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Il legame tra dipendenza sessuale e disregolazione emotiva

La dipendenza sessuale e la disregolazione emotiva sono due aree che, seppur nella loro distinzione, sono strettamente collegate. Avvalendosi di una revisione della letteratura, Lew-Starowicz et al. (2019) si sono proposti di indagare gli elementi preponderanti alla base di tale legame.

Introduzione

 La dipendenza sessuale è caratterizzata da un modello persistente di incapacità di controllare impulsi, pensieri o pulsioni sessuali intensi e ricorrenti, con conseguente comportamento sessuale ripetitivo. Nell’undicesima versione della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-11), la dipendenza sessuale include le seguenti caratteristiche: (1) un’elevata preoccupazione per il comportamento sessuale che porta a trascurare altre sfere di funzionamento; (2) la perdita di controllo sul comportamento sessuale; (3) il coinvolgimento in attività sessuali nonostante il rischio di conseguenze negative; (4) una significativa angoscia sperimentata come risultato del proprio comportamento sessuale; (5) l’impegno continuo nel comportamento sessuale nonostante non ne derivi alcun piacere o soddisfazione (World Health Organization, 2019).

La definizione di disregolazione emotiva coincide con una parca consapevolezza e accettazione delle emozioni, accompagnate da un’incapacità di controllare i comportamenti impulsivi e in accordo con gli obiettivi desiderati quando emergono emozioni negative. Si manifesta, inoltre, attraverso una difficoltà nell’utilizzare strategie di regolazione emotiva appropriate alla situazione al fine di soddisfare le richieste situazionali. La disregolazione emotiva è alla base di molti disturbi psicopatologici e contribuisce in modo significativo a vari esiti negativi per la salute (Sheppes et al., 2015).

Dipendenza sessuale e disturbi dell’umore

Il ruolo cruciale della disregolazione emotiva nell’eziologia della dipendenza sessuale la collega a diversi altri disturbi mentali. La questione della disregolazione emotiva alla base della dipendenza sessuale è, infatti, uno dei meccanismi proposti responsabili degli alti tassi di comorbidità tra dipendenza sessuale e altri disturbi. I tassi di comorbidità indicano una sostanziale co-occorrenza tra dipendenza sessuale e disturbi dell’umore (Kafka, 2019). Una revisione di Schultz e colleghi (2014) ha mostrato che i sintomi associati alla dipendenza sessuale sono positivamente correlati con i sintomi depressivi, coerentemente con il sesso, l’età e l’orientamento sessuale.

Nello studio di Raymond e colleghi (2003), tra 25 partecipanti con dipendenza sessuale, la prevalenza dei disturbi dell’umore era del 71% (depressione maggiore nel 58%, distimia e disturbo bipolare nell’8% ciascuno).

Weiss (2004) ha riferito che tra 220 persone classificate come “dipendenti dal sesso”, il 28% soffriva di depressione. È interessante notare che Weiss ha altresì mostrato che ricevere una terapia per la dipendenza sessuale riduce i sintomi depressivi.

Dipendenza sessuale e disturbi d’ansia

Un’altra indicazione di disregolazione emotiva nella dipendenza sessuale è rappresentata dalle difficoltà associate a un livello di ansia cronicamente elevato, sperimentato da un numero significativo di persone con dipendenza sessuale. In ricerche precedenti, i pazienti con un alto livello di sintomi di dipendenza sessuale hanno ottenuto punteggi più alti nelle misure di ansia di tratto rispetto ai controlli sani (Berberovic, 2003).

Alcuni ricercatori ipotizzano che l’elevato livello di ansia possa derivare da esperienze traumatiche irrisolte nell’infanzia e che la dipendenza sessuale svolga un ruolo di autoregolazione. Ad esempio, uno studio recente ha rilevato che gli individui richiedenti un trattamento per la dipendenza sessuale avevano vissuto un maggior numero di eventi traumatici nella prima infanzia rispetto ai controlli sani (Efrati & Gola, 2019). Spesso questa esperienza, mediata dalla tendenza a interiorizzare i sintomi e dall’alto livello di autocritica, è correlata alla gravità dei sintomi della dipendenza sessuale.

Dipendenza sessuale e disturbo ossessivo-compulsivo

 Il disturbo ossessivo-compulsivo non sembra co-occorrere con la dipendenza sessuale con la stessa frequenza dei disturbi dell’umore o dell’ansia, tuttavia i sintomi del disturbo ossessivo-compulsivo si manifestano in un sottogruppo significativo di pazienti affetti da dipendenza sessuale (studi precedenti riportano una co-occorrenza dello 0-15%; Shapira et al., 2000). Il modello che spiega le associazioni tra disturbo ossessivo-compulsivo e dipendenza sessuale descrive l’impegno in comportamenti sessuali ripetitivi come motivato dal bisogno di alleviare emozioni negative, come ansia, tristezza o disagio, che sono associate a pensieri sessuali ossessivi, impulsi e immagini mentali. In questo senso, tali comportamenti possono essere descritti come una modalità disadattiva di regolazione delle emozioni (Coleman, 1990).

