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Iperattività

L' iperattività è un disturbo neurobiologico legato a fattori genetici e ambientali che prevede degli interventi con il bambino, i genitori e gli insegnanti

Cos’è l’iperattività

L’iperattività, o ipercinesia infantile, si riferisce a un disturbo neurobiologico a carico della corteccia pre-frontale e dei nuclei della base, una serie di strutture sottocorticali coinvolte nel controllo del movimento. L’iperattività, quindi, non coincide con una semplice vivacità del carattere e per ottenere una diagnosi è necessario soddisfare dei criteri precisi.

Iperattività: cause di insorgenza e modalità di intervento

I bambini che nel tempo sono stati definiti come «difficili», «caratteriali», «ipercinetici» o «iperattivi» non solo non riescono a stare fermi, ma agiscono senza pensare a quello che stanno facendo, in modo impulsivo, e hanno spesso incidenti. Inoltre non sembrano tenere conto degli altri, si intromettono nei loro discorsi o interrompono i loro giochi, non riescono a mantenere l’attenzione su nessuna attività, a seguire le istruzioni e a rispettare le regole sociali di base.

Questi comportamenti rendono molto difficile la loro vita con gli altri bambini, con genitori e fratelli, con gli insegnanti. Ne deriva un circolo vizioso di frustrazione, isolamento dai compagni, problemi nella vita scolastica. È infatti frequente l’associazione con ansia, depressione, difficoltà di linguaggio e di apprendimento, sviluppo di tic nervosi, disturbi del comportamento nell’adolescenza.

In generale, i bambini iperattivi:
– sono estremamente vivaci, corrono o si arrampicano, non riescono a stare seduti tranquilli, piedi e mani sono sempre in movimento;
– non fanno giochi tranquilli e passano da un’attività a un’altra senza concluderne nessuna;
– si distraggono molto facilmente nelle attività scolastiche e di gioco;
– sembrano non ascoltare quanto gli viene detto e fanno fatica a seguire le istruzioni che gli vengono date;
– parlano in continuazione, rispondono in modo irruente prima di ascoltare tutta la domanda;
– interrompono o si intromettono in modo inadeguato mentre altri bambini giocano o gli adulti parlano;
– non aspettano il loro turno nei giochi o nelle attività in gruppo;
– fanno cose pericolose senza pensare alle conseguenze (non di proposito o per fare qualcosa di eccitante);
– perdono o dimenticano il necessario per attività a casa o a scuola (giocattoli, matite, libri, tuta, compiti).

Il problema riguarda, quindi, soprattutto le capacità di autoregolazione. Le carenze si esprimono sul piano comportamentale, ma sono fortemente coinvolte le funzioni cognitive, con difficoltà a livello di pianificazione, organizzazione, funzioni esecutive, flessibilità cognitiva, automonitoraggio e autocorrezione: ne risentono la capacità di rappresentazione mentale di un obiettivo, il mantenimento volontario dello sforzo, l’uso intenzionale di strategie e l’inibizione di risposte inappropriate.

Iperattività e diagnosi di ADHD

La diagnosi di Iperattività avviene normalmente nell’ambito di un quesito diagnostico che fa riferimento al Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, ADHD, in cui l’iperattività è solo una delle componenti del disturbo e può essere presente da sola o in associazione al deficit dell’attenzione.

L’etichetta Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività deriva dalla descrizione diagnostica del DSM-IV pubblicato dall’Associazione degli Psichiatri Americani (APA, 1994), mentre quella di Sindrome Ipercinetica è descritta nell’ICD-10, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 1992). L’ICD-10 distingue, all’interno della categoria Sindrome Ipercinetica, il Disturbo dell’Attività e dell’Attenzione e la Sindrome Ipercinetica della Condotta.

Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (Attention Deficit Hyperactivity Disorder- ADHD) è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo. Esso viene definito come un disturbo dello sviluppo caratterizzato da incapacità a mantenere l’attenzione per un periodo di tempo prolungato, impulsività e iperattività. Questi problemi derivano sostanzialmente dall’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente.

Per poter porre diagnosi di ADHD, un bambino deve presentare almeno 6 sintomi per un minimo di sei mesi e in almeno due contesti; inoltre, è necessario che tali manifestazioni siano presenti prima dei 7 anni di età e soprattutto che compromettano il rendimento scolastico e/o sociale.

