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Gli effetti della sindrome da “Long Covid”: possibile ruolo del genere

La comunità scientifica sta studiando approfonditamente la sindrome da Long COVID ma ancora pochi sono gli studi sulle differenze di genere.

Cosa si intende per sindrome da Long Covid?

 A distanza di oltre 2 anni dall’inizio della pandemia da SARS-CoV-2 è evidente come per un numero elevato di pazienti affetti da COVID-19, la sintomatologia non si esaurisca nelle fasi acute di malattia, ma subisca un prolungamento delle manifestazioni cliniche di tipo subacuto, condizione che è stata identificata con il nome di sindrome da Long COVID (Sudre et al., 2021).

Secondo la letteratura, la sindrome da Long COVID è una condizione clinica caratterizzata dalla persistenza di sintomi fisici e neuropsichiatrici per più di 4 settimane dalla risoluzione dell’evento acuto correlato alla malattia da COVID-19 (Sudre et al., 2021). I sintomi di Long COVID sono eterogenei e possono variare da persona a persona, manifestandosi a livello respiratorio, cardiovascolare, neurologico, gastrointestinale e psicologico. Questi sintomi includono: fatica persistente; astenia; debolezza; dolori muscolari e articolari; mancanza di appetito, dispnea, tosse persistente; dolore al petto e senso di oppressione, tachicardia e palpitazioni, aritmie, variazioni della pressione arteriosa; cefalea, difficoltà di concentrazione e memoria; disturbi dell’olfatto, del gusto, dell’udito; nausea, vomito, diarrea, reflusso gastroesofageo; disturbi del sonno, depressione del tono dell’umore (tristezza, irritabilità, insofferenza, mancanza di interesse nei confronti di attività che prima piacevano), ansia e stress.

La comunità scientifica sta studiando approfonditamente la sindrome da long COVID ma ancora pochi sono gli studi sulle differenze di genere. Alcuni studi di letteratura riportano come il genere femminile sia associato ad un rischio più elevato di sviluppare la sindrome da Long COVID (Torjesen, 2021; Stewart et al., 2021; Mazza et al., 2021; Sylvester et al., 2022; Maamar et al., 2022). In particolare, lo studio di Maamar e collaboratori del 2022, ha esaminato le differenze di genere nella sindrome da Long COVID, riportando che a tre mesi dalla dimissione ospedaliera per COVID-19, la prevalenza della sindrome da Long COVID in un campione di 121 soggetti era del 35,8% nelle donne e 20,8% negli uomini.

I risultati dello studio sperimentale condotto al San Raffaele

Lo scopo del presente studio è stato quello di indagare le possibili differenze di genere nella sindrome da Long COVID, valutando a tre mesi dalla dimissione per infezione da SARS-Cov-2, un campione di 275 pazienti precedentemente ricoverati presso l’ospedale San Raffaele Turro per infezione da Covid-19. Lo studio si inserisce all’interno di un progetto di tesi di laurea magistrale.

Dai risultati di questo studio è emerso che la prevalenza della sindrome da Long COVID era del 41,5% nelle donne e 22,1% negli uomini. Il genere femminile, rispetto al genere maschile, ha mostrato una maggior prevalenza di sintomatologia ansioso/depressiva, una diminuzione della qualità di vita e maggiori problematiche legate all’insonnia. Nel genere maschile si osserva una maggior prevalenza di patologie cardiovascolari, come l’ipertensione arteriosa e la dislipidemia. Inoltre, si rileva una maggior percentuale di uomini trattati durante la degenza con ventilazione meccanica non invasiva rispetto alle donne. È stato osservato, in ultima istanza, una frequenza maggiore della sindrome delle apnee ostruttive del sonno negli uomini.

 Alcuni studi presenti in letteratura riportano che le donne sembrano avere il doppio delle probabilità di sviluppare il Long COVID rispetto agli uomini, fino all’età di circa 60 anni, quando il livello di rischio diventa simile (Sudre et al., 2021; Sivan et al., 2021). Tuttavia, comprendere le basi eziologiche delle differenze di genere nel COVID-19 potrebbe aiutare a sviluppare strategie terapeutiche più efficaci (Brandi, 2022).

Il disagio riportato dai pazienti lo si può osservare sia in termini di sofferenza psicologica, maggiore per le donne, sia in termini di problematiche organiche che, in questo studio, sono maggiori negli uomini.

Utilità clinica

Chen e collaboratori (2020) descrivono il genere femminile come il maggior fattore di rischio per la riduzione della qualità di vita spiegando che gli uomini e le donne hanno ruoli e sono sottoposti a pressioni sociali differenti, con impatti diversi sul decorso della malattia da Covid-19. Le donne si prendono più cura della famiglia rispetto agli uomini e hanno bisogno di più energia per affrontare lo stress, il che si traduce in un più accentuato danno emotivo. Tuttavia, gli autori sostengono che le pazienti di sesso femminile necessiterebbero di tempi di riabilitazione più lunghi (Chen et al., 2020).

Alla luce di quanto emerso dalla letteratura e dal presente studio, sarebbe interessante indagare ulteriormente la fisiopatologia legata alle differenze di genere nella sintomatologia presente negli affetti da COVID-19 e gli effetti del trattamento farmacologico correlato a Long COVID-19 attraverso studi longitudinali di follow-up. Una miglior comprensione dei meccanismi sottostanti aiuterebbe ad attuare strategie di trattamento mirate e personalizzate sia per gli uomini che per le donne. La malattia da COVID-19 è un chiaro esempio della necessità di un approccio clinico che prenda in considerazione il ruolo del genere nel trattamento, sia dell’infezione acuta da SARS-Cov-2 sia nella sindrome da Long COVID-19.

 

Fattori di rischio e uso problematico di ecstasy

Secondo questo studio l’uso problematico di ecstasy si è dimostrato essere associato sia a motivazioni riguardanti la teoria dell’automedicazione (il suo utilizzo per alleviare il malessere), sia a motivazioni legate al suo utilizzo per indurre euforia.

L’uso di ecstasy

 Alcuni studi evidenziano che la maggior parte degli individui che fa uso di ecstasy nel tempo ne diminuisce naturalmente l’utilizzo (Smirnov et al., 2013); nonostante questo, una minoranza dei consumatori riferisce problemi di dipendenza (Substance Abuse and Mental Health Services Administration, 2014). L’uso problematico di ecstasy, nonostante non si riferisca necessariamente a grandi quantità e alte frequenze di consumo, indica un utilizzo ricorrente della sostanza nonostante le conseguenze negative e le preoccupazioni che ne conseguono (United Nations Office for Drug Control and Crime Prevention, 2000). È importante sottolineare che gli individui che riferiscono un uso problematico di ecstasy sperimentano conseguenze significativamente negative a livello psicologico, sociale e di salute fisica (Meikle et al., 2020).

Una delle variabili che potrebbe avere un ruolo nell’utilizzo problematico dell’ecstasy è l’impulsività, che si è riscontrata essere associata alle occasioni di utilizzo e al numero di pillole assunte nel corso della vita (Hanson et al., 2008; Taurah et al., 2014).

Il malessere psicologico, inoltre, risulta essere un ulteriore fattore rilevante e uno studio ha riportato esserci un’associazione tra depressione e sintomi di dipendenza dall’ecstasy (Boys et al., 1999; Boys & Marsden, 2003).

A livello demografico, invece, le differenze di genere nell’utilizzo di ecstasy non sono state ancora confermate, ma alcune ricerche evidenziano un maggior rischio per gli uomini, che hanno riportato maggiori sintomi di consumo problematico di ecstasy rispetto alle donne (Scheier et al., 2008; Yacoubian et al., 2004).

Le motivazioni dell’uso di ecstasy

Anche lo studio delle motivazioni per cui si ricorre a fare uso di ecstasy hanno dato risultati significativi: infatti, il suo utilizzo per far fronte ad un disagio è stato associato a frequenza e intensità del consumo (Boys et al., 1999; Boys & Marsden, 2003).

Oltre ai fattori di rischio valutati singolarmente, risulta essere rilevante anche comprendere le relazioni reciproche tra questi predittori (Kraemer et al., 2001); per questo l’articolo pubblicato nel 2020 (Meikle et al., 2020) ha avuto come scopo quello di analizzare l’impulsività, il malessere psicologico e le motivazioni, in relazione all’utilizzo problematico di ecstasy (riferito ai 12 mesi precedenti).

Lo studio, prendendo in considerazione un campione di 483 individui (Scheier et al., 2008), ha riportato che sia i tratti di impulsività auto-riferiti, che il malessere psicologico, risultavano collegati all’uso problematico di ecstasy.

Le analisi inoltre hanno rilevato l’assenza di differenza di genere.

Secondo questo studio l’uso problematico di ecstasy si è dimostrato essere associato sia a motivazioni riguardanti la teoria dell’automedicazione (il suo utilizzo per alleviare il malessere), sia a motivazioni legate al suo utilizzo per indurre euforia.

 Attraverso delle analisi combinate, è emerso che gli individui con alti livelli di impulsività che presentavano anche malessere psicologico, avevano maggiore rischio di sviluppare problematiche relative al consumo di ecstasy; l’impulsività può portare le persone a scegliere i metodi più semplici e immediati per fronteggiare il disagio, come ricorrere alle droghe (Hull & Slone, 2004; Vohs & Baumeister, 2016). In realtà nello studio è stata riportata anche un’associazione diretta ed indipendente tra impulsività e malessere psicologico; questo potrebbe essere inteso come una generale propensione degli individui con elevata impulsività, a non tenere conto delle conseguenze negative a cui si potrebbe essere esposti (Magid et al., 2007).

Anche il disagio psicologico, indipendentemente dall’impulsività, è stato riportato essere un fattore di rischio per il consumo problematico di ecstasy; questo risultato, oltre ad essere in linea con la teoria dell’automedicazione in riferimento all’utilizzo delle droghe (Smith et al., 2017), conferma i dati riscontrati da uno studio condotto recentemente, che ha riportato un aumento del tasso di disagio psicologico tra gli individui con uso problematico di ecstasy pari al 48% (National Drug Strategy Household Survey 2016 Detailed Findings, 2017).

Considerazioni conclusive

In conclusione, lo studio condotto nel 2020 ha contribuito ad ampliare le conoscenze rispetto ai fattori psicologici e motivazionali implicati nell’utilizzo problematico di ecstasy; l’impulsività ed il disagio psicologico, assieme a determinate motivazioni (riguardanti la volontà di fronteggiare un disagio o per provare euforia), sono risultati essere dei potenziali fattori di rischio, indicando la necessità di programmi d’intervento mirati non solo al trattamento della dipendenza, ma anche alla valutazione e alla cura del disagio psicologico, che si è visto essere ricollegato alle motivazioni di utilizzo di ecstasy.

 

Il valore di sé: autostima e sofferenza mentale (2023) di Paolo Rigliano – Recensione

L’autore presenta le più recenti teorie delle emozioni e dei sistemi motivazionali connessi alla formazione del valore di sé, che considera come un sistema che si crea dalla convergenza di tre assi: potere, autonomia e sicurezza.

 

 Paolo Rigliano, psichiatra e psicoterapeuta, autore di noti volumi sui trattamenti delle dipendenze (come “Doppia diagnosi. Tra tossicodipendenza e psicopatologia”, Raffaello Cortina, 2015), sull’omosessualità e sull’identità sessuale (come “Amori senza scandalo. Cosa vuol dire essere lesbica e gay”, Feltrinelli, 2006), oggi ci presenta un’innovativa e sofisticata riflessione con il libro “Il valore di sé. Autostima e sofferenza mentale”.

L’originalità della proposta risiede nell’inversione dei termini di osservazione dei processi di autostima rispetto a quelli della valorizzazione del Sé, identificata come il nucleo fondamentale del benessere psicologico della persona. Distinguendo in modo netto i due concetti, l’autore si discosta dall’interpretazione dominante dell’autostima che la identifica con il valore di sé.

L’autore presenta le più recenti teorie delle emozioni e dei sistemi motivazionali connessi alla formazione del valore di sé, che considera come un sistema che si crea dalla convergenza di tre assi: potere, autonomia e sicurezza. Esso è definito come una struttura che costituisce “il fondamento emozionale e corporeo dell’essere di ogni persona”, una struttura che è tutt’uno con l’intero suo organismo –ovvero il CorpoMente. L’autostima, invece, è vista come l’insieme di processi autoriflessivi che la persona compie sul valore di sé –essi sono posti all’apice del Sé, sovraordinati rispetto a tutti gli altri suoi nuclei. Ponendo il sistema del valore di sé come matrice/base dell’intero Sé e l’autostima come suo vertice, Rigliano vuole proporre un modello dell’autostima all’interno di uno schema del Sé, delineato in modo puntuale e sintetico per essere utilizzato in modo agevole nel lavoro clinico.

Entro questo modello complessivo prende corpo la relazione “dialettica” tra valore di sé e autostima, posti su piani differenti e gerarchicamente ordinati. Il primo, appunto, visto come un nucleo fondante e identitario, mentre l’autostima è un processo autoriflessivo correlato al valore e a tutti gli altri nuclei del Sé, una sorta di vertice di supervisione dell’equilibrio, dell’adeguatezza e della legittimità del valore e dei suoi rapporti con gli altri nuclei e con il mondo esterno, con l’obiettivo di tutelare e preservare il fondamento organismico CorpoMente da ogni attacco e menomazione, che causerebbero un lesione grave del Sé. L’autore ritiene, infatti, che tutte le persone abbiano la necessità vitale di mantenere in equilibrio e in sicurezza la conformazione del valore di sé: questo è appunto lo scopo e la funzione del lavoro autoriflessivo realizzato dai processi di autostima, situati al vertice del Sé.

Tale modello dell’autostima e del valore di sé consente una più ampia e profonda comprensione dei fenomeni psicopatologici, anche di quelli più gravi e devastanti, in cui il valore di sé è leso e i processi di autostima non riescono a convergere verso un equilibrio sia interno che esterno al soggetto, per cui le difese sane falliscono e prevalgono quelle patologiche, responsabili dell’estrema sofferenza e delle alterazioni psicopatologiche.

 Infatti, quando il valore di sé viene attaccato, oppure viene leso in qualunque modo uno dei tre assi che lo costituiscono (potere, autonomia e sicurezza), tutto il Sé ne subisce delle lesioni drammatiche: secondo l’autore questo è uno dei traumi più rilevanti che la persona può subire. Descritte con metafore suggestive (per esempio, ustioni, fratture, menomazioni, paralisi), tali lesioni possono essere considerate l’esito di processi invalidanti, conflittuali, traumatizzanti o bloccanti o di scelte e lotte inefficaci per porre di nuovo in equilibrio il valore di sé.

Le diverse costellazioni di lesioni si sviluppano in gradi e qualità diverse (moderate, serie, gravi o gravissime) provocando disvalore e disistima oppure sovrastima patologica, fino ad arrivare alle lesioni più gravi che minacciano di disorganizzazione e annichilimento l’intera vita psichica del soggetto, come si verifica nelle condizioni di sofferenza psicotica.

Il volume rappresenta dunque una proposta innovativa che offre contemporaneamente:

  • una visione d’insieme, attraverso una mappa sintetica a sfondo sistemico-evolutivo del concetto di valore di sé e di autostima;
  • un’ipotesi di modello psicopatologico comprensivo, che pone il disvalore e la disistima di sé come matrice primaria della psicopatologia, con un approccio peculiare all’analisi dei significati del dolore mentale e alle escalation sui vari piani, a partire dalla dialettica tra costellazioni emotivo-cognitive e alterazioni neurobiologiche che sostanziano le specifiche forme di sofferenza mentale;
  • una riflessione sul senso della sofferenza mentale all’interno della storia del soggetto e dei significati da lui attribuiti al suo essere-con-gli-altri.

L’autore accompagna costantemente il lettore in una riflessione teorica sui diversi paradigmi e modelli collegati a questi concetti, proponendo interessanti approfondimenti bibliografici e scientifici, osservazioni e valutazioni cliniche e terapeutiche. Una lettura che appassiona il lettore in un intreccio di teoria, analisi di casi clinici, interpretazioni e valutazioni diagnostiche, con un modello innovativo della struttura del Sé e della formazione dei più severi quadri psicopatologici e del lavoro psicoterapeutico.

 

Tollerare l’incertezza per costruirsi il proprio futuro professionale

Lo studio di Arbona e colleghi (2021) ha ipotizzato che l’intolleranza all’incertezza possa essere legata alle difficoltà nella decisione professionale per via dell’ansia.