Dipendenza sessuale e nevroticismo

Lavori precedenti hanno anche collegato la dipendenza sessuale a un elevato nevroticismo, che è un tratto prototipico che racchiude la disregolazione emotiva a livello di personalità, e anche a bassi livelli di gradevolezza, che possono indicare la presenza di disregolazione emotiva nelle relazioni interpersonali (Rettenberger et al., 2016). Uno studio di Gil (2005) indica che l’evitamento come strategia di coping è positivamente correlato all’impegno in comportamenti sessuali a rischio. I risultati ottenuti da Reid, Harper e Anderson (2009) hanno rilevato che l’evitamento può essere adottato da molti individui con un’elevata gravità dei sintomi della dipendenza sessuale. Nel loro studio, rispetto al gruppo di controllo, i pazienti che manifestavano dipendenza sessuale affrontavano la vergogna con livelli più alti di ritiro ed erano più inclini ad attaccare se stessi (come manifestato da livelli più alti di disprezzo, critica e rabbia verso se stessi) e gli altri (con rabbia diretta all’esterno e incolpando gli altri) come modo per affrontare la vergogna.

Conclusioni

Nel complesso, finora è stato osservato che la disregolazione emotiva rappresenta un sintomo centrale della dipendenza sessuale e di altri disturbi psichiatrici e può essere un fattore predisponente allo sviluppo e al mantenimento di questa dipendenza (Lew-Starowicz et al., 2020).

Data la precedente evidenza che la disregolazione emotiva è implicata nei disturbi d’ansia e dell’umore, sono necessarie ricerche future per esplorare approcci terapeutici mirati a trattare contemporaneamente la disregolazione emotiva e la dipendenza sessuale.

 

I test in ambito psicologico e il loro utilizzo 

Con test psicologico si fa riferimento alla misurazione obiettiva e standardizzata di un campione di comportamento (Anastasi, 2002). 

Cosa sono i test psicologici

 Secondo Paul Kline (2017), un test psicologico può essere definito un buon test se presenta le seguenti caratteristiche: deve prediligere una scala a intervalli e dev’essere affidabile, valido e discriminante. I test sono uno strumento insostituibile in molti ambiti; in particolare si sono sviluppati test di funzione, che valutano determinate funzioni psichiche o determinate attitudini dell’individuo e sono utilizzati in ambito occupazionale e scolastico, e test di tratto o di personalità, suddivisi in due grandi categorie: i test non proiettivi (definiti anche obiettivi) caratterizzati da quesiti o prove prima conteggiate e poi valutate, e i test proiettivi, adatti all’indagine dei processi inconsci e non facilmente conteggiabili.

Il primo utilizzo di test risale al 2200 a.C. per la selezione di persone adatte alla funzione di mandarino dell’Impero cinese; questo strumento nasce però nelle sue forme attuali nella seconda metà dell’Ottocento, in ambito psicofisico, per studiare le reazioni sensoriali e le differenze individuali (Miceli, 2012).

I test di funzionamento

Per quanto concerne i test di funzione (o rendimento), il primo risale a Binet (inizi del XX secolo), ideato come scala di rilevazione dell’intelligenza e conosciuto nella sua rielaborazione del 1916 col nome di Standford-Binet (Miceli, 2012).  La loro scala restituiva un unico punteggio totale denominato “Quoziente Intellettivo”; questo strumento è composto da 60 item su grandi aree dell’apprendimento scolastico: l’attenzione, la memoria e la capacità di problem solving. La scala Standford-Binet (Miceli, 2012), ancora oggi in uso, è diventata la base per i futuri test d’intelligenza. Un limite di questo strumento è il fatto che l’intelligenza è un costrutto troppo vasto per essere racchiuso in un unico numero; in altri termini, l’intelligenza è condizionata da una serie di fattori, tra i quali abilità cognitive, cultura e ambiente familiare da cui si proviene.

Con il trascorrere degli anni, il punteggio totale al test d’intelligenza sembra perdere rilevanza anche come parametro per la diagnosi di ritardo mentale (Lang, 2020); di conseguenza, ci si chiede se il quoziente intellettivo (QI) possa essere un indicatore affidabile.

Wechsler è stato il primo a riferirsi all’intelligenza in termini di performance e non di capacità; in altri termini, scopo dell’autore non è la misurazione della quantità di intelligenza posseduta ma delle capacità prestazionali dei soggetti in determinate aree specifiche. Nel 1939 è stato pubblicato il test Wechsler-Bellevue Intelligence Scale (Lang, 2020), costruito per valutare specificatamente le prestazioni intellettive degli adulti.

Nei test di funzionamento rientrano quelli che rilevano attività specifiche, come per esempio la velocità di esecuzione di un compito, la capacità di discernere i colori, i test di abilità e di concentrazione. Rientrano tra i test di funzione quelli usati in ambito clinico-diagnostico, come i test psicofisiologici, quelli neuropsicologici e quelli usati per valutare l’entità di alcune compromissioni cerebrali.

