ADHD cos’è?
Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività – ADHD– è uno dei disturbi del neurosviluppo più frequenti e più studiati; colpisce il 3-5% dei bambini in età scolare dotati di un QI normale o superiore alla media, con un rapporto di 3 maschi per 1 femmina. L’ ADHD può persistere fino all’età adulta, per questo è definito un disturbo life-long (Barkley, 2002).
Le manifestazioni cliniche di base dell’ ADHD sono la difficoltà a prestare attenzione, comportamenti impulsivi e/o un livello di attività motoria accentuato.
Si parla di ADHD con disattenzione predominante quando il problema centrale del bambino è proprio il deficit attentivo. L’attenzione selettiva e l’attenzione sostenuta risultano essere le più compromesse in questa tipologia di ADHD, ma anche le funzioni esecutive, in particolar modo la pianificazione e la memoria di lavoro, sono deficitarie. Questa discontinuità dell’attenzione compromette l’apprendimento, non permette lo sviluppo di abilità cognitive come il problem solving e di strategie comportamentali adeguate ad instaurare relazioni soddisfacenti con gli adulti ed i compagni.
Si parla di ADHD con impulsività e iperattività predominante, invece, quando la funzionalità attentiva risulta lievemente compromessa, mentre il focus del disturbo risiede nel comportamento ipercinetico e nella mancanza di autoregolazione. Questi deficit si traducono in un’attivazione motoria spropositata ed inappropriata, eloquio eccessivo, difficoltà di inibizione delle risposte e difficoltà nel rispettare regole e turni.
Infine il tipo ADHD combinato presenta entrambe le classi di sintomi.
I bambini con ADHD hanno un deficit evolutivo che interessa i circuiti cerebrali correlati all’inibizione e all’autocontrollo. Alcune ricerche hanno messo in luce importanti differenze tra persone con ADHD e quelle che non sono affette da tale patologia: le aree cerebrali che governano le emozioni e la motivazione risultano essere più piccole rispetto alla popolazione generale. Inoltre si è osservato che i bambini in età prescolare con ADHD mostrano un volume cerebrale significativamente ridotto in più regioni della corteccia cerebrale, inclusi i lobi frontali, temporali e parietali, regioni tipicamente coinvolte nel controllo cognitivo e comportamentale.
Sulla base di tali caratteristiche possiamo dedurre che i bambini affetti da ADHD faticano molto a mantenere la loro mente su attività che richiedano concentrazione focale e prolungata nel tempo, per cui si annoiano e si distraggono anche dopo pochi minuti; hanno difficoltà a focalizzare consapevolmente l’attenzione al fine di pianificare, organizzare e completare attività o imparare qualcosa di nuovo; sono iperattivi, sempre in movimento, non riescono a stare seduti a lungo; posseggono scarse capacità di controllare gli impulsi e di pensare prima di agire; non tollerano la frustrazione, l’attesa prima di ottenere ciò che desiderano e non sanno rispettare i turni sia nei giochi che in una conversazione.
La diagnosi di ADHD
L’ ADHD è stato descritto da un pediatra inglese all’inizio del secolo scorso, (Still 1902). Durante il passare del tempo è stato identificato con diversi nomi, tra cui sindrome ipercinetica, disfunzione cerebrale minima (Zuddas A., Masi G., 2002). Durante gli anni ‘60, i criteri per i disturbi psichiatrici dell’età evolutiva sono stati inseriti nei diversi manuali diagnostici (ICD-8, 1966; DSM-II 1968). I continui cambiamenti nosografici nonché dei rispettivi criteri, hanno avuto come conseguenza dubbi a livello di classificazione. Tutto questo ha portato a differenze nazionali sia nell’epidemiologia del disturbo sia nella definizione delle strategie terapeutiche.
In seguito alle diverse classificazioni e la poca coerenza nel corso del tempo tra i diversi manuali diagnostici, si è riscontrata una difficoltà nel processo diagnostico stesso del disturbo che ha avuto delle conseguenze anche sulle ricerche epidemiologiche. Nel corso del tempo, infatti, la sintomatologia può esplicarsi attraverso diverse traiettorie di sviluppo e quindi manifestarsi con caratteristiche completamente differenti da bambino a bambino.
