttavia necessario raggiungere un equilibrio nella somministrazione delle regole: laddove un eccesso di permissività causerebbe danni alla formazione evolutiva, anche un eccessivo carico di imposizioni e restrizioni comportamentali causerebbe il medesimo effetto, mostrandosi fonte di angoscia superegoica in grado di compromettere egualmente la funzionalità inter ed intra-individuale del futuro adulto.

Un bambino rimproverato è in grado di costruire una dimensione di autostima realistica, sottratta a vissuti di narcisismo in cui l’ipertrofia del Sé provoca l’impossibilità di un’autovalutazione oggettiva, dando vita ad iperinvestimenti e bias valutativi. Un soggetto non frustrato nelle proprie volontà crederà di poter ottenere tutto ciò che vuole in qualsiasi momento, non considerando le esigenze altrui. Potrebbe ignorare i diritti del prossimo, strumentalizzandoli per l’appagamento dei propri bisogni. Questa assenza di contenimento può derivare da uno stile educativo eccessivamente permissivo, basato sull’adesività acritica alle volontà del bambino, o egualmente da uno stile genitoriale disinteressato, in cui il mancato contenimento delle pulsioni non deriva da una volontà di appagamento incondizionato del figlio, ma dalla trascuratezza verso il medesimo, che pertanto è costretto a trovare le capacità necessarie al contenimento del Sé, pur non avendo ancora maturato le risorse necessarie ad un’autoregolazione funzionale. Questo lo condurrà a servirsi di simboli disfunzionali, surrogati di una capacità regolativa autenticamente introiettata, da cui la possibile origine di disturbi psicopatologici o disfunzioni comportamentali (per esempio, disturbi dell’alimentazione, dell’umore o di abuso da sostanze).

Il bambino non rimproverato corre il rischio di perdersi in un vissuto di impotenza, fonte di un impoverimento motivazionale capace di tradursi in una profonda passività reattiva. È infatti noto come una frustrazione, purchè non eccessiva o impossibile da superare, costituisca il pungolo ad un maggiore impegno, consentendo la mobilitazione di risorse cognitive ed emotive necessarie al raggiungimento del risultato.

L’appagamento immediato di ogni sorta di richiesta causa la saturazione della dimensione desiderante, impedendo quell’attività generata dalla speranza di ottenere ciò che ancora non si possiede, e dalla volontà di impegnarsi il più possibile per raggiungerlo. In assenza di una limitazione frustrante, le emozioni sono bloccate e non ci sarebbe spazio per il sogno ad occhi aperti, ovvero un investimento sulla concretezza, che toglie rilevanza allo spazio del potenziale, favorendo un depauperamento del pensiero e del desiderio. Questo deficit di immaginazione non si tradurrà soltanto nell’impossibilità di generare competenze astratte e simbolizzanti, ma si mostrerà fonte di un iperinvestimento sull’aspetto materiale, rendendolo l’unico saliente nella dimensione esistenziale del bambino e del futuro adulto.

Le caratteristiche del rimprovero funzionale

La potenzialità educativa del rimprovero varia in base alla natura delle sue tre componenti fondamentali. Aspetti in grado di direzionare più o meno funzionalmente gli effetti specifici:

  • Qualità del rimprovero;
  • Natura della motivazione da cui è ispirato;
  • Autenticità di colui che lo muove.

La qualità del rimprovero

La regola impartita dai genitori direziona e tiene insieme, iniziando il bambino nel difficile compito volto alla discriminazione e alla regolazione emotiva, importante competenza che lo terrà al riparo da eccessi comportamentali, inibizioni e condotte autosabotanti. Una regola assume le caratteristiche di un appiglio, un sostegno cui aggrapparsi per non naufragare all’interno di un marasma di stimoli e di emozioni che rischiano di esondare, mettendo in pericolo i fragili confini dell’IO.

Per ottenere questo risultato è necessario che il rimprovero sia focalizzato sui seguenti fattori.

