expand_lessAPRI WIDGET

Resilienza e qualità di vita delle pazienti con tumore al seno

Il cancro al seno è la malattia maligna più comune nelle donne sia nei Paesi sviluppati che in quelli sottosviluppati e rappresenta la causa più comune di morte per cancro (Tan et al., 2020).

Il vissuto associato al tumore al seno

 L’aumento dell’incidenza del tumore al seno è legato allo stile di vita moderno, ma è incoraggiante il fatto che nei Paesi sviluppati la mortalità per tumore al seno stia diminuendo, soprattutto grazie a trattamenti più efficaci e all’introduzione di programmi nazionali per la diagnosi precoce (Boškailo et al., 2021).

L’eziologia del tumore al seno può essere influenzata da diversi fattori di rischio come l’età, l’anamnesi familiare positiva, l’esposizione a ormoni endogeni ed esogeni, la dieta, le malattie benigne della mammella e l’ambiente (Žitnjak et al., 2015). Nonostante la comprovata associazione tra un livello significativo di angoscia, la diagnosi di malattia e il relativo trattamento, molti pazienti oncologici presentano un elevato livello di resilienza (Gouzman et al., 2015).

Il termine resilienza si riferisce a un processo di superamento di eventi spiacevoli, tra cui lo stress, il trauma e la malattia, e ai tratti di personalità associati a tale processo (Seiler & Jenewein, 2019). Le ricerche dimostrano che il superamento delle difficoltà legate alla diagnosi e al trattamento del cancro rappresenta un’opportunità di crescita personale, nonché di miglioramento del benessere mentale ed emotivo, potenzialmente associato a una migliore gestione della malattia (Danhauer et al., 2013; Ruini et al., 2013). Tuttavia, non tutti rispondono allo stesso modo alla diagnosi di cancro (Chan et al., 2006).

La comprensione dei fattori che influenzano la crescita post-traumatica e il livello di resilienza può avere importanti implicazioni cliniche e costituire un principio guida per la progettazione di interventi psicologici volti ad accelerare la guarigione e a migliorare la qualità della vita dei pazienti oncologici (Seiler & Jenewein, 2019). Il tumore maligno e gli interventi terapeutici necessari, spesso aggressivi, possono portare a numerose reazioni fisiche e psicosociali spiacevoli in questa tipologia di pazienti (Pahljina-Reinić, 2004). Oltre alle reazioni fisicamente spiacevoli e dolorose, nella popolazione di donne con tumore al seno può verificarsi un significativo disagio psicologico, sostenuto dalla paura della morte, dal timore di recidive, da reazioni sociali sfavorevoli, da difficoltà nelle relazioni di coppia e/o da una ridotta competenza professionale (Boškailo et al., 2021). Tali condizioni sono spesso accompagnate da reazioni emotive spiacevoli come sentimenti di impotenza, colpa, rabbia, paura, vergogna, ansia e depressione (Jørgensen et al., 2015). Le risposte emotive negative non sono solo legate a questioni esistenziali di vita e morte o di salute e malattia, ma anche alle forme di trattamento medico applicato. Ad esempio, gli interventi chirurgici e il trattamento con corticosteroidi, citostatici e radioterapia gravano sul normale funzionamento organico e causano cambiamenti nell’aspetto fisico (Boškailo et al., 2021). Tali cambiamenti nell’esperienza corporea possono condizionare una serie di disturbi nell’esperienza e nell’accettazione dell’immagine corporea (den Heijer et al., 2012). In relazione all’immagine corporea, esistono anche problemi di funzionamento psicosessuale che possono manifestarsi attraverso ansia rispetto ai rapporti sessuali, evitamento delle attività sessuali e/o mancanza di desiderio sessuale. Tali reazioni possono indurre difficoltà a stabilire o mantenere relazioni intime, necessità di isolamento sociale e ritiro da un contesto sociale più o meno ampio (Jankowska, 2013; M Braden et al., 2014).

La presenza di un tumore maligno rappresenta uno stimolo di stress che si riflette nel mantenimento dell’omeostasi psicofisica (Boškailo et al., 2021). In altre parole, i cambiamenti nello stato biochimico e fisiologico sono associati anche a cambiamenti nello stato cognitivo, emotivo e comportamentale. Così, ad esempio, possono verificarsi alterazioni del comportamento espressivo e del funzionamento adattivo, problemi di memoria e concentrazione, disturbi del sonno e dell’alimentazione (Boškailo et al., 2021). Le conseguenze psicofisiche citate, accompagnate da riflessioni negative sulla malattia, sull’esito del trattamento, sulla femminilità, sull’accettazione sociale, sulla maternità, sul successo professionale, possono indurre un’eccessiva preoccupazione per la propria esistenza (Ormuž et al., 2018).

Tumore al seno, resilienza e qualità di vita

Lo scopo dello studio di Boškailo e colleghi (2021) è stato quello di indagare l’associazione tra resilienza e qualità di vita nelle donne con tumore al seno.

 Ad oggi sono stati condotti numerosi studi in tutto il mondo che hanno affrontato l’associazione tra resilienza e qualità di vita nelle pazienti con tumore al seno (Borgi et al., 2020; Kennedy et al., 2017). Molti autori affermano che la resilienza implica un buon esito in presenza di fattori di stress e che è importante studiare i meccanismi che influenzano l’insorgenza dello stress e il coping nelle donne con tumore al seno per aumentare i livelli di resilienza (Borgi et al. 2020, Kennedy et al. 2017). Uno studio che ha analizzato la relazione tra resilienza e qualità della vita nelle pazienti affette da cancro al seno mostra che il sostegno della famiglia e le relazioni sociali sono tra i fattori più significativi che contribuiscono a rafforzare la resilienza e hanno un impatto positivo a livello fisico ed emotivo (Kugler, 2001).

Lo studio di Boškailo e colleghi (2021) è stato condotto presso la Clinica di Oncologia dell’Ospedale Clinico Universitario di Mostar e ha incluso 60 partecipanti. L’obiettivo è stato raggiunto attraverso l’utilizzo di un questionario socio-demografico appositamente realizzato per questa ricerca, di un questionario sulla qualità della vita (World Health Organization Quality of Life Bref) e di un questionario sulla resilienza psicologica (Connor Davidson Resilience Scale-25).

I risultati dello studio hanno mostrato che i soggetti trattati con la radioterapia hanno ottenuto risultati statisticamente migliori nei test che valutano la qualità della vita, della salute mentale, delle relazioni sociali e dell’ambiente rispetto ai soggetti trattati con la chemioterapia (Boškailo et al., 2021). Rispetto alle altre aree della qualità di vita e alla resilienza, non ci sono differenze statisticamente significative tra i soggetti trattati con radioterapia e chemioterapia (Boškailo et al., 2021). Non ci sono correlazioni statisticamente significative nemmeno tra il livello di resilienza e le aree della qualità di vita nelle donne con tumore al seno (Boškailo et al., 2021).

Alcool in gravidanza: gli effetti sui bambini

Cosa si intende per sindrome feto alcolica? E per ADHD? In che modo le due cose sono in relazione?

 Differenti studi dimostrano che il Disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) è uno dei disturbi che più si presenta in comorbilità con la sindrome feto alcolica (FASD). Infatti si riscontra che i due disturbi presentano difficoltà neurocognitive molto simili e nello specifico la diagnosi di sindrome feto alcolica è associata ad un aumento del rischio di sviluppare ADHD.

Nel seguente articolo verranno messe in luce similitudini e differenze di questi due disturbi altamente correlati.

Cos’è la sindrome feto alcolica

Con il termine “FASD”, sindrome feto alcolica, ci si riferisce a uno spettro ampio di anomalie fisiche, mentali, comportamentali e cognitive, che si manifestano negli individui che sono stati esposti al consumo di alcol da parte della madre durante la gravidanza. Per definizione l’alcool ha un effetto teratogeno, ovvero è una sostanza in grado di indurre alterazioni del normale sviluppo del feto determinando danni permanenti di varia natura. Secondo delle ricerche, il 10% delle donne riporta di aver fatto uso di alcol nell’ultimo mese di gravidanza e il 3% di averne abusato (Weyrauch et al., 2017). I segni neurologici causati dall’alcol sono evidenti ma non si manifestano immediatamente, bensì quando il bambino cresce e deve andare incontro a richieste cognitive, di performance e di funzionamento sociale sempre più complesse.

In aggiunta agli effetti teratogeni, l’alcool causa una riduzione della placenta e ciò influisce sulla crescita fisica del feto, infatti i bambini con sindrome feto alcolica presentano tipicamente delle anomalie facciali.

Le disfunzioni che si generano a livello del sistema nervoso centrale portano allo sviluppo di anomalie in termini cognitivi e comportamentali specifici, come: la cognizione globale, le funzioni esecutive, l’apprendimento, la memoria, il linguaggio, le abilità visuospaziali, le funzioni motorie e attentive e il comportamento disadattivo (che impatta negativamente su abilità sociali e accademiche; Maya-Enero et al., 2021).

Spesso, persone con sindrome feto alcolica presentano disturbi esternalizzanti come il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD), che risulta essere il disturbo mentale in maggiore comorbidità con la sindrome feto alcolica (Weyrauch et al., 2017).

L’ADHD è un disturbo del neurosviluppo tipico dell’età preadolescenziale caratterizzato da “disattenzione e iperattività-impulsività che interferiscono con il funzionamento e/o lo sviluppo” (DSM-5; APA, 2014).

Le funzioni esecutive

Le funzioni esecutive sono un insieme di funzioni psicologiche definite come dei processi cognitivi complessi che permettono di mettere in atto dei comportamenti finalizzati a raggiungere e portare a termine con successo uno scopo specifico. Le funzioni esecutive sono l’area maggiormente deficitaria nei bambini con sindrome feto alcolica.

Sia le persone con sindrome feto alcolica sia quelle con ADHD vengono descritte come iperattive, impulsive, disattente, con incapacità di giudizio critico e incapacità di considerare le conseguenze dei comportamenti che mettono in atto. La disinibizione e la disorganizzazione sono fattori comuni ai due disturbi, in quanto sono correlate alle disfunzioni esecutive (Rasmussen et al., 2010). Bambini con ADHD hanno deficit in molte aree neurocomportamentali che si riscontrano anche in bambini con sindrome feto alcolica: funzioni esecutive, risultati accademici, memoria, comportamento adattivo e comunicazione.

Si è visto però che bambini con sindrome feto alcolica e bambini con ADHD hanno differenti profili per quanto riguarda i deficit dell’attenzione (Rasmussen et al., 2010). In particolare, individui con sindrome feto alcolica e ADHD iniziano a mostrare deficit nelle funzioni esecutive nella tarda infanzia; comunque non è ancora chiaro come le traiettorie di sviluppo delle funzioni esecutive varino tra i due gruppi. Probabilmente il motivo per cui molti bambini con sindrome feto alcolica hanno anche una co-diagnosi di ADHD potrebbe essere che queste due diagnosi condividono una base fisiologica o delle simili alterazioni a livello del sistema dopaminergico.

Se nell’ADHD i problemi comportamentali riguardano nello specifico l’incapacità di inibizione della risposta, della memoria di lavoro, di vigilanza e di attenzione, gli individui con sindrome feto alcolica presentano deficit nelle funzioni esecutive nella loro globalità, in particolare nell’organizzazione, nell’adattamento alla situazione, nella fluenza e nella memoria di lavoro. Per questo motivo i profili cognitivi dei due disturbi sono differenti (Khoury & Milligan, 2019).

Bambini con sindrome feto alcolica presentano comportamenti simili a bambini con ADHD e problemi psicosociali, ma ottengono punteggi inferiori nelle scale che misurano l’iperattività (sintomo centrale dell’ADHD).

Spesso le problematiche che si riscontrano in bambini con sindrome feto alcolica (problemi esternalizzanti, difficoltà attentive e inibizione della risposta) possono essere molto simili ai sintomi dell’ADHD. Il profilo comportamentale e neuropsicologico simile aumenta il rischio di non riuscire a riconoscere correttamente i bambini con sindrome feto alcolica (Rasmussen et al., 2010).

I due disturbi presentano similitudini e differenze, per questo motivo è molto importante discriminare le due diagnosi e migliorare così l’efficacia dei trattamenti (Weyrauch et al., 2017).

Attenzione

I bambini con ADHD presentano deficit dell’attenzione in generale, mentre nei bambini con sindrome feto alcolica l’attenzione viene inficiata in compiti specifici, come i tempi di reazione e l’attenzione visiva (Kingdon et al., 2016).

Per quanto riguarda l’attenzione, i bambini con sindrome feto alcolica hanno più difficoltà nella decodifica e nella capacità di spostare l’attenzione rispetto ai bambini con ADHD, che hanno più difficoltà nella focalizzazione e nell’attenzione sostenuta (Kingdon et al., 2016).

Abilità motorie

 Anche a livello delle abilità motorie i due problemi sono simili. Innanzitutto, i bassi livelli di stabilità suggeriscono che ci sono delle anomalie a livello del cervelletto (struttura neocorticale responsabile dell’equilibrio). A differenziarli è il fatto che mentre i bambini con sindrome feto alcolica presentano difficoltà motorie nel momento in cui devono svolgere compiti motori complessi, i bambini con ADHD presentano difficoltà anche nei compiti motori più semplici (Raldiris et al., 2018).

Controllo degli impulsi e abilità socio-emotive

Una caratteristica in comune ai due disturbi è anche il controllo degli impulsi che risulta essere compromesso, ma il deficit deriva da profili neurofisiologici differenti (Maya-Enero et al., 2021).

A differenza di bambini con ADHD, nella sindrome feto alcolica sono presenti deficit nella cognizione sociale e nel processamento delle emozioni, ciò li porta ad avere problemi comportamentali soprattutto nelle abilità sociali; in particolare, l’incapacità di rispondere in modo appropriato o di riuscire a comprendere le situazioni sociali. Questo profilo li porta a provare un forte senso di frustrazione personale (Maya-Enero et al., 2021).

Proprio il fatto di avere basse abilità socio-emotive porta i bambini con sindrome feto alcolica a manifestare dei comportamenti esternalizzanti (per esempio, agiti aggressivi o problemi della condotta).

Deficit intellettivi

I deficit intellettivi specifici che si manifestano quando i due disturbi sono in comorbidità intaccano la memoria a breve termine, le abilità verbali (a causa della diminuzione del volume corticale del nucleo caudato) e la comprensione (Raldiris et al., 2018).

La sindrome feto alcolica produce effetti negativi a livello neurocomportamentale, per quanto riguarda anomalie comportamentali, disattenzione e disobbedienza. Gli individui con sindrome feto alcolica presentano una carenza nell’ambito dell’attenzione e nella disregolazione comportamentale come i bambini con ADHD ma, a differenza di questi, mostrano una maggiore mancanza del senso di colpa e crudeltà (Koren et al., 2014).

Perché è importante differenziare tra i due disturbi?

I benefici clinici che si riscontrano quando si differenziano accuratamente sindrome feto alcolica e ADHD riguardano il fatto che gli individui con sindrome feto alcolica non rispondono ai farmaci che vengono utilizzati per il trattamento dell’ADHD. Riconoscere in tempo la sindrome feto alcolica permette di implementare dei trattamenti che prevedono migliori risultati accademici e cognitivi e diminuiscono i potenziali deficit secondari (per esempio, sviluppo professionale, relazioni sociali, ecc; Koren et al., 2014).