Se un soggetto presenta esclusivamente 6 dei 9 sintomi di disattenzione:
(a) spesso fallisce nel prestare attenzione ai dettagli o compie errori di inattenzione nei compiti a scuola, nel lavoro o in altre attività;
(b) spesso ha difficoltà nel sostenere l’attenzione nei compiti o in attività di gioco;
(c) spesso sembra non ascoltare quando gli si parla direttamente;
(d) spesso non segue completamente le istruzioni e incontra difficoltà nel terminare i compiti di scuola, lavori domestici o mansioni nel lavoro (non dovute a comportamento oppositivo o a difficoltà di comprensione);
(e) spesso ha difficoltà ad organizzare compiti o attività varie;
(f) spesso evita, prova avversione o è riluttante ad impegnarsi in compiti che richiedono sforzo mentale sostenuto (es. compiti a casa o a scuola);
(g) spesso perde materiale necessario per compiti o altre attività (es. giocattoli, compiti assegnati, matite, libri, ecc.);
(h) spesso è facilmente distratto da stimoli esterni;
(i) spesso è sbadato nelle attività quotidiane.
viene posta diagnosi di DDAI – sottotipo disattento.

Se invece presenta esclusivamente 6 dei 9 sintomi di iperattività-impulsività:
(a) spesso muove le mani o i piedi o si agita nella seggiola;
(b) spesso si alza in classe o in altre situazioni dove ci si aspetta che rimanga seduto;
(c) spesso corre in giro o si arrampica eccessivamente in situazioni in cui non
è appropriato (in adolescenti e adulti può essere limitato ad una sensazione soggettiva di irrequietezza);
(d) spesso ha difficoltà a giocare o ad impegnarsi in attività tranquille in modo quieto;
(e) è continuamente “in marcia” o agisce come se fosse “spinto da un motorino”;
(f) spesso parla eccessivamente;
(g) spesso “spara” delle risposte prima che venga completata la domanda;
(h) spesso ha difficoltà ad aspettare il proprio turno;
(i) spesso interrompe o si comporta in modo invadente verso gli altri (es. irrompe nei giochi o nelle conversazioni degli altri).
allora viene posta diagnosi di DDAI – sottotipo iperattivo-impulsivo.
Infine se il soggetto presenta entrambe le problematiche, allora si pone diagnosi di DDAI – sottotipo combinato.

I 18 sintomi presentati nel DSM-IV sono gli stessi contenuti nell’ICD-10 (OMS, 1992), l’unica differenza si ritrova nell’item (f) della categoria iperattività-impulsività (Parla eccessivamente) che, secondo l’OMS, è una manifestazione di impulsività e non di iperattività.

Con l’arrivo della quinta edizione del DSM (DSM-5; APA, 2013) la classificazione dell’ADHD è stata aggiornata per meglio comprendere il disturbo anche all’interno della popolazione adulta. Nello specifico, mentre per ottenere una diagnosi i bambini devono presentare almeno 6 sintomi tra quelli elencati nelle categorie di iperattività o deficit di attenzione, oltre i 17 anni a scopo diagnostico sono sufficienti 5 criteri.

Spesso questo disturbo si manifesta in comorbilità con altre condizioni cliniche, in particolare circa il 30-50% dei bambini con ADHD presenta un Disturbo Oppositivo Provocatorio, e/o un Disturbo della Condotta (Thapar et al., 2001); è inoltre possibile la co-occorrenza di Disturbi d’Ansia nel 20-30% dei casi (Biederman et al., 1991; Hinshaw & Zalecki, 2001). E’ interessante sottolineare come dal 20 al 30% dei bambini ADHD presentano anche un Disturbo dell’Apprendimento (Friedman et al., 2003) o più in generale una compromissione delle competenze scolastiche (Hinshaw & Zalecki, 2001; Frazier et al., 2007; Polderman et al., 2010).