  • Aspetti negativi della condotta: è necessario spiegare al bambino il disvalore del suo comportamento, mettendone in evidenza la non opportunità sociale. Ad esempio, se qualcuno ha picchiato un compagno di classe durante una discussione, si dovrà innanzitutto precisare come la violenza sia uno strumento da evitare in qualsiasi contesto relazionale, in quanto indice di un atteggiamento scorretto e irrispettoso nei confronti dell’altro. Il rimprovero dovrà mostrare un’adeguata tenuta emotiva, in grado di trasmettere un messaggio in cui la comprensione preceda la critica e ne stemperi il contenuto senza tuttavia neutralizzarlo: “ti comprendo, sei arrabbiato, ma questo non si fa”. Comprendere non vuol dire giustificare, la legittimazione deve essere comunque seguita dalla correzione. Dunque sarà opportuno dire “ti capisco ma non ti autorizzo a comportarti così ancora una volta”. In un contesto critico e autorevole il bambino si sentirà rimproverato, ma non globalmente attaccato, e avrà modo di rielaborare la proprie azioni in una prospettiva di fruttuosa autocritica (Agosta, 2022).
  • Le possibilità di alternativa: dopo aver messo in evidenza l’errore commesso sarà necessario mostrare una condotta alternativa a quella messa in atto. Questo servirà a direzionare il comportamento, impedendo il reiterarsi dello sbaglio e potenziando la motivazione a non commetterlo più. Non solo: una funzione direzionante eviterà un vuoto disorientante di fronte al quale il bambino, in un’occasione futura analoga, potrebbe reagire con condotte ancora peggiori. Non basta sgridare: bisogna offrire un’alternativa allo sbaglio. Torniamo al bambino che picchia il compagno: dopo aver spiegato la negatività del gesto compiuto, sarà opportuno mostrare in quale modo ci si dovrà comportare in futuro, al fine di costruire uno stile reattivo più assertivo e rispettoso, nel quale identificarsi con volontà e motivazione. Ad esempio si potrà consigliare di rielaborare il conflitto attraverso un confronto consapevole, basato sulla comunicazione verbale e sul role taking (rispetto delle posizioni dell’altro senza rinunciare alle proprie).
  • La possibilità di riparare: dopo il rimprovero, il bambino capirà di aver commesso un’azione scorretta, che l’ha messo in cattiva luce di fronte all’adulto. Egli si sentirà in difetto, ma soprattutto sarà preda di un’immobilizzazione reattiva che lo porterà ad un vissuto di disorientamento e frustrazione. Non saprà come rimediare. Per questo è importante fornirgli, assieme al rimprovero, i mezzi utili ad un possibile rimedio. Una sorta di pentimento operoso con cui riparare le azioni oggetto della critica. In riferimento al bambino che picchia il compagno si potrà indicare il modo in cui rimediare allo sbaglio: avvicinarsi a lui, tendergli la mano, chiedergli scusa. Sono semplici gesti in grado di eliminare un vissuto di frustrazione che il bambino potrebbe fronteggiare con condotte ancor più aggressive o con atteggiamenti auto isolanti, rimuginanti e inoperosi. Il Sé agente risulterà gratificato dalla possibilità di modificare, attraverso il proprio operato, una situazione inizialmente critica: questo consentirà il consolidamento di competenze quali autostima e locus of control, necessarie a maturare una convinzione di gestibilità e autoefficacia su tutti gli eventi della propria vita, anche quelli in apparenza più negativi e immutabili. Il bambino deve comprendere che il raggiungimento di un risultato positivo è possibile malgrado uno sbaglio e che il recupero di certe criticità dipende fondamentalmente dall’impegno del Sé. Al contrario, di fronte alla non rimediabilità dell’errore, egli diverrà vittima di un senso di colpa che renderà l’errore simile ad una condanna.

La regola costituisce il correttore comportamentale cui si collega una funzione di inserimento sociale. Non v’è società, dunque, senza regole. Ma non v’è regola senza perdono e riparazione. La psicodinamica afferma che l’atto distruttivo (inteso come l’errore commesso) deve sempre essere accompagnato da un atto di espiazione (una consona punizione che ne metta in evidenza la negatività) e in seguito da un atto di riparazione, che mostri la possibilità di rimediare allo sbaglio nel presente e nel futuro (Freud, 1965). Colpa, punizione ed espiazione costituiscono una triade imprescindibile che presuppone tuttavia un inviolabile equilibrio: nessuno dei tre aspetti può prevaricare o sovrapporsi all’altro senza creare effetti psichici dissestanti. Se ad esempio esistono solo la colpa e la punizione, o se quest’ultima si sovrappone all’espiazione rendendo l’errore irrecuperabile, non sarà possibile l’accesso al sistema di valori cui il rimprovero è finalizzato. Lo stesso Winnicott (1965) afferma come l’atto riparativo sia necessario allo sviluppo di empatia ed adattamento: il senso di colpa, che agevola l’identificazione con l’altro e favorisce il consolidarsi della dimensione prosociale, può prendere vita soltanto in presenza della possibilità di ricostruire ciò che è stato violato. In caso contrario la capacità di autocritica verrà sostituita da una frustrazione persecutoria gestibile solo attraverso agiti distruttivi, egualmente ispirati da un’aggressività auto o etero rivolta.