Le principali classificazioni dei test

Sackett, Fogli e Zedeck (1988) sono stati i primi autori a studiare la distinzione tra test di massima performance e test di tipica performance.

 I test di massima performance (o prestazione massima) richiedono al soggetto destinatario di dare il meglio di sé e valutano abilità acquisite o potenziali in determinate situazioni. In questa tipologia è prevista una risposta corretta agli item e ne consegue che il punteggio è determinato dal numero di risposte corrette. Fanno parte di questo gruppo i test che valutano il funzionamento ritenuto “normale” dell’individuo (per esempio test di abilità, di profitto, di intelligenza e/o attitudinali) e quelli utilizzati per la valutazione di possibili deficit neuropsicologici.

I test di prestazione massima si suddividono a loro volta in:

  • test di abilità: hanno come obiettivo la misurazione delle capacità degli individui in specifici domini; ne è un esempio il Mental Paper Folding Test, uno strumento che indaga l’abilità di visualizzazione spaziale;
  • test di profitto: hanno lo scopo di misurare, tramite procedure oggettive, il grado di acquisizione di abilità o contenuti conseguenti a una formazione;
  • test attitudinali: fa parte di questa categoria qualsiasi strumento di valutazione progettato per misurare il potenziale di acquisizione di conoscenze o abilità. I test attitudinali sono considerati una base per fare previsioni sul successo futuro di un individuo, in particolare in una situazione educativa o lavorativa. Al contrario, si ritiene che i test di rendimento riflettano la quantità di apprendimento già acquisita;
  • test d’intelligenza: si tratta di test somministrati individualmente, utilizzati per determinare il livello di intelligenza di una persona misurando la sua capacità di risolvere problemi, formare concetti, ragionare, acquisire dettagli e svolgere altri compiti intellettuali. Comprendono compiti mentali, verbali e di performance di difficoltà graduata che sono stati standardizzati attraverso l’uso su un campione rappresentativo della popolazione. Esempi di test di intelligenza sono la Stanford-Binet Intelligence Scale e la Wechsler Adult Intelligence Scale;
  • test neuropsicologici: un qualsiasi strumento clinico per la valutazione del deterioramento cognitivo, compresi quelli che misurano la memoria, il linguaggio, l’apprendimento, l’attenzione e il funzionamento visuo-spaziale e visuo-costruttivo. Ne sono un esempio il Trail Making Test, lo Stroop Color-Word Interference Test e il Complex Figure Test.

Sackett, Zedeck e Fogli (1988) hanno proposto diverse condizioni affinché l’individuo riesca a dare il meglio di sé nei test di massima performance:

  • l’individuo dev’essere consapevole di essere osservato;
  • il soggetto dev’essere istruito a massimizzare il proprio sforzo;
  • la misurazione della prestazione deve avvenire in un breve periodo di tempo, in modo che l’individuo possa restare concentrato sull’obiettivo.

Rientrano tra i test di prestazione minima (o tipica performance) tutti gli strumenti che misurano le caratteristiche come la personalità o gli atteggiamenti. Solitamente gli item sono costituiti da frasi che descrivono un comportamento o un’inclinazione verso un particolare oggetto sociale e verso il quale il soggetto deve esprimere il proprio grado di accordo o la frequenza con cui effettua il comportamento descritto dall’item.

Questi strumenti non hanno una risposta corretta in quanto lo scopo è quello di individuare il punto di vista del soggetto. A questo raggruppamento appartiene il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI). Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory-II (MMPI-II) è il test maggiormente conosciuto della categoria di test auto-somministrati; si tratta di un test di personalità pubblicato per la prima volta nel 1940 e oggi uno degli strumenti self-report più utilizzati per la valutazione della personalità. La versione attualmente in uso, l’MMPI-2 (1989), presenta 567 domande con risposta vero o falso che valutano sintomi, atteggiamenti e convinzioni relativi a problemi emotivi e comportamentali, con revisioni sostanziali degli item originali e l’aggiunta di nuove scale.

I “test” che troviamo in Internet sono affidabili?

Solitamente in riviste, giornali e siti internet, si possono trovare degli insiemi di domande definiti “test psicologici”; generalmente, si presentano con titoli attraenti; viene proposta una serie di domande al lettore e quest’ultimo, dopo aver risposto, ottiene un punteggio che viene associato a determinati profili di personalità in funzione della somma conseguita. Oppure, è possibile imbattersi nel web in forme approssimative di test proiettivi, ossia procedure di indagine che assumono che le procedure utilizzate dalle persone per interpretare gli stimoli ambigui consentono di ricavare caratteristiche inconsce e profonde della personalità.

Identificare questi “test” che si trovano nel web come test psicologici compromette la credibilità della psicologia, in quanto quest’ultima, essendo una scienza che studia il comportamento umano, consente di acquisire conoscenze in base a osservazioni obiettive.

Sartori (2008) sostiene che unendo due delle diverse definizioni presenti in letteratura (Boncori, 1993; Anastasi, 2002), possiamo definire test (o reattivo psicologico) una situazione standardizzata nella quale il comportamento di una persona, opportunamente campionato, viene prima di tutto osservato e successivamente descritto tramite la misura, anch’essa standardizzata e, di conseguenza, oggettiva.