Negli adulti, il tasso di prevalenza mondiale dell’ ADHD è tra l’1 e il 7% (de Zwaan et al., 2012). Spesso queste persone soffrono anche di altri disturbi in comorbidità come i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia, l’abuso di sostanze e i disturbi di personalità (Miller et al., 2007; Sobanski et al., 2007).
Il processo diagnostico in età adulta pone inoltre alcune difficoltà: i sintomi dell’ ADHD sono più eterogenei rispetto all’età evolutiva e possono sovrapporsi con gli eventuali disturbi in comorbidità (Barkley & Brown, 2008; Stieglitz & Rösler, 2006; Wasserstein, 2005). Inoltre, solo negli ultimi anni sono stati sviluppati specifici strumenti diagnostici e linee guida per gli adulti (Wolraich et al., 2011; Kendall et al., 2008). In aggiunta, c’è evidenza che le persone con ADHD abbiano scarse abilità nelle aree dell’autoriflessività e dell’autovalutazione e questo pone dei dubbi sull’attendibilità delle informazioni che riferiscono rispetto alle proprie difficoltà.

Iperattività: cause di insorgenza

La causa dell’insorgenza del disturbo rimane ancora una questione irrisolta. Viene ipotizzato un malfunzionamento del sistema nervoso centrale, soprattutto a livello dell’area corticale prefrontale e in relazione ai circuiti dopaminergici e noradrenergici che collegano le regioni prefrontali con il sistema limbico attraverso il corpo striato. Gli studi che mostrano livelli di dopamina e noradrenalina inferiori alla norma sono alla base delle terapie farmacologiche con metilfenidato (conosciuto ai più come Ritalin).

È stato messo in evidenza anche un ruolo dei fattori genetici nell’insorgenza del ADHD, ma gravità, evoluzione e prognosi del disturbo dipendono da fattori legati all’ambiente sociale ed educativo in cui il bambino si trova inserito.

Riguardo all’eziopatogenesi infatti le cause identificate sono multiple: fattori genetici (maggiore incidenza del disturbo nell’ambito della stessa famiglia); fattori ambientali che possono attivare la predisposizione genetica (elevato livello d’ansia della madre, fumo di sigaretta e abuso di alcol in gravidanza, condizioni socioeconomiche disagiate, nascita pretermine, basso peso alla nascita, basso indice APGAR, problemi di salute nei primi anni di vita, scarso accrescimento staturo-ponderale, esposizione al piombo); fattori socio-ambientali (famiglia, scuola).

Il disturbo generalmente insorge tra i 3-4 anni ma la sintomatologia diventa evidente quando il bambino viene inserito all’asilo o a scuola. La letteratura ha evidenziato nei soggetti affetti e confrontati con gruppi di controllo la presenza di alcune alterazioni fisiopatologiche:
– Specifiche varianti di geni che codificano per il trasportatore della dopamina e per il recettore D4 per la dopamina che funzionano in modo quantitativamente differente;
– Alterazioni anatomiche e funzionali di aree cerebrali coinvolte nei processi attentivi e nel controllo del comportamento (riduzione di volume di circa 3-4% a livello della corteccia frontale, dei nuclei della base e del cervelletto).

Iperattività: come intervenire

Ad oggi, ci sono due trattamenti evidence-based per bambini con ADHD: quello farmacologico (principalmente stimolante) e quello comportamentale (Van der Oord et al., 2008).

La terapia farmacologica, agisce unicamente sui sintomi primari del disturbo (impulsività, inattenzione e iperattività) e solitamente risulta inefficace nel migliorare l’autostima e le competenze sociali-relazionali, inoltre il farmaco funziona solo nel breve termine, e i bambini mostrano spesso effetti collaterali (Schachter et al., 2001).

Invece, i trattamenti cognitivo-comportamentali sono focalizzati sulla formazione comportamentale dei genitori e sull’insegnamento di competenze per affrontare e gestire i sintomi dell’ADHD e dei suoi problemi associati.

Le strategie terapeutiche per affrontare l’iperattività possono essere attuate su tre fronti, cioè lavorando individualmente con il bambino, operando con la famiglia, attraverso delle strategie di parent education e di parent training, occupandosi del contesto scolastico (insegnanti e bambini con sviluppo tipico) al fine di ottimizzarlo.

Il trattamento individuale

Il lavoro individuale con il bambino rientra in un intervento terapeutico di tipo cognitivo comportamentale. Nello specifico, gli obiettivi, che tale terapia si pone, sono quelli di insegnare al minore le tecniche di autocontrollo per la gestione dell’impulsività e le procedure cognitive utili ad affrontare i problemi che si presentano.