Esistono però criteri diagnostici che permettono di discernere ciò che è psicopatologico da ciò che invece risulta essere un temperamento più vivace. Secondo i criteri diagnostici del DSM-5 (2013), l’ ADHD mostra sintomi riguardanti la disattenzione, l’iperattività impulsività e una loro possibile combinazione. Ogni area è contraddistinta rispettivamente da 9 sintomi caratterizzanti. È necessario che tali sintomi siano di numero pari o maggiore a 6 nell’area riferita alla disattenzione o in quella dell’iperattività impulsività. Per gli adolescenti e gli adulti il numero previsto è di 5 sintomi. Per poter porre una diagnosi inoltre, è necessario che suddetti sintomi siano pervasivi, presenti in due o più contesti. L’esordio avviene prima dei 12 anni. Infine i sintomi devono interferire o ridurre la qualità e il funzionamento sociale, accademico o professionale, creando una grave disfunzionalità nella vita quotidiana del paziente.
Sebbene alcuni bambini abbiano sintomi sia di disattenzione che di iperattività-impulsività, vi sono alcuni pazienti in cui può predominare l’una o l’altra caratteristica. In particolare nel DSM 5 si presentano i seguenti sottotipi:
- Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante (6 o più sintomi di disattenzione, ma meno di 6 sintomi di iperattività-impulsività sono persistiti per almeno 6 mesi);
- Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante più restrittivo del precedente (6 o più sintomi di disattenzione, non più di 2 sintomi del gruppo di iperattività-impulsività sono persistiti per almeno 6 mesi);
- Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Iperattività/Impulsività Predominante (6 o più sintomi di iperattività-impulsività, ma meno di 6 sintomi di disattenzione sono persistiti per almeno 6 mesi);
- Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo Combinato (6 o più sintomi di iperattività-impulsività e 6 o più sintomi di disattenzione sono persistiti per almeno 6 mesi)( APA, 2012).
Il manuale DSM 5 consente al clinico di orientare la propria valutazione attraverso la definizione di precisi comportamenti problema, tuttavia l’avverbio ‘spesso’ accanto alla descrizione del comportamento (es. il bambino spesso non riesce a prestare l’attenzione ai particolari) lascia un ampio margine di arbitrarietà nella scelta dei criteri diagnostici (Lambruschi, 2014).
Indubbiamente le indicazioni diagnostiche offrono al clinico dei criteri statistico-quantitativi importanti nella decisione diagnostica, ma tuttavia l’assenza di un modello interpretativo del funzionamento psicologico dell’ ADHD rende difficile l’inquadramento del disordine sia dal punto di vista cognitivo che comportamentale (Lambruschi, 2014).
Inoltre essendo l’età di esordio identificata nell’infanzia è possibile che i sintomi possano prendere due strade differenti. La prima è quella di essere persistenti nel tempo. La seconda, al contrario, è quella che prevede che i sintomi vadano scemando in età adulta. Per questi motivi, la prevalenza è più alta nei bambini che negli adulti. Circa 1 su 6 bambini con ADHD manterrà la diagnosi completa, mentre la maggior parte dei bambini presenterà solo alcuni aspetti della patologia.
ADHD e disegolazione emotiva
Diverse ricerche hanno evidenziato la presenza di una compromissione nella regolazione delle emozioni in individui con ADHD, tuttavia, non è ancora chiaro quale sia il legame tra la regolazione emotiva e gli altri sintomi del disturbo. Infatti, è stato possibile osservare come la disregolazione non sia sempre presente nel campione clinico, nonostante la percentuale superi il 40% della popolazione patologica (Spencer, 2011).
Diversi studi condotti fino ad oggi hanno prodotto dati apparentemente discordanti. Infatti sembrerebbe che la disregolazione emotiva possa essere considerata come un sintomo (Forslund, 2016; Sjoewall, 2013, Martel, 2009), precedentemente ignorato tra i criteri della diagnosi categoriale, poiché definibile in termini di dimensione temperamentale (Martel, 2009) o come una conseguenza di un deficit nelle funzioni esecutive (Barkley, 1997; Maedgen, 2000) e quindi una disfunzione nell’inibizione del controllo comportamentale, di stati fisiologici, e di rifocalizzazzione dell’attenzione (Barkley, 1997; Spencer, 2011; Surman, 2013).
Secondo la prima ipotesi, che spiega la disregolazione emotiva in termini di dimensione temperamentale, la regolazione emotiva è un processo dissociabile dall’esperienza emotiva di per sé (Martel, 2009). Le ricerche in tal senso suggeriscono che la regolazione delle emozioni, l’emotività negativa e quella positiva siano dimensioni indipendenti da componenti di controllo cognitivo, come le funzioni esecutive (Sjoewall, 2013; Forslund, 2016).
La seconda ipotesi vede invece la disregolazione emotiva come una conseguenza del deficit nelle funzioni esecutive, non tiene conto di elementi temperamentali e ipotizza che il controllo dell’espressione emotiva sia soggetto al controllo cognitivo.