La motivazione del rimprovero

Il rimprovero dovrà essere limitato alla condotta agita in quel singolo contesto. Estendere la portata ad una dimensione che va a toccare i confini del Sé con intento mortificante impedirebbe il raggiungimento di qualsiasi finalità costruttiva, privando l’errore di un valore riflessivo, autocritico e di apprendimento. Dire ad un bambino “hai sbagliato” lo aiuta a comprendere il proprio errore e a confrontarsi criticamente con lo stesso; dire “sei sbagliato, non farai mai nulla di buono nella vita” non mobilita nessuna reazione motivante, ma va ad impattare con la dimensione più intima del Sé, spingendo il bambino ad identificarsi con il disprezzo percepito nelle parole rivoltegli dall’adulto (Agosta, 2010; 1999). Epurato di ogni valenza educativa, un simile rimprovero rappresenta in realtà il prodotto di uno stile educativo sadico-narcisistico in cui la critica è volta esclusivamente all’umiliazione e alla mortificazione distruttiva, nel tentativo di abreagire contenuti persecutori endogeni attraverso massicci meccanismi proiettivi.

 Il rimprovero dovrà essere inserito in un contesto adattivo e significante: il bambino deve percepire che l’intervento dell’adulto è motivato dal desiderio di prendersi cura di lui. Questo servirà ad ammortizzare l’effetto critico, favorendone una rielaborazione consapevole. Ma si tratta di un effetto possibile solo se il bambino si sentirà autenticamente apprezzato all’interno della propria dimensione esistenziale (Agosta, 2010). Se al contrario il rimprovero prende vita in un contesto nel quale riconoscimento e validazione sono sostituiti da incuria, narcisismo o disorganizzazione affettiva, sarà più difficile conferire allo stesso una valenza correttiva. Un genitore sadico e aggressivo, anche di fronte ad un errore, non maturerà il sano desiderio di correggere e direzionare il figlio verso condotte più opportune, ma vorrà semplicemente aggredirlo e mortificarne il nucleo soggettivo, per rimpossessarsi dell’autorità perduta e compensare la ferita del Sé genitoriale messa in discussione (Crocetti, 2012). In ogni caso, l’effetto di correzione connesso al rimprovero sarà destinato a naufragare, con inevitabili effetti trans-generazionali.

L’autenticità di colui che rimprovera

È infine necessario che al rimprovero faccia seguito l’adeguamento comportamentale di colui che lo attua. Dunque l’adulto deve rivelarsi coerente con ciò che professa a parole, mostrandosi in grado di realizzare, in prima persona, la condotta richiesta al bambino.

Prima di tutto per una ragione cognitiva: il bambino apprende più da ciò che vede e sperimenta direttamente, che da qualsiasi altra forma di esperienza. “La maggior parte di quanto sappiamo sul modo di comportarci con gli altri ha natura implicita e si origina dall’esempio appreso” (Stern, 2004, p. 95). Le immagini sono dense di significato evocativo, simbolizzante, in grado di aggirare le competenze logiche e verbali per immagazzinarsi direttamente nella memoria implicita ed essere riprodotte. Senza contare che la capacità imitativa costituisce una delle maggiori fonti di apprendimento per i soggetti in età evolutiva. L’adulto rappresenta un modello con cui il bambino si identifica continuamente: dunque, nel caso in cui la sua condotta non si mostri coerente con le dichiarazioni professate, il messaggio connesso al rimprovero diverrà simbolo di un’incoerenza che disorienta, confonde, ostacola la formazione del Sé (Winnicott, 1971).