Il trattamento familiare

L’intervento sui genitori del bambino affetto da ADHD si avvale di due strategie.
Nel parent education si forniscono tutte le informazioni necessarie affinché i genitori siano il più possibile informati e consapevoli della patologia del proprio figlio.

Nel parent training viene insegnato ai genitori a dare chiare istruzioni, a rinforzare positivamente i comportamenti accettabili, a ignorare alcuni comportamenti problematici, e a utilizzare in modo efficace le punizioni. In pratica si lavora con la coppia genitoriale per ristrutturare la percezione dei comportamenti del minore, intervenendo sul sistema delle attribuzioni e sulle aspettative che i genitori del piccolo hanno. Spesso infatti i genitori ascrivono a valenze negative la maggior parte delle condotte manifestate dal bambino. Questa percezione alimenta un vissuto depressivo, che mina il benessere dell’intero nucleo familiare. Il programma di parent training comprende anche l’apprendimento di procedure comportamentali finalizzate al controllo delle condotte distoniche.

Un limite di questo approccio, spesso sottolineato dai genitori, è che tali strategie richiedano loro di imporre un controllo sul bambino, che risulta direttivo e spesso non compreso dal bambino stesso. La diretta conseguenza di tale metodologia è che non vengano imparate in prima persona dal soggetto con ADHD strategie di autocontrollo e che non si crei un’interazione positiva fra figlio e genitore (Nirbhai, 2009).

Riguardo ai familiari, è necessario inoltre evidenziare che l’ADHD è altamente ereditabile, e una diagnosi di ADHD nei genitori è un predittore di fallimento a questo tipo di formazione genitoriale (Sonuga-Barke et al., 2002; Van den Hoofdakker et al., 2010).

La mindfulness in età evolutiva

La minfulness in età evolutiva, condotta in piccolo gruppo composto da 4-6 bambini e i loro genitori, sembra aver dato buoni risultati nel trattamento dell’ADHD, con dei miglioramenti funzionali e strutturali a carico del sistema attentivo, in particolare rispetto ai meccanismi di autoregolazione e di inibizione della risposta automatica. Durante il training di 8 settimane i bambini hanno imparato a concentrarsi per migliorare la loro attenzione, la consapevolezza, l’autocontrollo e l’inibizione delle risposte automatiche. Inoltre, essi hanno anche imparato ad applicare la consapevolezza in situazioni difficili, come l’essere distratto a scuola. I genitori hanno imparato a essere completamente presenti, in maniera non giudicante, nel qui e ora con il figlio; ad accogliere e rispondere, piuttosto che reagire negativamente di fronte ai suoi comportamenti inadeguati; ad accettare le sue problematicità; e infine a prendersi cura di se stessi. Poter affrontare e superare lo stress, per i genitori, è un traguardo importante perché, a casa, è loro compito incoraggiare i figli a fare meditazione, sia singolarmente sia insieme.

I risultati di questo studio hanno provato che i sintomi dell’ADHD nei bambini si sono notevolmente ridotti dopo il training di Mindfulness in età evolutiva. I genitori hanno in particolar modo notato una maggior regolazione dell’attenzione e dei processi cognitivi coinvolti, poiché si sono notevolmente ridotti momenti di disattenzione e moderatamente ridotti momenti di iperattività e impulsività.

E’ interessante notare che i genitori hanno inoltre evidenziato una riduzione del proprio livello di stress e disattenzione, in favore di una maggior autoregolazione e consapevolezza dei vissuti propri e del figlio. I risultati sopradescritti, sia per i bambini sia per i genitori, sono stati mantenuti anche al follow-up di 8 settimane.

Gli interventi psicopedagogici

Il contesto scolastico è il luogo nel quale si estrinsecano in maniera macroscopica le problematiche legate all’iperattività. Avere fra i propri alunni o fra i compagni di classe un bambino affetto da ADHD mette a dura prova la pazienza degli insegnanti e degli altri alunni. Frequentemente i docenti non conoscono fino in fondo la fenomenologia sintomatologica del disturbo e vivono talune manifestazioni come un attacco alla loro persona e alla loro autorità. Questo suggerisce che la prima strategia da utilizzare con loro è proprio quella di curare la conoscenza della patologia, in maniera da prepararli ad affrontare le peculiarità dell’ADHD.