Il test psicologico, essendo uno strumento di indagine, può aiutare:

  • il soggetto a conoscersi meglio;
  • lo psicologo a formulare una diagnosi e/o valutare l’efficacia di un intervento terapeutico;
  • il ricercatore a osservare determinate variabili psicologiche, per descriverle con maggiore accuratezza possibile e spiegarne i meccanismi sottesi.

Detto ciò, si può affermare che i test che spesso troviamo online non possiedono quelle caratteristiche psicometriche essenziali per una misurazione obiettiva del comportamento e degli atteggiamenti e, di conseguenza, non possono essere ritenuti come test psicologici. Sicuramente, oltre ad avere una funzione ricreativa, i test che possono essere trovati online possono stimolare il soggetto a una riflessione metacognitiva, ovvero la creazione di idee inerenti la concezione di come la sua mente e quella altrui funzionino. In altri termini, grazie alla possibilità di porsi quesiti in merito al proprio funzionamento mentale e a quello altrui, la lettura di un test online potrebbe provocare una visione con diversi lenti della realtà mettendoci anche in discussione.

 

La demenza vascolare

Per demenza vascolare si intende un deterioramento cognitivo che comprende disturbi del pensiero, dell’organizzazione, del senso critico, della memoria e di altre funzioni che sono abbastanza significative da interferire con le normali attività quotidiane o occupazionali, e che sono causate da un danno cerebrale dovuto a un afflusso ridotto del sangue.

Abstract

La demenza è definita dal DSM-IV come un declino cognitivo acquisito, caratterizzato dalla presenza di un disturbo di memoria associato alla perdita di almeno un’altra funzione cognitiva, come prassia, linguaggio, etc. Queste alterazioni, devono avere un decorso di almeno sei mesi, devono comportare un deterioramento rispetto ad un livello funzionale precedente e rispetto allo svolgimento delle attività quotidiane di base. Tra le forme secondarie di demenza, la demenza vascolare (VaD) rappresenta la forma principale: il termine VaD non fa riferimento a un’entità nosologia unica, ma comprende una serie di quadri clinici e fisiopatologici con caratteristiche diverse, accomunati dall’alterazione vascolare. Non esiste una forma di demenza vascolare pura, ma a seconda del quadro clinico che il neuropsicologo si trova di fronte, possiamo classificare questo tipo di demenze in corticali, subcorticali e miste. Una volta effettuata la diagnosi, si procede con il trattamento, che può consistere sia in una terapia farmacologica, molto più rara a causa degli scarsi studi, sia in una serie di strategie per cercare di limitare i suoi sintomi e la sua evoluzione.

Introduzione

In un paese come l’Italia, caratterizzato da un grado d’invecchiamento della popolazione molto alto, tra i più avanzati del mondo, la demenza rappresenta una delle grandi priorità della salute pubblica, sia per la frequenza con la quale si verifica, sia per gli elevati carichi assistenziali e socio-sanitari che comporta. Demenza è un termine utilizzato per indicare non una malattia, bensì una sindrome, cioè un insieme di sintomi che comportano un deterioramento cognitivo, cioè un declino, una perdita, rispetto alle prestazioni precedenti. Questo declino è definito globale, poiché coinvolge tutte le funzioni cognitive, e cronico, poiché si prolunga ininterrottamente nel tempo.

Esiste una classificazione, a seconda del quadro che il neuropsicologo può trovare: le demenze primarie, che riconoscono, come evento originario, un processo patologico localizzato nel sistema nervoso centrale, sia esso degenerativo, vascolare, o di altra natura; e le demenze secondarie, nelle quali invece, la sofferenza del sistema nervoso centrale è secondaria rispetto a processi patologici a carico di altri organi e apparati.

La demenza vascolare

Oltre alla malattia di Alzheimer, che sappiamo essere la forma più comune di demenza, esistono altre malattie importanti, oltre che per le loro conseguenze, anche dal punto di vista epidemiologico. Tra queste, la forma più diffusa, insieme alla malattia di Alzheimer, è rappresentata dalla demenza vascolare (VaD), responsabile di circa il 20% dei casi di perdita significativa di funzioni cognitive (Baldinelli et al., 2017).