 Nel decidere la propria carriera professionale, gli studenti universitari possono nutrire incertezza rispetto alle future opportunità lavorative e all’evoluzione delle proprie preferenze e capacità.

Gli studenti poco tolleranti all’incertezza potrebbero sperimentare stati d’ansia in grado di causare difficoltà significative nelle decisioni circa la propria carriera lavorativa (Arbona et al., 2021).

La definizione di un percorso professionale in linea con la propria formazione universitaria può risultare una sfida complessa. Dopo la laurea, molti studenti si trovano a sperimentare dubbi a proposito del proprio percorso accademico e sul futuro professionale o insoddisfazione in merito alle scelte compiute (Daniels et al., 2011). Non a caso, l’indecisione di carriera è una delle più frequenti preoccupazioni presentate dagli studenti che chiedono aiuto ai servizi di counselling dell’università (Lipshits-Braziler et al., 2016).

L’incertezza, tuttavia, è un aspetto inevitabile e saliente quando l’individuo si trova a prendere decisioni importanti a proposito del proprio percorso formativo e professionale (Trevor-Roberts, 2006). In questa cornice, l’ansia può divenire un consolidato predittore dell’indecisione di carriera, considerando che l’intolleranza all’incertezza può costituirne una vulnerabilità cognitiva (Boswell et al., 2013; Carleton, 2016; Dugas e Ladouceur, 2000). Pochi sono gli studi che approfondiscono l’interazione fra queste variabili nel processo di decisione professionale e, in questa direzione, lo studio di Arbona e colleghi (2021) si propone lo scopo di esaminare l’ansia come possibile mediatore nella relazione fra intolleranza all’incertezza e difficoltà nel prendere decisioni di carriera fra gli studenti universitari.

Ansia e indecisione di carriera

Senza considerare gli studenti che riscontrano un’indecisione del tutto normativa ed evolutiva, quelli patologicamente indecisi possono trovarsi a sperimentare croniche difficoltà nella presa di decisione, rispondendo meno agli interventi di counselling e riportando significativi livelli di ansia (Fuqua e Hartman, 1983; Rochlen et al., 2004; Santos e Ferreira, 2012). Essi sperimenterebbero la cosiddetta indecisione professionale, ossia l’incapacità di scegliere e raggiungere attivamente un soddisfacente percorso educativo, professionale e/o di carriera (Xu e Bhang, 2019). Questo costrutto è operazionalizzabile in tre principali sotto-dimensioni:

  • Mancanza di prontezza, che valuta l’assenza di motivazione a essere coinvolti professionalmente, l’indecisione come tratto di personalità e le credenze disfunzionali riguardanti aspettative irrazionali circa il proprio futuro lavorativo;
  • Mancanza di informazioni, riguardo ai passaggi necessari al processo decisionale di carriera, se stesso come persona e lavoratore (preferenze lavorative, abilità), le alternative disponibili sul mercato del lavoro e su come ottenere maggiori informazioni che facilitino la presa di decisione;
  • Informazioni incoerenti, per cui quelle disponibili possono essere inaffidabili (perché contraddittorie sul sé o sull’occupazione), basate su conflitti interni (disallineamento fra personali preferenze educative vs lavorative) o legate a contraddizioni estreme (disaccordo con altri significativi per la carriera).

La letteratura finora ha provato che i sintomi d’ansia degli studenti indecisi sarebbero in grado di portare a una maggiore avversione al rischio che, a sua volta, produrrebbe evitamento decisionale (Hartely e Phelps, 2012). Ad oggi, tuttavia, mancano studi che esaminino l’associazione specifica fra le vulnerabilità cognitive all’ansia, come l’intolleranza all’incertezza, e i domini dell’indecisione professionale.

Il ruolo predisponente dell’intolleranza all’incertezza

L’intolleranza all’incertezza è la tendenza ad avere paura dell’ignoto e a preoccuparsi eccessivamente delle conseguenze negative future, indipendentemente dalla loro probabilità di verificarsi. Predisporrebbe cognitivamente l’individuo all’ansia al punto che, secondo i ricercatori, potrebbe essere considerata un suo fattore causale (Carleton, 2016).

 Nel processo di decisione professionale, gli studenti universitari sperimentano un certo grado di incertezza relativamente alle future opportunità lavorative e all’evoluzione dei loro interessi. Parallelamente, le caratteristiche del mercato del lavoro attuale, il rapido cambiamento tecnologico e altri fattori hanno aumentato la percezione di instabilità nella costruzione della propria carriera (Hirschi, 2018; Oyer, 2020). In quest’ottica, è ragionevole aspettarsi che le persone caratterizzate da alti livelli di intolleranza all’incertezza sperimentino più ansia e difficoltà nella presa di decisioni professionali rispetto a quelle cognitivamente meglio equipaggiate ad affrontare l’ignoto.

Lo studio di Arbona e colleghi (2021)

Unendo i risultati della precedente letteratura sull’argomento, lo studio di Arbona e colleghi (2021) ha ipotizzato che l’intolleranza all’incertezza possa essere legata alle difficoltà nella decisione professionale per via dell’ansia. Coerentemente con questa ipotesi, i risultati indicano che l’intolleranza all’incertezza e l’ansia sono associate direttamente alle difficoltà nella presa di decisione di carriera nei tre domini caratterizzanti quest’ultima. Di preciso:

  • La correlazione con la mancanza di prontezza indicherebbe che l’eccessiva paura delle conseguenze future potrebbe ostacolare la motivazione degli studenti a impegnarsi nello sviluppo della propria carriera attraverso l’aumento di credenze disfunzionali sul processo di decisione professionale e sui suoi potenziali risultati;
  • Le distorsioni cognitive e l’immobilismo comportamentale, associati ad elevati livelli di intolleranza all’incertezza e di ansia, potrebbero interferire con la capacità degli studenti di acquisire e integrare le informazioni su di sé e sul mercato del lavoro;
  • In presenza di aspettative negative sul futuro, informazioni aggiuntive potrebbero sopraffare lo studente piuttosto che facilitarlo nel processo decisionale (Kelly e Shin, 2009).

Inoltre, come ipotizzato, l’ansia medierebbe le associazioni fra l’intolleranza all’incertezza e le tre dimensioni dell’indecisione professionale, confermandosi un valido predittore delle difficoltà di definizione di carriera.

Le implicazioni dello studio

Alla luce di quanto concluso, gli interventi di counselling che intendono affrontare l’indecisione di carriera dovrebbero innanzitutto valutare in che misura la difficoltà ad affrontare l’incertezza può ostacolare lo studente indeciso a impegnarsi in attività di esplorazione della carriera e di ricerca di informazioni. Tali interventi, quindi, dovrebbero andare oltre il tradizionale processo di abbinamento degli individui ai campi di studio e alle occupazioni che si allineano con i profili individuali di interessi e valori (Lent e Brown, 2020). Risulta infatti importante affrontare anche i fattori cognitivi ed emotivi che potrebbero impedire agli studenti di beneficiare degli interventi a favore della decisione professionale, perché è così che li si può accompagnare verso scelte lavorative più soddisfacenti.

Disturbi alimentari durante la gravidanza. Uno sguardo sull’alimentazione nel pre e post-partum

Evidenze da ampi studi di coorte e da dati di registrazione dimostrano che i disturbi alimentari e le fluttuazioni di peso hanno effetti negativi sul decorso della gravidanza e sugli esiti del parto.

L’alimentazione in gravidanza

Durante la gravidanza l’organismo materno è messo sotto stress perché deve adattarsi velocemente a modifiche ambientali e biopsicosociali; inoltre si modificano le abitudini alimentari e quelle legate all’attività fisica (Purizaca et al., 2010). Si può dire che il periodo di gestazione è un periodo di forte cambiamento, che può contribuire in alcuni casi a complicazioni in termini di salute e benessere mentale (Paskulin et al., 2017).

È molto importante per il decorso della gravidanza, per lo sviluppo del nascituro e per la salute fisica e psicologica a breve e a lungo termine, sia della madre che del bambino, uno stile di vita sano, caratterizzato dalla pratica regolare di esercizio fisico e da una dieta equilibrata e diversificata nella selezione degli alimenti (Koletzko et al., 2018).

Per quanto riguarda la nutrizione, durante tutto il periodo della gravidanza si fa riferimento al lavoro iniziale di Barker riguardante il campo della programmazione della nutrizione precoce “Fetal Orgins of Adult Disease” (FOAD) (Barker et al., 1990). Il concetto proposto da Barker e collaboratori ha subìto delle modifiche nel corso del progresso scientifico; negli anni si è trasformato in “Developmental Orgins of Health and Disease” (DOHaD) (Hoffman et al., 2017). In questo scritto viene postulato ed evidenziato l’assunto che afferma l’esistenza di conseguenze relative al periodo di gestazione, successive all’esposizione da parte della mamma a specifiche influenze ambientali durante i periodi critici relativi allo sviluppo e alla crescita; tali conseguenze possono essere causate ad esempio da una carenza o da un eccesso di nutrimenti a livello intrauterino (Hoffman et al., 2017).

Disturbi alimentari e gravidanza

I disturbi alimentari (ED) implicano comportamenti alimentari disfunzionali, tra cui comportamenti di compensazione o eliminazione e restrizione calorica, volti a svolgere una funzione di controllo sul cibo assunto, sul peso e sulla forma del corpo, che durante la gravidanza possono provocare particolari carenze materne a livello di micro e macronutrienti (Easter et al., 2013). I disturbi dell’alimentazione potrebbero avere conseguenze negative sulla crescita, sulla salute e sullo sviluppo del feto e del neonato (Easter et al., 2013).

Gli studi odierni affermano che fino al 7,5% delle donne in gravidanza soffre di un disturbo dell’alimentazione (Easter et al., 2013).

I disturbi alimentari comprendono l’anoressia nervosa (AN), la bulimia nervosa (BN), il disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e “altri disturbi specifici dell’alimentazione” (OSFED) (DSM-5, 2013). Questi disturbi possono diventare cronici e debilitanti e sono associati a un aumento significativo dei tassi di mortalità (Schmidt et al., 2016). I disturbi alimentari sono associati a una bassa qualità di vita, ad alti tassi di comorbidità e al rischio di mortalità prematura (Martínez-González et al., 2016). A questo proposito, esistono evidenze da ampi studi di coorte e da dati di registrazione che dimostrano che i disturbi alimentari e le fluttuazioni di peso hanno effetti negativi sul decorso della gravidanza e sugli esiti del parto (Dörsam et al., 2019).

Inoltre, la letteratura scientifica indica che alcune donne hanno aspettative irrealistiche sul proprio corpo successive al parto e specifiche al periodo post-partum; tali aspettative influenzano i cambiamenti fisici, che possono produrre variazioni importanti dell’immagine corporea e creare un importante grado di insoddisfazione (Harrison et al., 2019). I disturbi alimentari possono quindi essere associati a malattie metaboliche ed endocrine e a cambiamenti psicologici e nutrizionali che hanno effetti negativi sia sulla madre che sul feto.

L’anoressia nervosa è caratterizzata da un’eccessiva restrizione legata all’assunzione dell’apporto calorico standard, che può portare ad una grave perdita di peso; una conseguenza diretta che potrebbe presentarsi è la paura patologica di aumentare di peso e una percezione distorta dell’immagine del proprio corpo (DSM-5, 2013). La bulimia nervosa è un disturbo dell’alimentazione che viene definito dalla presenza di episodi regolari di abbuffata, seguiti da comportamenti compensatori come ad esempio il vomito autoindotto, l’uso continuativo di lassativi, periodi di digiuno o esercizio fisico per tenere sotto controllo il peso (DSM-5, 2013). Quando si parla di abbuffate si fa riferimento a episodi che riguardano un consumo di cibo significativamente maggiore rispetto a quanto un’altra persona potrebbe mangiare in condizioni analoghe, in un periodo di tempo ristretto; durante e dopo i momenti di abbuffata i soggetti possono essere accompagnati dalla sensazione di perdita di controllo, da sentimenti di colpa, di imbarazzo e di disgusto verso sé stessi (DSM-5, 2013).

Oggigiorno i disturbi alimentari risultano essere un problema di salute con un forte impatto sulla società e sulla percezione del mondo esterno (Vela et al., 2014). Bisogna tenere in considerazione che solo una minoranza della popolazione avente un disturbo alimentare entra in terapia. In particolare, nella popolazione delle donne europee, vi è una prevalenza dell’anoressia nervosa che è pari a circa poco meno del 4%, del binge eating disorder pari al 4%, della bulimia nervosa pari al 2% e di altri disturbi alimentari sottosoglia pari al 3%, con importanti modificazioni relative al paese di appartenenza, all’origine etnica e al gruppo di età corrispondente (Raevuori et al., 2014).

Bisogna tenere in considerazione che ci potrebbero essere delle comorbilità durante il periodo della gravidanza tra disturbi alimentari e altri disturbi psichici: da studi longitudinali è emerso che durante il periodo della gravidanza circa il 21,7 % delle donne soffre di depressione, la quale è condizionata in modo molto importante dalla qualità del sonno e dall’insonnia. Si è visto che la depressione in gravidanza può portare a esiti fetali, neonatali e ostetrici sfavorevoli, e può essere un fattore determinante per lo sviluppo della depressione post-partum (Alder et al., 2007).

Il periodo del post-partum può essere caratterizzato da insoddisfazione per la forma corporea e per il peso anche in donne senza una sintomatologia da disturbo alimentare precedente la gravidanza. Nello specifico, nel primo mese dopo la gravidanza circa il 75% delle donne riporta alti livelli di preoccupazione per il mantenimento del peso e a partire dal quarto mese successivo al parto, circa il 70% delle donne ricorre a diverse metodologie con l’intento di perdere peso (Zerwas et al., 2014). Vi possono essere quindi fenomeni di controllo alimentare e calorico, che possono portare all’evitamento di alcuni alimenti e alla ricerca di piani alimentari più restrittivi con un apporto calorico giornaliero scarno. È opportuno tenere in considerazione che gli ormoni sessuali possono influenzare il disturbo alimentare sviluppato; nello specifico, gli estrogeni stimolano maggiormente l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), che aumenta così la reattività dell’organismo allo stress; gli androgeni invece, hanno una funzione inversa, quindi, tendono a far diminuire l’attività HPA e quindi comportano una riduzione dello stress (Kudielka et al., 2005). 

La preoccupazione per il peso in gravidanza

In diversi studi della letteratura attuale è stata osservata una preoccupazione per il peso durante il periodo della gravidanza, che riguarda circa il 40,2% delle donne incinte (Bulik et al., 2009). Insieme agli episodi di abbuffate (17,3%), i sintomi di ansia e depressione sono i più frequenti stati d’animo riportati (Chan et al., 2019).

La preoccupazione per il peso nelle madri con disturbo alimentare può indurle a mettere in atto comportamenti inappropriati come il vomito autoindotto o l’abuso di diuretici, per cercare di aver un controllo diretto sul peso (Soarez et al., 2009). La prevalenza di disturbi alimentari durante la gravidanza è: 0,5% per l’anoressia, 0,1% per la bulimia e 1,8% per il binge eating, 0,1% per il purging e 5% EDNOS (Disturbi alimentari non altrimenti specificati), che riguarda circa il 5,1-7,5% delle donne in gravidanza (Easter et al., 2013).

Inoltre, è stato osservato che le madri con disturbo alimentare hanno un aumento di peso maggiore durante la gravidanza rispetto alle madri sane (Berger et al., 2016). Esiste una controversia sulla perdita di peso, con ricerche che mostrano una maggiore diminuzione durante i primi sei mesi dopo il parto nelle madri con disturbo alimentare (Berger et al., 2016), mentre altri studi sostengono che il mantenimento del peso dopo il parto è maggiore rispetto ai controlli sani (Nunes et al., 2014). L’aumento di peso può essere positivo per chi soffre di anoressia nervosa, in quanto può attenuare gli effetti negativi di questo disturbo e proteggere le esigenze del feto in via di sviluppo. A sua volta, l’aumento di peso nelle madri con bulimia e binge eating sembra essere correlato all’assunzione di cibo con conseguente aumento eccessivo (Micali et al., 2012), che può anche essere dovuto alla maggiore presenza di abbuffate (Nguyen et al., 2017).