In secondo luogo bisogna intervenire per rendere gli insegnanti emotivamente meno vulnerabili nell’interazione con il bambino affetto da disturbo dell’attenzione con iperattività: spesso i docenti vivono uno stato di ansia continua, legata al timore che il piccolo possa arrecare danni fisici ai suoi compagni. Questa preoccupazione alimenta una sensazione di precarietà e di frustrazione, per cui l’insegnante si sente in balìa delle circostanze ambientali, non in grado di esercitare il controllo della situazione problematica e dell’intero gruppo classe.

L’intervento psicopedagogico rivolto al bambino affetto da ADHD nel contesto scolastico deve orientarsi su due fronti, ovvero lavorare con gli insegnanti, in modo che possano impadronirsi di alcune strategie comportamentali che hanno l’obiettivo di controllare il comportamento del piccolo. Contemporaneamente è necessario operare con i compagni di classe, promuovendo tutti quelli atteggiamenti inclusivi, che possano veicolare dinamiche interattive positive, per mezzo delle quali il bambino possa sentirsi accettato e capito dai coetanei.

Il minore affetto da patologia dell’attenzione con iperattività ha delle caratteristiche che devono essere conosciute dai docenti al fine di ottimizzare l’intervento didattico. Per esempio, egli solitamente è più tranquillo nella prima parte della giornata scolastica, mentre verso la fine delle lezioni si esacerbano i suoi comportamenti problematici. Di questo bisogna tenerne conto nello strutturare la cronologia della giornata. Nella prima parte è bene proporre delle attività che richiedano dei compiti attentivi maggiori, riservando ad attività meno impegnative, più improntate alla dimensione ludica, il tempo rimanente.

Altro accorgimento è quello di scomporre i nuovi apprendimenti in microunità didattiche, che siano a misura dei tempi attentivi del piccolo, in maniera che egli possa sentirsi motivato ad apprendere, ritenendo il compito apprenditivo alla sua portata.

Ai fini del miglioramento delle interazioni sociali all’interno della classe, si deve utilizzare il coetaneo con il quale il minore ha maggiore affinità come tutor e come mediatore nel rapporto con gli altri alunni.

Tutti gli insegnanti, che fanno parte di una classe in cui è presente un minore affetto da tale patologia, dovrebbero avere lo stesso modo di operare, soprattutto per quel che riguarda il controllo della disciplina. In pratica, il gruppo dei docenti deve concordare quali comportamenti, anche se distonici, possono essere tollerati, e quali, invece, devono essere puniti, avendo cura di uniformare gli interventi punitivi, servendosi dei paradigmi della token economy.

Altra procedura da osservare è quella di creare una successione subitanea fra comportamento scorretto ed eventuale punizione. Infatti, più aumenta l’intervallo temporale fra stimolo (comportamento problematico) e risposta (punizione) e più si perde l’incisività sulla condotta distonica.

Al bambino problematico deve essere spiegato con sufficiente chiarezza quello che può fare e quello che invece non è permesso. Le regole devono essere semplici, comprensibili poche e spesso ripetute, in modo che possano divenire bagaglio interiore del ragazzo. Anche le conseguenze del non rispetto della regola devono essere chiare. Ogni volta che il minore manifesta dei comportamenti sintonici, essi devono essere sottolineati e lodati, in maniera che possano diventare elementi per la costruzione dell’autostima.

Inoltre deve esserci da parte degli insegnanti un’interazione sistematica, ossia si deve coinvolgerlo il più possibile e questo coinvolgimento, che serve a sollecitare i suoi processi attentivi, deve essere fatto verbalmente, chiamando, frequentemente, il ragazzo per nome.

Spesso è utile servirsi dei cosiddetti “antistress”: sono oggetti che il bambino può utilizzare per scaricare la tensione. Essi permettono al minore di canalizzare la sua iperattività, consentendogli di stare seduto più a lungo. È opportuno far fare al bambino degli esercizi motori, mentre è seduto, che permettano di scaricare la tensione.

Bibliografia:

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