Interventi

Per questo motivo gli interventi mirano ad aumentare le performance a livello neurologico, in questo modo tendono a ridurre la gravità degli effetti dell’esposizione all’alcol prenatale.

In particolare, mirano ad intervenire sulle abilità accademiche, la regolazione del comportamento, le relazioni tra pari e la comunicazione sociale, e a potenziare le funzioni esecutive.

Gli impedimenti cognitivi di attenzione e iperattività sfociano in comportamenti disadattivi che rendono la loro esperienza all’interno della scuola molto difficoltosa. Per questo motivo è molto importante supportare questi bambini all’interno del contesto scolastico (Koren et al., 2014).

Le terapie dovrebbero concentrarsi su piani psicoeducazionali, che permettano di aumentare le capacità del bambino nel problem-solving, sia quando è a casa sia quando è a scuola. Gli interventi a livello cognitivo dovrebbero essere tarati sul livello del quoziente intellettivo del bambino con sindrome feto alcolica, che è spesso inferiore rispetto ai bambini con ADHD.

Si è visto che anche lo stato socioeconomico e le condizioni di vita di crescita del bambino impattano sullo sviluppo delle funzioni esecutive, quindi bisognerebbe adottare interventi con un approccio più olistico, che si focalizzi anche sugli stressor ambientali (per esempio cure parentali, stimolazione cognitiva, emotiva, fisica, motoria; Khoury & Milligan, 2019).

Il mio terapeuta non ha più risposto: il fenomeno del ghosting in psicoterapia

Lo studio di Farber e colleghi (2022) si è posto lo scopo di indagare la prospettiva del paziente rispetto al fenomeno e alle implicazioni etiche e cliniche del ghosting da parte del terapeuta.

 

 La conclusione della psicoterapia costituisce la fase finale della relazione fra paziente e terapeuta, dove il primo ha l’occasione di rivedere gli obiettivi postisi, descrivere i cambiamenti che ha affrontato e lavorare sui sentimenti che accompagnano la cessazione del rapporto terapeutico (Vasquez et al., 2008). Questo passaggio richiede che i terapeuti mettano in atto una serie di interventi appropriati, in sintonia con le esigenze del paziente, che ha il diritto di trarre il massimo beneficio dal trattamento. Quando un terapeuta fallisce nel soddisfare i requisiti clinici, etici e pratici della fase di conclusione della terapia si parla di “cessazione inappropriata”. In particolare, lo studio di Farber e colleghi (2022) si è proposto di indagare il ghosting, ossia un’inappropriata chiusura del trattamento psicoterapeutico in cui il terapeuta cessa di comunicare con il paziente senza preavviso. Sulla base di questa definizione, gli obiettivi degli autori sono stati due: valutare il punto di vista del paziente rispetto al processo, alle cause e alle conseguenze del ghosting del terapeuta e analizzare le implicazioni etiche e cliniche del fenomeno.

Il ghosting del terapeuta: cos’è e quali sono i suoi riferimenti normativi

Dal 2015 circa il termine “ghosting” è utilizzato principalmente in campo sentimentale per descrivere il fenomeno in cui un partner smette bruscamente di vedere, inviare messaggi o chiamare l’altro senza dare una spiegazione. Attualmente, il verbo è utilizzato in modo più ampio per riferirsi a tutte quelle situazioni in cui una parte cessa di comunicare con l’altra quando sarebbe atteso un ulteriore interscambio (come tra paziente e terapeuta).

Dal punto di vista normativo, a livello nazionale il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani stabilisce degli standard appropriati di condotta professionale che, rispetto alla conclusione etica del rapporto professionale, citano che lo psicologo debba fornire un supporto alla conclusione del trattamento, suggerendo servizi di salute mentale alternativi. Sono state avanzate varie proposte per fornire ai terapeuti istruzioni specifiche e pratiche per la fase di conclusione, come quella di un contratto terapeutico che includa informazioni su quando e come il trattamento terminerà, sui rinvii dei pazienti in caso di attesa o emergenza imprevista e sul supporto pre-terminale che aiuti i pazienti a gestire le potenziali sfide una volta conclusa la terapia (Vasquez et al., 2008).

Le reazioni dei pazienti

Secondo la letteratura, le reazioni positive dei pazienti alla cessazione del rapporto terapeutico sono associate all’opportunità di aver rivisto gli obiettivi di trattamento e i risultati, di essersi impegnati in discussioni orientate al futuro e di aver condiviso i loro sentimenti riguardo alla fine del trattamento con il terapeuta (Marx e Gelso, 1987). Similmente, è stato dimostrato che tali sentimenti positivi sono legati a una stretta relazione paziente-terapeuta e alla soddisfazione del primo per il trattamento complessivo (Roe et al., 2006; Knox et al., 2011). Al contrario, i soggetti che avevano sperimentato sentimenti negativi durante la fase finale della terapia hanno riportato di non aver avuto l’opportunità di riflettere insieme al terapeuta quanto inerente alla conclusione del percorso e, per questo, di aver vissuto una rottura della relazione (Anderson et al., 2019).

Lo studio di Farber et al. (2022)

Nonostante non esistano ancora studi empirici sul ghosting del terapeuta, il fenomeno è presente e discusso apertamente sui social media. Tuttavia, poco si sa sulle circostanze in cui si verifica e sulle conseguenze subite dai pazienti. In questa direzione, lo studio di Farber (et al., 2022), dopo aver intervistato 77 pazienti ghostati dai loro terapeuti, ha concluso che:

  • i pazienti hanno tentato di ricontattare più volte il loro terapeuta in seguito al ghosting;
  • la maggior parte di loro non è più riuscita a rimettersi in contatto con il proprio terapeuta;
  • essi molto spesso attribuivano l’abbandono al fatto che il loro terapeuta li trovava troppo difficili o ai problemi psicologici o agli eventi della vita del loro terapeuta;
  • riferivano shock, frustrazione, ansia, risentimento e tristezza come risultato del ghosting, anche se tali emozioni si dissipano nel tempo;
  • tendevano a considerare normale l’ultima seduta con il loro terapeuta, rinnegando la responsabilità di essere stati ghostati e credendo che il loro terapeuta debba sentirsi in colpa per questo comportamento.

Il fatto i pazienti che sono stati ghostati sperimentino emozioni negative non è sorprendente: essere respinti senza motivo da una persona con cui si sono condivise confidenze ed emozioni suscita comprensibilmente reazioni intense, specie per coloro che hanno subito esperienze di rifiuto interpersonali. In effetti, la maggior parte degli intervistati ha percepito la loro ultima seduta come abbastanza tipica, tanto che l’abbandono da parte del terapeuta è stato vissuto come scioccante.

 Nonostante queste considerazioni, la maggior parte dei pazienti sosteneva che il proprio terapeuta fosse una brava persona; essi sarebbero quindi contemporaneamente arrabbiati con il terapeuta, pensando che la responsabilità primaria dei terapeuti sia quella di prendersi cura dei propri pazienti fino all’ultimo, ma anche disposti a perdonarli per l’errore fatto, credendosi dei pazienti troppo difficili.

Per quanto emerso, sembra che la decisione di fare ghosting al paziente sia spesso data da motivi di autoprotezione (emotiva o fisica), disinteresse, vincoli di tempo (troppo occupato) o sentimenti sullo stato generale della relazione. L’alternativa al ghosting richiederebbe il coraggio di fidarsi delle conseguenze di rivelazioni difficili ma oneste ai pazienti.

Conclusioni

Visto l’impatto emotivo sui pazienti e il danno creato alla reputazione dei professionisti della salute mentale, il ghosting del terapeuta dovrebbe essere riconosciuto come una violazione etica specifica e particolarmente dannosa. Parallelamente, i principi che regolano la gestione appropriata della fine del trattamento dovrebbero porre attenzione alle implicazioni deleterie dell’abbandono del terapeuta. Infine, considerando che lo studio di Farber (et al., 2022) ha esaminato solo la prospettiva dei pazienti, le ricerche successive potrebbero indagare il punto di vista del terapeuta che ha deciso di non mantenere più il contatto con il paziente.

Psicologia investigativa (2022) di David Canter e Donna Youngs – Recensione

Per Psicologia Investigativa si intende il risultato dell’osservazione e dello studio del comportamento criminale al fine di comprenderlo e fornire così un ausilio nell’azione penale e di indagine.

 

 Criminal Minds, Mindhunter, Black Bird, Dexter, sono solo alcuni dei titoli più o meno recenti e più o meno di successo che vedono come protagonisti serial killer e la relativa squadra di investigatori deputati alla loro cattura.

Possiamo dunque pensare che, ormai, alcuni termini e meccanismi di indagine facciano parte dell’immaginario comune, spesso distorcendo e rimandando impressioni fantasiose e talvolta discoste dalla realtà.

Il ricco e dettagliato manuale “Psicologia Investigativa. Profilazione degli autori di reato e analisi criminale” non nasce per “correggere”, bensì per formare e consentire un completo approfondimento di una disciplina nata all’estero ma che si sta sempre più affermando anche in Italia.

La particolarità del volume non risiede solo nella sua ricchezza di fonti e di esempi, che consentono una lettura scorrevole e una comprensione del testo molto semplice, ma anche e soprattutto nei box di approfondimento alla fine di ogni capitolo, che consentono una autoverifica e hanno lo scopo di stimolare un eventuale formatore in aula.

Il testo è sicuramente lungo e richiede tempo e concentrazione, ma ci accompagna lungo la nascita e le successive trasformazioni di una vera e propria disciplina, partendo da una definizione chiara e immediata, che – come sottolineato – vuole portare la Psicologia Investigativa non tanto fuori dagli schermi tv, quanto più “oltre”.

Per Psicologia Investigativa si intende dunque il risultato dell’osservazione e dello studio del comportamento criminale al fine di comprenderlo e fornire così un ausilio nell’azione penale e di indagine.

La base teorica da cui partire prende le mosse dal crimine e non dalla motivazione, studia i rapporti dell’offender con l’ambiente e le vittime, rintracciando temi dominanti e analizzando le storie criminali pregresse.

Tutto questo, dunque, già ci pone in un quadro complesso e articolato, dove viene sottolineata la metodicità del procedere e soprattutto l’esistenza di linee guida e di un processo strutturato.

Particolarmente interessante risulta anche la sincera sottolineatura di ciò che spesso le fiction (e, talvolta, i romanzi) omettono: la scarsa formazione degli agenti, la presenza di un contesto omertoso, errori umani.

La prima parte del manuale sottolinea come sin dalla nascita della disciplina è stato facile cadere in errore, pensando che fosse sufficiente l’intuito per procedere, ignorando invece l’importanza del metodo scientifico che ad oggi l’accompagna.

David Canter, autore del testo, fu dunque il primo a rendersi conto di questa necessità, sviluppando così un metodo sistematizzato in tre step:

  • analisi delle informazioni;
  • quali conclusioni trarre dalle informazioni acquisite;
  • agire sugli elementi precedenti al fine di formulare una decisione.

Il libro presenta così l’evoluzione e la storia della Psicologia Investigativa soffermandosi e approfondendo anche la storia dei precursori volontari e involontari della disciplina dall’Ottocento ad oggi, accompagnando il lettore nella verifica puntuale del proprio apprendimento con domande mirate che stimolano anche la messa in discussione.

 Presenta casi di crimini passati (es: il vampiro di Dusseldhorf, lo strangolatore di Boston etc) cercando di far comprendere quali elementi hanno portato alla risoluzione del caso e quali lo hanno ostacolato o sono stati poi modificati nel corso dello sviluppo della storia della psicologia investigativa.

Il testo è sicuramente rivolto a personale tecnico, per fornire una formazione guidata o un auto approfondimento, ma risulta decisamente interessante e scorrevole anche per gli appassionati.

Fortunatamente, e questo forse è il suo tratto distintivo, non si limita ad attirare l’attenzione sul criminale o sui delitti, trasformandosi in un “giallo ben congegnato” ed evidenzia in modo sincero (e dunque utile) gli errori pregressi e gli strumenti sviluppati per “correggerli”.

Il Manuale risulta suddiviso in tre sezioni, ciascuna – come già sottolineato – approfondita, ben organizzata, fornita di box riassuntivi ad inizio e fine capitolo, domande conclusive per stimolare l’apprendimento e il confronto:

  • Parte I: la strada verso la Psicologia Investigativa, che fornisce un’ampia e ben discussa genesi della disciplina;
  • Parte II: fondamentali, che illustra gli strumenti teorico-pratici (e la loro evoluzione) imprescindibili e ad oggi in uso;
  • Parte III: profilare le azioni criminali, che classifica e differenzia le diverse tipologie di “reato” con una puntuale analisi delle stesse.

Sebbene si potrebbe pensare che la parte più interessante o discorsiva sia la III, sicuramente la lettura delle prime due consente, come sottolineato in apertura, di non cascare nell’errore di credere di essere in un telefilm o in un romanzo ben scritto.

Complicanze legate all’impulsività nel Disturbo Bipolare

Approfondiamo alcune delle difficoltà legate all’impulsività nel Disturbo Bipolare come l’aggressività, l’abuso di sostanze e il rischio suicidario.

Introduzione

 Il Disturbo Bipolare è un grave disturbo cronico dell’umore caratterizzato da episodi di mania, ipomania ed episodi di depressione che influenzano notevolmente la vita dell’individuo e sono fortemente debilitanti sul piano lavorativo, sociale, affettivo e familiare (Grande et al., 2016).

L’impulsività può essere definita come una predisposizione a reazioni rapide e non pianificate a stimoli interni o esterni, senza tener conto delle conseguenze negative.

Con la sua espressione altamente variabile a seconda della situazione e dello stato affettivo, è particolarmente evidente nel Disturbo Bipolare e l’alta frequenza delle comorbidità associate evidenziano ulteriormente la rilevanza clinica di questa dimensione della malattia (Powers et al., 2013).

Complicanze legate all’impulsività

Aggressività e violenza

Gli episodi maniacali possono essere associati ad un aumento del comportamento aggressivo, in gran parte impulsivo. Come per altri disturbi psichiatrici, la probabilità di aggressività è maggiore in presenza di disturbi da uso di sostanze e in individui con precedenti comportamenti aggressivi. Un ampio studio prospettico ha confermato che un disturbo da uso di sostanze coesistente, insieme ad altri fattori di rischio, tra cui un precedente arresto, la detenzione minorile o l’arresto parentale, era associato a un comportamento violento (Swann, 2009). Vi è consenso sul fatto che l’impulsività sia strettamente correlata all’aggressività. Diversi studi hanno descritto pazienti maniacali che mostravano comportamenti violenti prima del ricovero e mostravano livelli di violenza più elevati durante la prima settimana di ricovero. In un centro di detenzione minorile, la mania è stata riscontrata nel 22% dei soggetti e la depressione nel 20% (Pliszka et al., 2000). Barlow et al. (2000) hanno mostrato che i pazienti bipolari avevano il più alto rischio di diventare aggressivi tra i pazienti ricoverati in psichiatria, mentre, dall’altro lato, i pazienti con depressione avevano meno probabilità di essere coinvolti nelle aggressioni. Anche se nessuno studio ha esaminato direttamente un legame tra impulsività e aggressività in pazienti bipolari, sembrerebbe esserci una relazione coerente tra queste caratteristiche. L’aggressività concettualizzata come una difficoltà nel tradurre gli impulsi comportamentali in parole può essere un collegamento tra queste condizioni (Najt et al., 2007).