È stato dimostrato che la gravidanza potrebbe avere anche effetti positivi nelle donne con disturbi alimentari (Nunes et al., 2014). Le donne con bulimia nervosa hanno mostrato una riduzione dei sintomi e dei periodi di restrizione alimentare. È emerso che tuttavia che questi miglioramenti possono avere una durata labile, in quanto i sintomi potrebbero aumentare in seguito, soprattutto nel periodo post-partum e durante l’allattamento (Martini et al., 2018). Altri studi affermano che la presenza di disturbi alimentari è maggiore soprattutto dopo il parto, in quanto le donne con sintomatologia trovano difficile bilanciare il desiderio di limitare l’apporto calorico con gli impulsi a mangiare innescati dall’ambiente esterno; lo stress, infatti, è un fattore elicitante e che potrebbe innescare tali comportamenti (Petterson et al., 2016).

La gestazione potrebbe essere quindi un periodo di maggiore vulnerabilità. Per quanto riguarda l’emissione da parte dell’organismo dell’ormone cortisolo, sono stati osservati diversi modelli che mostrano gli effetti dell’emissione di tale ormone durante i ritmi circadiani della gravidanza (Siega-Riz et al., 2010). In particolare, sono stati riscontrati bassi livelli di cortisolo al mattino nelle donne con sintomatologia alimentare attiva durante la gravidanza, rispetto alle donne che si erano riprese da un disturbo alimentare prima della gravidanza e alle donne senza disturbo alimentare. Ogni sottotipo di disturbo alimentare presenta importanti complicazioni mediche. L’anoressia è associata a perdita di peso e malnutrizione, i comportamenti compensatori della bulimia portano a uno squilibrio idroelettrico e il disturbo da binge eating correla con l’obesità, sia durante la gravidanza che nel periodo post-partum, (Nunet et al., 2012).

È stata studiata la qualità dell’alimentazione (Stice et al., 2004) in uno studio che considera l’apporto dietetico durante la gravidanza di una popolazione di donne con e senza sintomatologia di disturbi alimentari (Nguyen, et al., 2017). È stato osservato che le madri affette da disturbo alimentare consumavano una quantità ridotta di carne, preferendo prodotti come soia e legumi, che nel pensiero comune hanno un apporto calorico minore rispetto alla carne rossa. La popolazione di donne con disturbi alimentari consuma minori quantità di burro, latte intero, zuccheri e grassi saturi. Per quanto riguarda l’assunzione di macronutrienti, è emerso un maggiore impegno e costanza nell’assunzione di cibi aventi le vitamine e i minerali necessari, rispetto alla popolazione non avente sintomatologia con disturbo alimentare. Infine, tra le donne con disturbo alimentare, è risultato più probabile l’uso di caffeina, circa >2500 mg di caffeina alla settimana (Nunes et al., 2010).

Il parent training. La gestione familiare dell’ADHD

Fornendo precise informazioni attraverso il parent training ai genitori del bambino con ADHD sulla natura del disturbo, le sue manifestazioni e le tecniche in grado di arginarle e migliorarle, si contribuisce alla creazione di un clima positivo, nel quale è possibile contenere i comportamenti disadattivi e problematici e rinforzare quelli positivi.

Il parent training nei casi di ADHD

 È fuor di dubbio che per le persone con disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder [ADHD]) l’approccio multimodale sia da preferirsi rispetto a interventi isolati e non collocati in una dimensione più ampia. Ciò vuol dire che ogni azione rivolta ai soggetti iperattivi dovrebbe coinvolgere tutti gli attori impegnati nella sua gestione (Marzocchi, 2011): gli insegnanti per quanto concerne l’ambito scolastico, la famiglia e le figure specialistiche di riferimento, senza escludere la possibilità di una integrazione psicofarmacologica, qualora vi siano oggettive necessità neuropsichiatriche accertate da uno specialista.

L’obiettivo finale del sostegno fornito alle persone con ADHD, che si realizza come sintesi di una molteplicità di interventi, è il loro benessere psicologico. Il benessere generale (non tanto, quindi, il successo formativo o altri scopi specifici) è quindi l’obiettivo in base al quale ogni intervento deve calibrarsi. È quindi opportuno organizzare consapevolmente tutti gli interventi e rendere edotti gli attori impegnati nella gestione della persona con ADHD della rete più ampia di cui fanno attivamente parte.

Il primo passaggio da seguire in ordine di importanza è certamente quello del parent training, vale a dire una formazione specifica della famiglia della persona con ADHD. Fornendo precise informazioni ai genitori del ragazzo iperattivo riguardo alla natura del disturbo, le sue manifestazioni e le tecniche in grado di arginarle e migliorarle, si contribuisce alla creazione di un clima positivo, nel quale è possibile contenere i comportamenti disadattivi e problematici e rinforzare i comportamenti positivi (cfr. Vio et al., 1999). Approcci scoordinati, non inquadrati in un’azione sinergica e strutturata non hanno la forza per produrre quei cambiamenti stabili e profondi necessari per consolidare uno stile comportamentale più adattivo e costruttivo.

Sono proprio i genitori (o i caregivers più impegnati con la persona destinataria dell’intervento) a dover potenziare, prima di ogni altra figura, la propria capacità emotiva. È quindi essenziale che capiscano, grazie ad una formazione specifica, quali atteggiamenti della persona con ADHD rientrano nell’orizzonte delle sue manifestazioni sintomatologiche e comportamentali, quali ne sono le cause e come è possibile intervenire in modo costruttivo. Questa formazione specifica ha anche il merito, tra le altre cose, di diradare la coltre di mistero che avvolge spesso i soggetti con ADHD, fornendo ai genitori gli strumenti indispensabili per comprendere che tutto ciò che concerne le manifestazioni disfunzionali del soggetto ha una precisa causa, anche quando le persone intorno a lui faticano ad individuarla. È dunque importante che la famiglia, grazie a questo ‘addestramento’, sia in grado, in primis, di prevenire i sintomi secondari dell’ADHD. Se l’ambiente intorno alla persona con iperattività non sviluppa la necessaria sensibilità, potrebbe rischiare di rinforzare i comportamenti disadattivi. Altro fattore di notevole importanza è il potenziamento dell’autostima: i continui rifiuti e i fallimenti sociali possono portare le persone con ADHD a perdere la fiducia in sé stessi. È importante lavorare affinché i cattivi risultati a livello sociale, scolastico, familiare o sportivo non portino a sentimenti di inadeguatezza tanto gravosi da distorcere in modo ancor più significativo l’immagine che loro hanno di se stessi, pregiudicando il consolidamento di una buona autostima. Bisogna quindi evitare che simili circostanze possano portare a conseguenze negative come la depressione o l’ansia reattive (Santandrea e Biondi, 2009).

Strategie preventive, correttive e rinforzanti

Sempre nell’ambito del parent training occorre inoltre mettere a fuoco due generi diversi di strategie: quelle cosiddette del “prima” e quelle, invece del “dopo” (cfr. Marzocchi e Bongarzone, 2019). Il primo tipo comprende tutte le strategie preventive e hanno lo scopo ben preciso di prevenire i comportamenti-problema della persona con ADHD. È importante, per prima cosa, realizzare un’adeguata igiene ambientale per disinnescare i comportamenti disadattivi e disfunzionali derivanti da scorrette e inadeguate stimolazioni ambientali (questo genere di strategie va adottato anche in ambiente scolastico).

È bene riuscire a ricreare anche delle routine abbastanza prevedibili in grado di favorire l’autoregolazione del comportamento e l’abbassamento del livello di ansia anticipatoria per compiti che potrebbero richiedere attenzione e impegno prolungati nel tempo. Bisogna quindi illustrare, con tono empatico e gentile, l’ordine delle attività, la loro durata, il grado di impegno richiesto e la scansione delle pause. Tutto ciò contribuirà ad abbassare la percezione di imprevedibilità e ingovernabilità contribuendo ad instaurare un positivo senso di controllo sulle proprie attività. Inoltre, una pianificazione accurata contribuirà a correggere i deficit di programmazione e organizzazione tipici dell’ADHD.

Le strategie del “dopo”, invece, vanno messe in atto dopo aver constatato se il soggetto è riuscito a raggiungere o meno i target prefissati. Esse possono essere strategie positive e rinforzanti qualora il soggetto sia riuscito a portare a termine il compito senza mettere in atto comportamenti disfunzionali, oppure strategie di recupero e correttive, qualora invece nell’esecuzione abbia incontrato problemi. Ciò che è importante tenere a mente è che ogni genere di intervento –preventivo, correttivo, rinforzante– non deve mai ridursi alla sterile logica del premio e della punizione. Ciò rischierebbe, infatti, di banalizzare tutto il percorso psico-pedagogico e rieducativo limitandolo ad atteggiamenti soltanto apparentemente costruttivi.

È invece importante che, per la persona con ADHD, ricompense e limitazioni si presentino come naturali conseguenze del suo comportamento per favorire la consapevolezza che il lavoro sul proprio comportamento, per quanto arduo, è importante ai fini di una ricca e soddisfacente vita relazionale.

È opportuno che la persona con ADHD acquisisca una certa padronanza di se stessa e delle proprie azioni raggiungendo una buona consapevolezza sul fatto che i risultati positivi e quelli negativi dipendono da lui e non da cause (più o meno fortuite) esterne. Tutti gli interventi realizzati dai genitori devono tenere sempre presente il temperamento del proprio figlio e considerare attentamente il fatto che ogni comportamento disfunzionale è solitamente costituito da tre fasi: gli antecedenti (o eventi scatenanti), il comportamento vero e proprio e ciò che da esso consegue. Di primaria importanza, però, è l’individuazione degli antecedenti perché è proprio sulle condizioni che possono elicitare atteggiamenti disfunzionali che si deve tempestivamente intervenire per evitare l’insorgenza dei comportamenti problematici (cfr. Santandrea e Biondi, 2009).

 È quindi davvero imprescindibile un’accurata osservazione del soggetto iperattivo –sia consentito affermare che per i genitori tale osservazione dovrà avere “occhiali nuovi”, cercando di essere più neutrale possibile– per individuare un numero limitato di comportamenti gravi e disadattivi sui quali si vuole intervenire. È importante poi comprendere le modalità di attivazione di questi comportamenti, la loro durata, la situazione ambientale e sociale nella quale si manifestano, ed è importante anche capire cosa veramente li ha preceduti. Lo stimolo elicitante potrebbe apparire casuale, ma forse si potrebbero scoprire dettagli nascosti (ambientali, personali, comunicativi e relazionali) sui quali è poi possibile agire per neutralizzare le condizioni di attivazione del comportamento problema.

L’osservazione e l’analisi dei fattori antecedenti non è ovviamente sufficiente. È necessario anche adottare alcune strategie per la fase centrale, quella del comportamento vero e proprio. Questo è un passaggio assai importante nell’economia complessiva degli interventi comportamentali sui soggetti con ADHD, che sovente non riescono a valutare varie alternative comportamentali in una precisa situazione. Ecco allora che prospettare un ventaglio di scelte più ampio al soggetto iperattivo diventa un passaggio fondamentale al fine di migliorare le capacità di ragionamento interno del soggetto. Durante la presentazione delle istruzioni e l’illustrazione delle possibili alternative è assai raccomandabile che il soggetto non venga messo in condizione di percepire una limitazione alla sua libertà di scelta e d’azione e non si senta vittima di una norma imposta dall’esterno. Al contrario il soggetto dovrà continuare a percepirsi come una persona libera, in grado di potersi autodeterminare scegliendo liberamente tra diverse opzioni comportamentali. Ad esempio, nella routine prima della cena è possibile presentare al bambino iperattivo una serie di attività come lo spegnimento delle luci della sua stanzetta, la chiusura della tv, il lavaggio delle mani, e poi fissare un tempo preciso per portare a termine queste azioni. Il bambino sarà così libero di scegliere come organizzare il tempo nelle fasi precedenti alla cena, avendo sì un limite di tempo, ma che sarà lui a gestire in piena autonomia.

La gestione dei compiti pomeridiani nel bambino con ADHD

In età scolare, un altro insieme di attività di fondamentale importanza è quello dei compiti pomeridiani. È quindi importante una sapiente e lungimirante gestione dei compiti, non dimenticando mai che il loro svolgimento chiama in causa lo sviluppo dell’autonomia del soggetto, delle sue capacità organizzative e attentive. Per questo motivo è essenziale che i genitori si domandino quando, dove e con chi far svolgere i compiti. Per quanto concerne la scelta del momento della giornata più idoneo il criterio che i genitori possono seguire è quello della massima disponibilità dell’attenzione del bambino. Non esistendo regole fisse e prestabilite, è importante che i genitori imparino a capire in quale momento della giornata l’attenzione del figlio sia massima e sfruttare quel momento per iniziare le attività di studio.

I compiti pomeridiani andrebbero svolti in un luogo della casa non troppo isolato, onde evitare che il bambino si senta tagliato fuori dalla vita familiare, ma neanche in un luogo altamente frequentato. L’ideale sarebbe la sua cameretta, ancor meglio se provvista di una scrivania ben ordinata con tutto il materiale didattico a disposizione e a portata di mano. L’affiancamento per i compiti, infine, va deciso sulla base di alcune considerazioni più precise che devono tener conto sia della relazione dei genitori con il figlio sia delle competenze genitoriali sulla natura dell’ADHD. In linea generale, è importante che i genitori o un tutor preposto alle attività di studio pomeridiano seguano le linee guida per l’intervento sul disturbo in questione, per esempio: mantenimento alto della motivazione e dell’attenzione, alternanza tra momenti di lavoro e momenti di decompressione, organizzazione condivisa e preliminare del tempo di lavoro e delle pause, pianificazione del lavoro pomeridiano e chiarificazione delle regole comportamentali.

Non bisogna infine sottovalutare un punto di estrema importanza per la presa in carico delle persone con ADHD: i comportamenti disfunzionali e problematici aumentano soprattutto nei momenti non strutturati. Per questa ragione è raccomandabile che la famiglia crei un planning settimanale inserendo tutte le attività giornaliere con orari stabiliti e che tale piano sia costruito proprio insieme al figlio, così da trasmettere un positivo senso di autoefficacia instaurando in lui la percezione di padronanza sulla scelta delle attività da svolgere (cfr. Marzocchi e Bongarzone, 2019).

 

Perfezionismo accademico e benessere psicologico, quale relazione?

Si evidenzia l’associazione tra perfezionismo e salute mentale dei giovani universitari, sottolineando l’importanza di prevenzione e supporto adeguato.

Gli effetti negativi del perfezionismo

 Il perfezionismo viene considerato generalmente, a livello sociale, un fattore positivo collegato a performance eccellenti e a successi sociali (OECD, 2022); infatti, in ambito accademico gli individui con alti livelli di perfezionismo sono risultati essere caratterizzati da meticolosità, persistenza, alta motivazione e buoni risultati accademici (Loscalzo et al., 2019).

Secondo una meta-analisi condotta nel 2019 (Curran & Hill), negli ultimi anni i livelli di perfezionismo tra i giovani sono aumentati e, nonostante gli aspetti positivi, studi condotti recentemente (Ko et al., 2020; Lee et al., 2020) hanno riscontrato anche effetti negativi e dati a cui prestare attenzione.

Infatti, alti livelli di perfezionismo, assieme al prefissarsi di standard eccessivamente elevati, aumentano le aspettative e le critiche su sé stessi, impattando sul benessere personale.

Il benessere psicologico/emotivo è collegato all’esperienza soggettiva degli individui e viene identificato attraverso sei principali dimensioni interconnesse (Ryff, 1995): l’accettazione del sé (ovvero una valutazione positiva di sé), le relazioni positive con gli altri (lo sviluppo di relazioni di qualità), l’autonomia (collegata al senso di auto-determinazione), la padronanza dell’ambiente (relativa al senso di capacità di gestione della propria vita), lo scopo nella vita ed il sentimento di crescita personale.

Alcune ricerche (Bell et al., 2010) hanno riportato esserci anche una relazione tra perfezionismo, sentimenti severi autocritici (paura di fallire e dubbi rispetto alle proprie capacità) e maggior propensione allo sviluppo di pensieri e comportamenti suicidari (O’Connor, 2007); rispetto a questa associazione però gli studi e le conferme risultano essere limitati.

Perfezionismo e benessere psicologico degli studenti

Per questo uno studio condotto nel 2022 (Fernández-García et al., 2022) ha avuto come scopo quello di analizzare il ruolo del perfezionismo rispetto al rendimento accademico ed al benessere psicologico su studenti universitari, valutando anche in che misura potesse essere associato all’ideazione suicidaria.