I due modelli esplicativi non si escludono l’uno con l’altro, ma possono invece essere visti come complementari. Infatti, in un lavoro di Steinberg e Drabick del 2015 viene introdotto il concetto di effortfull control (controllo volontario impegnato), secondo cui temperamento e regolazione emotiva influenzano i meccanismi che regolano e inibiscono la risposta automatica dominante a uno stimolo, modificando volontariamente attenzione e comportamento. L’inibizione appare in tale ottica una sfaccettatura dell’effortful control, e cioè quanto un bambino è abile nel sopprimere un comportamento inadeguato in un determinato contesto, che non è correlata solo con il controllo comportamentale, ma appare invece correlata soprattutto con il controllo emotivo. Secondo le autrici l’inibizione, e di conseguenza il controllo del proprio temperamento, sono componenti delle funzioni esecutive (Steinberg & Drabick, 2015). Tale abilità sarebbe appresa attraverso l’osservazione e la regolazione del comportamento da parte dei genitori (Steinberg & Drabick, 2015). Infatti, un’ipotesi all’origine del disturbo potrebbe essere un mancato apprendimento della mediazione verbale nello sviluppo dell’autoregolazione. Ovvero, non viene prestata l’opportuna attenzione alle istruzioni dei genitori e pertanto tali comandi non vengono interiorizzati e fatti propri dal bambino, che non impara quindi la necessaria autoregolazione del proprio comportamento (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).
ADHD e stile di attaccamento
Un’ulteriore causa delle difficoltà di individui con ADHD può essere individuata nello stile di attaccamento che si instaura tra bambino e caregiver. Le diverse configurazioni di attaccamento che si strutturano a partire dalla prima infanzia, e poi si articolano e si differenziano in età prescolare e scolare, possono essere viste sia come pattern comportamentali interattivi osservabili, ma anche soprattutto come modalità di regolazione emotiva: all’interno dei legami d’attaccamento si impara a riconoscere, articolare, dare un nome e regolare gli stati emozionali e le relative disposizioni comportamentali; specifici contesti di sviluppo caratterizzati da particolari forme di insicurezza portano a specifiche disregolazioni emotive (Lambruschi, 2014).
Esperienze diadiche connotate da discontinuità della risposta materna, portano ad uno stile di regolazione emotiva iperattivante, con forte attivazione neurofisiologica e segnalazione emotiva e comportamentale, talora anche drammatica e teatrale. Le esperienze diadiche disorganizzate, in cui il contesto di accudimento e cure è connotato da elevati livelli di pericolo e minaccia al Sé, possono portare invece a caoticità, contraddittorietà, e forte instabilità nell’espressività emotiva (Lambruschi, 2014).
Diverse ricerche hanno permesso di stabilire una correlazione fortemente significativa tra ADHD e uno stile di attaccamento insicuro e tra sintomi dell’ ADHD e significativi livelli di attaccamento disorganizzato.
Da questi studi è possibile ipotizzare che quando il deficit autoregolativo di base va a incontrarsi con quote di sensibilità e responsività sufficientemente ampie, le mancanze o gli eccessi di segnalazione del bambino avranno più probabilità di essere compensati o contenuti dal genitore, con una possibile attenuazione del quadro comportamentale e attentivo del bambino.
Si può immaginare un’amplificazione del disturbo e una maggiore resistenza al trattamento, laddove il comportamento scarsamente regolato del bambino vada ad incontrarsi con sponde relazionali insicure (Lambruschi, 2014).
Se un bambino è immerso in un funzionamento diadico ambivalente, l’iperattività e la distraibilità possono facilmente assumere una funzione coercitiva e di controllo nei confronti della figura di attaccamento, mentre in uno sviluppo evitante è più probabile che i sintomi si esprimano come un’esasperazione dell’utilizzo dell’esplorazione compulsiva e come distrattore, caratteristica forma di regolazione emotiva di questi pattern (Lambruschi, 2014).
ADHD e stile genitoriale
Lo stile genitoriale può essere un fattore di resilienza, supportando il bambino nell’esternalizzazione delle emozioni, oppure un fattore di rischio. Infatti, appurato che il bambino abbia un disturbo ADHD e anche una disregolazione emotiva, il supporto dei genitori nel regolare le proprie emozioni fa sì che il bambino non sviluppi disturbi in comorbidità come il disturbo della condotta o il disturbo oppositivo provocatorio (Steinberg & Drabick, 2015). Ad esempio, a livello terapeutico, una delle proposte del parent training per genitori di bambini con ADHD si basa su interventi di coping emotivo: ovvero l’apprendimento per imitazione di un modello che di fronte a situazioni complesse non nasconde la propria emotività, ma si sforza di trovare la soluzione al problema, esplicitando le strategie che vorrebbe attuare (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).