Abuso di sostanze

La maggior parte dei pazienti con Disturbo Bipolare ha una diagnosi di abuso di alcol e/o sostanze (Swann et al., 2004). L’impulsività è una caratteristica centrale e pervasiva del Disturbo Bipolare e dei disturbi da uso di sostanze e può fornire un quadro concettuale per comprendere la sovrapposizione e alcune manifestazioni di questa comorbidità, come l’aggressività e la suicidalità. L’impulsività può rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo del disturbo da uso di sostanze nei pazienti con Disturbo Bipolare, e/o una manifestazione comportamentale di un’anomalia biologica che predispone ad entrambi i disturbi. Sono stati mostrati aumenti cumulativi dei punteggi totali della Barratt Impulsiveness Scale (BIS-11) quando l’abuso di sostanze e il Disturbo Bipolare erano presenti contemporaneamente nei pazienti.

 Questi interessanti risultati indicano un collegamento tra Disturbo Bipolare e l’associazione tra impulsività e abuso di sostanze (Ozten et al., 2015). La prima ipotesi per spiegare questa sovrapposizione propone che i soggetti con Disturbo Bipolare facciano uso di particolari sostanze nel tentativo di contrastare o “automedicare” gli spiacevoli sintomi affettivi, portando ad un uso ripetitivo delle stesse. Infatti, Sonne et al (1994) hanno scoperto che il 38% di 25 pazienti bipolari con storie di abuso di sostanze assumeva alcol quando era in fase maniacale e il 13% faceva uso di cocaina durante gli episodi depressivi. Un’altra ipotesi propone che il Disturbo Bipolare possa causare un abuso di sostanze a causa dell’impulsività, della scarsa capacità di giudizio e dell’eccessivo coinvolgimento in attività piacevoli associate al disturbo (Levin & Hennessy, 2004). L’alta prevalenza di disturbi da uso di sostanze o alcool, soprattutto in pazienti suscettibili a stati misti, può aggiungersi alla complessità medica degli episodi maniacali. Anche quando non è l’unico fattore precipitante, l’intossicazione o l’astinenza da sostanze può contribuire agli episodi maniacali e/o essere mascherata da essi (Swann, 2009).

Suicidio

Le persone con disturbi dell’umore sono maggiormente a rischio di morte per suicidio. L’interesse per l’impulsività in relazione al Disturbo Bipolare sembra essere radicato nell’idea che l’impulsività possa essere alla base di alcuni dei comportamenti esibiti da chi è affetto da questo disturbo nel corso della malattia. Nel valutare gli episodi maniacali e ipomaniacali, l’impulsività è implicitamente inclusa come parte dei criteri diagnostici (ad esempio la disinibizione comportamentale) in termini di coinvolgimento in attività che hanno il potenziale di causare conseguenze altamente indesiderate per l’individuo e le persone che lo circondano (Watkins & Meyer, 2013). L’incidenza di morte per suicidio tra i pazienti con Disturbo Bipolare è elevata e può essere più di 20 volte superiore a quella della popolazione generale, in particolare quando il disturbo non è trattato. Circa un terzo o la metà dei pazienti con Disturbo Bipolare tenta il suicidio almeno una volta nella vita, e circa il 15-20% dei tentativi sono portati a termine (Grande et al., 2016). Rafforzando l’importanza dell’impulsività e dell’attivazione nel comportamento suicidario, uno studio di 127 militari con tendenze suicidarie ha mostrato che la gravità dei sintomi ipomaniacali prevedeva un successivo comportamento suicidario (Bryan  et al., 2008). La presenza di un disturbo da uso di sostanze aumentava il rischio di tentativi di suicidio e questo rischio era associato ad un aumento dell’aggressività e dell’impulsività. Dopo i primi episodi maniacali, la gravità del comportamento suicidario era legata alla presenza di uno stato misto. Coerentemente con il ruolo della depressione e dell’impulsività combinate nel rischio di suicidio, uno studio prospettico di 18 mesi ha mostrato che l’incidenza dei tentativi di suicidio era due volte più alta tra gli individui con stati misti (prevalentemente depressivi e maniacali) rispetto a quelli con episodi depressivi puri (Valtonen et al., 2008).

Conclusioni

L’impulsività è un tratto preponderante nel decorso e nella gravità del quadro sintomatologico del Disturbo Bipolare. Pertanto, è probabile che possa essere un fattore essenziale per la diagnosi precoce e la valutazione del rischio nel Disturbo Bipolare, nonché un possibile obiettivo futuro per le strategie terapeutiche e farmacologiche.

 

Ti piace questa canzone? Bastano 5 secondi per deciderlo

Mi è capitato di partecipare ad una riunione con il direttore e fondatore di un’importante agenzia di comunicazione di musica e spettacolo.

 Motivo dell’incontro era la scelta del pezzo trainante di un nuovo album in uscita, quello che sarebbe diventato il primo singolo, sul quale impostare il lancio, realizzare il primo video e tutta la promozione collegata. Da profana mi aspettavo di assistere ad un attento ascolto di tutto il materiale a disposizione a cui avrebbe fatto seguito un confronto sulle impressioni che ciascuno ne aveva ricavato.

Sbagliato.

La selezione

La procedura consisteva in questo: una prima selezione veniva fatta sui titoli e su quelle che si ritenevano essere le aspettative dei contenuti che questi generavano. Da qui si facevano partire le prime note della canzone, non più di pochi secondi, e si passava al pezzo successivo. Stesso copione. Pochi minuti e la scelta del brano trainante è fatta. A dispetto delle ore necessarie ad un artista per confezionare ogni singolo pezzo.

Ma per quanto il metodo possa sembrare discutibile, la persona in questione sapeva il fatto suo e questo mi portava a credere che l’esperienza gli desse ragione.

Partiamo da questa introduzione per dire che quello che ci fa decidere se una canzone ci piace oppure no ha poco a che vedere con l’aspetto artistico mentre risente in modo notevole della nostra parte emotiva, della nostra personalità, dello stato d’animo con cui ci avviciniamo all’ascolto, in una parola delle aspettative che abbiamo verso quello che stiamo ascoltando.

Uno studio recente

Per aiutarci a capire meglio come funziona questo processo, il dipartimento di psicologia della New York University degli Stati Uniti ha condotto una ricerca che dimostra come possono bastare 5 secondi per farci esprimere una valutazione su una canzone. Una valutazione ragionevole, che trova conferma anche in ascolti successivi e più prolungati.

Lo studio è stato condotto dal professor Pascal Wallisch, neuropsichiatra, che ha svolto il suo esperimento utilizzando un campione diversificato di circa 650 studenti universitari residenti della zona di New York City.

L’intento della ricerca era di esplorare se le valutazioni di preferenza e familiarità in risposta all’ascolto di estratti di una canzone sono predittive di queste valutazioni anche in risposta all’ascolto di intere canzoni.

È stato scoperto che le risposte agli estratti sono fortemente predittive del gradimento e della cognizione dell’intera canzone, con solo effetti minori di durata e posizione all’interno della canzone.

Ma vediamo come è stata impostata la ricerca.

Come si è svolta la ricerca

Come abbiamo detto, il campione era composto da studenti universitari della New York University e residenti nell’area metropolitana di New York City (con una fascia di età compresa tra i 17 e gli 87 anni) per un totale di 643 individui.

Ai partecipanti sono state fatte ascoltare 260 canzoni complete e estratti di queste canzoni della durata di 5, 10 o 15 secondi.

I ricercatori hanno anche variato le parti delle canzoni che sono state estratte, utilizzando intro, outro, coro e versi.

Anche i generi musicali variavano, includendo canzoni popolari presenti nelle classifiche musicali di Billboard degli ultimi 80 anni e musica di una vasta gamma di generi, come classica, country, jazz, hip-hop, rock, elettronica e R&B/ soul.

Nell’esperimento, ai partecipanti è stato chiesto di valutare quanto gli piacesse una particolare canzone o clip (in base a una scala di valutazione che andava dal “non la sopporto” a “la adoro”) e di valutare la loro familiarità con essa in risposta alla domanda: “Quante volte avete già sentito questo brano prima?”.

Risultati

Nel complesso, i risultati hanno mostrato che le preferenze dei partecipanti erano allineate sia che l’ascolto comprendesse l’intera canzone sia che comprendesse solo una clip e, in particolare, la lunghezza delle clip non ha fatto alcuna differenza nelle valutazioni degli ascoltatori, così come la parte della canzone da cui era tratta.

“Nel corso di qualsiasi canzone, le proprietà acustiche cambiano drasticamente, ma questo non sembra importare molto agli ascoltatori”, dice Pascal Wallisch.

Alcune considerazioni

 I ricercatori hanno considerato la possibilità che l’ordine di ascolto potrebbe aver influenzato i risultati: la correlazione per la preferenza della canzone era più alta quando la canzone completa è stata sentita prima dell’estratto che quando la canzone completa lo ha seguito. Ma, scrivono gli autori, una correlazione tra la preferenza per un brano e quella per un’intera canzone era molto forte, anche se l’estratto veniva ascoltato per primo. Quindi questa variabile sembra non incidere sui risultati della ricerca.

Gli stessi autori aggiungono che il riconoscimento e la familiarità di una canzone può aver avuto un certo impatto sulle preferenze espresse ma sono arrivati alla conclusione che mentre “le clip non riconosciute che sono state presentate prima della canzone erano meno predittive della valutazione della preferenza della canzone,” tali clip sono “ancora molto più predittive di quanto ci si aspetterebbe su base casuale”. Pertanto anche questo elemento non viene considerato tale da influire sui risultati che si sono evidenziati.

Se ne deduce che sappiamo se ci piace una canzone dopo averne ascoltato anche solo pochi secondi.

Conclusioni

In effetti, è possibile che ciò che guida le valutazioni delle preferenze non siano le proprietà acustiche della canzone in sé, ma l’intero contesto e le associazioni che sono state codificate quando si incontrava per la prima volta la canzone prima dell’esperimento. Se così fosse, potremmo prevedere che un tale effetto aumenterebbe la correlazione tra le clip e le valutazioni delle preferenze dei brani, poiché questi ricordi potrebbero essere utilizzati per valutare la clip, coerentemente con la canzone incontrata in precedenza. Pertanto, questa correlazione dovrebbe essere maggiore per le clip in cui i partecipanti riconoscono la canzone rispetto a quelle in cui non lo riconoscono.

“Questa scoperta potrebbe avere implicazioni di ampio respiro per la nostra comprensione di quali proprietà delle canzoni evocano certe emozioni negli ascoltatori”, osserva Wallisch, “Il fatto che un piccolo estratto sia sufficiente a dirci se la canzone ci piace o meno, suggerisce che rispondiamo più all’atmosfera generale che una canzone ci porta piuttosto che alle sue note musicali di per sé”.

Il presente studio è stato pubblicato sul numero di febbraio 2023 di Music Perception, edito dalla University of California Press. Per le informazioni contenute in questo articolo si ringrazia James Devitt della New York University Press.

Il ruolo dello psicologo nell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati

Il gruppo nazionale di lavoro denominato “Ambiti emergenti”, costituito dal CNOP, ha individuato uno degli ambiti emergenti del lavoro dello psicologo nell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati.

 

 Per “Ambiti Emergenti” si vuole intendere contesti diversi da quello clinico/sanitario, ovvero tutte quelle nuove aree in cui si rendono necessarie le conoscenze e le competenze psicologiche e la loro relativa applicazione da parte di professionisti specializzati. Questi nuovi ambiti emergono, appunto, come naturale esito di cambiamenti culturali ed economici che determinano nuovi contesti relazionali e fanno nascere nuovi bisogni. La psicologia è una scienza che ha saputo adattarsi a tali cambiamenti e la definizione di questi ambiti emergenti ne è la prova. La natura inedita degli “Ambiti Emergenti” e quella scientifica della psicologia richiedono specifici riferimenti teorici e competenze tecniche sperimentate. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) si è occupato proprio di definire gli Ambiti e le relative attività di intervento, in virtù della legge 3/2018, che colloca la professione dello psicologo tra quelle figure professionali che tutelano la salute di tutti gli individui, in linea con quanto sancito dall’articolo 32 della Costituzione.

Ciò di cui parleremo in questo articolo riguarda uno degli ambiti d’intervento emergenti della professione dello psicologo: l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati.

I minori stranieri non accompagnati

L’espressione “minore straniero non accompagnato”, anche abbreviata con la sigla MSNA, è utilizzata in ambito nazionale ed europeo per identificare tutti i minori di diciotto anni, che sono cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea o non hanno nessuna cittadinanza (apolide) e che, per diverse ragioni, si trovano nel territorio nazionale da soli, quindi privi di assistenza e rappresentanza legale da parte dei genitori o di altri adulti legalmente responsabili (Integrazione Migranti, nd).

Sempre più minori giungono nel nostro Paese soli, senza figure di riferimento e legalmente responsabili. Questa è una caratteristica del flusso migratorio perenne e sempre in crescita. Infatti, nel 2022 è stato registrato un aumento del 64% rispetto al 2021 a causa della crisi umanitaria che ha interessato l’Ucraina. I minori che arrivano soli nel nostro Paese sono in maggioranza maschi (85,1%), e nella maggior parte dei casi hanno 17 (44,4%), 16 (24%) o dai 7 ai 14 anni (17,5%). Nello scorso anno sono arrivati principalmente da Ucraina, Egitto, Tunisia, Albania e Pakistan. Le Regioni che ne accolgono di più sono la Sicilia, la Lombardia, la Calabria e l’Emilia-Romagna (Integrazione Migranti, nd).

Data la portata di questo fenomeno, nel rispetto della Convenzione Sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (ONU, 1989), il CNOP (2019) sottolinea la necessità di “passare da una logica di emergenza ad un sistema di protezione integrale dei diritti e di accoglienza diffusa”.

Il lavoro dello psicologo: obiettivi di intervento

In questo ambito lo psicologo coopera con un’equipe multidisciplinare, in stretta collaborazione con la figura del mediatore culturale, seguendo un approccio psico-sociale, etno-psicologico e di emergenza. Si occupa quindi di prevenzione e cura, per garantire il benessere della persona. Struttura il suo intervento tenendo in considerazione gli aspetti sociali, culturali ed emergenziali che hanno riguardato e riguarderanno il minore senza figure di riferimento che giunge in un nuovo contesto. L’obiettivo primario è garantire la sicurezza del minore, soprattutto nei casi di migranti sopravvissuti a traumi estremi e violenza intenzionale. Inoltre, favorisce l’accoglienza, la rassicurazione e l’orientamento alla cura, attraverso attività di promozione della salute mentale, integrazione sociale e intervento sul disagio psichico.

 Nel concreto, lo psicologo si occupa di supportare psicologicamente i minori direttamente nei centri di accoglienza (porto o frontiere), valutare il grado di vulnerabilità e prevenire l’allontanamento dalle strutture di accoglienza per evitare il rischio di tratta, traffico o sfruttamento, al fine di programmare la formazione scolastica, l’inserimento lavorativo e/o il collocamento in famiglia. Inoltre, si occupa di costruire un setting clinico adeguato rivolto ai minori che manifestano sintomi di disturbo da stress post-traumatico.