Dai risultati emerge un’associazione, indipendentemente dal genere, tra maggiori livelli di perfezionismo e rendimento accademico elevato; questo sembra essere collegato all’alta motivazione ed ambizione nel portare a termine compiti e lavori, cercando di tenere il controllo su sé stessi (Çapan, 2010). Infatti, lo studio riporta anche delle relazioni significative ed inverse tra perfezionismo e benessere personale sia nelle femmine che nei maschi, con una eccezione: per gli uomini la dimensione della crescita personale non è risultata correlare in questa direzione; questo potrebbe essere spiegato dal fatto che i ragazzi percepiscono i compiti per il raggiungimento di determinati obiettivi come attività utili alla propria crescita personale. Infatti, per quanto riguarda gli uomini, il rendimento scolastico si è mostrato essere associato a maggiore accettazione del sé, mentre per le donne questo dato non è emerso.

I risultati dello studio suggeriscono inoltre che, a differenza degli uomini, le donne che avevano riferito maggiori pensieri suicidari, riportavano anche maggiori livelli di perfezionismo. Questi studi (Kiamanesh et al., 2014) sostengono che il perfezionismo, essendo collegato ad elevati livelli di auto-criticità, può portare gli individui ad essere più propensi a comportamenti e pensieri disadattivi ed assolutistici, (come il “tutto o niente”, caratteristico anche del disturbo depressivo) che a loro volta sono collegati ad interpretazioni del fallimento catastrofiche ed alla presenza più frequente di pensieri suicidari. Data anche la propensione maggiore delle donne per i disturbi depressivi e ansiosi, il perfezionismo per loro potrebbe mostrarsi con più frequenza in maniera disadattiva (Rice et al., 2015).

Al di là delle differenze di genere, nello studio le variabili riportate come maggiormente relazionate al benessere psicologico risultano essere il rendimento scolastico ed il perfezionismo.

 Infatti, in presenza di quest’ultimo, gli individui con peggiori risultati accademici, sono risultati essere quelli con livelli di benessere più bassi, probabilmente per via della frustrazione. La letteratura rispetto a questo aspetto riferisce che obiettivi irrealistici e aspettative elevate contribuiscono all’insorgenza di sentimenti di disagio e di angoscia (Bell et al., 2010). Perciò, quando le prestazioni risultano essere inferiori, aumenta il divario tra ciò che si è ottenuto e le aspettative e con esso salgono i livelli di insoddisfazione per gli sforzi fatti ed i risultati ottenuti, impedendo il benessere personale (Kiamanesh et al., 2014).

Inoltre un’ulteriore analisi ha mostrato che le tipologie di studi intrapresi mostrano avere un ruolo rilevante; infatti nei percorsi meno impegnativi i livelli di perfezionismo elevati si sono visti essere collegati ad un buon livello di benessere psicologico, mentre in quelli più esigenti (come ad esempio, medicina), all’aumentare del perfezionismo il benessere psicologico diminuiva (Fernández-García et al., 2022).

Rispetto all’ideazione suicidaria gli autori sottolineano la significatività dei dati: circa un terzo dei partecipanti (31%) risulta aver avuto pensieri suicidari nel corso dell’ultimo anno.

In realtà i risultati confermano che la ricerca del successo ed il tentativo di raggiungere la perfezione, da soli, non possono essere collegati al suicidio; tuttavia, aggiungendo la propensione costante a confrontarsi rispetto ad obiettivi irraggiungibili, la paura di fallire e la mentalità rigida dicotomica, gli individui possono essere portati a sperimentare bassa autostima e/o sentimenti di inutilità, che possono portare a pensieri suicidari (Bell et al., 2010; Kiamanesh et al., 2014).

Considerazioni conclusive

In conclusione, questo studio (Fernández-García et al., 2022) contribuisce a mostrare le associazioni tra perfezionismo maladattivo, sempre più presente tra i giovani adulti e basso benessere psicologico, sottolineandone anche le differenze di genere. Inoltre, riportandone le associazioni con l’ideazione suicidaria, questi risultati pongono luce sulla necessità di sviluppare nuovi programmi di prevenzione, mirati al trattamento del perfezionismo disadattivo, suggerendo anche il bisogno di nuovi sistemi accademici che tengano conto del burnout, a cui spesso i giovani futuri professionisti devono andare incontro.

L’abuso intrafamiliare, parafamiliare ed extrafamiliare

L’approccio di matrice sistemico relazionale cerca di cogliere ed utilizzare la complessità dei casi di abuso, attraverso il rifiuto di un’ottica criminalizzante e parziale.

 

…Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro. Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo….(Tolstoj, Incipit Anna Karenina)

L’abuso e il rapporto tra bambino e abusante

 A seconda del rapporto esistente tra il bambino e l’abusante, l’abuso può suddividersi in:

  • Intrafamiliare, quando attuato dai membri della famiglia nucleare o allargata;
  • Parafamiliare, quando attuato da persone conosciute dal minore, comprese quelle a cui è affidato per ragioni di cura o educazione;
  • Extrafamiliare, se l’abusante è una figura estranea alla famiglia ed al minore.

Dalle stime (Terragni, 1997) si evince che sono pochissimi i bambini abusati da sconosciuti: circa 1 su 50. La maggior parte degli autori sono persone conosciute dalla vittima come parenti, amici di famiglia, conoscenti, insegnanti. Dalla letteratura (Terragni, 1997) si evince come il reato di violenza sessuale sia commesso prevalentemente all’interno della famiglia (39,7%) soprattutto tra genitore e figlio (30,9%).

Terragni (1997) descrive questo tipo di fenomeno come una violenza ripetuta a lungo nel tempo, che non necessita di mezzi di costrizione per realizzarsi: i rapporti di potere e di dipendenza che caratterizzano le relazioni familiari fanno sì che non sia necessario l’uso della forza fisica. La violenza perpetrata è grave, tanto più se si pensa che le vittime di questa violenza sono bambini o adolescenti. La sua incidenza è mediamente pari al 20% (Terragni, 1997).

L’approccio sistemico relazionale nei casi di abuso

L’approccio di matrice sistemico relazionale cerca di cogliere ed utilizzare il piano della complessità del problema, attraverso il rifiuto di un’ottica criminalizzante e parziale.

Secondo questo approccio, affrontare il problema degli abusi intrafamiliari comporta necessariamente analizzare i piani collusivi che coinvolgono l’intero sistema e fare attenzione alle dinamiche, in termini di “moduli familiari disfunzionali”, ai livelli di significato impliciti ed espliciti che l’abuso assume a livello relazionale, ai “bisogni” ed ai “vissuti” che coinvolgono anche gli autori, oltre che le vittime, fermo restando la responsabilità giuridica e sociale dell’autore del reato (Dèttore e Fuligni, 1990).

Dèttore e Fuligni (1990) individuano due tipi di famiglie che utilizzano l’abuso con finalità diverse.

  • Famiglie in cui l’abuso è funzionale ad evitare situazioni conflittuali tra i genitori, ed in cui la madre stabilisce le norme delle relazioni affettive ed il linguaggio da utilizzare in merito a questioni psicologiche e sessuali. In questi contesti la madre è emotivamente distante dai figli e la rivelazione dell’abuso di solito cade nel vuoto.
  • Famiglie in cui l’abuso è funzionale a tenere sotto controllo il conflitto, ed in cui la madre è carente per ciò che concerne il sostegno affettivo e concreto, diviene “pari” dei figli e può succedere che un figlio prenda il suo ruolo. In seguito ad un conflitto il figlio viene “sacrificato” per evitare la disgregazione del nucleo familiare. Le madri sono rigide e distanti ed hanno un rapporto ostile e competitivo con le figlie.

 Interessante, a tal proposito, è la teoria di matrice sistemico-familiare secondo cui la violenza intrafamiliare può essere intesa come una difettosa ed improduttiva modalità di comunicazione stabilita all’interno di un sistema in cui ciascun membro si trova ad assumere un ruolo attivo che contribuisce all’instaurarsi ed al cristallizzarsi di una modalità relazionale che privilegia comportamenti aggressivi (Cirillo, 1986).

Una caratteristica, sottolineata in precedenza, è quella che l’abuso intrafamiliare si sviluppa in un arco di tempo dilatato, attraverso varie fasi, prima di arrivare all’abuso sessuale vero e proprio.

Le fasi che portano all’abuso

Un modello di comprensione delle dinamiche che conducono all’abuso è lo schema di Sgroi, Blink e Porter, secondo il quale possono essere sintetizzate le fasi tipiche riscontrabili in tutti i casi di abuso intrafamiliare.

  • Fase dell’adescamento: l’autore cerca un rapporto privilegiato con la vittima.
  • Fase dell’interazione sessuale: escalation del comportamento sessuale.
  • Fase del segreto: l’autore impone l’omertà sulla vittima attraverso forme di violenza psicologica, connessa alla presenza di vantaggi secondari.
  • Fase di svelamento: può avvenire in modo accidentale o per rivelazione della vittima. Mentre l’autore del reato nega, le reazioni degli altri familiari possono essere le più disparate.
  • Fase della soppressione: ci può essere un tentativo da parte di tutti o di alcuni membri della famiglia di “cancellare” la verità per tornare allo stato precedente di equilibrio familiare.

Per affrontare la complessità del tema dell’abuso sia intra familiare che extrafamiliare non basta “semplicemente giustapporre frammenti di saperi diversi, occorre trovare il modo per farli interagire all’interno di una nuova prospettiva; la realtà dell’individuo è complessa e piena di contraddizioni che sono una vera sfida alla conoscenza.” (Gambaro, 2008)

Spesso il male di ridere ho incontrato – Le variabili che scatenano la risata e i benefici dell’umorismo

Gli studiosi hanno proposto svariate teorie dell’umorismo per identificare l’insieme di condizioni o caratteristiche psicologiche che scatenano la risata, il divertimento e la percezione che qualcosa sia divertente.

L’umorismo

 La risata è un fenomeno universale. Si verifica in tutte le culture e in un’ampia gamma di situazioni: anche se le persone parlano lingue diverse, ridono più o meno nella stessa maniera (Sauter et al., 2010). L’umorismo offre una serie di benefici fisiologici, psicologici, sociali ed economici. Sperimentare l’umorismo aumenta le emozioni positive e attenua l’intensità percepita degli eventi negativi della vita, aiuta le persone a gestire lo stress e l’ansia, rende più piacevoli le attività quotidiane, migliora la creatività e la salute mentale e aiuta a gestire le relazioni (Martin & Ford, 2018). In egual modo, le persone che sono brave a far ridere gli altri hanno più facilità ad attrarre partner romantici, a fare buona impressione e a gestire interazioni sociali potenzialmente conflittuali (Kurtzberg et al., 2009). Tuttavia, comunicare con umorismo può essere difficile poiché a volte le persone che cercano di essere divertenti, ma non ci riescono, vengono percepite come incompetenti, insensibili o entrambe le cose (Bitterly et al., 2017): la comicità fallimentare tende a suscitare disgusto, rabbia e disapprovazione (Warren et al., 2018).

Gli studiosi hanno proposto più di venti teorie dell’umorismo per cercare di spiegare la variabilità di stimoli, contesti e pubblico che fa sì che qualcosa venga percepito come divertente. Queste teorie cercano di identificare un insieme di condizioni o caratteristiche psicologiche che scatenano la risata, il divertimento e la percezione che qualcosa sia divertente. La revisione di Warren et al., (2020) ha identificato tre condizioni che sembrano innescare la risata e il divertimento: la simultaneità, la violazione della norma e la valutazione benevola.

La simultaneità

Con simultaneità si intende la compresenza di percezioni, interpretazioni o idee contrastanti nello stesso momento. I linguisti hanno studiato l’umorismo decodificando le caratteristiche strutturali delle barzellette, tra cui la situazione in cui si svolge la barzelletta, i personaggi coinvolti, le parole specifiche usate per raccontarla e la presenza di due copioni normalmente incompatibili (Gabora & Kitto, 2017). Gli studi sulle coppie di parole suggeriscono analogamente che gli stimoli associati a idee incompatibili hanno maggiori probabilità di evocare l’apprezzamento dell’umorismo. Le coppie di parole che combinano concetti con significati meno compatibili (ad esempio, “poeta sexy”) sono state giudicate più divertenti di quelle che combinano concetti con significati più compatibili (ad esempio, “bambino felice”). Parimenti, le persone hanno più facilità a produrre comicità confrontando parole che evocano argomenti diversi (ad esempio, denaro e sesso) che confrontando parole che evocano argomenti simili (ad esempio, amore e sesso) (Hillson & Martin, 1994).

La violazione della norma

 La violazione della norma è definita come qualsiasi cosa che minacci in modo soggettivo la struttura di credenze normative di una persona (Warren & McGraw, 2016). Gli esseri umani hanno un complesso sistema di credenze sulla loro posizione nella società e su come gli altri li vedono; su come le persone dovrebbero comportarsi e interagire tra loro; su come le persone dovrebbero comunicare e su come le cose funzionano e si adattano le une alle altre. In termini di riferimenti normativi, la “minaccia” in una violazione può essere piuttosto lieve, come la rottura di una convenzione linguistica per creare un gioco di parole o una pausa imbarazzante durante una conversazione. I dati provenienti da una serie di studi suggeriscono che le persone apprezzano l’umorismo in risposta a una serie di stimoli inerenti la violazione delle norme. Tendono a pensare che le barzellette siano più divertenti quando includono temi tabù come il sesso e la violenza, oppure insulti, imprecazioni, parti del corpo o funzioni corporee (Westbury & Hollis, 2019).

La valutazione benevola

Una valutazione benevola si riferisce alla percezione soggettiva che qualcosa sia ragionevole, accettabile, innocuo. I ricercatori sostengono che le emozioni positive necessitano una valutazione benevola per emergere (Fredrickson, 1998). Dato che l’apprezzamento dell’umorismo implica la sensazione positiva del divertimento, ne consegue che viene sperimentato solo quando le persone valutano uno stimolo o una situazione come innocui, accettabili, ragionevoli o comunque corretti.

Conclusioni

La suddetta rassegna suggerisce tre condizioni antecedenti che aiutano a prevedere e spiegare l’umorismo. La ricerca futura potrebbe continuare a sviluppare delle modalità per misurare e manipolare queste variabili al fine di costruire strumenti precisi, accurati e utili per aiutare le persone a produrre comicità e ad apprezzare l’umorismo.

 

Il rischio di suicidio (2022) di Maurizio Pompili – Recensione

Il suicidio, scrive Pompili nel libro “Il rischio di suicidio”, va inteso non tanto come “desiderio di morte”, quanto come soluzione specifica di cessazione del proprio stato di coscienza e, pertanto, interruzione di un dolore mentale insopportabile.

 L’autore prende in considerazione varie prospettive inerenti lo studio delle dinamiche suicidarie, soffermandosi sulla psicodinamica, accennando ad approcci filosofici, sociologici, giuridici e a come questi approcci si interconnettano e forniscano risorse molto utili nella valutazione e formulazione del rischio di suicidio.

Da un punto di vista psicodinamico, Pompili (2022), fa spesso riferimento a Shneidemen e alla concettualizzazione proposta da questo autore. Ciò che caratterizza il suo approccio, è l’attenzione che viene posta sugli “stati mentali” e sul presupposto che il dolore mentale sia alla base del fenomeno suicidario. L’autore fa riferimento ad un dolore mentale intollerabile, ad un tale livello di “angoscia esistenziale”, che spinge il soggetto a sentirsi “costretto” e “ristretto” in una “visione a tunnel”. Si va quindi gradualmente sedimentandosi e irrigidendosi la convinzione che vi siano davvero poche opzioni per far fronte alla sofferenza sperimentata. Secondo Charmet (2009), la “fantasia suicidaria” viene lentamente coltivata nel tempo e rappresenta un “segreto” che può essere custodito con molta cura per anni, con la relativa convinzione, rinforzata da ostacoli evolutivi percepiti come “insormontabili”, che la morte possa offrire più possibilità realizzative della vita, che si possa finalmente trionfare su “stati mentali” rigidi e coatti di rabbia impotente, umiliazione, intrappolamento, sconfitta, sentimenti di inaiutabilità da parte degli altri e “inaccessibilità” ad un mondo vissuto come un “muro”, ad un “altro” vissuto come ostile e rifiutante, ad un corpo sentito come “una prigione”.