Immaginiamo il caso di un adulto che, pur rimproverando al proprio figlio l’utilizzo di comportamenti violenti verso i compagni, si serva lui stesso del medesimo strumento di relazione (magari usando violenza verso la madre o verso di lui). O l’esempio di un genitore che, pur criticando nel figlio l’abitudine di trascorrere troppo tempo davanti al computer, non riesca a staccarsi dalla postazione del PC. In che modo il suo rimprovero potrebbe risultare attendibile?

Questo atteggiamento, in psicodinamica definibile come compartimentalizzato (McWilliams, 1994), non inficerà soltanto la trasmissione di un messaggio educativo, ma contribuirà a generare nel bambino un vissuto di sfiducia, spingendolo a vedere nel genitore –e più generalmente nell’adulto– un esempio di incoerenza e inaffidabilità (Lutz, 2019). Qualcuno che può tradire e fuorviare, perché non in grado di dar seguito a ciò che dichiara verbalmente. Senza contare l’effetto confusivo di un comportamento in cui azione e parola non si muovono in una direzione allineata. Il bambino stesso non saprà a cosa prestare ascolto: se al comportamento propinato verbalmente o a quello concretamente attuato. Posto che il genitore rappresenta per il bambino un modello da imitare, molto probabilmente finirà con l’assecondarne l’atteggiamento incoerente, costruito sulla base di discrasie cognitive che consentono la pacifica convivenza tra messaggi contrapposti e inconciliabili (McWilliams, 1994). Di fronte ad un modello fittizio, il bambino introietterà così un oggetto altrettanto inautentico, e ne imiterà la frammentarietà cognitiva, dando vita a comportamenti egualmente inattendibili.

È dunque l’adulto, con il suo comportamento, a conferire validità e credibilità al rimprovero. E ci riesce quando è capace di accogliere il proprio Sé con coerenza e lealtà.

Ma quando un adulto è davvero coerente con se stesso?

La risposta è più semplice di quanto si creda: quando non si nasconde al di là di sovrastrutture posticce e mistificate, quando non pretende dal bambino comportamenti che, pur millantando una perfezione irrealistica, lui stesso non riesce a mettere in pratica. Quando normalizza e ammette l’errore, riconoscendo egli stesso la propria caducità, e cerca di inserirla in un contesto scevro di catastrofismi o colpevolizzazioni. Dicendo al figlio, ad esempio, che tutti possono sbagliare e che in questo non c’è nulla di male.

Educare al consolidamento di uno spirito critico implica lasciare ai ragazzi la possibilità di mettere in discussione il valore dei genitori e di comprendere che anche gli adulti non sono esenti dall’errore. È per questo necessario che il genitore accolga la critica del figlio senza lasciarsene distruggere: magari può riuscirci ironizzando con sano umorismo i propri sbagli, cercando di trasmettere un messaggio educativo in cui il fallimento non costituisce una realtà perpetrante, ma un accadimento incidentale da cui trarre una preziosa opportunità di apprendimento.

L’adulto coerente conosce e accoglie se stesso per come è davvero –senza ritocchi, mortificazioni né fantasie– e riconosce le proprie debolezze con autenticità assertiva. Ricordando che, in tante occasioni, è proprio da uno sbaglio ben rimediato che si tracciano le basi di un valido percorso educativo.

In conclusione, il rimprovero porta in sé un insostituibile valore formativo. Ma non c’è rimprovero senza errore. È per questo necessario offrire al bambino la possibilità di sbagliare. Non farlo sarebbe un errore irrimediabile.

I volti della timidezza: le differenze fra il narcisismo covert e la personalità evitante

Secondo lo studio di Weiss e Huppert (2022), gli evitanti e i narcisisti covert differirebbero nella risposta ai feedback sociali positivi: se i primi ne trarrebbero beneficio, i secondi maturerebbero una visione ancor più negativa di se stessi.