Un aspetto interessante che si rende necessario in questo ambito è quello dell’accertamento dell’età del minore straniero non accompagnato: per stabilire l’età cronologica lo psicologo valuta il livello di maturità psico-sociale, cognitiva o comportamentale attraverso colloqui approfonditi e appositamente strutturati.

Infine, soprattutto in caso di minori non accompagnati vittime di torture o altre forme di violenza, lo psicologo si muove nella direzione di incrementare la consapevolezza e la gestione dei propri stati emotivi, processi cognitivi e reazioni psicofisiologiche, facendo emergere i fattori di resilienza dell’individuo e stimolando la creazione di nuove strategie di coping per facilitare il processo di integrazione. Questo processo implica anche la creazione di una continuità biografica/esistenziale, possibile proprio grazie all’intervento dello psicologo che stimola la connessione, temporale e di significato, tra passato, presente e futuro nell’esperienza del minore straniero non accompagnato che giunge nel nostro Paese.

Formazione necessaria

Per svolgere la propria attività professionale in quest’ambito lo psicologo deve essere iscritto alla sezione A dell’Albo dell’Ordine degli Psicologi e, se impegnato in attività psicoterapeutica in ambito transculturale, essere abilitato alla psicoterapia. Trattandosi di minori stranieri che spesso hanno subito traumi (oltre all’esperienza migratoria in sé) è importante essere formati in psicologia dell’età evolutiva, in ambito transculturale e psicologia dell’emergenza. Questa formazione si declina nella conoscenza basilare del diritto internazionale e dei diritti umani, dei minori e di genere; nella conoscenza dell’antropologia della cura e delle migrazioni, nonché delle lingue veicolari; oltre alle linee guida in ambito di salute mentale e intervento psicosociale per gli interventi in condizioni di emergenza.

Con questo tipo di profilo lo psicologo per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati può operare in sinergia con mediatori linguistico-culturali o altri referenti (per esempio, religiosi e di comunità), associazioni e altre realtà specializzate nell’accoglienza dei migranti. Queste ultime possono afferire a strutture del Sistema Nazionale Sanitario e dei Servizi Sociali, oppure a progetti privati. Si occupano di assistere le persone dalla fase della prima accoglienza, quindi direttamente al porto, fino alla fase di accoglienza di secondo livello, quindi nell’ambito dello SPRAR (Sistema di Protezione richiedenti asilo e rifugiati) dedicato ai minori stranieri non accompagnati o delle comunità famiglia specializzate.

Dipendenza affettiva. Diagnosi, assessment e trattamento CBT (2022) – Recensione

Il libro “Dipendenza affettiva – Diagnosi, assessment e trattamento cognitivo comportamentale”, recentemente proposto dalla casa editrice Erickson, rappresenta un contributo significativo per chi opera in ambito clinico nel campo delle relazioni disfunzionali.

 

 Si tratta di un testo ampiamente strutturato: partendo dall’inquadramento nosografico, grazie alla dettagliata sintesi degli studi presenti ad oggi in letteratura, propone strumenti per l’assessment e schede di lavoro per il trattamento di tipo cognitivo comportamentale.

Il tema delle dipendenze affettive ha acquisito nell’ultimo decennio una rilevanza crescente nell’ambito degli interventi clinici sulle problematiche relazionali.

La dipendenza affettiva –evidenza nell’introduzione Gabriele Melli, presidente dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva IPSICO– è sempre stata descritta come un sintomo ascrivibile ai disturbi di personalità come il borderline, l’istrionico, il narcisistico e il dipendente.

Nel volume le autrici avanzano l’ipotesi che la dipendenza affettiva non sia solo un tratto all’interno di un quadro diagnostico, ma che le possa essere attribuito lo statuto di sindrome, con una propria autonomia nosografica.

Questo nuovo approccio consentirebbe quindi di programmare interventi clinici strutturati e mirati al problema, anche a prescindere dalla diagnosi personologica del paziente.

Nella concettualizzazione del modello di dipendenza affettiva le autrici individuano una serie di fattori implicati nelle fasi di strutturazione e di mantenimento del disturbo. Vi sono fattori predisponenti di origine arcaica: a livello relazionale si fa riferimento allo stile di attaccamento insicuro o ambivalente, dove il timore della perdita dell’oggetto e la relativa paura abbandonica minano la possibilità di stabilire relazioni mature paritetiche e di fiducia.

A questo si associa un fattore di tipo neurologico: il temperamento. Nelle sindromi di dipendenza affettiva appare ricorrente una disregolazione nel controllo degli impulsi, che si concretizza in una prevalenza dell’agito, scarsamente mediato da adeguata competenza riflessiva.

La marcata impulsività trarrebbe inoltre forza da un deficit nella regolazione emotiva generale, e –secondo un meccanismo di retroattività– la scarsa inibizione all’agito a sua volta accentuerebbe ulteriormente la disregolazione emotiva.

Nello specifico in pazienti con dipendenza affettiva, la disregolazione emotiva, la predisposizione alle reazioni rapide, la ridotta inibizione delle risposte, l’avversione per il ritardo e la scarsa sensibilità ai processi compensativi determinano affetti estremamente dolorosi e scarsamente mentalizzati.

Il ricorso al partner o alla relazione d’amore si configura come una modalità disfunzionale di coping dei vissuti penosi. La dipendenza diventa quindi una “strategia” disfunzionale ricorrente, finalizzata a sedare la sofferenza legata all’angoscia abbandonica.

All’interno di questo quadro, nel processo di strutturazione della dipendenza affettiva vera e propria, il fattore dell’impulsività si lega a quello della compulsività. Le autrici riportano quando osservato da Cuzen e Stein (2014): la dipendenza patologica può essere considerata come elemento di confine tra impulsività e compulsività.

In una prima fase del processo di strutturazione del disturbo, l’impulsività porta ad agire in modo repentino in funzione dell’ottenimento di un piacere (ad esempio trascorrere più tempo con la persona che porta gioia e benessere).

In una seconda fase subentrano comportamenti compulsivi (ad esempio ricerca ossessiva del partner) non più finalizzati al raggiungimento di un evento piacevole (la relazione di coppia): la ricerca del partner è attivata dall’esigenza e dall’urgenza di evitare la sofferenza causata dalla sua stessa assenza.

Il passaggio dalla fase impulsiva alla fase compulsiva avviene con la formazione di un sistema di pensiero specifico. Il soggetto che ha individuato in un partner l’oggetto del proprio desiderio “si ingaggerà via via in strategie cognitive che lo portano alla reiterazione del comportamento dipendente”.

L’attenzione sarà focalizzata in modo esclusivo sul partner e progressivamente si creeranno memorie associate ad esso, a cui seguiranno poi fantasie e pensieri ossessivi. In questo processo un ruolo cruciale nell’attivare la dipendenza lo gioca il fenomeno del “rimuginio desiderante”.

 Si tratta di “una strategia cognitiva conscia e volontaria che coinvolge l’elaborazione di informazioni relative a un oggetto […] in una forma immaginativa (imaginal prefiguration) e verbale (verbal perseveration)”. Il rimuginio desiderante ha due azioni specifiche. Nel breve periodo consente di tollerare l’assenza dell’oggetto: indugiando in fantasie dalla valenza consolatoria, l’attesa della gratificazione reale diventa più sostenibile dal punto di vista emotivo. Sul medio e lungo periodo questo meccanismo accentuerebbe però il craving: il raggiungimento reale, anche nella modalità compulsiva, dell’oggetto d’amore diventa l’unica soluzione per avere sollievo da quello stato di malessere interno, percepito in assenza del partner.

Nel tempo il ricorso all’oggetto d’amore, vissuto soggettivamente come unica possibilità di interrompere lo stato di sofferenza, evolve in una vera e propria abitudine di tipo compulsivo. In una escalation emotiva il craving (desiderio dell’oggetto) aumenta e la tolleranza all’assenza del partner diminuisce. L’assenza dell’oggetto del desiderio nel tempo porta a una sofferenza paragonabile a quella dell’astinenza tipica dei disturbi da dipendenza da sostanze.

I meccanismi di natura cognitiva nel tempo porterebbero anche ad alterazioni di tipo neurobiologico: si assiste a un’alterazione nella capacità di controllo del meccanismo di ricerca dell’oggetto gratificante.

Nelle fasi iniziali della relazione la regolazione del comportamento di ricerca dell’oggetto è affidata all’attività della corteccia prefrontale, capace di inibire i comportamenti impulsivi e disadattivi. In una seconda fase l’emissione delle risposte comportamentali si sposta però dall’area prefrontale all’area striatale: qui al meccanismo di controllo si sostituisce quello di emissione automatica delle risposte.

Nella concettualizzazione del disturbo proposto dalle autrici, numerosi e complessi appaiono i fattori di formazione e mantenimento del disturbo. Ne deriva che il processo di trattamento richieda strumenti capaci di guidare il terapeuta in maniera altrettanto articolata. Allo stesso modo occorre sostenere il paziente in un complesso processo di recupero delle proprie autonomie decisionali, dove possono presentarsi fasi di ricaduta.

A tal fine il testo è corredato da fogli di lavoro mirati per ciascuna fase di trattamento. La presenza di schede esplicative sulla natura del disturbo soddisfa inoltre l’esigenza di fornire al paziente una psicoeducazione sulla natura e le caratteristiche del disturbo. Informare il paziente sui meccanismi che mantengono attivo il problema ha una duplice funzione.

Conoscere i fattori attivanti del disturbo sostiene il paziente: sia nel contrastare i movimenti regressivi delle fasi di recidiva, sia a  ristabilire più velocemente il focus nella fase di recupero.

Per il paziente disporre di schede di lavoro, utilizzabili anche al di fuori del setting terapeutico, fornisce un ulteriore supporto alla gestione delle fasi di criticità che il percorso di cura implica.

Il libro include inoltre un nuovo strumento clinico per la valutazione e la diagnosi del disturbo di dipendenza affettiva: l’INLOAD – Inventory for Love Addiction elaborato a cura di Antonella Lebruto.

 

La salute mentale delle sex workers: una revisione sistematica della letteratura

La revisione sistematica di Beattie et al. (2020) ha avuto come scopo lo studio della prevalenza dei disturbi mentali tra le sex workers nei paesi a basso e medio reddito.

Il sex work

 Nei paesi a basso e medio reddito, l’elevata mancanza di cure adeguate per chi soffre di disturbi mentali impedisce il pieno raggiungimento del potenziale degli individui, compromettendo il capitale umano e aumentando le probabilità di mortalità prematura per suicidio o altre malattie (V. Patel & Saxena, 2019); si stima che il 79% dei suicidi a livello mondiale avvenga proprio nei paesi a basso e medio reddito (World Health Organization, 2014).

Il sex work, definito come la messa in atto di servizi sessuali in cambio di denaro o di beni, può portare le donne che si prostituiscono ad affrontare numerosi eventi e condizioni stressanti quali molestie, arresti da parte della polizia, discriminazione, emarginazione, povertà e disuguaglianza di genere (Hengartner et al., 2015; Platt et al., 2018). Inoltre, sono maggiormente esposte a violenze, coercizioni, inganno, utilizzo di alcol e malattie sessualmente trasmissibili (Suresh et al., 2009); tutti questi fattori, insieme, contribuiscono ad aumentare la vulnerabilità psicologica delle sex workers.

I rischi del sex work differiscono anche in base ai contesti socioculturali ed economici ed i dati riguardanti le sex workers nei paesi ad alto reddito riferiscono elevata prevalenza di disturbi quali depressione, ansia e disturbo da stress post traumatico (el-Bassel et al., 1997; Surratt et al., 2005).

La revisione sistematica pubblicata nel 2020 da Beattie et al., ha avuto come scopo lo studio della prevalenza dei disturbi mentali tra le sex workers nei paesi a basso e medio reddito, indagando, inoltre, le associazioni esistenti tra i fattori che comunemente influenzano la salute (alcol, violenze, droghe, malattie sessualmente trasmissibili) ed il livello di benessere.

Sex work e salute mentale

 Lo studio (Beattie et al., 2020), prendendo in considerazione 56 articoli e 24940 partecipanti in totale, ha riscontrato un’alta prevalenza di problemi di salute mentale tra le sex workers nei paesi a basso e medio reddito, con una prevalenza di disturbo depressivo del 41,8%, disturbo d’ansia del 21,0% e disturbo da stress post traumatico del 19.7%. I tassi di disturbi mentali e di ideazione suicidaria tra le sex workers sono risultati maggiori rispetto a quelli della popolazione generale dei paesi a basso e medio reddito; questo risultato potrebbe essere spiegato dai numerosi fattori di rischio a cui sono esposte, quali stress finanziario, bassi livelli di educazione, abitazioni inadeguate, aggressività, utilizzo di sostanze, discriminazione e maggior probabilità di contrarre malattie sessualmente trasmissibili (STI) (Baral et al., 2012; Deering et al., 2014; Li et al., 2010; S. K. Patel et al., 2015). La revisione sistematica (Beattie et al., 2020) ha inoltre riportato delle forti associazioni tra gli alti livelli di ansia, depressione, disturbo da stress post traumatico ed i fattori sociali e comportamentali a cui le sex workers sono esposte; infatti il malessere psicologico è risultao correlato alle violenze subite (la maggior parte dai partner relazionali o dai clienti, sebbene 3 studi abbiano riportato anche violenze da parte della polizia), all’utilizzo di droghe e di alcool, al mancato uso del preservativo ed alla presenza di HIV/malattie sessualmente trasmissibili.

Un obiettivo per ricerche future potrebbe essere quello di comprendere come determinate interazioni sociali influenzano l’insorgenza di disturbi mentali e quali di questi fattori potrebbero essere modificabili attraverso degli interventi mirati (Beattie et al., 2020).

Attualmente, purtroppo, in letteratura non sono presenti studi sullo sviluppo di interventi di trattamento per la salute mentale delle sex workers, ma tra la popolazione generale dell’India e degli altri paesi a basso e medio reddito, gli interventi psicologici di consulenza presenti nei servizi di assistenza primaria si sono visti essere efficaci per il trattamento della depressione (Chibanda et al., 2016; V. Patel et al., 2017). Sarebbero necessarie strategie mirate alla prevenzione del suicidio, quali maggior promozione della salute mentale e migliore accesso alle cure.

Inoltre lo studio (Beattie et al., 2020), mostrando una forte associazione tra scarsa salute mentale, ridotto utilizzo di preservativo e prevalenza di HIV/malattie sessualmente trasmissibili, suggerisce che i trattamenti dovrebbero focalizzarsi su una maggior psicoeducazione riguardo alle conseguenze dei comportamenti sessuali a rischio, con interventi mirati ad imparare come auto-tutelarsi.

Le punizioni fisiche dei caregiver possono influenzare i comportamenti e lo sviluppo dei figli?

Il Comitato per i diritti del fanciullo nel suo Commento generale n.8 (2006) definisce la punizione fisica come la forza fisica emessa e destinata a causare un determinato grado di dolore o disagio, comportando così una modifica del comportamento del bambino.

L’uso di punizioni fisiche

 L’utilizzo di punizioni fisiche dei caregiver sui figli è stato associato a conseguenze negative, quali un aumento dei sintomi e dei comportamenti esternalizzanti, ovvero quei comportamenti che provocano disagio nel bambino e che sono orientati all’esterno. Esempi di comportamenti e sintomi esternalizzanti si manifestano nel Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, nel Disturbo Oppositivo Provocatorio e nel Disturbo della Condotta (Tien et al., 2020).