Pompili (2022) sostiene come questi individui percepiscano che la propria vita sia ingiusta rispetto a quella di altre persone e quanto sia prevalente la fantasia, derivante da un sentimento di vendetta (come se dicessero a se stessi: “Che faccia faranno adesso?”), che sarà possibile osservare l’angoscia di coloro che vedranno il corpo esanime. Alla base del sentimento centrale di soggetti a rischio di suicidio vi è “un odio per se stessi”, una mente dominata da “ideali dell’io crudeli, sadici” che lo spingono a sentirsi “inadeguato”, “in difetto”, con un senso di “incolmabilità” rispetto a “come si dovrebbe essere”, ad aspettative irrealistiche su di sé. C’è una forma di fanatismo in questo, un bisogno di vendetta su sentimenti di “offesa”, “ingiustizia” costantemente sperimentati. L’aggressività non è integrata con gli obiettivi maturi dell’io ma, al contrario, vi è un accanimento al servizio di un “sé grandioso ed arcaico”, che non trova pace finché non ha scovato e cancellato il nemico. Vuole uccidere i carcerieri per ottenere la libertà. Il nemico è interno, vi è quindi un “attacco al corpo”, ad un’immagine di sé inadeguata rispetto ad una grandiosità irremovibile insaziabile. La vergogna è un altro sentimento centrale. Lancini (2020), nella propria esperienza, come psicoterapeuta, con gli adolescenti, riporta quanto sia preponderante il senso di inadeguatezza, quanto la vitalità del corpo sia pericolosa per loro, una vitalità che porta con sé il rischio che si sentano esposti ad un fallimento senza gli spazi potenziali e riparativi forniti da “comunità educative”. Un conto infatti è il corpo idealizzato, un conto è il corpo evolutivo, vulnerabile, esposto al costante cambiamento.

Il suicidio, scrive Pompili, va inteso non tanto come “desiderio di morte”, quanto come soluzione specifica (dettata da una modalità prevalente di pensiero dicotomico) di cessazione del proprio stato di coscienza e, pertanto, interruzione di un dolore mentale insopportabile (Pompili, 2022, p.161).

Altro importante aspetto argomentato da Pompili (2022), è rappresentato dalla “valutazione e formulazione” del rischio di suicidio. La valutazione del rischio comporta la raccolta di dati riguardanti la presenza e/o l’assenza di fattori di rischio e di protezione, ma anche di segnali di allarme. La formulazione del rischio, invece si fonda sulle modalità in cui i fattori di rischio si combinano tra loro, si alimentano o vengono arginate dai fattori di protezione e, in questo, l’individuazione dei segnali di allarme che aumentano il rischio a breve termine. Tra i fattori di rischio, si possono annoverare quelli distali, cronici o anche detti duraturi (come, ad esempio, eventi infantili avversi, l’esordio o il peggioramento di un disturbo psichiatrico) e quelli prossimali, presenti nel breve termine e che possono notevolmente incidere sul livello di sofferenza dell’individuo (più facilmente riconducibili, in termini di spazio e di tempo, al suicidio, come vissuti di umiliazione, perdite significative, vergogna dovuta a situazioni di grande impatto emotivo). Per esempio, la presenza di ansia, agitazione, insonnia, e sentimenti di disperazione, originati da situazioni presenti avverse, rappresenta un fattore di rischio prossimale che, se mal gestito, può rivelarsi pericoloso in soggetti con fattori di rischio distali (personalità perfezionistiche improntate ad una maggiore rigidità e sensibilità a rifiuti e potenziali sconfitte sono senza dubbio foriere di maggiori criticità). I fattori di protezione sono invece rappresentati dalla presenza di un valido sostegno familiare, dalla percezione di una “base sicura” nelle relazioni significative, da attività creative e ricreative che possano facilitare la presenza di aree intermedie di esperienza tra il mondo interno e l’esterno e quindi favorire l’espressione di sé.

In tutto questo, è importante esplorare come si manifesta l’ideazione suicidaria attuale e quindi come si concretizza il desiderio di morire nel “qui ed ora”, come si esplicita rispetto al passato, e se è accompagnata da un’intenzione suicidaria. Nell’intenzione suicidaria, il soggetto ha già provveduto ad organizzare alcuni particolari relativi al “piano di suicidio”. Pompili (2022), scrive: “È importante esplorare e indagare qualsiasi atto preparatorio compiuto dal paziente, come sistemare i propri affari, fare ricerche sui metodi di suicidio, oppure fare prove su come compiere l’atto”. Possono risultare inoltre utili i segnali di allarme che, al contrario dei fattori di rischio, sono episodici e variabili (comportamenti preparatori, pensieri, cambiamenti di umore repentini, ansia, agitazione, insonnia), che, se contestualizzati e interconnessi in una formulazione accurata, possono costituire ulteriori validi elementi nel valutare la “concretizzazione del desiderio di morire”.

 Altro aspetto trattato riguarda il tema della “responsabilità del clinico”. In particolare, Pompili (2022) rimanda ad una dimensione che allenti il potere dato a credenze “salvifiche e onnipotenti”, in cui il clinico possa leggere nella mente del paziente suicida, che alimentano modelli accusatori nei confronti del clinico e deresponsabilizzanti nei confronti del paziente, concepito come un individuo totalmente dipendente dal medico. I survivors (ovvero familiari o relazioni intime del paziente deceduto), alle prese con sentimenti di vergogna, colpa, impotenza, possono attuare meccanismi di proiezione e spostamento della colpa all’esterno del proprio contesto. In particolare, Pompili (2022) fa riferimento all’importanza del coinvolgimento e accoglienza della famiglia durante il percorso terapeutico e anche dopo l’eventuale decesso del paziente. L’inclusione della famiglia e l’alleanza con il nucleo familiare del paziente rappresenta un’importante risorsa, in quanto stimola la collaborazione, la responsabilità verso se stessi e verso l’altro e, nondimeno, viene incoraggiato un movimento di legittimazione verso le percezioni reciproche. In caso di decesso del paziente, sentimenti di tradimento da parte sia del terapeuta, sia della famiglia, possono essere molto intensi. Il terapeuta, spinto da un forte “senso di inadeguatezza”, dalla rabbia verso se stesso, dalla convinzione di “non aver fatto abbastanza”, potrebbe pertanto mettere in atto meccanismi di evitamento-fuga, lasciando la famiglia sola, abbandonata, spingendo inconsapevolmente quest’ultima ad ulteriori acting-out controfobici con azioni legali di rivalsa.

A tutela della cornice terapeutica, dell’efficacia della stessa e della responsabilità del terapeuta, è importante che egli segua i principi indicati nello “standard of care” menzionato all’interno del testo. Tra questi vi è l’importanza di una documentazione clinica accurata, delle linee guida per la valutazione e la formulazione del rischio, del consenso informato, e, in questo, della valutazione dell’integrità delle funzioni cognitive, di orientamento spazio-temporale e dello stato di coscienza del paziente, che consentano quindi a quest’ultimo di poter collaborare e, nondimeno, comprendere gli elementi salienti del consenso.

Altra dimensione abbracciata dall’autore è quella dei sentimenti controtransferali del terapeuta nei confronti di pazienti a rischio suicidario. Si è parlato della centralità del sentimento dell’odio verso se stessi nel vissuto di questi soggetti, e quanto ciò alimenti una “visione a tunnel” con la concomitante percezione di “intrappolamento”. La condizione quasi magica di “inaiutabilità” in cui il soggetto si pone esprime nondimeno l’impotenza derivante da quelli che da lui vengono percepiti come ostacoli insormontabili nel mondo esterno. Odio che può essere rivolto verso il terapeuta e verso le relazioni significative. Il paziente inoltre può esercitare una pressione interpersonale più o meno coercitiva e manipolatoria, affinché l’odio che sente verso se stesso e verso gli altri venga introiettato dal terapeuta e agito (attraverso il meccanismo dell’identificazione proiettiva). Il terapeuta può avere reazioni controtransferali, in cui si sente insicuro, inadeguato nel tipo di aiuto che sta fornendo, può perdere l’autostima e, di conseguenza, agire ciò che viene negato dal paziente stesso, l’inimicizia verso se stesso. Il terapeuta può oscillare da una posizione salvifica, in cui si sente spinto a fare sempre di più per il paziente, spinto da irrequietezza, ansia, a stati di noia e sonnolenza. Può arrivare ad agire, ad es. attraverso sbadigli, segni di disattenzione che comunicano rifiuto e alimentano ulteriori comportamenti di fuga. Il terapeuta, attraverso il meccanismo della formazione reattiva, può anche trasformare l’odio nel suo opposto, trovandosi pertanto spinto in un circolo di fantasie salvifiche-onnipotenti. Nel testo, viene menzionata la tecnica di Galynker, che invita a porsi domande dirette rispetto ad emozioni e comportamenti del terapeuta e del clinico. Per esempio “Lo vedo più frequentemente e per sedute più lunghe rispetto ad altri pazienti?”; “ Mi fa sentire bene con me stesso?” (Pompili, 2022, p.136). Queste ed altre domande indicate nel testo, suggeriscono la presenza della “formazione reattiva”. Altre domande, invece, suggeriscono che sia in atto la difesa della negazione come ad esempio: “Rispondo alle sue domande meno tempestivamente di quanto dovrei?”; “Mi sento con le mani legate?”; “Mi sento svalutato?”( Pompili, 2022, p.136).

La cornice supportiva di riferimento per uno psicoterapeuta che lavora con pazienti a rischio di suicidio è quindi, come già accennato, attenersi alle linee guida per lo “standard of care” e, elemento non meno importante, l’accompagnamento di un supervisore senior. La presenza di quest’ultimo è nondimeno importante nelle fasi post-intervento, e quindi anche nei casi in cui il paziente sia deceduto. Pompili (2022) scrive: “Il paziente mette alla prova e sfida il clinico circa la sua capacità e disponibilità. Solo l’atteggiamento accogliente del terapeuta verso il paziente e verso se stesso, attraverso un’empatia che comprenda i tre tipi descritti in appendice (empatia affettiva, cognitiva e motivazionale), favorisce l’inizio di una conversazione: “Permettimi di capire meglio la tua sofferenza, al fine di ridurla”“(Pompili, 2022, p.169).

La psicoanalisi di Sigmund Freud

La Psicoanalisi di Sigmund Freud nasce come un metodo per la comprensione e la cura psicologica delle nevrosi per poi estendersi ad una teoria del funzionamento psichico normale e psicopatologico. 

 

 La cura psicoanalitica di Sigmund Freud non è diretta a tutti i tipi di disturbi mentali (per esempio le psicosi, secondo Freud, non sono curabili attraverso il trattamento Psicoanalitico). I disturbi curabili attraverso il trattamento Psicoanalitico sono le psiconevrosi, composte da isterie, fobie, nevrosi ossessive e anomalie del carattere (che oggi chiameremmo disturbi di personalità), cioè disturbi che hanno come causa e fattore di mantenimento il conflitto interno e questo deriverebbe secondo la psicoanalisi freudiana da desideri sessuali infantili rimossi.

La psicoanalisi di Sigmund Freud si propone quattro obiettivi fondamentali:

  • ridurre la sofferenza del paziente, cioè migliorare la qualità della sua vita. Il trattamento Psicoanalitico non è rivolto alla cura diretta del sintomo, ma si propone di promuovere un cambiamento strutturale e radicale della personalità. Solo attraverso un cambiamento sostanziale della personalità è possibile rendere il paziente più autonomo nel controllo di sé stesso, meno vulnerabile al rischio di ricadute e se non ci saranno ricadute allora il paziente può dirsi guarito. Il cambiamento sostanziale della personalità a sua volta ha l’obiettivo di rendere il paziente meno vulnerabile a possibili ricadute.
  • rendere conscio l’inconscio, cioè permettere la scarica dell’affetto incapsulato attraverso il processo di correzione associativa. Uno dei concetti con cui Freud si distingue dai suoi precursori è il fatto che le idee inconsce (contenuti psichici isolati dalla coscienza e non integrati nella personalità) siano accompagnati da un ammontare di affetto (affetto incapsulato) che con essi rimane isolato. La scarica dell’affetto porta ad una riduzione dell’angoscia perché attraverso la correzione associativa integriamo i contenuti psichici isolati dalla coscienza col resto della personalità, li inquadriamo in una prospettiva più ampia, ne ridimensioniamo la valenza emotiva negativa. Per Freud rendere conscio l’inconscio significa svelare e portare alla coscienza un contenuto psichico preesistente ben definito. La scarica dell’ammontare affettivo avviene attraverso l’associazione ideativa, cioè idee associative che collegano un’esperienza ad altri contenuti mentali.
  • “dove era l’Es deve subentrare l’Io”, cioè dove erano costrizione e compulsione devono subentrare controllo e autonomia. Un trattamento Psicoanalitico può dirsi riuscito se almeno in parte sostituisce l’esperienza cronica di costrizione e compulsione con una sensazione di maggior autonomia e possibilità di scelta. Secondo Freud, il trattamento Psicoanalitico si propone di rafforzare e potenziare le difese dell’Io affinché possa armonizzare e modulare la relazione tra le istanze psichiche dell’Es e del Super Io in maniera realistica e adattiva. Le difese dell’Io difatti devono agire non solo per ridurre le pressioni del Super Io ma anche per rendere realistici e accettabili gli obiettivi dell’Es. Più l’io funziona bene più le difese sono forti e funzionali e più l’individuo avrà un buono stato di salute mentale. L’uomo sano è un uomo particolarmente adattato alla vita reale, capace di controllo, autonomia e libertà di scelta, che riesce a controllare le sue istanze psichiche, ha in particolare delle difese e un Io particolarmente funzionale. La salute mentale, per Freud, è definita da una relativa soddisfazione in amore e nel lavoro.
  • mitigare la severità del Super Io: spesso il problema del paziente nevrotico non consiste nell’essere facilmente sopraffatto dall’aggressività e dalle passioni associate ai desideri infantili quanto piuttosto nell’essere sistematicamente perseguito dai sensi di colpa e dall’angoscia relativi a desideri sessuali e aggressivi che possono essere interpretati come normali e che hanno a che fare con comuni desideri di assertività, competitività e ambizione. I suoi pazienti, difatti, avevano un Super Io molto marcato e rigido, cioè un forte senso morale, e uno degli obiettivi fondamentali è mitigare la severità del Super Io.

Riassumendo

Gli obiettivi della cura Psicoanalitica di Sigmund Freud sono quindi:

  • ridurre la sofferenza del paziente
  • rafforzare l’Io promuovendo autonomia e controllo
  • rendere conscio l’inconscio
  • scaricare l’affetto incapsulato riducendo l’angoscia
  • permettere il processo di correzione associativa e l’integrazione dei contenuti psichici isolati dalla coscienza
  • mitigare la severità del Super Io
  • promuovere attraverso l’interpretazione del transfert l’insight, la comprensione e la presa di coscienza nel paziente

Perché tre società diverse di terapia cognitivo-comportamentale? – Risposta di Antonio Semerari a Giovanni M. Ruggiero

Antonio Semerari risponde a Giovanni Maria Ruggiero nel dibattito sulle circostanze pratiche e concrete che hanno portato all’esistenza di più società di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Caro Giovanni,

il mio invito alla discussione ha suscitato così poco interesse che sono stato tentato di lasciar perdere e rispondere alla tua cortese risposta con una chiacchierata in un bar, tanto poco le ragioni per cui esistono tre scuole di psicoterapia cognitiva sembrano interessare i colleghi delle due società. Ma, francamente, mi sembra scortese nei tuoi confronti e nei confronti dei pochi intervenuti lasciar cadere il tutto senza una risposta. Mi limiterò, però, ad affrontare quello che mi sembra il punto centrale della tua argomentazione, quello secondo cui alla base della scelta di dividersi vi sarebbe, in sostanza, la contrapposizione tra modello contestuale-relazionale e modello medico basato sui protocolli tecnici. Tralascio invece la questione da te sollevata della formazione permanente, obbligatoria del resto per la legge italiana, in quanto mi pare che il problema sia più l’abuso speculativo che se ne fa piuttosto che la sua assenza. Tralascio anche la tua ricostruzione storica che, francamente, mi sembra a dir poco riduttiva. Ma capisco che i limiti di spazio costringono a semplificazioni in cui, inevitabilmente, cadrei anch’io nel risponderti.

Ciò che ti sembra dominante nella SITCC è comunque una deriva verso un modello contestuale-relazionale contrapposto ad un modello basato su tecniche, protocolli e ricerche di efficacia. Dunque l’alternativa essenziale sarebbe questa: importanza alla relazione, con relativa ricerca sul processo o importanza alle tecniche con relativa ricerca di efficacia?