Il narcisismo: la tipologia “covert”

 Kerneberg (1998) associò il “narcisismo patologico” a un disturbo dell’autostima in cui gli individui, bisognosi di costante ammirazione e attenzione da parte degli altri (Morf, 2006), utilizzerebbero le relazioni come mezzo per confermare il proprio valore personale (Morf e Rhodewalt, 2001). La letteratura distingue due principali manifestazioni di narcisismo (Besser e Priel; 2010): overt (grandiosa) e covert (vulnerabile) (Gabbard, 2009; Levy, 2012; Miller et al., 2011; Pincus et al., 2014). Il narcisismo overt si presenterebbe in modo arrogante e aggressivo (Levy et al., 2009) e si servirebbe di strategie di coping che svalutano la fonte della critica per compensare la ferita narcisistica del soggetto (Ronningstam, 2014). Il narcisismo covert, invece, si presenterebbe in maniera timida e modesta (Levy, 2012), rispondendo alla minaccia egoica con sentimenti di depressione e disgusto di sé (Kernberg, 1992). Queste persone risulterebbero molto sensibili al rifiuto interpersonale, per cui tenderebbero ad evitare le situazioni sociali (Ronningstam, 2005). Alla luce di questa strategia di coping ritirata, alcuni studiosi hanno suggerito una similitudine fra il narcisismo covert e la personalità evitante (Dickinson e Pincus, 2003), riportando ricerche che testimoniano valide relazioni fra i due costrutti (Fossati et al., 2009; Weiss et al., 2020).

La personalità evitante

Come descritto nel DSM-5 (APA, 2013, p.672), il disturbo evitante di personalità è quel “pattern pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo” che fa sentire socialmente inadatto, poco attraente e inferiore agli altri chi ne è affetto. Nonostante questi individui desiderino instaurare delle relazioni interpersonali, evitano il contatto con gli altri per paura di essere criticati, rifiutati o ridicolizzati (Beck et al., 2004). In alcuni casi, preferirebbero non ricevere neanche segnali di approvazione sociale per paura di creare aspettative positive negli altri che potrebbero non soddisfare in futuro (Taylor et al., 2004).

Similitudini e differenze

Il narcisismo covert e la personalità evitante condividerebbero diverse caratteristiche: la timidezza, la vergogna, la sofferenza psicologica, l’ipervigilanza nei confronti dell’ambiente e la sensibilità alle critiche e al rifiuto interpersonale, che porterebbero all’evitamento sociale. Su questi punti comuni, Weiss e Huppert (2002) si sono chiesti se sia lecito domandarsi se i due disturbi di personalità si riferiscano a costrutti distinti o sovrapponibili.

Dal punto di vista teorico sembra che, sebbene i due disturbi si presentino in modo simile, la grandiosità sia una caratteristica associata solo al narcisismo covert e, per questo, un aspetto importante nel differenziare i meccanismi strutturali alla base delle presentazioni delle due personalità. Di preciso, il narcisista covert nutrirebbe delle fantasie grandiose di bellezza e popolarità che verrebbero nascoste dietro una presentazione modesta per paura di ricevere una ferita al valore personale, se tali desideri non venissero soddisfatti (Gabbard, 1989; Pincus et al., 2009). Anche la personalità evitante sarebbe associata a sentimenti di bassa autostima, ma questo sembrerebbe essere legato a sentimenti di inadeguatezza sociale, sulla base delle esperienze passate in cui questi individui non hanno raggiunto intimità relazionale per il ritiro sociale (Lynum et al., 2008). Inoltre, se le persone con disturbo evitante sarebbero in realtà molto interessate alle relazioni sociali, quelle con narcisismo covert spesso non sarebbero neanche genuinamente desiderose di instaurare relazioni profonde; essendo utili al solo scopo di ottenere ammirazione, queste finiscono per essere evitate per paura che le pretese di idealizzazione non vengano rispettate (Levy et al., 2013; Zeigler-Hill et al., 2010).

Lo studio di Weiss e Huppert

L’obiettivo dello studio di Weiss e Huppert (2022) è stato quello di esaminare le similitudini e le differenze sopra descritte usando il feedback sociale e l’autovalutazione nel contesto sociale, assumendo che queste strutture possano riflettere le sfumature fra gli spettri del narcisismo covert e del disturbo evitante.

 Dal momento in cui sia i narcisisti covert sia gli evitanti si presentano come timidi, timorosi degli eventi sociali e con bassa autostima, l’ipotesi di partenza è che, in assenza di giudizio sociale, entrambe le personalità siano associate ad autovalutazioni negative.

Ricordando la premessa secondo cui il riscontro positivo da parte degli altri costituisce un rinforzo grandioso desiderato solo dai narcisisti covert e non dagli evitanti, gli autori ipotizzano che, in risposta all’approvazione sociale, solo l’autovaluzione dei narcisisti covert subirebbe un miglioramento.