Con il termine caregiver si fa riferimento alle persone, quali genitori, parenti o qualsiasi altra figura che investe il proprio tempo nel prendersi cura sia fisicamente, che emotivamente e socialmente di coloro che non sono in grado di gestirsi autonomamente, in questo caso i bambini (Biegel et al., 1991). Il caregiver, ovvero colui che fornisce le cure, può essere uno o più di uno.

Il Comitato per i diritti del fanciullo nel suo Commento generale n.8 (2006) definisce la punizione fisica come la forza fisica emessa e destinata a causare un determinato grado di dolore o disagio, comportando così una modifica del comportamento del bambino.

Il Comitato prende in considerazione come punizioni fisiche il colpire con le mani, attraverso schiaffi, sculacciate oppure con l’utilizzo di oggetti, quali fruste, cinture, cucchiai di legno, scarpe. Tuttavia, può comprendere anche calci, morsi, bruciare, scottare, lavare la bocca con il sapone.

Il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF), suggerisce che a livello internazionale, circa 6 bambini su 10 sono esposti a punizioni fisiche durante l’infanzia (Cappa, 2014).

Conseguenze delle pratiche dei caregiver

Per garantire uno sviluppo adeguato, è necessario che il bambino cresca in un contesto caratterizzato da sicurezza e protezione. Vivere in un ambiente caratterizzato da punizioni fisiche genera stress nel bambino e ha un impatto negativo sul suo funzionamento, più nello specifico sulle sue capacità di ragionare, apprendere, modificare, pianificare e autocontrollarsi, abilità necessarie per avere risultati soddisfacenti in diversi ambiti di vita (Wiggers & Paas, 2022). Ad esempio, lo studio di Font & Cage (2018) riporta che le punizioni fisiche possono essere associate ad una diminuzione della performance scolastica, in quanto questi bambini risultano essere meno concentrati a causa del maggiore stress esperito.

Bambini che subiscono punizioni fisiche hanno una maggiore probabilità di identificare la punizione come “normale”, rispetto alla percezione che hanno i loro pari, poiché non viene spiegato loro come comportarsi adeguatamente nei vari contesti sociali (Gershoff, 2002). Pertanto, un contesto di crescita fondato su punizioni fisiche genera nel bambino difficoltà nell’integrazione a scuola e, più in generale, nel mondo sociale (Gershoff, 2002).

 È interessante evidenziare quanto riportato dallo studio di Wiggers & Paas (2022), secondo cui la punizione fisica può essere considerata un predittore per lo sviluppo di comportamenti esternalizzanti nel bambino, quali ad esempio, aggressività, bullismo, menzogne, litigi, delinquenza, furti, danneggiamento delle proprietà altrui. A tal proposito, si fa riferimento alla teoria dell’apprendimento sociale di Albert Bandura (1978), la quale sostiene che il bambino apprende i comportamenti sociali attraverso la semplice osservazione di un adulto che emette il comportamento. Dunque, i bambini tendono ad osservare, e di conseguenza imitare, i comportamenti delle loro figure di riferimento, come il caregiver. Ad esempio, se un bambino cresce in un contesto dove il caregiver fa un ricorrente utilizzo della punizione fisica, anche lui avrà una maggiore probabilità di adottare comportamenti aggressivi, in quanto questi ultimi vengono percepiti come comportamenti conformi con le norme sociali (Wiggers & Paas, 2022). Viste le numerose conseguenze che le punizioni fisiche hanno sullo sviluppo del bambino, la Corte europea dei diritti dell’uomo, in una serie di sentenze, ha stabilito che le punizioni fisiche devono essere condannate in termini penali, sia nel contesto scolastico che in quello domiciliare (CRC, 2006).

A sostegno di ciò l’American Academy of Pediatrics (2018) ha fornito delle prove di tipo correlazionale tra punizioni fisiche dei caregiver e conseguenze sui figli, evidenziando che le punizioni fisiche nei bambini possono aumentare i litigi tra caregiver e figlio, influenzandone così la relazione, determinare un incremento di comportamenti aggressivi futuri e predisporre a un maggior rischio di sviluppare disturbi mentali. Infine, è stato riscontrato che problemi economici, di salute mentale, violenza domestica o abuso di sostanze sono considerati fattori di rischio per l’utilizzo di punizioni fisiche da parte dei caregiver (Sege et al., 2018).

Conclusioni

In conclusione, le punizioni fisiche determinano effetti negativi in diversi contesti di vita, andando a minare una sana traiettoria di sviluppo del bambino. Proprio per questo è importante sensibilizzare i caregiver all’utilizzo di pratiche educative alternative e funzionali. È quindi necessario che il caregiver sia in grado di offrire nutrimento e protezione, di dare conforto, di perdonare, di ascoltare, di soddisfare le richieste del bambino, di stabilire delle regole da seguire, ma anche di essere aperto alla negoziazione di tali regole (Wiggers & Paas, 2022).

Genitori di sé stessi. Mindfulness e reparenting (2023) di Nicoletta Cinotti – Recensione

“Genitori di sé stessi. Mindfulness e reparenting” fin dalle prime pagine mostra come l’interiorizzazione dei rapporti parentali condizioni le nostre aspettative e il nostro modo di relazionarci.

 Nicoletta Cinotti, psicologa specializzata in bioenergetica e didatta presso la Società italiana di Bioenergetica, è esperta di mindfulness e organizza il Teacher Training italiano in Mindful Parenting con Susan Bögels. È autrice di vari articoli e volumi, la sua ultima opera è intitolata “Genitori di sé stessi. Mindfulness e reparenting”, un libro edito a febbraio 2023 da Erico Damiani Editore.

Il Mindful Parenting è un lavoro di meditazione che esplora il proprio modo di entrare in relazione con il mondo partendo dal presupposto che lo stile genitoriale influenza la maniera in cui ciascuno di noi si relaziona con sé stesso e con gli altri.

Il Reparenting (NdR per come è inteso in questa opera) è un modo alternativo di considerare il disagio emotivo, attraverso gli strumenti offerti dalla mindfulness e dalla self-compassion e permette di ritrovare un equilibrio fondato sul prendersi cura di sé e sul perdono.

Perché questo è il coraggio: avere compassione e comprensione della nostra paura e, nondimeno, andare in giro per il mondo. In fondo siamo vulnerabili guerrieri, non eroi. E l’arma dei vulnerabili guerrieri è la tenerezza, quell’emozione che è il vero araldo della trasformazione e della compassione.

 L’opera della Cinotti può essere considerata un manuale, organizzato in capitoli, che descrive una sorta di viaggio interiore che parte dalla sensazione di “sentirsi mancare la terra sotto i piedi”, passa attraverso la riscoperta dell’intimità con sé stessi e la consapevolezza che la stabilità è solo un’illusione, per giungere alla presa di coscienza che ognuno di noi possiede una famiglia interiore che può rivelarsi fragile.

Ogni capitolo è costituito da una storia, una pratica di meditazione ed un esercizio.

L’autrice, già nelle prime pagine del suo libro, focalizza come l’interiorizzazione dei rapporti parentali condizioni le nostre aspettative e il nostro modo di relazionarci. La Cinotti sottolinea come tutti noi siamo in attesa di ricevere l’amore di cui abbiamo bisogno e come questa aspettativa sia legata alle esperienze infantili ed evolva con il passare del tempo.

Sogniamo tutta la vita un rapporto in cui non sia necessario fare qualcosa per ricevere, o meglio un rapporto in cui dare e ricevere siano semplici e spontanei, proprio come quando vediamo un genitore che gioca divertito e divertente con il proprio bambino o bambina. Vogliamo quell’amore lì. Forse l’abbiamo avuto durante l’infanzia. Forse non ci sembra di averne avuto abbastanza o pensiamo di non averlo ricevuto per nulla, nemmeno nell’infanzia.

Le storie raccontate nel testo hanno un potere evocativo, gli esercizi sono ben descritti, la lettura del manuale è scorrevole ed estremamente piacevole.

L’influenza dei tratti personologici sull’intimate partner violence

Sono stati identificati diversi fattori di rischio che predispongono all’intimate partner violence ed è stato ipotizzato che alcuni tratti di personalità possano essere considerati tali.

La violenza all’interno della coppia

 La struttura e la funzione della personalità sono state studiate anche nel contesto delle relazioni romantiche. È emerso che alti livelli di sintomi paranoidi, schizoidi, schizotipici, antisociali, borderline ed evitanti sarebbero predittori di conflitto interpersonale (South, 2014).

Da alcuni studi sembra che le persone tendano ad “adattarsi” alla patologia del partner, abituandosi con il tempo ai sintomi maladattivi di personalità del partner (South, Boudreaux & Oltmanns, 2020). Questo implica un basso livello di soddisfazione all’interno della coppia; infatti, la soddisfazione della coppia è risultata essere inferiore tra gli individui con alti livelli di personalità patologica (South, Turkheimer & Oltmanns, 2008).

L’intimate partner violence (IPV) è definita genericamente come abuso fisico, sessuale o psicologico inflitto da un partner (l’individuo che perpetra) sull’altro (l’individuo che viene vittimizzato) (Centers for Disease Control and Prevention, 2012). La prevalenza con cui si subisce violenza fisica/sessuale e stalking corrisponde al 37.3% per le donne e il 30.9% per gli uomini (Smith et al., 2017). L’intimate partner violence aumenta il rischio di sviluppare problemi fisici e psicologici conseguenti alla violenza, come dolore cronico, depressione, PTSD, abuso di sostanze, ideazione suicidaria (Campbell, 2002; Okuda et al., 2011; Afifi et al., 2009).

Fattori di rischio per l’intimate partner violence

Sono stati identificati diversi fattori di rischio che predispongono all’intimate partner violence, tra questi l’abuso infantile fisico/sessuale, l’appartenenza a una categoria socioeconomica bassa, la disoccupazione, l’abuso di sostanze e il gioco d’azzardo (Capaldi et al., 2012; Eckhardt, Parrott, & Sprunger, 2015; Dowling et al., 2016).

 Inoltre, è stato ipotizzato che alcuni tratti di personalità, come per esempio l’impulsività, possano essere considerati fattori di rischio per comportamenti violenti. Questo risultato è supportato da altri studi sul legame tra ADHD e intimate partner violence, proprio per il ruolo che l’impulsività ricopre nella sintomatologia ADHD (Krueger et al., 2002; Brasfield et al., 2012; Buitelaar et al., 2015; Easton et al., 2008).

Una meta-analisi di Collinson e Lynam (2021) ha indagato il ruolo dei disturbi di personalità nell’intimate partner violence. I risultati hanno mostrato che, in tutti i 163 studi tenuti in considerazione, diversi disturbi di personalità correlavano significativamente con la perpetrazione di intimate partner violence, tra cui il disturbo antisociale, il disturbo narcisistico, il disturbo borderline, il disturbo paranoide e quello schizotipico.

Anche il rapporto tra disturbi di personalità e vittimizzazione è risultato significativo, sebbene  in misura inferiore rispetto alla perpetrazione della violenza. I disturbi maggiormente legati alla vittimizzazione risultano essere l’evitante, il dipendente e il borderline. In sintesi, i due disturbi che, statisticamente, sono risultati maggiormente legati alla perpetrazione e vittimizzazione sono rispettivamente il disturbo antisociale e il disturbo borderline.

Covid-19: i disturbi del sonno durante i periodi critici della pandemia

Diversi studi hanno indagato gli effetti della pandemia a livello del sonno, soffermandosi sull’insorgenza di disturbi nel sonno in soggetti con e senza pregresse difficoltà in questa sfera.

 

 Un terzo della vita umana viene trascorso dormendo, il sonno è perciò fondamentale per la nostra salute, ma anche per l’acquisizione di conoscenze, per lo sviluppo di idee e per il consolidamento della memoria (IRCSS HUMANITAS, 2016). Il tempo di riposo necessario per un individuo varia a seconda dell’età e dello stato di salute: i bambini e gli adolescenti hanno bisogno di circa 9-10 ore di riposo, mentre gli adulti di 7-8. A breve termine, la deprivazione può portare a conseguenze lievi, come un aumento dell’irritabilità, difficoltà di apprendimento, difficoltà nel prendere decisioni e di problem solving; mentre a lungo termine può causare ipertensione, obesità, diabete, ictus e infarto (Alhola & Polo-Kantola, 2007). La deprivazione prolungata è anche un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi come ansia e depressione, e invecchiamento precoce del sistema nervoso (Healthline, 2020).

Cambiamenti nelle abitudini del sonno tra il 2020 e il 2021

La pandemia causata dal Covid-19 ha portato a numerose modificazioni nella vita quotidiana, specialmente a causa del lockdown e ha avuto un forte impatto sulla salute degli individui. Una delle aree maggiormente colpite è quella del sonno. A tal proposito, nel 2020 Jahrami e colleghi hanno condotto una revisione sistematica della letteratura per valutare l’impatto e la prevalenza dei disturbi del sonno tra tre categorie di persone: popolazione generale, pazienti affetti dal Covid-19 e operatori sanitari.

Gli autori hanno esaminato 44 studi, coinvolgenti in tutto 54231 partecipanti distribuiti in 13 Paesi (Australia, Bahrain, Canada, Cina, Francia, Germania, Grecia, India, Iraq, Italia, Messico, Spagna e Stati Uniti).

I risultati hanno mostrato che i pazienti affetti da Covid-19 avevano le percentuali più alte di problemi del sonno (75%), mentre gli operatori sanitari e la popolazione generale avevano ottenuto rispettivamente il 36% e il 32%.

Tenendo conto di questi risultati, Sun e colleghi (2020) si sono concentrati sulle conseguenze della pandemia sui pattern del sonno tra gli infermieri: utilizzando un approccio fenomenologico, hanno condotto interviste faccia-a-faccia o telefoniche con 20 infermieri che lavoravano con pazienti affetti da Covid-19. I risultati hanno mostrato un aumento del 9% dell’affaticamento e della sonnolenza, in particolare tra gli operatori sanitari di genere femminile (Yifan et al., 2020).

Per quanto riguarda l’aumento dei disturbi del sonno in questo periodo specifico, Javaheri e Javaheri (2020), dopo aver osservato le tendenze emergenti relative alla salute del sonno dei loro pazienti, hanno ipotizzato una diffusione universale della problematica: hanno osservato una maggiore difficoltà ad addormentarsi e a rimanere addormentati tra i loro pazienti con o senza precedenti di insonnia.

Questi cambiamenti potrebbero essere ricondotti a una serie di ragioni, come l’aumento dei livelli di ansia, l’uso di caffeina, il consumo di alcol e l’esposizione alla luce blu causata dall’aumento del tempo trascorso sullo schermo. È stato osservato come il lockdown abbia provocato alterazioni nei ritmi circadiani, causando principalmente un ritardo dell’orario di coricamento; infatti, molti dei pazienti considerati da Javaheri e Javaheri nel loro studio (2020), hanno ritardato di due ore l’addormentamento (dalle 22 alla mezzanotte) e di una o due l’ora della sveglia (dalle 6-7 alle 8-9): questo fenomeno, che può sfociare in un vero e proprio disturbo, viene solitamente definito “sindrome della fase del sonno”.