Diversamente uno stile genitoriale autoritario con modalità aggressive è uno dei fattori che aumenta la disregolazione e il rischio di incorrere in altri disturbi. A volte i genitori di bambini con ADHD hanno agiti aggressivi nel momento in cui cercano di far rispettare delle regole. Tale espressione emotiva esacerba il comportamento disfunzionale (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).
In particolare, bambini e adolescenti con un basso controllo inibitorio (coerente con le caratteristiche comportamentali del disturbo ADHD) potrebbero mostrare sia problemi internalizzati che esternalizzati. Ad esempio, tali bambini potrebbero avere difficoltà a attenuare pensieri negativi (come la ruminazione), ed esibire un eccessivo ritiro negativo, aumentando il rischio di depressione (Steinberg & Drabick, 2015). Se lo stesso bambino ha dei genitori che rispondono a questo comportamento con rabbia, o comunque con un feedback negativo, appare ovvio come il rischio depressivo possa aumentare, o in alternativa come possa emergere un disturbo della condotta o degli agiti impulsivi (Steinberg & Drabick, 2015).
ADHD e trasmissione intergenerazionale
In tale prospettiva le relazioni familiari influenzano la regolazione emotiva del bambino con ADHD. In uno studio familiare i ricercatori hanno verificato se l’ ADHD e la disregolazione emotiva presenti nei genitori fossero presenti anche nei figli.
I risultati ottenuti mostrano come la disregolazione emotiva appartenga solo a un sottotipo di disturbo ADHD, perciò è possibile affermare che il disturbo ADHD sembra essere trasmesso indipendentemente dalla presenza o meno di un deficit nella regolazione emotiva, mentre quest’ultima era presente solo in figli di genitori con ADHD e disregolazione (Surman, 2011).
Gli autori hanno di conseguenza ipotizzato che la disregolazione sia un effetto secondario nell’ ADHD. Inoltre considerano la disregolazione secondaria all’ ADHD nella condizione in cui sia manifestata nel contesto familiare: l’apprendimento attraverso le regole sociali disfunzionali potrebbe influenzare la normale curva di sviluppo della regolazione emotiva e questo effetto potrebbe essere ancora maggiore per bambini con ADHD che hanno genitori con ADHD e disregolazione emotiva (Surman, 2011).
ADHD nell’adulto
Secondo studi epidemiologici internazionali, l’ ADHD colpisce tra il 3% ed il 4,5% della popolazione adulta. Inoltre non soltanto una parte dei sintomi tipici del disturbo in età infantile tendono a riproporsi, ma nuovi tratti fanno la loro comparsa e vanno a caratterizzare l’ ADHD nell’adulto, che risulta associata ad una costellazione variegata di problemi psico-sociali (Young, Toone e Tyson, 2003).
Il quadro clinico si caratterizza in una variegata serie di problematiche che limitano la maggioranza delle aree di vita di questi soggetti. Nel dettaglio le caratteristiche che più frequentemente si presentano nell’adulto sono:
- disattenzione cronica esplicabile in diverse forme (distraibilità, scarsa capacità nel prestare e mantenere a lungo l’attenzione e nel portare a termine i compiti affidati, propensione ad evitare impegni che richiedono uno sforzo mentale protratto nel tempo, incapacità di mettere a fuoco la tematica principale, dimenticanze ecc..);
- impulsività comportamentale e verbale (agitazione, difficoltà a stare seduto, fare le cose senza pensare alle conseguenze, non rispettare i turni di parola all’interno di un dialogo, essere logorroici ecc…);
- disorganizzazione (caos e casualità nella pianificazione di pensiero e azione);
- scarse capacità sociali e di mentalizzazione;
- sensazione di noia e difficoltà ad essere soddisfatti con lo svolgimento del proprio lavoro o altri aspetti della vita quotidiana;
- frustrazione immediata di fronte a circostanze di ritardo;
- labilità emotiva.