È evidente che non posso essere d’accordo con una simile alternativa. Come ben sai, vista la fatica che ti sei inflitto per recensirlo e di cui ti sono grato, ho appena scritto un libro in cui passo in rassegna tutta la storia della relazione terapeutica. Allo stesso tempo ti do una notizia. È stato appena accettato un RCT che dimostra l’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale (MIT) nel trattamento del disturbo borderline così che la MIT sarà la prima psicoterapia fatta in Italia ad entrare ufficialmente nell’elenco delle terapie evidence based. Mi pare ovvio che per me entrambi i corni del dilemma sono sbagliati e vorrei spiegarti perché.

Cominciamo dal modello relazionale-contestuale. Questo modello si pone in contrapposizione al modello medico (quello degli RCT) e assume che l’efficacia della psicoterapia risiede in un contesto culturalmente accettato per la cura dei disagi psicologici e una relazione basata sulla fiducia, sull’alleanza e sull’effetto benefico di una reazione reale (Wampold e Imel,2015). L’elemento di contesto e di fiducia determinerebbero una sorta di effetto placebo presente, del resto, anche in medicina. Questi elementi, contesto e relazione, sono “aspecifici” nel senso che non riguardano un particolare tipo di psicoterapia, e indipendenti dalle tecniche specifiche di un particolare trattamento. A riprova di ciò i sostenitori portano una sostanziale parità tra le diverse psicoterapie negli studi di efficacia (verdetto del Dodo). Se l’efficacia di una terapia dipendesse dalle tecniche specifiche, argomentano, allora dovrebbero esserci risultati diversi tra le diverse terapie, ma, siccome, secondo loro, questi diversi risultati non ci sono, allora l’efficacia non può che dipendere dai fattori aspecifici contestuali-relazionali.

Per la verità l’equipollenza dei risultati non falsificherebbe affatto un modello medico. In medicina esistono molti esempi di terapie diverse (vedi ad esempio le cure per l’ipertensione) condotte con farmaci diversi che ottengono risultati analoghi agendo su punti diversi della catena patogenetica dei disturbi. In realtà è vero il reciproco, che una differenza nei risultati falsificherebbe totalmente il modello contestuale. Per questo per i sostenitori del modello contestuale-relazionale è necessario negare differenze di efficacia tra le diverse terapie. La discussione, come sai, si è svolta essenzialmente sulle interpretazioni delle metanalisi per stabilire se c’è o non c’è il verdetto di Dodo. A mio parere una differenza a favore della psicoterapia cognitiva, soprattutto nel trattamento dei disturbi d’ansia si evidenzia anche se di poco. In ogni caso la terapia cognitiva o vince o pareggia, quasi mai perde. Ma non è questo il punto di cui voglio parlare. Il modello relazionale-contestuale sarebbe sbagliato indipendentemente da questa controversia per almeno tre ragioni.

  • 1) Assumere che i fattori relazionali sono “aspecifici” e contrapporli ai fattori tecnici è sbagliato per due motivi: 1a) il tipo di relazione che si determina non è “aspecifico”, nel senso di analogo in ogni contesto terapeutico, ma è fortemente dipendente dal tipo di psicopatologia che si incontra. Solo per i pazienti che non presentano disturbi nella relazione i fattori relazionali tendono alla “aspecificità”. In alcuni casi la gestione della relazione è l’aspetto più difficile della terapia e da questo discende che 1b) la gestione della relazione richiede una disciplina tecnica molto complessa presente, peraltro, in tutti i manuali che si occupano di pazienti gravi. Come sai, nel mio libro sulla relazione, ho cercato di mostrare come esistono moltissime e, spesso, sofisticate teorie della tecnica riferita alla relazione. In parole povere, gestire la relazione richiede principi tecnici senza i quali molte terapie andrebbero incontro ad un disastro.
  • 2) I fattori relazionali-contestuali agirebbero in modo benefico e aspecifico su qualunque disturbo. In questo modo esisterebbe una terapia miracolosa e generica che come certi elisir curerebbero altrettanto bene pellagra, scorbuto e covid 19. Si tratta di un ritorno al mesmerismo (non a caso citato con simpatia da Walpole e Imel) per cui esisterebbe una sola malattia e un solo rimedio.
  • 3) L’identità delle diverse terapie consisterebbe nelle tecniche “specifiche” da loro adottate. Con questo criterio la medicina si dividerebbe tra chi usa gli antibiotici, chi usa gli antinfiammatori, chi usa i chemioterapici ecc. Quest’ultimo punto mi permette di arrivare all’errore di parte opposta nel quale mi sembra proprio che tu sia caduto.

Accettando la propaganda degli altri sembri credere che l’identità di una psicoterapia sia data dalle “tecniche specifiche” più o meno come se un medico dicesse “Io sono un antibiotista”. Ma se uno usa gli antibiotici lo fa perché ha un modello del disturbo in testa, ed è il modello del disturbo che rende razionale l’uso di certe metodiche invece di altre. Le metodiche in sé non hanno razionalità più di quanto ne abbiano zappe, forconi o forbici, strumenti che hanno un senso solo rispetto allo scopo per cui vengono usati. Questa idea è chiarissima nel cognitivismo classico. Beck e col. non fecero un generico manuale di terapia cognitiva ma un manuale di terapia cognitiva della “depressione”. E questo solo dopo che avevano studiato per anni questo disturbo. La differenza col primo manuale di psicodinamica (Luborsky) sta proprio qui. Quest’ultimo era un generico manuale di psicoterapia psicoanalitica non un manuale per un disturbo specifico. La terapia cognitiva ha mantenuto fino ad oggi questa tradizione di trattamenti che partano da modelli cognitivi di specifici disturbi. Se i modelli hanno una loro validità, le procedure di trattamento derivate potranno essere molteplici, ma è molto probabile che facciano qualcosa di utile. Purtroppo con la terza onda questo sano buon senso clinico si va smarrendo.

 Da tutto il tuo discorso emerge un’ingenua identificazione tra psicoterapia scientifica e ricerche di efficacia. Ho premesso la notizia del RCT sulla MIT non solo per umana vanità ma anche per fugare ogni accostamento con quelli che snobbano le ricerche di efficacia. Tralascio la discussione sui loro limiti che è già stata fatta. Rimane il fatto che dare ragione dell’utilità di quello che facciamo è il minimo di dovere e, con tutti i loro limiti gli RCT sono lo strumento migliore che abbiamo e non si capisce perché dovremmo rinunciarci solo perché non sono perfetti. Ma anche gli RCT dicono delle cose e non ne dicono altre. Ciò che ci dicono è che sulla base di una certa teoria clinica è possibile implementare un tipo di trattamento efficace. Dimostrano anche la verità della teoria clinica sottostante? No, perché l’efficacia stessa potrebbe dipendere da altri fattori non previsti dalla teoria. Al rigore nemmeno il fallimento di un RCT falsifica la teoria clinica perché avrei potuto, partendo da una teoria giusta, avere implementato male il trattamento. E allora, mi dirai? Allora occorre dimostrare la validità dei modelli clinici indipendentemente dalle ricerche di efficacia (esattamente come ha fatto Beck per la depressione) e poi implementare i trattamenti. Dove voglio andare a parare? Voglio andare a parare sul fatto che non ha molto senso schiacciare le ricerche in psicoterapia sulle “metodiche rigorose” per il trattamento se non c’è alla base una ricerca sui meccanismi, i processi e, perché no, sulle cause dei disturbi.
E, dato che questi meccanismi e processi sono molto spesso di natura relazionale, non ha molto senso escludere dalla ricerca delle metodiche di intervento il complesso e niente affatto aspecifico problema della relazione terapeutica.

In sintesi penso che ricerca e cultura psicoterapeutica dovrebbero occuparsi in modo connesso dei seguenti problemi: a) quali sono e come funzionano i disturbi; b) come curarli; c) in un contesto relazionale adeguato al disturbo.

Ha senso, da questo punto di vista, dividersi in tante società? La domanda è retorica e, ormai, inutile. Mi dispiace solo che tutto debba avvenire così, in modo quasi burocratico, senza un dibattito su queste questioni, dibattito che forse la nostra storia avrebbe meritato. Del resto c’è un generale processo di scomposizione nella terapia cognitiva e pensare di fermare certi processi è sciocca e luciferina superbia. In certi frangenti ognuno deve fare quel che ritiene giusto. Da parte mia ho sempre ritenuto giusto avere un canale aperto di confronto con tutti gli psicoterapeuti. Figuriamoci se non cercherò di farlo con voi.

Ti faccio i migliori auguri per la vostra nuova impresa ed estendili a tutti i colleghi che hanno condiviso la tua scelta.

Antonio

 

Leggi gli altri articoli sul tema:

La terapia cognitivo-comportamentale (2022, terza edizione) di Judith Beck – Recensione

Nel 2022 è stato pubblicata la versione italiana della terza edizione del classico manuale ”Cognitive Behavior Therapy: Basics and Beyond” (“La terapia cognitivo comportamentale”) di Judith Beck, uscito in inglese nel 2020, nove anni dopo la seconda edizione del 2011, mentre la prima fu pubblicata nel 1995.

 

 Judith Beck fa confluire in questa edizione stimoli sia scientifici che clinici: raccoglie i più recenti sviluppi della ricerca e i feedback da lei stessa raccolti di terapeuti di tutto il mondo che hanno letto le edizioni precedenti e ne hanno tratto ispirazione. Il tema di questa edizione è l’integrazione del modello originale con le innovazioni processuali e relazionali sopraggiunte nel frattempo: il riconoscimento della centralità della relazione terapeutica, la conferma della necessità di integrare la mindfulness all’interno di una ben costruita concettualizzazione cognitiva, l’ingresso di modalità di intervento aggiuntive empiricamente fondate, come la Acceptance and Commitment Therapy (ACT), la Dialectical Behavior Therapy (DBT) e la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT).

A questi aspetti si aggiunge una procedura di intervento per soggetti con diagnosi di gravi disturbi mentali, la Recovery-Oriented Cognitive Therapy (CT-R), un trattamento evidence-based. Colpisce apprendere che lo sviluppo di questa procedura è stata curata in persona da Aaron T. Beck, padre dell’autrice e fondatore, come è noto, della psicoterapia cognitivo comportamentale. Si tratta dell’ultima impresa di Beck padre, che l’ha curata assieme al suo gruppo di ricerca e formazione negli ultimi anni della sua vita e che pone al centro, come leva del cambiamento, i valori, le aspirazioni e le risorse individuali.

 L’obiettivo è aiutare persone profondamente sofferenti a ricostruire un senso di scopo e missione nella propria esistenza. L’idea dell’autrice è che la Recovery-Oriented Cognitive Therapy e lo spirito che la anima (guardare ai punti di forza dei pazienti, a ciò che splende in loro talvolta sotto una spessa coltre di disagio) possa rappresentare di fatto il futuro e la frontiera della terapia cognitivo-comportamentale.

Nei capitoli più tradizionali Judith S. Beck aggiorna l’impianto classico del libro mostrando come coinvolgere e motivare i pazienti, sviluppare una solida concettualizzazione del caso, pianificare trattamenti personalizzati, strutturare le sedute ed eseguire le tecniche cognitive, comportamentali ed esperienziali di base. Il libro inoltre espone il caso di un paziente con depressione grave e di un altro con depressione, ansia e tratti di personalità borderline, casi che illustrano in concreto come un terapista esperto fornisca la terapia e risolva le difficoltà comuni.

Il tono colloquiale dello scritto di Beck è accogliente e rassicurante e crea una relazione con i lettori che aumenta la loro capacità di comprendere e applicare le informazioni dal testo, proprio come un’alleanza terapeutica facilita l’incorporazione da parte del paziente di nuovi dati nella terapia. Il testo include trascrizioni, domande e riflessioni, esercizi pratici e suggerimenti clinici. In aggiunta il sito Web associato presenta fogli di lavoro scaricabili e video di sedute.

Ecoansia e cambiamento climatico: per quali ragioni psicologiche tendiamo a non agire tempestivamente

L’ecoansia, ovvero l’ansia derivante in risposta ai pericolosi effetti del cambiamento climatico, sembra essere percepita maggiormente da giovani, scienziati e attivisti (Kelly, 2017) che spesso protestano per la mancanza di provvedimenti adeguati all’urgenza di questa imminente minaccia. Ma quali sono le ragioni psicologiche che ci portano a non intervenire tempestivamente?

Gli effetti psicologici del cambiamento climatico

 L’ultimo decennio ha visto l’importante sviluppo della climate psychology, ovvero psicologia del clima. In psicologia, sono state identificate sei aree chiave nell’ambito dei cambiamenti climatici, tra cui: la percezione del rischio, le cause psicologiche e comportamentali del cambiamento climatico, gli impatti psicosociali del cambiamento climatico, le strategie di coping, gli impedimenti psicosociali all’azione e il ruolo degli psicologi (APA, 2010). Allo stesso tempo, gli psicoterapeuti si trovano a dover fronteggiare ansia e senso di colpa, perdita e rabbia, sia nei propri pazienti sia in loro stessi (Rust, 2020; Dodds, 2021).

L’ecoansia viene definita come paura cronica di una catastrofe ambientale, che comporta un’accentuata sofferenza emotiva, mentale o somatica in risposta ai pericolosi cambiamenti del clima (APA, 2017; CPA, 2020).

La letteratura ha evidenziato come l’ansia da cambiamento climatico possa provocare diversi risvolti psicopatologici tra cui stress (da lieve ad acuto), depressione, ansia, disturbo da stress post-traumatico, suicidio, violenza domestica e abuso di sostanze  (North et al., 2004; Harville et al., 2011; Fisher, 2010; Flory et al., 2009; Fullerton et al., 2004). Allo stesso modo, è stata anche associata ad attacchi di panico, perdita di appetito, irritabilità e insonnia (APA, 2010).

Sono stati riscontrati diversi tipi di ansia climatica e traumi dovuti al cambiamento climatico, soprattutto quando i danni ambientali implicano la perdita del proprio stile di vita o cultura di appartenenza (Cianconi et al., 2020).

Bisogna dunque distinguere tra ecoansia patologica ed ecoansia adattiva, poiché prestare attenzione a ciò che sta accadendo intorno a noi è una risposta sana, se paragonata alla negazione o al rifiuto (CPA, 2020). A questo riguardo, è importante sottolineare che l’ecoansia sembra sia percepita maggiormente tra giovani, scienziati e attivisti (Kelly, 2017).

 Hickman (2020) sostiene che ci siano differenze generazionali nel modo in cui rispondiamo alle emozioni, soprattutto per quanto riguarda l’ecoansia. I giovani spesso parlano di incomprensione o inazione da parte degli adulti. Infatti, ciò che spesso spaventa i giovani è il modo in cui vedono il “mondo degli adulti”, che non riesce a prendere provvedimenti adeguati all’urgenza di questa imminente minaccia. I bambini e i giovani sono sempre più spesso al centro di proteste sulla necessità di intraprendere un’azione immediata, proprio perché sono consapevoli che le conseguenze delle azioni degli adulti di oggi si ripercuoteranno su di loro in futuro.

Perché non interveniamo sul cambiamento climatico?

Dodds (2021) ha teorizzato quattro ipotesi psicologiche che tentano di motivare il perché, globalmente, non si siano ancora presi provvedimenti seri per contrastare il cambiamento climatico.

  • Ipotesi del falso allarme: gli esseri umani hanno la capacità di rispondere in maniera efficace a minacce immediate e visibili mentre gli eventi che accadono lentamente sfuggono alla nostra attenzione (Gilbert, 2010; Marshall, 2014).
  • Ipotesi del dilemma sociale (bystander effect): i dilemmi sociali comportano un conflitto tra interesse individuale e collettivo. Il cambiamento climatico è il dilemma sociale per eccellenza. L’ansia si riferisce non solo ai “costi” del gioco (se giocato male), ma anche alla previsione del comportamento degli altri (Foddy et al., 1999). La mancata sicurezza di un’azione collettiva spesso frena l’azione individuale: se io faccio la cosa giusta nei confronti dell’ambiente, come posso fidarmi che anche tu la faccia? 
  • Ipotesi ecopsicologica: dagli anni ’90, l’ecopsicologia è emersa come una particolare risposta della psicologia ai problemi ambientali, suggerendo che la nostra vita moderna è talmente disconnessa dalla natura che non ci preoccupiamo abbastanza di proteggerla e non ci rendiamo conto di essere minacciati dai danni dovuti alla nostra noncuranza nei confronti del mondo naturale. La riconnessione con la natura è vista come un requisito per la salute mentale, la quale fornisce anche la spinta emotiva che ci muove ad agire (per amore, non solo per paura). Gli ecopsicologi sottolineano che l’ansia, il senso di colpa, il dolore e la rabbia che proviamo per il collasso degli ecosistemi, il nostro “dolore per il mondo”, sono appropriati e, sebbene difficili, forniscono il punto di partenza per l’azione e un rinnovato rapporto con la Terra (Jordan, 2009).
  • Ipotesi psicoanalitica: il modello psicoanalitico dei problemi ambientali si concentra sul modo complesso in cui gli esseri umani gestiscono l’ansia. L’ansia da cambiamento climatico è vista come uno stato di preoccupazione elevato, da cui ci si protegge attraverso meccanismi di difesa individualmente e socialmente strutturati. L’ansia climatica è quindi, in parte, una risposta realistica ma dolorosa alla nostra situazione e difficile da mantenere, soprattutto in un contesto sociale di negazione generalizzata (Searles, 1972; Lertzman, 2015).