Inoltre, è stato osservato un aumento del sonnellino diurno e un aumento del consumo di alcol, che, oltre ai suoi effetti negativi comunemente noti, può anche causare il peggioramento dell’apnea ostruttiva del sonno, l’insonnia durante la seconda metà della notte e una diminuzione del sonno REM (Ebrahim et al., 2013).

 Come previsto da Javaheri e Javaheri, l’aumento dei disturbi del sonno si è diffuso ampiamente in molti Paesi. Durante le prime due settimane di isolamento (marzo 2020) Casagrande e colleghi (2020) hanno condotto un sondaggio online, in cui partecipanti hanno riportato una scarsa qualità del sonno nel 57% dei casi. Analogamente, Cellini e colleghi (2020) hanno osservato un aumento dei disturbi del sonno e dell’insonnia: hanno riferito che la qualità del sonno è stata alterata a causa dei cambiamenti nelle abitudini dovuti al confinamento in casa, in particolare se combinata con alti livelli di stress, sintomi ansiosi e depressivi. Anche Salfi e colleghi (2020) hanno sottolineato che la popolazione italiana ha mostrato disturbi del sonno evidenti dopo il lockdown per via degli alti livelli di stress.

Uno studio comparativo tra Italia e Belgio condotto da Cellini e colleghi (2021) ha indagato le conseguenze della pandemia sulle caratteristiche del sonno, in particolare sui tempi e sulla qualità soggettiva. Ai partecipanti è stato chiesto di fornire informazioni sulla qualità del sonno percepita e sulle modalità di addormentamento, durante e prima della pandemia attraverso un sondaggio online. Come per i pazienti di Javaheri e Javaheri (2020), i partecipanti hanno riferito un ritardo nei tempi di coricamento, un aumento del tempo trascorso a letto e una compromissione della qualità del sonno durante l’isolamento. I ricercatori hanno anche riferito che le donne, le persone con umore negativo e quelle fortemente stressate dalla pandemia sono apparse le categorie più vulnerabili, ma le due popolazioni differiscono nei sottogruppi. Infatti, la qualità e i tempi del sonno dei disoccupati italiani erano profondamente cambiati, mentre i disoccupati belga erano stati meno colpiti dalle restrizioni (Cellini et al., 2021).

Infine, Marelli e colleghi (2021) hanno condotto una ricerca su 400 soggetti, di cui 307 studenti universitari e 93 lavoratori dell’amministrazione universitaria. I risultati hanno mostrato che l’impatto del confinamento obbligatorio fosse più significativo negli studenti che nei lavoratori e che le femmine fossero la popolazione maggiormente colpita. I ricercatori hanno anche evidenziato un aumento nell’orario di coricamento, della latenza del sonno e del tempo trascorso in veglia, con un peggioramento generale della qualità del sonno. In particolare, i lavoratori hanno mostrato un aumento del mantenimento dell’insonnia, mentre gli studenti hanno registrato tassi più elevati di ritardo nel coricamento e di tempo trascorso svegli. In più, il 27,8% dei partecipanti ha mostrato sintomi depressivi e il 34% ha riportato alti livelli di ansia, soprattutto tra gli studenti.

Inoltre, Martínez-de-Quel e colleghi (2021) hanno raccolto dati da un campione di 693 partecipanti che hanno preso parte a un sondaggio online sulle loro esperienze durante il lockdown. In particolare, dovevano fornire informazioni sull’attività fisica, sulle abitudini alimentari, sulla qualità del sonno e sul benessere generale. Ai partecipanti è stato chiesto di compilare il sondaggio due volte, all’inizio del confinamento e alla fine: durante i 48 giorni di isolamento, le persone fisicamente attive hanno riportato un significativo peggioramento dell’attività fisica, della qualità del sonno e del benessere, mentre la routine delle persone fisicamente inattive non è cambiata in modo significativo (Martínez-de-Quel et al., 2021).

Conclusioni

In sintesi, come era accaduto durante il periodo della SARS nel 2003, questi studi hanno sottolineato il peggioramento della qualità del sonno in un numero considerevole di individui (ad esempio, un peggioramento o l’esordio dell’insonnia) e un aumento generale dei disturbi mentali, in particolare della depressione, dell’ansia e dei sintomi di stress. I risultati suggeriscono anche che gli operatori sanitari sono stati una delle categorie più colpite.

Tratti autistici nei giovani con anoressia nervosa prima e dopo il trattamento

Susanin e colleghi (2022) nel loro studio si sono chiesti se i tassi più elevati di tratti autistici osservati nei campioni adulti affetti da anoressia siano una vera e propria co-occorrenza diagnostica, o piuttosto, i comportamenti simil-autistici possano essere un esito della malattia.

La co-occorrenza tra anoressia e autismo

 L’anoressia nervosa (AN) è un disturbo psichico che spesso esordisce nell’adolescenza (Swanson et al., 2011). Caratteristiche coerenti con il disturbo dello spettro autistico, un disturbo dello sviluppo neurologico caratterizzato da deficit nella comunicazione sociale e nell’interazione così come la presenza di comportamenti e interessi ripetitivi o ristretti (APA, 2013), sono spesso riscontrate in soggetti con una durata maggiore dell’anoressia (Saure et al., 2020). Questa co-occorrenza suggerisce che i tratti autistici o l’autismo possono predire un grave e duraturo decorso dell’anoressia (Nielsen et al., 2015).

Una ricerca precedente evidenzia sovrapposizioni tra i correlati cognitivi dell’anoressia e dell’autismo, come le difficoltà con la teoria della mente (Sedgewick et al., 2019) e con il set‐shifting, ovvero la capacità di trasferire l’attenzione a nuovi compiti, situazioni o oggetti (Holliday et al., 2005). Questa sovrapposizione porta a un’ipotesi di endofenotipo condiviso o rischio genetico (Boltri & Sapuppo, 2021; Kinnaird & Tchanturia, 2021; Rhind et al., 2014; Westwood, Eisler, et al., 2016; Westwood, Stahl, et al., 2016; Zucker et al., 2007).

Recenti ricerche, infatti, indicano un’associazione positiva tra i tratti autistici e la psicopatologia dei disturbi alimentari nei soggetti di età compresa tra 18 e 55 anni (Tchanturia et al., 2019). Una recente revisione sistematica suggerisce che tra l’8% e il 25% degli adulti con anoressia presentano caratteristiche o soddisfano pienamente i criteri per l’autismo (Boltri & Sapuppo, 2021). Questi tassi appaiono più bassi nei giovani (Boltri & Sapuppo, 2021): questa è una differenza molto rilevante, poiché l’autismo esordisce nell’infanzia e l’anoressia spesso esordisce in adolescenza, ad eccezione di un recente studio che esamina le caratteristiche autistiche nei bambini con anoressia, e riscontra caratteristiche autistiche presenti nel 16,3% dei partecipanti (15 su 92) (Inoue et al., 2021).

Uno studio su anoressia e tratti autistici

Pertanto, gli autori del seguente studio si chiedono se i tassi più elevati di tratti autistici osservati nei campioni adulti affetti da anoressia siano una vera e propria co-occorrenza diagnostica, o piuttosto, i comportamenti simil-autistici possano essere un esito della malattia, dovuta dall’impatto della malnutrizione sulla cognizione sociale e sul funzionamento esecutivo durante un periodo chiave dello sviluppo (Susanin et al., 2022). Susanin e colleghi (2022) avevano quindi l’obiettivo di esaminare i tratti autistici nelle prime fasi dell’anoressia e durante il processo di trattamento, per capire meglio se i tratti autistici sono presenti e se sono un marker di prognosi sfavorevole dell’anoressia o invece una potenziale sequela della stessa (Susanin et al., 2022).

È stata condotta un’analisi post-hoc esaminando le caratteristiche autistiche in 59 giovani con anoressia. Gli adolescenti e i genitori che hanno partecipato allo studio clinico randomizzato hanno compilato dei questionari per sondare le caratteristiche autistiche prima (baseline) e alla fine del trattamento. I partecipanti sono stati classificati come “superiori” o “inferiori” agli indicatori clinici di autismo utilizzando l’Autism Probability Index (API) e e l’Autism Spectrum Quotient-10 (AQ).

 Complessivamente, dall’analisi sono stati riscontrati bassi tassi di caratteristiche autistiche co-occorrenti che suggeriscono una possibile diagnosi di autismo nel campione di screening utilizzato (Susanin et al., 2022). Nonostante l’esclusione specifica dei giovani con una diagnosi formale, o sospetta, di autismo, circa un partecipante su tre ha mostrato segni di essere “a rischio” di autismo con un punteggio superiore a 60 nell’API, e cinque adolescenti hanno mostrato caratteristiche clinicamente significative, ottenendo un punteggio superiore a 70 nell’API. I giovani considerati “a rischio” o nel range clinico non sembravano differire per variabili demografiche o di presentazione clinica rispetto a quelli senza tratti autistici (Susanin et al., 2022). Sono state riscontrate invece alcune differenze nel decorso clinico tra i soggetti “a rischio” e quelli “non a rischio” in base all’API; in particolare, gli innalzamenti dell’API riferiti dai padri sembravano predire esiti peggiori (Susanin et al., 2022).

Considerazioni conclusive

Grazie al seguente studio è possibile quindi trarre diverse e importanti deduzioni. In primo luogo, i tassi di diagnosi di autismo nel campione di screening, prevalentemente femminile, erano coerenti con il campione femminile della popolazione comunitaria generale (Shenouda et al., 2022). Tuttavia, anche in un campione specificamente destinato a escludere i giovani autistici, sono stati osservati molti giovani che raggiungevano i valori soglia sugli strumenti di screening. Questo dato può essere dovuto al fatto che l’autismo è spesso sotto-diagnosticato nelle ragazze o può riflettere la sovrapposizione tra le caratteristiche cognitive, sociali e comportamentali dell’anoressia e i tratti autistici valutati dai test di screening AQ e API (Susanin et al., 2022).

In conclusione, quindi, questi risultati evidenziano la necessità che gli studi futuri utilizzino strumenti diagnostici completi nello studio dei tratti autistici in campioni di soggetti affetti da anoressia.

 

Un incontro con Galit Atlas. Il resoconto dell’intervista all’autrice de “L’eredità emotiva”

Nel Gennaio 2022, coloro che hanno partecipato al congresso “La Personalità in Psicoterapia” hanno avuto il piacere di ascoltare la Prof.ssa Galit Atlas su “Personalità e trauma”, ovvero un intervento sui solchi che il trauma scava nella nostra personalità.

 

 La Prof.ssa Atlas è carismatica, interessante e affronta tematiche che toccano le fantasie di platee amplissime. È quindi stato facile ricordarsi di lei quando, a un anno di distanza, è stato pubblicato per Cortina Editore, il suo ultimo libro “L’eredità emotiva”. È consuetudine del nostro piccolo gruppo di lavoro (la Dott.ssa Roberta Cimaglia, la Dott.ssa Lara Scali e il Prof. Giuseppe Tropeano) riunirsi spesso nel salotto romano dell’Hotel Locarno, a discutere di libri o articoli che hanno suscitato in noi particolare interesse.

Dopo aver letto “L’eredità emotiva”, abbiamo ritenuto di contattare l’autrice per proporle un’intervista su quest’opera. La nostra fantasia si è soffermata a lungo sull’immagine di copertina: una donna di spalle, una Rückenfigur, che guarda verso un deserto silenzioso; forse sotto un viadotto desolato, forse sotto l’ala di un aereo dal quale è sbarcata senza bagagli.

La donna ritratta è la Prof.ssa Atlas? Perché siamo così suggestionati dall’atmosfera che ci introduce al libro?

Prof.ssa Atlas: Anche per me è molto interessante, il libro è stato tradotto in 25 paesi, l’Italia è stato uno dei primi assieme a Israele (…). Capisco che ci sono delle implicazioni culturali e gli editori spendono molto tempo per scegliere la copertina giusta. La copertina israeliana è molto più intensa di quella americana e così quella italiana. Voi cosa ne pensate? Se un libro ha successo in una cultura è perché dice qualcosa alla cultura a cui si rivolge. Penso che l’Italia sia uno di questi paesi perché gli italiani sanno gestire emozioni profonde. Le idee principali sono universali, ma ogni cultura le processa in modo diverso.

Con la sua attenzione alla cultura in senso antropologico, Galit Atlas dimostra di essere una psicoanalista che interpreta e vive la modernità. Infatti, nonostante i nobilissimi lasciti degli studi sul trauma generazionale, che annovera precedenti illustri come Felicity de Zulueta, la Atlas propone una visione innovativa di Ferenczi, ovvero l’eredità emotiva dei traumi irrisolti delle generazioni precedenti.

Prof.ssa Atlas: Molti dei concetti e idee di Ferenczi sono usati nella psicoanalisi contemporanea e psicoanalisi relazionale. Uno dei miei precedenti libri tecnici è “Dialogo drammatico” e Ferenczi dice che la psicoanalisi è un dialogo teatralizzato. Io faccio riferimento a Ferenczi diverse volte, riportando alla vita le sue idee, includendo l’importanza che lui dà al trauma, principalmente al trauma sessuale. Uno degli avanzamenti maggiori della psicoanalisi è l’intersoggettività, ovvero la bidirezionalità di come il mondo interno è permeato dal mondo esterno. Una relazione di reciproca influenza che va avanti e indietro.

E questo è già stato detto da Ferenczi in passato! Il trauma proviene dall’esterno e poi viene processato, ci impatta. Noi possiamo parlare di femminismo, attivismo sociale … noi parliamo del mondo esterno e di come questo ci traumatizza e impatta su di noi.

Un altro concetto importantissimo per ogni psicoanalista contemporaneo è la regolazione emotiva nella psicanalisi, l’affetto!

Inoltre, Ferenczi ci ha dato l’importanza dell’affetto e l’importanza del controtransfert. Il controtransfert è una risorsa per i terapeuti, non solo una resistenza. Quello che ha aggiunto è che nel Transfert -Controtransfert c’è un insight analitico, oltre che dell’empatia dell’analista. In passato non era professionale parlare della propria emotività. L’onestà, la sincerità, l’emotività sono concetti portati alla luce da Ferenczi.

Dott.ssa Scali: Mi fa pensare alla sua intervista con Dani Shapiro, dove dicevate che adesso possiamo parlare del trauma perché c’è stato un cambiamento culturale. Attualmente siamo a nostro agio con argomenti che all’epoca di Ferenczi erano troppo disturbanti. Ci vedo la presenza della rimozione per difenderci da contenuti troppo toccanti.

Prof.ssa Atlas: E anche la pandemia ha cambiato le cose, ci ha aiutato a essere pronti. Adesso noi possiamo parlare della realtà esterna, il fuori-dentro del trauma. Inoltre c’è meno vergogna da parte delle vittime, possiamo parlare del razzismo e della schiavitù. Anche il filone degli studi sull’isteria ha patologizzato delle donne che erano state effettivamente abusate, e che hanno in realtà dimostrato una reazione sana al loro abuso. In questo senso, la patologia è fuori dal loro sé, è l’ambiente che è malato. Parlando in termini solo ortodossi, ci sarebbe un enorme gap fra la psicoanalisi e la nostra società contemporanea.  

Allo stesso tempo lo stile comunicativo di Galit Atlas consente agli astanti di immedesimarsi completamente nelle sue narrazioni, tanto da sentirsi all’interno della stanza dove va in scena il “Dialogo drammatico” fra Analista e Paziente.