In aggiunta a tali caratteristiche sintomatologiche è stato visto che se un individuo ha convissuto con l’ ADHD per la maggior parte della sua vita senza mai essere diagnosticato, potrà aver sviluppato altre forme di disagio: una storia di scarso rendimento scolastico, un eccesso di separazioni e divorzi, maggiori probabilità di difficoltà lavorative, sfavorevoli condizioni socioeconomiche, maggior rischio di andare incontro sia ad incidenti stradali che ad eventi traumatici in genere. Inoltre gli adulti che presentano questa patologia lamentano un eccesso di condotte suicidarie e tassi particolarmente elevati di comorbidità con altri disturbi della sfera mentale ed emotiva. Particolarmente problematica è l’associazione dell’ ADHD nell’adulto con i disturbi della dipendenza da alcol e sostanze. Proprio l’uso di sostanze è largamente corresponsabile dell’aumentata probabilità di commettere reati di vario genere e di conseguenza di andare incontro a problemi giudiziari.
L’analisi del quadro clinico appena descritto mette in evidenza la difficoltà nel riconoscere e diagnosticare l’ ADHD nell’adulto. Come ogni nuova diagnosi è affrontata con incertezza sia dai professionisti che dal pubblico e rappresenta un compito delicato, perché si configura come una diagnosi ‘non pulita’ data la vasta sovrapposizione con altri problemi e disturbi di cui abbiamo già discusso.
Dislessia e ADHD
Dislessia Evolutiva e l’ ADHD co-occorrono con una frequenza maggiore rispetto a quella prevista dal caso. In campioni epidemiologici i disturbi co-occorrono approssimativamente nel 15-40% dei casi e la loro comorbilità è più pronunciata per i bambini con una forte compromissione degli aspetti attentivi rispetto a quelli iperattivi (Gilger et al., 1992). In studi effettuati su campioni selezionati per ADHD, il range di comorbilità è tra il 25% e l’80%, in campioni selezionati per Dislessia Evolutiva, invece, il range di comorbilità oscilla tra il 15% e il 60% (Dykman et al., 1991; Gayan et al., 2005; Gilger et al., 1992; Faraone et al., 1998; Willcutt et al., 2000a,b).
Come abbiamo detto sopra, la prevalenza di bambini affetti da Dislessia Evolutiva è all’incirca del 4% e quella dei bambini con ADHD del 5%. Se i disturbi fossero totalmente indipendenti, la probabilità di ereditarli entrambi sarebbe pressoché casuale, ovvero attorno allo 0,2% (i.e. 4% x 5%). Dal momento che la stima è molto più alta è facile ipotizzare che i due disturbi condividano fattori di rischio quali varianti genetiche, fattori ambientali (Petryshen et al., 2009; Willcutt et al., 2000a), processi cognitivi (Shanahan et al., 2006, Willcutt et al, 2005) e aspetti anatomo-funzionali (Eden et al., 2008) che contribuiscono all’insorgenza di entrambi i disturbi. Per tale ragione, la sovrapposizione dei due disturbi è meglio descritta come co-occorrenza rispetto a comorbilità, perché quest’ultima implica che la patofisiologia sottostante ai due disturbi sia indipendente e non legata causalmente (Keplan et al., 2006).
Esistono diverse ipotesi che spiegano la co-occorrenza tra Dislessia Evolutiva e ADHD. Come prima cosa è importante escludere che la co-occorrenza osservata sia un artefatto causato da un errore di procedura di campionamento o da problemi di misurazione (Angold et al., 1999). La soluzione all’ipotesi di artefatto è rappresentata dal fatto che:
- i due disturbi si presentano in co-occorenza con una frequenza maggiore del caso sia in popolazione clinica che in popolazione generale (Semrud¬Clikeman et al., 1992; Willcutt & Pennington, 2000a);
- la co-occorrenza è presente in un campione di soggetti selezionati sia per Dislessia Evolutiva che per ADHD, rispettivamente indipendenti;
- i due disturbi vengono diagnosticati con misurazioni differenti, la Dislessia Evolutiva include una batteria testale composta prevalentemente da test cognitivi, mentre la diagnosi di ADHD prevede anche dei criteri di natura comportamentale (American Psychiatric Association, 2013).
La seconda ipotesi suggerisce che i bambini con uno dei due disturbi possano presentare sintomi del secondo disturbo a causa delle influenze etiologiche del primo, ovvero è comune, per esempio, che i bambini con Dislessia Evolutiva provino frustrazione elicitata dalle difficoltà di lettura e manifestino sintomi disattentivi o di iperattività motoria (Pennington et al., 1993; Pisecco et al., 1996). Tuttavia, il fatto che sintomi comuni nell’ ADHD si presentino come sintomi secondari di Dislessia Evolutiva in assenza di specifico Disturbo di Attenzione e Iperattività, e che dunque i suddetti sintomi disattentivi o di iperattività motoria non siano ascrivibili a ADHD, non dà completezza scientifica a quest’ipotesi.