Dai risultati emerge che, in condizioni neutrali, gli individui evitanti e i narcisisti covert si presenterebbero in modo simile, e cioè negativamente. Nella condizione sperimentale, invece, gli esiti hanno disatteso le aspettative: la personalità evitante sarebbe correlata ad un’autovalutazione positiva, mentre il narcisismo covert ad un’autovalutazione negativa. Ciò in cui differiscono i due disturbi, quindi, riguarderebbe la risposta che questi forniscono ai feedback positivi: gli evitanti ne beneficerebbero, mentre i narcisisti incrementerebbero la visione negativa che hanno di sé. Questo accadrebbe in ragione del fatto che, in assenza di una chiara gratificazione grandiosa, l’approvazione sociale potrebbe impattare negativamente sull’immagine di sé del narcisista, non interessato alle relazioni come una via in cui essere semplicemente apprezzati o uguali agli altri, ma solo glorificati (Morf e Rhodewalt, 2001).

Conclusioni

Le implicazioni dello studio circa le differenze fra i due disturbi di personalità riguardano l’importanza di operare un’affinata diagnosi differenziale: il narcisismo covert sarebbe caratterizzato da un disordine strutturale dell’autostima, più profondamente disturbata, mentre il disturbo evitante sarebbe più legato alla competenza sociale percepita, con maggiori probabilità di rispondere positivamente ai feedback sociali. L’obiettivo ultimo, allora, dovrebbe essere quello di comprendere meglio i piani di sovrapposizione fra i due costrutti per evitare diagnosi errate e applicare i protocolli migliori per la patologia di personalità individuata (Weiss e Huppert, 2022).

 

La costruzione della propria identità attraverso la memoria

Nell’elaborare la nostra identità, co-costruiamo la storia della nostra vita, ignari, probabilmente, che i ricordi non sono delle fotografie fedeli di ciò che ci è accaduto, ma frutto di una ri-elaborazione che, spesso, associa la realtà degli eventi con sensazioni ed interpretazioni personali frutto del momento della narrazione.

 

…L’esistenza precede l’essenza…
(Sartre, J.P., 1945).

Auto-narrazione e memoria di sé

 Il processo di costruzione della narrativa del sé viene definito da Bruner (2004) “self-telling”, ovvero ”auto-narrazione”; questo processo permette ad ognuno di noi di acquisire consapevolezza delle proprie scelte personali.

La letteratura, in tal senso, evidenzia come la ripetizione dei ricordi autobiografici e le aspirazioni per il futuro siano le basi attraverso le quali l’essere umano costruisce e ricostruisce il proprio sé e la propria identità attraverso la narrazione, che diventa quindi un fattore principale nella definizione di se stessi (Fivush & Nelson, 2004).

Costruire la propria identità, intesa come trama di sé stessi, diventa, in questo modo, una vera e propria arte narrativa alla stessa stregua della crescita. L’esigenza di adattarsi alle diverse situazioni socio-ambientali indurrebbe l’individuo a produrre storie di sé stesso e a modificarle, qualora per esempio, queste ultime non corrispondano più all’Ideale dell’IO, che ognuno di noi costruisce attraverso l’amalgamarsi al sociale (Bruner, 2002).

Identità e realtà esterna

Secondo l’autore, quindi, proprio tornando all’Ideale dell’Io –per dirla con le parole di Freud– la costruzione di se stessi è condizionata o vincolata da modelli culturali impliciti che plasmano le rappresentazioni che noi raccontiamo di noi stessi.

In questo modo il senso di unicità di ciascuno di noi dipenderebbe dal confronto, spesso impari, tra il mondo interno fatto di ricordi e di sentimenti personali e dalle aspettative culturalmente connotate della realtà sociale in cui viviamo (Bruner, 2004).

A questo punto si potrebbe fare una riflessione: “Quanto il racconto interno di se stessi, degli episodi della propria vita, e delle aspettative sociali contribuiscono a creare il proprio personaggio?” “Quanto il marchio che sentiamo di portare è frutto della nostra costruzione e quanto, invece è inciso dagli altri?”

“Quanto ciò che sappiamo di noi, attraverso ciò che gli altri ci hanno raccontato, corrisponde a quello che siamo?”