Per demenza vascolare, si intende un deterioramento cognitivo che comprende disturbi del pensiero, dell’organizzazione, del senso critico, della memoria e di altre funzioni che sono abbastanza significative da interferire con le normali attività quotidiane o occupazionali, e che sono causate da un danno cerebrale dovuto a un afflusso ridotto del sangue; essa infatti, la maggior parte delle volte, è dovuta a una serie di piccoli ictus o di altre patologie che danneggiano i vasi sanguigni e riducono la circolazione, limitando l’afflusso vitale dell’ossigeno e delle sostanze nutritive alle cellule cerebrali. Per questo, affinché si possa porre una corretta diagnosi di demenza vascolare, è necessario che vi sia un precedente danno vascolare, cui abbia fatto seguito, in immediata contiguità temporale, il deterioramento cognitivo. Le forme di patologia vascolare che colpiscono il cervello sono molte e diverse: la posizione e la dimensione del danno cerebrale determinano quali funzioni cerebrali sono colpite. È possibile individuare i tratti caratteristici della demenza vascolare già dalla raccolta anamnestica, sia in termini di esordio che di andamento clinico dei disturbi. Alcuni studi hanno mostrato una sostanziale sovrapposizione delle caratteristiche neuropsichiatriche tra il morbo di Alzheimer e la demenza vascolare, sebbene alcuni sintomi, come depressione e apatia, siano particolarmente importanti nei pazienti con demenza vascolare, mentre altri criteri come allucinazioni o deliri siano meno frequenti (O’Brien e Thomas, 2015).

Rispetto alla malattia di Alzheimer, infatti, la demenza vascolare ha un esordio meno subdolo, più acuto, e presenta un andamento descritto come “a gradini”, ossia, a periodi di peggioramento clinico si alternano fasi di riassestamento. Nel valutare e nel descrivere la storia naturale della malattia, va posta attenzione ai sintomi e ai segni clinici che spesso si associano alla demenza vascolare, primo fra questi, i disturbi motori. Nei casi più lievi della malattia, si assiste a un rallentamento psicomotorio, che spesso è associato a una compromissione della deambulazione, provocando una vera e propria sindrome rigido-acinetica. Sebbene sia in pazienti con Alzheimer che in quelli con demenza vascolare si evidenziano deficit di rievocazione, incapacità di planning, di problem solving e di abilità logico-deduttive, andando ad osservare più a fondo, troviamo, ovviamente, un disturbo qualitativamente differente: nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer, si assiste a una progressiva compromissione del processo di archiviazione delle informazioni, che vengono perdute e che quindi non riescono più ad essere rievocate. Nei pazienti affetti da demenza vascolare, invece, si evidenzia un disturbo prettamente esecutivo di recupero delle informazioni, che diventa lento e difficoltoso (Baldinelli et al., 2017). La demenza vascolare pura non è comune; infatti, effettuare una diagnosi di demenza vascolare non è né agevole né semplice, poiché spesso il danno vascolare si sviluppa in concomitanza con il morbo di Alzheimer o di altre patologie cerebrali, le quali, pur aggravando la demenza, non sono le cause principali. Esistono delle particolari condizioni cliniche che la vanno a mimare, rendendo difficoltoso il suo inquadramento, inoltre, non esistono criteri diagnostici chiari per il deterioramento cognitivo vascolare, il quale rimane un termine che evidenzia una patologia in generale, piuttosto che una specifica entità diagnostica. I sistemi di classificazione come il DSM-5 hanno rimosso la necessità di compromissione della memoria come uno dei criteri per la demenza, o come la definisce il DSM-5, disturbo neurocognitivo maggiore (O’Brien e Thomas, 2015). I cambiamenti nella nosologia della demenza vascolare degli ultimi venticinque anni si sono basati sulle nuove conoscenze e progressi, ma i dibattiti su di essa e sulla sua classificazione continueranno, fino a quando non verranno individuati i meccanismi fisiopatologici distinti e trattabili che sostengono la demenza vascolare.

Le forme di demenza vascolare: corticale, subcorticale e mista

La demenza vascolare tipicamente si presenta quando numerosi piccoli infarti ischemici cerebrali causano un livello tale di perdita neuronale o assonale da determinare compromissione delle funzioni cerebrali. Il termine sottocorticale si riferisce sia al tipo di manifestazioni cliniche, sia alla localizzazione della lesioni, principalmente localizzate ai gangli della base, alla sostanza bianca, e al mesencefalo, contrariamente a quando accade nella malattia di Alzheimer (Zelante et al., 2012). La demenza Vascolare Sottocorticale (SIVD) è un sottotipo del gruppo delle demenze vascolari; queste, secondo la classificazione del National Institute of Neurological Disorders and Stroke (NINDS) e dall’Association Internationale puor la Recherche er l’Enseignement en Neurosciences (AIREN) (Roman et al., 1993) sono suddivise in:

  • Demenza da patologia dei singoli vasi: sono coinvolti i vasi di piccolo calibro. Si verificano infarti lacunari multipli profondi all’interno della sostanza bianca e della sostanza grigia.
  • Demenza multi-infartuale: sono coinvolti i vasi di medio calibro.
  • Demenza da infarto strategico: un infarto si verifica solo in una zona cruciale del cervello (giro angolare, talamo, etc).

Ogni forma riconosce cause, aspetti clinici e neurologici propri. Secondo questa classificazione, la demenza vascolare da piccoli vasi comprende a sua volta due entità separate ovvero la malattia di Binswanger e lo stato lacunare (Zelante et al., 2012):

  • malattia di Binswanger: consiste in un deterioramento lento e progressivo con importanti alterazioni della sostanza bianca. Il quadro clinico è caratterizzato da demenza progressiva e insidiosa e l’età media d’insorgenza è intorno ai sessant’anni.
  • stato lacunare: dovuta a piccoli infarti cerebrali, presenta caratteristiche cliniche come l’emiparesi improvvisa, la demenza, la disartria, e disturbi dell’andatura.