Un articolo di Panu (2020) sottolinea che l’incertezza, l’imprevedibilità e l’incontrollabilità sembrano essere fattori importanti dell’ecoansia. Come evidenziato anche da Dodds (2021), l’autore rimarca come le dinamiche sociali modellino le forme di ecoansia in modo profondo.

Inoltre, mentre le forme paralizzanti di ecoansia emergono come un problema, Buzzell e Chalquist (2019) sostengono ci sia molta ecoansia “sana” nei sintomi solitamente descritti dal concetto di ecoansia e che essa possa manifestarsi anche come “ansia pratica”, che porta a raccogliere nuove informazioni e a rivalutare le opzioni di comportamento al fine di trovare una soluzione.

Il principio di Pollyanna

Il principio di Pollyanna indica la tendenza a ricordare eventi piacevoli più facilmente di quelli spiacevoli, operando principalmente proprio attraverso il diniego di quei sentimenti negativi che più temiamo.

 

Le favole non insegnano ai bambini che i mostri esistono.
Le favole insegnano ai bambini che i mostri possono essere sconfitti.
(Gilbert Keith Chesteton)

 Uno dei meccanismi di difesa più precoci e comuni con cui il bambino affronta esperienze ed emozioni spiacevoli è il rifiutare di accettare che esse esistano, il diniego. Tale fondamento persiste come prima reazione a qualunque evento catastrofico anche in età adulta. I fenomeni definiti come meccanismi di difesa rappresentano infatti adattamenti creativi che agiscono per difendere il sé da una minaccia, gestire un sentimento intenso e minaccioso (colpa, vergogna, invidia) e mantenere l’autostima (McWilliams, 2011).

Il principio di Pollyanna rappresenta una sorta di illusione cognitiva, gli “occhiali dalle lenti rosa” attraverso cui osservare e muoversi nel mondo. Tale termine indica la tendenza a ricordare eventi piacevoli più facilmente di quelli spiacevoli, operando principalmente proprio attraverso il diniego di quei sentimenti negativi che più temiamo. Questo fenomeno prende il nome dalla protagonista dei romanzi di E. H. Porter, eroina persistentemente sorridente e capace di vedere solo il lato positivo delle cose.

Matlin e Stang (1978) riconoscono manifestazioni di questa tendenza anche in alcuni comportamenti, come il comunicare le buone notizie più frequentemente di quelle negative, o la tendenza a posizionare oggetti piacevoli prima di oggetti sgradevoli nella stesura di un elenco.

Questo ottimismo è fonte di ispirazione per un approccio positivo alla vita, sorgente preziosa per la nostra resilienza. In persone non affette da disturbi depressivi, genera un’illusione di controllo sugli eventi, infondendo quindi una elevata aspettativa di successo in una definita circostanza (Golin, 1979) e suscitando “the illusory glow” fondamentale per mantenere la spinta a raggiungere elevati standard di produttività ed ambizioni personali, anche nei momenti in cui l’ego risulta essere più fragile e vulnerabile (Lazarus, 1982).

Rappresenta inoltre una fondamentale strategia di coping per superare eventi catastrofici, incentivare la motivazione e favorire le interazioni sociali (Libkumen, 2004). “Andrà tutto bene”, un mantra che veniva diffuso durante il periodo della pandemia da Covid-19.

In psicoterapia viene tuttavia discussa la sua manifestazione ostentata, e spesso sottolineato il pericolo di tale atteggiamento. Seppur può rappresentare una strategia di coping efficace in determinati contesti, il silenziare le nostre sofferenze e le emozioni scaturite da minacce o eventi spiacevoli rischia infatti di consentire il perpetuarsi di situazioni disfunzionali, e condurre alla manifestazione di veri e propri disturbi.

Il principio di Pollyanna nel Disturbo Bipolare

Ogni volta che mi sento bene, penso che durerà per sempre, ma non succede.
(F.C., 34 anni)

Uno degli esempi di psicopatologia definita dall’uso del diniego come meccanismo di difesa tipico del principio di Pollyanna è l’episodio maniacale nel disturbo bipolare.

Ruminare sulle emozioni positive è una strategia di amplificazione cognitiva unica per le persone affette da disturbo bipolare, con la sua natura immersiva ed attivante. (Gruber, 2009). La fase prodromica dell’esacerbazione di sintomi maniacali cattura una gamma di strategie di up-regulation, tra cui ignorare i consigli dei cari o dei curanti in situazioni di particolare vulnerabilità (Palmier-Claus, 2016).

La “depression avoidance theory” suggerisce che la mania sorge quando le persone cercano di evitare emozioni e sentimenti orientati sul polo negativo dell’umore, impegnandosi in comportamenti attivanti (risk taking) (Thomas, 2002). Non esiste il riposo, ma solo ore da vivere fino all’ultimo secondo e in cui essere freneticamente produttivi.

Interventi mirati allo sviluppo di strategie di coping adattive durante la fase prodromica, all’educazione emotiva sia in termini di riconoscimento che di regolazione, ed una attenta psicoeducazione sono cruciali nell’approccio al disturbo bipolare (Fletcher, 2013).

Il diniego ed il principio di Pollyanna nelle dipendenze

I make wine from the lilac tree
Put my heart in its recipe
Makes me see what I want to see
And be what I want to be.
(Lilac wine – Jeff Buckley)

Il diniego è una caratteristica dell’alcolismo e di altre tossicodipendenze che deve essere messo in evidenza al fine di comprendere il processo terapeutico ed il percorso di riabilitazione.

“Sono Simone e sono un alcolista” è un concetto quotidianamente ripetuto nei programmi in dodici fasi degli Alcolisti Anonimi, che costringe le persone ad esporsi e a confrontarsi con la realtà che nel contesto del gruppo condividono.

 Circa il 90% delle persone affette da tale disturbo non riesce a cercare alcuna forma di aiuto (Nathan, 1988) e la negazione dell’alcolismo è il più comune motivo per cui il trattamento non è stato ricevuto (Bartek, 1988). Il problema reale che la persona vive quotidianamente è completamente messo a tacere dalla dipendenza che si crea dagli apparenti rimedi e benefici che la sostanza stessa sembra fornire. Si vive immersi in una realtà offuscata dall’alcol o dalla sostanza, concentrati sull’effetto dell’euforia concessa dopo ogni dose, osservando il proprio ego sentirsi forte e inarrestabile, per poi lasciare spazio all’ irritabilità dell’astinenza.

Non stupisce pertanto che la valutazione del diniego è considerata la prima e cruciale fase del trattamento dell’alcolismo (Leiker, 1989; Miller, 1990)

Il principio di Pollyanna come strategia di coping nelle donne vittime di violenza

Per il sorriso che provi,
le attenzioni che non trovi
per le emozioni che senti
e la speranza che ti inventi.
(Sei bella – Angelo De Pascalis.)

La violenza sulle donne è diffusa a livello globale: 1 donna su 3 in tutto il mondo subirà violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Il 30% delle donne che hanno una relazione intima subisce violenza fisica o sessuale da parte del proprio partner intimo (WHO, 2016). Ogni anno, quasi 64.000 omicidi intenzionali sono perpetrati da partner intimi o familiari; due terzi delle vittime sono donne (UNODC, 2013).

La maggior parte della letteratura (Taylor, 1983; Lazarus, 1982; Perry, 1974; Ganley, 1995) suggerisce che la vittima non vive e non mentalizza il dolore che deriva dall’abuso; cerca semplicemente di andare avanti, come accade nei traumi ripetuti. Sfortunatamente, molte delle sue strategie di coping risultano fortemente disfunzionali, facendola diventare più invischiata, e tenendola legata così ad una relazione di abusi con tragiche ripercussioni.

La maggior parte delle donne opera all’interno di una “illusione di invulnerabilità”, credendo che il trauma non cadrà realmente su di loro (Janoff-Bulman, 1983; Perloff, 1983), e operando quindi tramite un meccanismo di diniego. Dopo una revisione della ricerca sulle vittime di crimini violenti, Symonds (1979) ha concettualizzato un modello di reazione a tre stadi e la prima e duratura fase iniziale consiste proprio in shock, incredulità e diniego. Inoltre, il marito può infliggere dolore e umiliazione e poi far seguire a questi trattamenti un comportamento “honeymoon” (Walker, 1979), che favorisce l’instaurarsi di una illusione di irrealtà e, operando anche tramite il principio di Pollyanna, può ingabbiare donne dipendenti all’illusione di un legame idilliaco e sereno, mentre rimangono aggrappate ad una pericolosa relazione tossica.

Ansia, disgusto, paura, rabbia, felicità, colpa, disprezzo, sorpresa…positive o negative che esse siano, le emozioni sono costrutti innati e globalmente diffusi, che hanno da sempre fornito all’uomo fondamentali informazioni sullo stato interiore, sulle condizioni di benessere e sulla necessità di agire.

L’intera gamma di emozioni che l’essere umano vive rappresenta una bussola interna: esse rivestono un ruolo fondamentale in processi di decisione, giudizio, ragionamento. Il principio di Pollyanna, quando portato al suo estremo, può condurre alla manifestazione di disturbi e problematiche reali, proprio perché opera negando le sfumature più negative della nostra vita emotiva, ma estremamente fondamentali per allertarci su situazioni di minaccia e di fragilità.

È importante, pertanto, imparare a dare spazio ed ascolto anche agli aspetti più dolorosi della nostra sfera emotiva.

Il disgusto nelle psicopatologie

Il disgusto è un’emozione considerata importante nell’eziologia di alcune patologie mentali. In questo articolo vedremo come il disgusto interagisce con i sintomi di alcuni disturbi mentali, aspetto che può essere utile da approfondire per incrementare la comprensione delle cause e del funzionamento di alcune psicopatologie.  

 

Introduzione

 Il disgusto è una delle sei emozioni di base, universalmente condivise e con il fine di garantire la sopravvivenza della nostra specie (Ekman, 1992).

Per anni descritta come un’emozione dimenticata nella letteratura della psicopatologia sperimentale (Phillips et al., 1998; ovvero gli studi scientifici sui disturbi mentali), il disgusto oggi è un’emozione considerata rilevante nell’eziologia di vari disturbi mentali. Con il termine eziologia si fa riferimento alle cause di un particolare fenomeno, in questo caso di una patologia mentale. In quest’ottica è stato proposto che la sensibilità al disgusto, ovvero la tendenza ad esperire disgusto verso una vasta gamma di stimoli avversi (Tolin et al., 1999), possa fungere come fattore di vulnerabilità per lo sviluppo di alcuni disturbi mentali (Olatunji e Sawchuk, 2005). Infatti, il disgusto è stato associato a diversi tipi di psicopatologie, come il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), le fobie come fobia dei ragni, belonefobia (fobia degli aghi) ed emofobia (paura del sangue), i disturbi alimentari e le disfunzioni sessuali.

Il disgusto nel disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5; American Psychiatric Association [APA], 2014) la caratteristica fondamentale del DOC è la presenza di ossessioni e compulsioni. Per ossessioni si intende pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti esperiti come indesiderati (per esempio, timore della contaminazione). In risposta alle ossessioni, gli individui con DOC spesso si sentono obbligati a compiere comportamenti o azioni mentali ripetitivi, ovvero attuano delle compulsioni (per esempio, pulire con una specifica modalità o sequenza). Ossessioni e compulsioni sono molto dispendiose in termini di tempo.

Il disgusto è stato associato alla paura della contaminazione, un tipico sintomo del DOC, che è particolarmente legato al lavaggio compulsivo (Rachman, 2006). Una domanda che è sorta in letteratura è se i vari aspetti del DOC fossero associati in modo differenziato con vari sottotipi di disgusto, rilevato attraverso un test specifico (Disgust Scale-Revised [DS-R]; Olatunji et al., 2007). I sintomi del DOC legati alla contaminazione e ai germi sono risultati essere significativamente correlati con il tipo di disgusto legato alla contaminazione (che riguarda anche l’igiene) e il disgusto verso il cibo avariato, gli animali e i prodotti corporei (ovvero escrezioni fisiologiche; Olatunji et al., 2008; vedi anche Olatunji, et al., 2005). Uno studio (Olatunji et al., 2014) ha osservato che il disgusto da contaminazione è emerso come predittore significativo del DOC.

Il disgusto nelle fobie specifiche

Le fobie specifiche possono riguardare animali (come ragni, insetti), ambienti naturali (come altezze, acqua), sangue-iniezioni-ferite (come aghi, procedure mediche invasive) o situazioni (come aeroplani, ascensori; APA, 2014). Persone con fobie specifiche provano paura o ansia intensa rispetto a situazioni o oggetti circoscritti e questo spesso li porta ad evitare tali specifiche situazioni o oggetti. In Europa il tasso di prevalenza stimato è di circa il 6% (APA, 2014).

 Davey e Marzillier (2009) hanno associato il disgusto con i disturbi d’ansia. Sembrerebbe che gli individui con fobie verso animali sono circa la metà degli individui con fobie (Davey & Marzillier, 2009). Gli animali che elicitano fobia più comunemente sono ragni, serpenti, lucertole, topi, scarafaggi, vespe, coleotteri, falene, lumache e vermi. Il disgusto appare correlato con la paura di questo tipo di animali, ma non per i predatori (come i leoni). La letteratura ha posto particolare attenzione all’aracnofobia, comparando individui aracnofobici con individui non fobici, è emerso che i fobici riportano punteggi più alti sulla sensibilità al disgusto (Davey & Marzillier, 2009).

La fobia verso il sangue, le iniezioni o le ferite è un problema molto diffuso. Come per le fobie verso gli animali, le persone con fobie per sangue-iniezioni-ferite riportano punteggi maggiori nei test che misurano disgusto e paura rispetto ai non fobici, tuttavia sembra che, rispetto agli stimoli, sia più intensa la reazione al disgusto piuttosto che la reazione alla paura (Page & Tan, 2009).

Come per coloro che esperiscono fobie verso gli animali, una questione aperta è se il disgusto sia parte dell’origine della fobia per sangue-iniezioni-ferite o solo un amplificatore di tale fobia. Woody e Teachman (2000) ipotizzano che alcuni individui rispondano agli stimoli con paura, altri rispondano con disgusto, e un terzo gruppo risponda sia con paura che con disgusto.

Il disgusto nei disturbi alimentari e nelle disfunzioni sessuali

Il disgusto sembra essere coinvolto nei due maggiori disturbi alimentari (anoressia nervosa e bulimia nervosa), che sembrano spesso essere accompagnati da fobie verso il grasso (Troop & Baker, 2009). Similmente, il disgusto può essere coinvolto nella comprensione delle disfunzioni sessuali (DeJong & Peters, 2009), intese come incapacità clinicamente significativa di essere sessualmente responsivo e/o di provare piacere sessuale (APA, 2014). In entrambi i casi, c’è un complesso insieme di paura e disgusto che deve essere approfondito e analizzato, e in entrambi i casi, anche la vergogna sembra avere un ruolo importante (Rozin et al., 2016). Per quanto riguarda i disturbi alimentari, la vergogna può essere legata al mangiare in pubblico o a percepirsi grassi; invece, riguardo all’area sessuale può essere legata alla scarsa performance (Rozin et al., 2016).

Conclusioni

In conclusione, il disgusto sembra essere un importante aspetto da considerare per comprendere alcune psicopatologie e migliorare gli strumenti di valutazione e di intervento che li riguardano. È importante però sottolineare che gran parte degli studi sul coinvolgimento dell’emozione disgusto nella psicopatologia sono di natura correlazionale; quindi, c’è un reale bisogno di studi sperimentali controllati che consentano di identificare relazioni causali tra disgusto e sintomi psicopatologici (Davey, 2021).