Dott.ssa Cimaglia: Sono rimasta molto impressionata dal caso di Guy e ho avuto i “brividi” mentre lo ascoltavo durante il meeting “La personalità in psicoterapia- Personality summit” del 2022, supervisionato dal Prof. Vittorio Lingiardi.

Prof.ssa Atlas: Certamente, la sicurezza è l’inizio di una relazione terapeutica. Direi che è un cambiamento della relazione terapeutica, più che il suo inizio. Parlando di dialogo drammatico, nelle prime sessioni, io sono spaventata da G. perché lui parla con me in un modo molto profondo, lo chiameremmo identificazione proiettiva. Allo stesso tempo, io potrei essere suo padre abusante, invasivo, qualcuno che lo fa sentire attaccato, invaso e abusato, per questo mi fa sentire ciò di cui lui ha paura. 

Quando lui si toglie il cappotto mi dice che c’è una speranza che il terapeuta sia buono, non troppo freddo, non troppo caldo, ed è simbolico. Non è caldo (intrusivo), non è freddo (deprivante). 

In quel momento sono chiamata a ricoprire un nuovo ruolo, ovvero la madre che lui avrebbe voluto avere. Nel transfert non sono solo la madre reale, ma anche la madre desiderata, quella immaginata nella nostra mente. Sempre nel transfert, io divento genitore ideale, perché c’era già questa madre ideale nella sua mente. Non credo che molti ne parlino. Non credo che i pazienti che non hanno mai sognato un genitore ideale possano portarlo nel transfert come madre transferenziale.

Nelle relazioni create con pazienti abusati, dove noi siamo nuovi oggetti d’attaccamento, il trauma può essere lasciato fuori dalla stanza. Guy era dissociato, quindi lui poteva finalmente avere una relazione con un genitore buono, ma il trauma non può essere pienamente elaborato.

Inoltre la formazione di Galit Atlas le consente di trattare i traumi dei suoi pazienti grazie agli strumenti acquisiti con un training in sessuologia clinica. Il tema del piacere si interseca con quello delle ferite subite, mentre la terapeuta regola la “temperatura” muovendosi fra sessualità e trauma, vita e morte.

Possiamo considerare il piacere come un antidoto al trauma?

Prof.ssa Atlas: Questo riguarda la nostra mente, ma anche la nostra cultura: alcune culture non possono parlare di sesso se non come una cosa sporca. Il trauma è correlato alla relazione dialettica fra vita e morte. Non è inusuale per i nostri pazienti, che sono in lutto, o dopo un trauma, o durante la guerra. Noi siamo presi dall’illusione che possiamo essere riportati alla vita, che possiamo sopravvivere attraverso l’erotismo. 

Quando Eve faceva sesso con Josh aveva degli occhi morti, voleva riparare le umiliazioni, le sofferenze. Voleva un nuovo futuro, anche se noi sapevamo che lei avrebbe ottenuto l’opposto. Nonostante i suoi tentativi, anche lei era diventata una madre morta, ma la sua fantasia inconscia era che tutto poteva essere riparato. Ma era una ripetizione, non una riparazione. 

Quando i pazienti sentono che noi siamo vivi, e autenticamente nella relazione, loro possono portare la sessualità nella terapia, e quella è la parte costruttiva dell’uso della sessualità. D’altro canto, c’è anche la parte mortifera, dove tutto potrebbe rompersi, la sua famiglia potrebbe rompersi, ed è per questo che viene in terapia.

Attraverso le self-disclosure che la Prof.ssa Atlas dissemina nel suo libro, si entra in contatto con i vissuti della sua cultura d’origine, quella ebraica. L’elemento antropologico permea la stanza d’analisi, creando un ponte fra il trauma come esperienza collettiva e l’esperienza personale del trauma transgenerazionale.

Come psicoterapeuti cosa possiamo imparare dalla cultura ebraica in termini di eredità emotiva?

Prof.ssa Atlas: La psicoanalisi ha cominciato gli studi sulla trasmissione trans-generazionale del trauma dopo l’olocausto. Molti analisti sopravvissuti emigrarono in America portando con sé il discorso sull’olocausto e sulla persecuzione. Nel ‘67 la società psicoanalitica ha organizzato il primo congresso su questo argomento, dal titolo “La traumatizzazione psichica delle catastrofi sociali”, e ci furono dei contributi di famiglie e sopravvissuti. È così che è cominciato questo filone di ricerca…

Ricordo a questo proposito una signora la cui nonna era una sopravvissuta ad Auschwitz. Questa nonna era solita stringerle la mano in un certo modo, che lei ha ritrovato nel modo di stringere la mano dei suoi figli. Ma questa stretta era molto forte, piena di paura e senso di protezione, forse troppa protezione. Era la stretta della nonna traumatizzata che lei riportava sui suoi figli. 

 Negli anni ’90, è cominciato il filone di ricerca sull’epigenetica, ma molti di quegli scienziati erano la seconda generazione di ebrei traumatizzati. I ricercatori sono cresciuti in condizioni simili alle mie (ovviamente io ho il mio trauma, che appartiene all’esperienza della mia famiglia), in comunità prevalentemente ebraiche e sentivano che c’era qualcosa dentro di loro che non avevano vissuto direttamente. 

Nei traumi sociali, come la schiavitù, e altri attacchi razzisti a minoranze etniche, o in altri tipi di trauma, noi avvertiamo qualcosa interiormente ed è lì che cominciamo a ricercare come scienziati o clinici.

Nel caso di Dana, descritto nel capitolo 8, i lettori troveranno altri punti d’intersezione fra la biografia dell’autrice e le storie di vita consegnate dai pazienti alla terapeuta. Questo incontro fra i lutti familiari di Dana e la nascita di Mia, terza figlia dell’autrice, consente di “Pensare l’impensabile”.

È lecito ritenere che il caso di Dana ci parli di come un oggetto morto possa “rinascere” all’interno di una relazione terapeutica?

Prof.ssa Atlas: Questa domanda ci porta di nuovo alla relazione inconscia fra vita e morte. Io non uso termini troppo tecnici nel libro, ma è chiaro che questo sia il capitolo che affronta il tema della dissociazione. Quest’ultima avviene su più piani, fra i quali la mia dissociazione. Quando la paziente mi dice di aver perso il fratello, a quel punto diventa mia madre, la quale ha a sua volta perso prematuramente suo fratello. Ho impiegato molto per capire perché in quel momento fossi dissociata, ovvero per capire che mia madre aveva lo stesso vissuto di Dana.

Ho lavorato sul significato e sui benefici della dissociazione, e sul modo in cui essa ci aiuta a sopravvivere. Ho sentito di essere la terapeuta giusta per Dana, perché abbiamo colluso assieme sulla dissociazione legata al fratello. Non era un segreto in casa mia che mia madre avesse perso un fratello, in casa c’erano le sue foto. Ma in un certo senso era come se fosse un segreto, perché mia madre si turbava troppo nel parlare di lui. Negli anni abbiamo taciuto questo argomento e quindi ce ne siamo dissociati. 

C’è una nascita alla fine del capitolo. In un certo senso, l’arrivo di mia figlia Mia riporta Dana alla vita, così come lei mi scrive nella mail. Forse il trauma l’aveva congelata. Anche molti anni dopo (…) era ancora una piccola bambina ferma al momento del trauma. Alla fine, lei riesce finalmente a riprendere la sua vita, che era fissata al giorno della morte del fratello.

Prof. Tropeano: Le chiederei una velocissima supervisione, in merito a un impegnativo cammino terapeutico. Parlo di una ragazza italiana, di fine intelligenza e cultura, che chiamerò Abigail. Nome biblico, scelto non a caso, avendo lei deciso di convertirsi dalla religione cattolica a quella ebraica. Questo percorso ha condizionato radicalmente la sua vita, portandola a risiedere da Londra a Madrid, per seguire gli insegnamenti rabbinici. Di conseguenza, la paziente mi chiese un supporto psicoterapico e psichiatrico svolto prevalentemente on-line.

Alla domanda su quali fossero le ragioni più profonde della sua conversione, la paziente ha risposto in maniera molto concisa: “Desidero essere accolta in una comunità inclusiva. Per la consapevolezza della comunità ebraica di essere portatrice di profonde sofferenze che “richiamano” le mie personali sofferenze. Per l’intenso desiderio di conoscere la verità più profonde”.

Nella biografia della paziente risaltano un rapporto altamente conflittuale con la madre, persona definita “squilibrata”, e di conseguenza il divorzio segnato dall’ostilità fra i genitori. Nel suo tentativo di riparare a un’esistenza travagliata mi sono spesso chiesto se il vero psicoanalista/terapeuta fossi io o, piuttosto, il rabbino di riferimento di Abigail. 

Attualmente si trova in terra d’Israele, in attesa di ricevere il suo nome ebraico. Ancora adesso mi chiedo: “E’ possibile che la comunità ebraica offra un aprés coup, dove poter risignificare le sue esperienze traumatiche?”.

Prof.ssa Atlas: Non ho sufficienti informazioni per analizzare questo caso, ma posso dire che la mia fantasia è che l’analisi avviene con il Rabbino, perché la paziente sta cercando una famiglia. La famiglia è chiaramente idealizzata, e molto specifica: una famiglia che capisce il trauma, che vuole andare alla verità delle cose, inclusiva… 

Ogni famiglia ha i suoi problemi, anche quella del Kibbutz, ma per lei non è un problema. Lei vuole cambiare nome, perché vuole essere parte della famiglia.

A seguito dell’intervista alla Prof.ssa Galit Atlas le nostre fantasie di terapeuti sono tutt’altro che quietate. Al contrario, i vissuti familiari dei tre intervistatori riemergono in una nuova ottica, foriera di innovativi strumenti terapeutici. Secondo lo stile della Atlas, il materiale del terapeuta si armonizza fra il rispetto del metodo e squisite improvvisazioni che regolano di continuo il variare della temperatura nel setting analitico, dove è possibile piangere e ridere con i pazienti.

 

Articolo di : Roberta Cimaglia, la Dott.ssa Lara Scali e il Prof. Giuseppe Tropeano

I neuroni della lettura (2019) di Stanislas Dehane – Recensione

Attraverso il saggio “I neuroni della lettura” Stanislas Dehane offre l’opportunità, a chiunque desideri leggerlo, di comprendere più da vicino i meravigliosi processi coinvolti nella lettura.

La neurobiologia della lettura

 L’attività di lettura viene descritta dall’autore quale vero e proprio coinvolgimento di più distretti cerebrali, i quali nel loro insieme vengono a determinare quel cablaggio neuronale che già a partire dall’infanzia riflette e determina la fioritura di più collegamenti sinaptici.

Sotto il profilo neurobiologico l’autore offre infatti una panoramica di quei processi che, durante la lettura, partono dal sistema visivo per poi propagarsi gradualmente e in maniera concatenata, sino al sistema nervoso autonomo, valorizzando oltremodo il netto equilibrio tra il sistema simpatico e quello parasimpatico.

Pagina dopo pagina si avrà così l’occasione di conoscere, sempre più nel dettaglio, quei misteriosi ingranaggi neurobiologici che proprio a partire dall’infanzia promuovono gradualmente lo sviluppo dell’architettura cerebrale in grado di coinvolgere anche e soprattutto la dimensione emotiva.

Quest’ultima infatti viene presentata dall’autore quale chiave di lettura, capace di connettersi con più distretti cerebrali attraverso i quali convertire l’informazione letta in una vera e propria concatenazione di stimoli, traducibili sia in risvolti psicobiologici che in cambiamenti morfologici e anatomo funzionali.

I neuroni coinvolti nella lettura, pertanto, non riflettono esclusivamente un semplice insieme di processi psicobiologici, bensì, secondo la visione di Donald Hebb, un reclutamento contemporaneo di più parti in grado di promuovere un nuovo stile di apprendimento, i cui benefici, possono propagarsi entro la propria unità psicosomatica.

Nondimeno, grazie alla visione odierna di Carlo Militello (Militello, 2022) e Gilda Katz (Katz, 2016), la lettura si pone come un vero e proprio esercizio terapeutico in grado di apportare non soltanto benefici a livello psicofisico, ma soprattutto a livello neuronale, evidenziando così quei misteriosi processi, apparentemente invisibili ma dai risvolti a lungo termine.

Essa inoltre si conferma quale attività in grado promuovere una sempre più crescente fioritura e/o potatura neuronale (pruning), rendendo le nostre connessioni sinaptiche veri e propri ponti di collegamento in grado di rafforzare la memoria, l’attenzione e non ultimo il nostro linguaggio verbale e non verbale.

La lettura e i cambiamenti morfogenetici coinvolti nell’architettura cerebrale

 Storicamente, come illustrato dal neurobiologo Klaus Stiefel (2016), l’interesse dei dendriti impressionò a suo tempo il medico spagnolo Santiago Ramòn y Cajal, che sul finire dell’Ottocento colorò singole cellule nervose che ebbe modo di osservare al microscopio. In quei disegni ebbe modo di notare, e rivelare, la complessa rete delle ramificazioni dendritiche. Come per ogni altro tipo di cellula, nella membrana cellulare dei neuroni sono inseriti numerosi canali ionici: complesse strutture proteiche attraverso le quali fluiscono gli ioni. Essendo particelle a carica positiva o negativa permettono il trasporto dentro o fuori la cellula. Ne risulta non solo un flusso energetico, ma anche la base per l’elaborazione delle informazioni nel sistema nervoso. In virtù del potenziale di membrana, ossia la differenza di cariche elettriche tra il suo interno e il suo esterno, i canali ionici determinano quale segnale in entrata raggiungerà il corpo cellulare.

Si profilano pertanto, da un punto di vista funzionale, svariate possibili combinazioni degli schemi di ramificazione, dei modi e della distribuzione dei canali ionici, nonché della posizione delle sinapsi, che nel loro insieme dunque offrono un ampio ventaglio di possibilità per modulare i segnali sinaptici (Siegel, 2001).

Conversazioni con Giovanni Liotti su Trauma e Dissociazione (2022) – Recensione

Condividendo e ampliando l’idea originaria di Pierre Janet (Janet, 1898), secondo cui la dissociazione è la “madre” di tutta la psicopatologia, Giovanni Liotti individua nella disorganizzazione dell’attaccamento e nel suo essere trauma precoce la radice della dissociazione.

 

 La prematura scomparsa di Giovanni Liotti ha lasciato un grande vuoto e un profondo senso di perdita in tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di ascoltarlo, e un senso di mancata occasione in molti che questo privilegio non l’hanno avuto. Per questa ragione è con immensa emozione che ho accolto questo bellissimo volume, frutto della fatica di Cristiano Ardovini, Cecilia La Rosa e Antonio Onofri.

Non saremo mai abbastanza grati ai curatori, infatti, per averci concesso l’opportunità di immergerci ancora nelle parole del nostro maestro, di ascoltare (sì, ascoltare, perché leggendo quelle pagine, pare ancora di sentire la sua voce in tutta la potenza della sua oratoria) le intuizioni e la complessità del suo pensiero teorico trasmessa con rara chiarezza espositiva, arricchita di illuminanti esempi clinici e imbevuta di cultura che spazia dall’arte alla poesia alla letteratura.