Qualsiasi disturbo cerebrovascolare può determinare la demenza vascolare, ma a seconda delle aree cerebrali coinvolte, questa assume un fenotipo clinico differente. Le espressioni cliniche vengono ricondotte a pattern specifici, a seconda che la compromissione sia corticale o subcorticale. Laddove il danno cerebrovascolare si verifichi a livello corticale, questo tipo di demenze vengono così definite perché colpiscono principalmente le strutture della corteccia cerebrale, e si caratterizzano per deterioramenti a livello cognitivo, mnemonico e linguistico. Si differenziano quindi dalle demenze sottocorticali, che, come detto in precedenza, colpiscono principalmente le strutture che sono collocate al di sotto della corteccia cerebrale, e si caratterizzano per deterioramenti a livello della sfera emotiva, della personalità, e delle funzioni motorie; in questo caso, infatti, i domini neuropsicologici coinvolti sono molteplici, andando a configurare un deterioramento cognitivo polimorfo (Baldinelli et al., 2017).

La demenza vascolare subcorticale (SVD) è una malattia dei piccoli vasi con demenza, che costituisce circa la metà dei casi di demenza vascolare. I profili cognitivi e mentali della demenza vascolare subcorticale, presentano disturbi della memoria relativamente lievi, una lentezza psicomotoria dovuta alla perdita delle funzioni di controllo esecutivo, disinibizione e cambiamenti di personalità, dovuti alla disconnessione orbitofrontale. I sintomi comportamentali e psicologici nella demenza vascolare sono distinti da quelli della malattia di Alzheimer in termini di qualità, ma non di frequenza, la quale risulta essere simile. Sebbene non inclusa nei criteri diagnostici, una componente significativa della demenza vascolare è caratterizzata da disturbi psico-affettivi e comportamentali, in particolare depressione, apatia, ansia, aggressività, disinibizione e labilità emotiva. Nei pazienti con demenza vascolare subcorticale, l’esordio precoce del deficit di memoria con il progressivo peggioramento di altre funzioni cognitive quali il linguaggio, le abilità motorie, la percezione, senza corrispondenti lesioni focali al neuroimaging, nonché l’assenza di rilevanti lesioni espressive della malattia cerebrovascolare nella  tomografia computerizzata (TC) o nella risonanza magnetica (RM), rendono la diagnosi di demenza vascolare sottocorticale incerta (Erkinjuntti et al., 2000); è per questo che l’imaging cerebrale è fondamentale nella diagnosi di demenza vascolare sottocorticale, dato l’alto numero di casi di patologia asintomatica (Zelante et al., 2012). Nell’iter diagnostico è importante valutare in modo attento l’esordio e il decorso della malattia, la presenza di fattori di rischio e di patologie concomitanti, l’anamnesi farmacologica, oltre ad osservare, con una valutazione neuropsicologica, le diverse aree cognitive coinvolte. Ad oggi si ritiene che le forme vascolari “pure”, come è stato sottolineato precedentemente, rappresentino una quota limitata dei casi di demenza e che nella maggioranza dei casi la genesi del disturbo cognitivo sia da considerarsi di tipo “misto” neurodegenerativo e vascolare, che rappresenta, probabilmente, la causa più frequente di demenza nell’anziano (Mello et al., 2011). L’accuratezza nella diagnosi di demenza “mista” è di cruciale importanza sia dal punto di vista epidemiologico che per quanto riguarda la strategia di prevenzione e di trattamento dell’anziano (Abitabile et al., 2010).

È noto che la malattia di Alzheimer e la demenza vascolare siano tra le cause più frequenti di demenza, soprattutto in età geriatrica. Alcuni studiosi, tra cui Delay e Brion, furono i primi a ipotizzare che le due forme potessero coesistere, dando vita alla cosiddetta forma di demenza “mista” (Delay e Brion, 1962). In seguito, sono state generate numerose e differenti definizioni di tale demenza, legate soprattutto alle modalità di diagnosi, alle presentazioni cliniche, ai trattamenti, etc. Alcuni studiosi hanno suggerito, infatti, che si può parlare di demenza “mista” solo se l’esame neuro-patologico mostra sufficienti lesioni sia vascolari che degenerative, e che ciascuna di queste possa essere diagnosticata indipendentemente dall’altra (Tomlinson et al., 1970). Anche Molsa et al. ha definito demenza “combinata” quei casi di Malattia di Alzheimer associata a lesioni ischemiche, tralasciando la loro gravità (Molsa et al., 1985). Prendendo in considerazione tutti questi studi, pertanto, con il termine demenza “mista”, si vuole indicare una combinazione di differenti forme di demenza, che vanno dalla malattia di Alzheimer alla demenza vascolare e/o a deficit cognitivi di origine vascolare. Gli esami post-mortem, però, hanno evidenziato che la demenza “mista” è sottostimata e ciò dimostra che questo tipo di demenza è maggiormente presente rispetto a quanto riportato dagli studi clinici; questo è stato dimostrato delle varie autopsie effettuate su pazienti, le quali hanno confermato che la maggior parte dei casi era riconducibile proprio a questo tipo di demenza “mista”. I criteri clinici per effettuare tale diagnosi di demenza “mista”, infatti, sono controversi e difficili, e la loro validazione è ancora in corso; dai pochi studi che sono stati condotti, si è arrivati alla conclusione che il paziente con questo tipo di demenza dovrebbe rispondere ad almeno due delle seguenti caratteristiche:

  • Paziente con diagnosi di Malattia di Alzheimer il cui stato cognitivo è stato aggravato da un incidente cerebro-vascolare;
  • Paziente con accidente cerebro-vascolare il cui stato cognitivo è andato progressivamente aggravandosi.

Per quanto riguarda la sua validazione, che precedentemente abbiamo detto essere ancora in corso, uno degli studi più importanti è stato realizzato utilizzando i criteri dell’ADDTC (Alzheimer Disease Diagnostic et Treatment Centers) e del NINDS-AIREN (National Institute of Neurological Disorders and Stroke-Association International puor la Recherche et l’Eseignement en Neuroscience) su 113 pazienti, i quali sono stati classificati come affetti da demenza “mista” poiché rispondevano sia ai criteri di malattia di Alzheimer, sia a quelli di demenza vascolare durante gli esami neuro-patologici. La classificazione di questi pazienti è risultata differente a seconda dei criteri utilizzati: i casi di demenza “mista” sono stati classificati come demenza vascolare nel 54% dei casi utilizzando i criteri dell’ADDTC, mentre nel 29% dei casi utilizzando i criteri NINDS-AIREN. Da questo si evince che la maggior parte dei casi di demenza “mista” sono stati esclusi e che entrambi i criteri utilizzati erano più sensibili all’identificazione della demenza vascolare, ma meno a una demenza “mista”. Da ciò si è dedotto che i caratteri clinici di una demenza vascolare sono diversi da quelli di una demenza vascolare “mista”, e che quindi essi non sono interscambiabili ai fini di una corretta diagnosi (Abitabile et al., 2010). Ancora oggi, quindi, non possiamo definire i criteri e le modalità di insorgenza della demenza “mista”; possiamo solo sostenere che la sovrapposizione della malattia di Alzheimer con la demenza vascolare sembra essere all’origine di questo tipo di demenza, la cui diagnosi potrà essere migliorata solo attraverso nuovi e approfonditi studi.

Trattamento della demenza vascolare

La demenza vascolare, piuttosto che essere considerata come una patologia univoca, dovrebbe essere studiata nel suo carattere eterogeneo, permettendo così di avere una visione più ampia rispetto a tutte le sue sfaccettature. Attualmente non esistono trattamenti farmacologici in grado di ottenere dei risultati validi circa tale patologia una volta stabilita clinicamente. Esistono, però, delle strategie per cercare di limitare i suoi sintomi e la sua evoluzione; è compito del medico quello di individuare e trattare precocemente quelli che vengono definiti “fattori di rischio vascolare” e tutte quelle condizioni che sappiamo essere associate a disturbi cerebrovascolari. Fondamentale per il trattamento della demenza vascolare, quindi, è la prevenzione primaria, che cerca di agire su quelli che sono i principali fattori di rischio, che oltre l’etnia, l’età e il sesso, sono rappresentati da ipertensione, diabete mellito, fumo, alcol, obesità, etc.  Compito del paziente, o di chi si prendere cura di lui, è quello di favorire uno stile di vita sano, evitando le abitudini che possono provocare il danno vascolare (Baldinelli et al., 2017). I rischi di demenza vascolare, sono tra i principali obiettivi delle strategie di prevenzione: numerose, infatti, sono le informazioni su ictus e fattori di rischio cerebrovascolari, questo perché un attento controllo e un immediato intervento su di questi dovrebbe ridurre la probabilità di demenza vascolare post-ictus e di demenza vascolare subcorticale.

Tuttavia, la letteratura su tale argomento risulta essere scarsa, a causa del piccolo numero di campioni, e quindi della bassa potenza statistica, della scarsa durata degli studi, dei disegni di ricerca e della scelta di end-point non adeguati all’argomento trattato. Questo ha condotto a risultati modesti, tanto che, ad oggi, come è stato espresso in precedenza, di nessun farmaco è stata documentata con sicurezza l’efficacia (Mello et al., 2011).