 

La rivoluzione della gentilezza e il suo impatto sul logoramento telomerico

Rapportarsi agli altri con gentilezza, ammettere gli errori, ringraziare, chiedere scusa, accogliere il perdono e praticare la gratitudine, sono valori e azioni che possono avere il potere di alleviare il peso di angosce, tristezza e sensi di colpa che avvelenano la nostra mente e le nostre cellule.

Una riflessione a partire da “Biologia della gentilezza” di Daniel Lumera e Immaculata De Vivo

Introduzione

 Essere gentili ci fa stare sicuramente meglio. Ce lo dicono l’educazione, il buon senso, le millenarie tradizioni spirituali e religiose, e ora ce lo conferma persino la scienza.

Di questo ne parlano approfonditamente in “Biologia della gentilezza” Daniel Lumera, autore di bestsellers e riferimento internazionale nelle scienze del benessere, e Immaculata De Vivo, epidemiologa della Harvard Medical School di Boston e tra i massimi esperti mondiali di genetica del cancro.

“Biologia della gentilezza” è una vera e propria mappa esistenziale che dimostra come un cambiamento in termini di consapevolezza interiore possa influire positivamente sulla nostra salute, sul nostro benessere, sulle nostre relazioni personali, sui processi sociali che viviamo e persino sul nostro DNA.

Telomeri, stress e gentilezza

Per gli scienziati e i ricercatori esistono diverse molecole nel nostro organismo che sono in grado di indicarci se siamo predisposti a una specifica malattia oppure no. Queste molecole prendono il nome di biomarcatori e fungono da sentinelle della nostra salute, poiché la loro presenza o assenza e le loro caratteristiche biologiche possono fornire informazioni essenziali riguardo alla probabilità di sviluppare eventuali condizioni patologiche.

Negli anni più recenti, un particolare gruppo di biomarcatori si è rivelato molto utile nel fornire interessanti informazioni sulla nostra salute e sulle nostre aspettative di vita. Si tratta dei telomeri, strutture di DNA presenti alle estremità dei cromosomi, necessarie a proteggere questi ultimi da eventuali danni e a mantenere integro e intatto il materiale genetico di una cellula.

Le cellule del nostro organismo si riproducono incessantemente, generando un ciclo di sostituzione costante di quelle cellule che giungono alla fine del loro ciclo vitale. In questo processo di replicazione, i telomeri perdono di volta in volta dei piccoli segmenti del loro filamento genetico, cosicché la nuova cellula avrà dei telomeri leggermente più corti rispetto a quella da cui è stata generata. Si tratta di un processo del tutto naturale e irreversibile, che non ha di per sé delle conseguenze significative: nel corso della vita la lunghezza originaria dei nostri telomeri andrà gradualmente riducendosi, debilitando progressivamente la loro funzione protettiva e andando incontro a un processo di morte programmata nel momento in cui viene raggiunta una lunghezza critica che impedirebbe la possibilità di replicazione.

I telomeri possono quindi essere metaforicamente considerati come una sorta di orologio biologico che determina la durata della vita di una cellula e, per estensione, anche dell’organismo a cui appartiene.

Tuttavia, l’accorciamento della lunghezza dei telomeri non è solo frutto di un processo biologicamente naturale sul quale non abbiamo la possibilità di intervenire, ma è influenzato anche da elementi e fattori ambientali e dallo stile di vita. Il fumo e il consumo di alcolici, una cattiva alimentazione, la sedentarietà o lo stress sono tutte abitudini di vita ed elementi che contribuiscono ad accelerare il logoramento telomerico, creando terreno fertile per un invecchiamento precoce dell’organismo e l’insorgenza di malattie, poiché il DNA delle cellule, non essendo più adeguatamente protetto dai telomeri, viene più facilmente attaccato.

Questa complessa ma interessante interazione tra salute e ambiente è stata approfondita dal Nurses’ Health Study (NHS), un importante studio cominciato nel 1976 all’Harvard Medical School negli Stati Uniti e tutt’ora in corso, che ha messo in luce l’importanza e l’influenza dello stile di vita sul nostro organismo. Il nostro DNA, infatti, è sorprendentemente modificabile e le nostre scelte e stili di vita possono trasformare la nostra genetica. I geni non sono qualcosa di immutabile, ma rispondono attivamente alle sollecitazioni provenienti dall’ambiente esterno adattandosi e manifestando un potenziale positivo o negativo in base agli input ricevuti.

Esiste quindi una variabile genetica di fondo sulla quale si innestano poi particolari condizioni ambientali e psicologiche che possono influire positivamente o negativamente sulla lunghezza dei telomeri e sul nostro stato di salute.

 Oggi più che mai, la componente emotiva della nostra mente è coinvolta nei complessi meccanismi dello stress, il quale si rivela a tal proposito uno dei nemici più insidiosi, causa di spiacevoli condizioni di sofferenza psicologica. Quando siamo sottoposti a stress, ansia o agitazione, il nostro cervello rilascia nel sangue una grande varietà di ormoni che preparano l’organismo alla cosiddetta risposta fight or flight, “combatti o fuggi”, uno dei più preziosi meccanismi della nostra sopravvivenza, che ci mette nelle condizioni di affrontare un pericolo o scappare da esso con tutte le nostre forze. Queste reazioni sono regolate dall’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e producono adrenalina e glucocorticoidi, tra cui il cortisolo, non a caso anche chiamato “ormone dello stress”. Il cortisolo ha parecchi effetti fisiologici volti a favorire la capacità di affrontare o fuggire da un eventuale nemico: aumenta i livelli di zucchero nel sangue, innalza la pressione sanguigna, produce un calo dell’appetito, acutizza la memoria e l’attenzione e abbassa la percezione del dolore. Eppure, laddove brevi episodi di stress possono essere funzionali e non lasciare alcun segno duraturo sull’organismo, è stato dimostrato che un’esposizione prolungata al cortisolo e ad altri ormoni associati può provocare danni latenti collegati all’invecchiamento precoce e all’insorgenza di malattie croniche.

Anche il DNA telomerico subisce potenziali conseguenze negative derivanti da uno stato di stress cronico, il quale è riconosciuto come uno dei fattori che ne accelerano l’accorciamento, poiché il rilascio nel sangue di cortisolo e altri ormoni crea stress ossidativo e infiammazione, due condizioni biochimiche che favoriscono il logoramento di queste nucleoproteine (i telomeri appunto).

Si tratta chiaramente di un effetto non immediato ma progressivo: lo stress, se rilasciato in piccole dosi ma in maniera costante, funge da veleno per il nostro DNA, rendendo tossico l’ambiente cellulare e favorendo lo sviluppo di patologie nel lungo periodo.

Nonostante la gradualità con la quale si manifestano, questo tipo di danni cellulari sono processi irreversibili, ma le loro conseguenze possono essere attenuate (ahimè non neutralizzate) dall’adozione di strategie protettive come gli stili di vita sani, la gentilezza, una corretta alimentazione, la meditazione e buoni rapporti sociali. Impegnarsi a migliorare fin da subito la qualità della nostra esistenza può davvero rivelarsi un importantissimo primo passo per arrivare a “sanificare” il nostro organismo e le nostre relazioni con il mondo.

Rapportarsi agli altri con gentilezza, ammettere gli errori, ringraziare, chiedere scusa, accogliere il perdono e praticare la gratitudine, sono valori e azioni tutt’altro che banali, poiché possono realmente avere il potere di alleviare il peso di angosce, tristezza e sensi di colpa che avvelenano la nostra mente e le nostre cellule.

È stato dimostrato che le persone che accolgono e praticano con più costanza questi valori hanno dei telomeri più lunghi rispetto a coloro che non lo fanno, e questo accade perché questi atteggiamenti positivi sono sorprendentemente in grado di contrastare i processi infiammatori e lo stress ossidativo che li deteriorano.

Essere gentili – con gli altri ma in primis soprattutto con sé stessi – e piantare il seme della gentilezza può dare frutti immensi, perché esso ha il potere di crescere e sbocciare anche nel fango e nelle condizioni più avverse.

La consapevolezza del ruolo migliorativo che la gentilezza e i sentimenti positivi svolgono per la nostra salute è già diffusa da tempo nel mondo scientifico, ma è solo negli anni più recenti che si è cominciato ad impiegare queste risorse in maniera più attiva – ad esempio adottando protocolli psicologici incentrati sulla pratica della gentilezza come veicolo di vicinanza umana ai pazienti che affrontano gravi malattie – con risultati significativi e molto incoraggianti.

La gentilezza, praticata in tutte le sue preziose forme, si è rivelata un potente strumento di benessere utile a disinnescare le emozioni negative e ripristinare l’equilibrio emotivo non solo nelle persone affette da gravi malattie, ma anche in persone sane e semplicemente soggette alle pressioni della vita quotidiana. Perché la gentilezza “è il punto di incontro tra dare e ricevere: quello spazio in cui scegli di donare ciò che vorresti ricevere, ed è così che ti fai dono”. Gentilezza è meraviglia, è divenire l’amore che dai.

Conclusioni

Eliminare lo stress dalla nostra quotidianità non è possibile, specialmente nella dinamica realtà odierna, e non è nemmeno possibile evitare il graduale processo di invecchiamento del nostro organismo. È possibile però cambiare il modo in cui reagire ad esso e scegliere consapevolmente come vivere, contribuendo a posticipare e a rendere più piacevole questo nostro inesorabile e naturale destino. La “rivoluzione della gentilezza” allora ci porta concretamente ad una trasformazione interiore frutto di un nuovo senso di responsabilità, empatia e apertura. Perché la vera rivoluzione non può che partire da sé stessi, e ha poi un impatto anche sugli altri, sul mondo che abitiamo e l’universo che ci ospita. E allora, scegliere la gentilezza, così come l’ottimismo, la felicità, il perdono e la gratitudine, non è più solo una questione di buona educazione né una moda di passaggio, ma è una scelta consapevole, una scelta sentita, vissuta, resa manifesta lasciando entrare questi valori nelle nostre vite e allenandoci il più possibile ad essi.

Meteoropatia: qual è il ruolo dei temperamenti affettivi?

Diverse ricerche suggeriscono che fattori ambientali come il clima e il meteo possono avere un impatto sugli stati emotivi dell’individuo. Lo studio di Oniszczenko (2020) indaga il possibile ruolo dei temperamenti affettivi nello spiegare la meteoropatia, in particolare nelle donne.

 

 Le persone sono informate dei cambiamenti climatici e meteorologici quotidianamente, attraverso tv e social network. È stato stimato che circa il 55% della popolazione tedesca e il 69% di quella canadese sopra i 60 anni è sensibile al meteo, e cioè considera l’influenza del tempo atmosferico sul proprio benessere psico-fisico (Von Mackensens et al., 2005). Molteplici studi comportamentali, di fatto, riportano che le condizioni climatiche possono avere un effetto sugli stati emotivi: è stato osservato che il disagio emotivo può decrescere quando incrementa l’esposizione al sole (Beecher et al., 2016) e che un aumento delle temperature o delle precipitazioni può essere in grado di causare stress mentale e corporeo (Benevolenza et al., 2019). Dal punto di vista psicopatologico, le condizioni meteorologiche possono perfino essere associate ai disturbi dell’umore di tipo stagionale o agli attacchi di panico, in particolare nelle donne secondo quanto emerso da una ricerca di Wirz-Justice et al., 2019. Sul versante medico, alcuni autori hanno sottolineato la relazione fra i cambiamenti nel clima e disturbi come la cefalea a grappolo (Lee et al., 2014), l’emicrania (Yang et al., 2015), il dolore neuropatico (Ngan et al., 2011) e i disordini del sonno (Rifkin et al., 2018).

La meteoropatia

Alla luce di questi dati, è possibile classificare qualsiasi disturbo derivante dall’impatto delle condizioni meteorologiche con il nome di “meteoropatia” (Janiri et al., 2009), fenomeno che include il peggioramento delle malattie preesistenti o l’insorgenza di nuovi disturbi specifici come conseguenza del cambiamento meteorologico (Watson, 2000).

In termini generali, le persone differiscono rispetto alla loro sensibilità ai cambiamenti del tempo atmosferico, anche se sembra che quelle più vulnerabili siano le donne, gli individui di mezza età e quelli con problematiche ansiose o depressive (Janiri et al., 2009). A questo riguardo, la letteratura parla di “meteorosensibilità” per far riferimento alla “tendenza biologica a sentire l’effetto di particolari eventi atmosferici sul corpo e sulla mente” (Mazza et al., 2012, p.103).

I temperamenti affettivi

Tenendo conto del fatto che molti sintomi della meteoropatia, come labilità dell’umore, depressione, ansia o sensazione di disagio, sono correlati ai sintomi tipici dei disturbi dell’umore, vale la pena considerare il ruolo dei temperamenti affettivi per spiegare le differenze individuali nella meteoropatia (Mazza et al., 2012).

Con “temperamenti affettivi” la letteratura fa riferimento a una manifestazione geneticamente determinata, stabile per tutta la vita e correlata ai tratti di personalità, che gioca un ruolo fondamentale nella predisposizione ai disturbi dell’umore e ai disturbi d’ansia (Akiskal & Akiskal, 2005; DeGeorge et al., 2014; Rovai et al., 2013). Essi sono distinguibili in cinque principali tipologie:

  • Depressivo, tipico di persone poco energiche, ipercritiche, pessimiste e introverse;
  • Ciclotimico, tipico di persone con produttività instabile, relazioni disinibite, scarsa considerazione delle conseguenze e oscillazioni nell’autostima (Akiskal et al., 1979);
  • Ipertimico, tipico di persone energiche, esuberanti, espansive, instancabili e con forte propensione al rischio (Poss e von Zerssen, 1990);
  • Irritabile, tipico di persone con irrequietezza disforica, insoddisfazione e tendenza al rimuginio (Kraeplin, 1921);
  • Ansioso, tipico di persone dipendenti, inibite, timide, evitanti e in costante stato di ipervigilanza (Akiskal, 1998);

Ciascuno di questi temperamenti affettivi potrebbe condividere una comune disposizione biologica con altri sintomi psichiatrici o somatici, inclusi i disturbi meteoropatici.

Lo studio di Oniszczenko (2020)

I dati presenti in letteratura suggeriscono che le donne sono generalmente più sensibili alle condizioni meteorologiche e allo sviluppo di sintomi fisici e psicologici in risposta ai cambiamenti ambientali (Connoly, 2013; Lee et al., 2018; Obradovich et al. 2018).

Per approfondire l’associazione tra stati affettivi e disturbi meteoropatici, alla luce dei numerosi dati che vedono le donne più inclini a soffrire di meteoropatia, Oniszczenko (2020) si è posto l’obiettivo di valutare la relazione specifica tra temperamenti affettivi e meteoropatia nelle donne, esaminando il ruolo della meteorosensibilità come possibile mediatore di questa correlazione.

 A partire da questa ipotesi di ricerca, i risultati hanno rivelato che nelle donne i temperamenti depressivo, ciclotimico, irritabile e ansioso sono positivamente associati alla meteoropatia, anche se con effetti differenti: il legame più forte è stato riscontrato a favore dei temperamenti ansioso e ciclotimico, che sembrano intrattenere associazioni significative simili a quelle che essi hanno con i sintomi dei disturbi dell’umore (come astenia e malessere indefinito, comuni alla meteoropatia). Inoltre, la meteorosensibilità è risultata fortemente associata alla meteoropatia e un buon mediatore nella relazione fra questa e i temperamenti affettivi nelle donne studiate. Questo risultato non dovrebbe sorprendere alla luce del fatto che il livello di sensibilità ai cambiamenti del clima o del tempo sembra essere il più importante fattore d’innesco dei sintomi meteoropatici. La mancanza di dati sufficienti sulle basi biologiche della meteoropatia e dei temperamenti più fortemente associati (ciclotimico e ansioso), tuttavia, non ha permesso di formulare una chiara ipotesi a proposito di un comune meccanismo di ordine biologico alla base del fenomeno.

Conclusioni

Le implicazioni dello studio di Oniszczenko (2020) contribuiscono alla comprensione di come i cambiamenti meteorologici, mediati da fattori psicologici su base temperamentale, influenzano il benessere delle donne: alti livelli di temperamento ciclotimico e ansioso possono essere responsabili dell’incremento di sintomi negativi a livello fisico e mentale. Per questa ragione, per migliorare il benessere psico-fisico degli individui, la meteorosensibilità dovrebbe essere presa in considerazione durante la valutazione medica di “sintomi difficili da spiegare”, in particolare nelle donne, dati i livelli più alti di meteoropatia evidenziati dalle ricerche sul tema.

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