In un susseguirsi di domande e risposte, il volume raccoglie e riorganizza in un unico e fluido discorso decenni di registrazioni, appunti, lezioni accademiche e conversazioni informali con Gianni Liotti sui temi che sono stati al centro delle sue riflessioni negli ultimi due decenni: il trauma e la sua relazione con la dissociazione.

Molti anni prima che le conoscenze e le considerazioni su trauma e dissociazione si diffondessero e diventassero di dominio comune, infatti, Liotti ha esplorato questo territorio in un continuo e proficuo scambio fra ricerca, riflessione teorica e psicoterapia, arrivando a definire una teoria della psicopatologia raffinata e basata su solidi dati, che guida, orienta e allo stesso tempo è stimolata dal lavoro clinico con i pazienti.

La prima parte del volume esplora proprio il rapporto tra psicopatologia e dissociazione.

Condividendo e ampliando l’idea originaria di Pierre Janet (Janet, 1898), secondo cui la dissociazione è la “madre” di tutta la psicopatologia, Liotti individua nella disorganizzazione precoce dell’attaccamento e nel suo essere trauma precoce la radice della dissociazione.

Nell’attaccamento disorganizzato, infatti, il genitore è allo stesso tempo fonte di paura e figura di conforto, attivando contemporaneamente il sistema di difesa e il sistema di attaccamento del bambino, che si ritrova immerso in quella “paura senza sbocco” che è il precursore del senso di impotenza che caratterizza l’esperienza traumatica.

Il nucleo della disorganizzazione è avere bisogno di cura ed essere spaventati allo stesso momento dalla stessa persona che dovrebbe fornire quella cura: in questa condizione le rappresentazioni di sé-con-l’altro, che costituiscono il Modello Operativo Interno (Bowlby, 1969), sono talmente in contrapposizione da non poter essere integrate in una sintesi coerente. Dissociazione, dunque, non come sintomo, ma come mancata integrazione.

E perché non vediamo quasi mai la dissociazione come sintomo nei bambini?

Perché la dissociazione compare solo quando è attivo il sistema dell’attaccamento e questi bambini ricorrono a delle strategie per impedirlo, cooptando altri sistemi motivazionali: possiamo infatti osservare bambini (e poi adulti) che, quando sentono attivarsi l’attaccamento, subito attivano il sistema agonistico per entrare in relazione con genitore, diventando dei piccoli tiranni (si parla allora di “strategia controllante punitiva”); altri che attivano il sistema dell’accudimento e si prendono cura di mamma o papà come efficientissimi infermieri (“strategia controllante accudente”); altri ancora utilizzano altri sistemi motivazionali per tenere a bada l’attaccamento e i mostri che sono da esso evocati.

Queste strategie hanno una preziosa funzione adattiva, salvaguardando le capacità metacognitive che sono pesantemente compromesse nel momento in cui è attivo l’attaccamento. Quando altri sistemi motivazionali sono al comando, la metacognizione funziona benissimo, come illustra efficacemente Liotti portando ad esempio la storia del famoso scacchista Bobby Fisher.

La dissociazione come sintomo compare quando, in seguito ad altre esperienze traumatiche, perdite, separazioni o eventi che in qualche modo invalidano le strategie controllanti, queste crollano, lasciando emergere l’attaccamento con i suoi modelli operativi disorganizzati.

Sebbene la frequenza di traumi infantili, soprattutto cumulativi, sia enormemente sottovalutata, diversi studi dimostrano quanto siano in realtà molto diffusi nella popolazione e quanto gravi siano le loro conseguenze sulla salute fisica e psicologica. Per questa ragione è di fondamentale importanza imparare a riconoscere le diverse manifestazioni, spesso elusive, della dissociazione che ne consegue, allenarsi a “farci orecchio”, esplorando insieme al paziente il suo mondo interno e la sua storia con accuratezza, delicatezza e rispetto.

In questo quadro, la dissociazione non è concettualizzata come una difesa dell’Io, come ipotizzato da Freud, ma come un effetto del trauma che frammenta il mondo interno e impedisce la costruzione di un senso di sé unitario.

La patologia ha dunque a che fare con l’assenza di connessione, la perdita di integrazione e i deficit metacognitivi.

Coerente al modello cognitivo-evoluzionista secondo cui non esiste una sola terapia per tutti i disturbi, ma ogni disturbo richiede un intervento specifico guidato da una cornice teorica che ne definisca i meccanismi psicopatologici, Liotti illustra con profusione di esempi clinici quali siano le ricadute di una simile concettualizzazione sul piano terapeutico.

Nella seconda parte del volume, infatti, sono raccolte le sue idee e intuizioni riguardo al lavoro clinico con i pazienti che provengono da storie di attaccamento traumatico.

Fedele al modello a tre fasi, concepito da Janet e confermato dalla ricerca più recente come più efficace e sicuro per questo tipo di pazienti, Liotti evidenzia la particolare importanza della prima fase, quella di stabilizzazione.

 Obiettivo prioritario dell’intervento è creare un clima di alleanza e collaborazione fra paziente e terapeuta, che sono pari ma non uguali in questo lavoro. Entrambi hanno pari dignità e valore pur nella specificità di ruoli: il terapeuta è esperto del metodo, il paziente del proprio mondo interno ed entrambi collaborano per un obiettivo comune, il benessere del paziente. È proprio l’assetto cooperativo che secondo Liotti, rappresenta non solo la premessa perché la terapia sia efficace, ma un vero e proprio strumento terapeutico, in quanto antidoto all’attivazione del sistema di attaccamento così profondamente compromesso dalle esperienze traumatiche precoci. Il sistema cooperativo fa da sostegno alle capacità metacognitive deficitarie del paziente e gli permette di incrementarle.

L’alleanza è sempre, per tutta la durata del percorso, obiettivo terapeutico sovraordinato: questo significa che, in qualsiasi fase del lavoro ci si trovi, nel caso in cui si andasse incontro ad una crisi o una rottura dell’alleanza, la sua riparazione deve tornare immediatamente a essere una priorità.

Stabilizzare i sintomi più perturbanti, che sono manifestazione di un sistema neurovegetativo in ipo o iperarousal, cioè fuori dalla finestra di tolleranza, è il focus di questa prima fase di lavoro, che può durare anche mesi o anni.

La normalizzazione dei sintomi e la psicoeducazione sono interventi terapeutici importanti ai fini di questo obiettivo, perché contrastano il senso di impotenza e sfiducia in sé e negli altri, che rappresenta il nucleo dell’esperienza traumatica e aumentano la sicurezza percepita del paziente.

Liotti enfatizza la necessità di mantenere una comunicazione emozionale “da emisfero destro a emisfero destro” (p.132), come nel dialogo conversazionale di Russell Meares (Meares, 2014), una comunicazione empatica, che si modella sul linguaggio del paziente e ricalca una normale conversazione fra esseri umani, ma guidata e orientata da una complessa teoria psicopatologica.

In questo dialogo, anche la metafora è uno strumento potente e importante, non solo perché rappresenta un linguaggio più idoneo a descrivere e raccontare sensazioni sfuggenti come la depersonalizzazione e la derealizzazione, ma perché aumenta l’attività corticale così deficitaria in questi pazienti.

Sempre attento alla dimensione relazionale cooperativa, per evitare di attivare l’attaccamento, il terapeuta deve spostare l’attenzione dai deficit alle risorse del paziente, valorizzando i suoi tentativi autonomi di gestire l’impotenza e i sintomi dissociativi, attento a gestire le proprie reazioni di paura di fronte alle varie forme che questi sintomi possono assumere.

Gli interventi bottom-up, cioè quelli che agiscono sul tronco dell’encefalo nel modo più diretto possibile, come le tecniche sensomotorie, sono preziosi in questa fase, così come la mindfulness, e in generale tutto ciò che permette di contrastare il senso di impotenza e sfiducia che rappresenta il sintomo centrale del Disturbo da Stress Post Traumatico e di aumentare la mastery.

Solo dopo aver raggiunto una sufficiente stabilizzazione, è possibile affrontare le fasi successive del lavoro terapeutico, ossia l’elaborazione delle memorie traumatiche (fase II) e l’integrazione (fase III).

In riferimento alle memorie traumatiche, emerge la figura del terapeuta come “testimone cartesiano” di ciò che è accaduto, testimone e conferma non della realtà del trauma, bensì del dolore del paziente, provato durante e dopo l’esperienza traumatica. Mettendo in guardia verso la possibilità di false memorie, Liotti ci ricorda che compito del terapeuta non è fare il poliziotto o il magistrato e stabilire se e come si sono verificati gli eventi, ma validare l’esperienza emotiva del paziente: “Provo, dunque è vero”.

In quest’opera ambiziosa e bellissima, sono tanti gli spunti e gli approfondimenti che emergono e le riflessioni suscitate nel lettore. Ogni pagina racchiude qualche perla, distillato di cultura, passione, sensibilità clinica e voglia di condivisione che è stata ogni conversazione, più o meno formale, con Gianni Liotti.

Rileggere le sue parole è stato emozionante e, ancora una volta, profondamente stimolante.

Aspettiamo con impazienza il secondo volume su cui Ardovini, La Rosa e Onofri sono già al lavoro e che verterà sull’alleanza terapeutica e la co-terapia, temi assolutamente centrali nel pensiero e nel lavoro di Liotti, che diventano di rilevanza cardinale quando si affrontano le sfide della terapia con pazienti che provengono da storie traumatiche e presentano sintomi dissociativi.

Gli smombies: camminare con gli occhi fissi sullo schermo – Psicologia Digitale

Essere pedoni distratti dallo smartphone, o smombies, può essere un rischio per la sicurezza perché riduce la nostra attenzione verso l’ambiente circostante. 

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 38) Gli smombie: camminare con gli occhi fissi sullo schermo

 

 Gli smartphone richiedono la nostra attenzione anche quando siamo già impegnati a fare altro: per esempio mentre guardiamo la tv, ci prepariamo, lavoriamo o camminiamo.

Quando camminiamo fuori casa, sul marciapiedi o attraversiamo la strada, abbiamo un intero ambiente intorno a noi cui prestare attenzione: gli altri pedoni, le auto, i ciclisti, ecc. Ma se la nostra attenzione è assorbita dall’uso dello smartphone, l’eventualità che, del tutto o in parte, non siamo consapevoli di ciò che ci accade intorno è concreta e può portare a incidenti più o meno gravi.

Essere distratti può avere un costo. Fare valutazioni errate sulla velocità dei veicoli, attribuire in modo errato l’intenzione del conducente, oppure valutare erroneamente se possiamo o meno attraversare; questo vale per tutti, per chi guida come per chi cammina.

Ma è proprio per questi ultimi che è stato coniano il termine “smombie”.

L’attenzione frammentata

Il termine “smombie” (smartphone-zombie) o “phone walker” (meno utilizzato) si riferisce ad uno specifico comportamento: essere focalizzati sullo smartphone mentre si cammina su strade pubbliche (Schaposnik e Unwin, 2018; Ropaka et al., 2020).

Una classificazione completa delle varianti di questo comportamento viene proposta da Fernández e colleghi (2020). Abbiamo cinque livelli che si differenziano da un grado crescente di attenzione allo smartphone: not visible, talking, headphones, holding, smombie.

Nel primo il pedone non utilizza lo smartphone; nel secondo lo usa ma solo per una chiamata, diciamo in maniera tradizionale (che poi era il primo utilizzo per cui era stato pensato il ‘telefonino’!); nel terzo indossa delle cuffie per ascoltare musica o contenuti audio; infine “holding” indica che il pedone ha in mano lo smartphone senza utilizzarlo e “smombie” che non solo la persona ha in mano lo smartphone ma lo utilizza rivolgendo chiaramente una gran parte della sua attenzione su di esso (digita, fa scrolling, manda audio ecc.).

Gli smombie si espongono a dei rischi perché prestano meno attenzione all’ambiente circostante: fissare lo sguardo sullo schermo, occupare le mani per digitare, camminare più lentamente e distrattamente.

Non tutti i pedoni sono smombie

Nel lavoro di Fernández e colleghi del 2020 questo comportamento è stato misurato direttamente. In particolare, l’analisi ha preso in considerazione eventuali correlazioni con genere, età e luogo.

Nello studio due ricercatori (uno seduto ed uno in movimento a piedi) hanno osservato il comportamento dei pedoni con i loro smartphone in tre aree della città spagnola Elche, un centro medio piccolo (poco più di 230.000 abitanti): centro città, aree residenziali e campus universitario. Nei cinque mesi di osservazioni sono stati registrati 3.301 pedoni, per metà di sesso femminile.

I soggetti inclusi nell’osservazione dovevano essere pedoni soli o in gruppi di massimo 4 persone; sono stati esclusi pedoni che, per focalizzarsi meglio su quello che stavano facendo con lo smartphone, si fermavano, si sedevano o si appoggiavano ad una struttura (muro, lampione, ecc.) poiché l’utilizzo potenzialmente problematico è proprio legato al fatto di camminare in strada mentre si usa il dispositivo.

La registrazione dei comportamenti è stata fatta tramite un’app creata appositamente ed in cui era possibile registrare genere ed età stimati e tipologia di comportamento.

I risultati mostrano che, in generale, il comportamento prevalente è quello di usare lo smartphone con le cuffie, quindi per ascoltare musica o audio.

In termini di età, come prevedibile, sono i più giovani a rientrare nella categoria “smombie”, soprattutto quando il comportamento è analizzato in base al luogo di osservazione: è l’area del campus universitario, più frequentata da giovani, ad essere più rappresentativa di questa categoria; mentre con l’aumentare dell’età diminuisce la tendenza ad usare lo smartphone mentre si cammina.

Smombie Scale e app per la valutazione

Nel 2021 Park e Kim hanno elaborato la Smombie Scale, uno strumento self-report per misurare l’uso dello smartphone mentre si cammina; si compone di 15 item e richiede pochi minuti per la compilazione. Lo scopo è avere una panoramica rispetto a quanto lo smartphone viene usato per noia o per dipendenza ma non solo: viene valutata anche la percezione del rischio rispetto al farlo mentre si è fermi e può essere richiesto di muoversi all’improvviso (ad esempio, alla fermata dell’autobus, in attesa della metropolitana e in attesa di un segnale di passaggio sulle strisce pedonali, quando si è fermi ma ci si potrebbe dover muovere alla svelta e con poco preavviso).

Anche se lo studio ha dei limiti (il campione è costituito da volontari tra i 18 e i 39 anni reclutati solo in Corea del Sud), la Smombie Scale può aiutare a comprendere quanto si è distratti dallo smartphone in certe circostanze.

Anche l’applicazione Smombie Guardian è utile per aumentare la consapevolezza e ridurre i rischi dell’utilizzo dello smartphone mentre si cammina in strada. L’app utilizza la fotocamera: quando rileva un ostacolo potenzialmente pericoloso invia una notifica con vibrazione e una foto dell’ostacolo in modo che il pedone sia consapevole degli eventuali rischi (Kim et al., 2018). L’aspetto interessante di questa app è il cambio di prospettiva: invece di richiedere alle persone un cambiamento in un’abitudine consolidata – l’uso dello smartphone anche quando si cammina in strada -, cambiamento davvero improbabile, utilizza proprio lo strumento ‘distraente’ per catturare l’attenzione.

Probabilmente è proprio questo il passaggio che serve: per invertire la rotta di comportamenti digitali a rischio, utilizzare le tecnologie stesse negli interventi non come nemici ma come alleati.

cancel