McAdams sottolinea: “il sé è molte cose, ma l’identità è la storia di vita; l’identità assume la forma di una storia, con setting, scene, personaggi e trame”. (McAdams, 1985)

Parafrasando queste parole si può scorgere un trait d’union tra rappresentazioni passate e attuali che vanno a costruire il senso del sé che potrebbe proiettarsi nel futuro.

Durante l’adolescenza e nella prima fase della età adulta inizia a svilupparsi il concetto di identità personale, concetto che non può essere slegato dall’ambiente sociale, culturale e famigliare, nel quale l’individuo inizia a muovere i primi passi.

Durante la narrazione di un ricordo autobiografico bisogna tener conto dell’importanza che assume il “pubblico di ascoltatori”, quindi, il ruolo del narrarsi come atto connotato da un’importante componente sociale che nel bene o nel male influenza la trama della nostra storia personale; nel raccontarci co-costruiamo la storia della nostra vita, ignari, probabilmente, che i ricordi non sono delle fotografie fedeli di ciò che ci è accaduto, ma frutto di una ri-elaborazione che, spesso, associa la realtà degli eventi con sensazioni ed interpretazioni personali frutto del momento della narrazione.

Diventa, inoltre, importante sottolineare il ruolo della componente sociale nella narrazione di un ricordo autobiografico, in quanto comportamento sociale, che va ad influenzare la “life story” nel momento stesso in cui viene narrata.

Costruzione dell’identità e acquisizione del linguaggio

L’approccio evolutivo e socio-interazionista è collegato con il processo di apprendimento e l’acquisizione del linguaggio.

Lo stretto legame tra memoria autobiografica e linguaggio è sottolineato da Nelson (2003), il quale evidenzia come il bambino, intorno ai 3-4 anni, acquisisca la capacità di rappresentare la realtà e quindi, un “sé rappresentazionale”.

La letteratura (Angus et al., 1999), invece, segnala come la memoria autobiografica si sviluppi intorno ai 4-6 anni quando il bambino inizia a raccontarsi attraverso anche il racconto di eventi passati: in questo modo va a stratificarsi quello che è  il “sé narrativo”.

 Il modello di Nelson (2003) segnala un’ultima tappa della costruzione narrativa del sé: il “sé culturale” (5-7 anni). In questa fase il bambino integra i contenuti della propria storia personale con quelli che sono i ruoli, le regole e le rappresentazioni sociali dell’ambiente culturale e famigliare nel quale lo stesso è inserito.

Alla luce di quanto appena detto sembra lecito chiedersi: ma visto che, ciò che viene selezionato e narrato come memoria del sé deve potersi adattare all’idea che abbiamo di noi stessi in quel momento, esiste il vero Io?.

Joyce (1984) direbbe: “noi siamo un libro, un libro scritto dagli altri”. Offuscando in qualche modo la capacità di costruirci o co-costruirci all’interno di un ambiente che sembra aver scritto già la nostra storia.

Identità e disturbi di memoria

La stessa amnesia, anche nel caso di quella psicogena come per esempio fuga dal trauma, evidenzia come in quel momento l’individuo perde il sé costituente la propria identità, una sorta di identità senza significato che oscilla nella ricerca di un senso.

Un esempio è quello proposto dal neurologo Oliver Sacks (1986) quando ci racconta del caso del quarantanovenne Jimmie G., il “marinaio perduto”, che lotta per rispondere alla domanda “chi sono?” in quanto non riesce a ricordare nulla di ciò che è successo dopo la sua tarda adolescenza. Questo esempio mostra che nel creare narrazioni personali, facciamo affidamento ad un meccanismo di screening psicologico, detto sistema di monitoraggio, che contrassegna certi concetti mentali (ma non altri) come ricordi (Mazzoni, 2018).

Le false memorie, le amnesie permanenti o temporanee, organiche o psicogene, confluiscono in quella che è la nostra struttura identitaria. D’altronde per dirla con le parole di Umberto Galimberti (2009) “Non ci sarebbe “Io” se la memoria non costruisse quella sfera di appartenenza per cui riconosco come “miei” azioni, vissuti, pensieri e sentimenti. Non ci sarebbe “Mondo” se la memoria non cucisse la successione delle visioni, che altrimenti si offrirebbero come spettacoli sempre nuovi, apparizioni tra loro irrelate”.

 

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