Una volta che la demenza vascolare è stata clinicamente stabilita, si passa a quella che è considerata prevenzione secondaria, ossia si mettono in atto una serie di terapie che mirano principalmente a rallentare la progressione della malattia. All’iniziale diffidenza del mondo scientifico per i trattamenti non farmacologici, infatti, si sta sostituendo, negli ultimi anni, un interesse crescente dovuto principalmente ai limiti dell’efficacia farmacologica. Tramite programmi di intervento che si basano sulla riabilitazione cognitiva in associazione ad altri tipi di trattamento, viene utilizzato un approccio multifattoriale, che abbia come obiettivi il mantenimento di tutte quelle capacità ancora intatte che il paziente presenta, e la riduzione di un eccesso di disabilità (Vallar et al., 2015). In secondo luogo, grazie all’evoluzione delle neuroscienze, all’uso di nuove tecniche elettro-fisiologiche e di neuroimaging, si è potuta documentare la possibilità di modificazioni morfologiche e funzionali del sistema nervoso dell’adulto legate alla neuroplasticità del cervello. Tale concetto di plasticità cerebrale è stato non solo esteso a tutte le fasi della vita, ma sono stati forniti anche dati a supporto dell’efficacia dei trattamenti riabilitativi basati sull’ipotesi di riorganizzazione funzionale o di apprendimento: un processo continuo che permetterebbe un rimodellamento delle mappe neuro-sinaptiche. Questi studi hanno dato, dunque, inizio all’elaborazione di tutta una serie di approcci non farmacologici finalizzati a rallentare il declino cognitivo e funzionale, compensare le disabilità, e controllare i disturbi del comportamento.

Riflessioni conclusive

Questo lavoro si è soffermato maggiormente sull’importanza e sulla frequenza della demenza di tipo vascolare, essendo la seconda causa più comune di demenza nella popolazione, la quale però non possiede, a livello di studio e di ricerca, la risonanza che meriterebbe. Sebbene ci siano stati molti progressi negli ultimi anni per quanto riguarda la definizione e comprensione della relazione tra la malattia cerebrovascolare e i deficit cognitivi, permangono alcune incertezze. Sono, infatti, necessari trial clinici di maggiore durata, numerosità e omogeneità del campione, e con disegni e misure di outcome adeguati, ai fini di valutare l’efficacia dei potenziali interventi terapeutici e preventivi. La gestione della demenza vascolare dovrebbe concentrarsi sull’identificazione e la gestione della comorbilità, garantendo che i fattori di rischio vascolare siano gestiti in maniera ottimale, che ci sia un riconoscimento e una gestione ottimale dei sintomi non cognitivi e un adeguato supporto psicosociale, per rendere meno dura possibile la vita dei pazienti e dei caregiver.

 

Meat Paradox: dissonanza cognitiva alla base del carnismo

La comprensione del Meat Paradox potrà essere fondamentale per produrre degli interventi volti a ridurre il consumo di carne e i suoi effetti dannosi.

La dissonanza cognitiva

 La dissonanza cognitiva è definita come il disagio derivante dalla contraddizione tra i valori e il comportamento di una persona (Festinger, 1957). Essa è innescata da qualsiasi stimolo trigger che renda saliente la contraddittorietà tra un comportamento e un determinato valore, come per esempio il consumo di carne in relazione al desiderio di non voler nuocere agli animali (Fointiat, 2011; Juvan & Dolnicar, 2014). Le persone riducono la dissonanza tramite la messa in atto di varie strategie, tra cui l’evitamento di fattori scatenanti (Liang, 2016) o banalizzando/sminuendo le conseguenze dannose del proprio comportamento (Voisin et al., 2013).

Secondo Festinger (1957) queste strategie si dividono in tre tipi:

  • Cambiare i valori;
  • Cambiare il comportamento, ovvero impegnarsi moralmente;
  • Oscurare la contraddizione tra comportamento e valori, ovvero mettere in atto strategie di disimpegno morale.

Il 75% degli americani non riduce il proprio consumo di carne, il che potrebbe suggerire l’utilizzo della Strategia Tre (McCarthy & Dekoster, 2020). In effetti, la letteratura attuale (Rothgerber, 2020) suggerisce che le persone di solito utilizzano strategie di disimpegno (Strategia Tre) per ridurre la dissonanza. Ad esempio, le persone negano che gli animali “da cibo” siano in grado di provare dolore (Bratanova et al., 2011), rendendo innocuo il consumo di carne e permettendo moralmente di continuare a consumarla.

Il Meat Paradox

Il Meat Paradox (MP), ovvero il “paradosso della carne”, è un fenomeno che riguarda molti individui che desiderano evitare di fare del male agli animali ma continuano comunque a consumare carne (Loughnan et al., 2014). Il Meat Paradox può essere definito come una forma di dissonanza cognitiva, che descrive il disagio derivante da una contraddizione tra le proprie convinzioni e i propri comportamenti (Loughnan et al., 2014).

Il consumo di carne ha numerosi effetti dannosi, poiché non solo implica violenze sugli animali ma anche danni ambientali, tra cui le emissioni di gas a effetto serra (Godfray et al., 2018) e l’inquinamento delle acque (Mekonnen & Hoekstra, 2012). Se le diete a base prevalentemente vegetale diventassero comuni, le emissioni di gas a effetto serra previste potrebbero ridursi del 52% (Springmann et al., 2018), ma essendo il consumo globale di carne ancora largamente diffuso, la comprensione del Meat Paradox è fondamentale per produrre degli interventi volti a ridurre il consumo di carne e i suoi effetti dannosi.

La dissonanza cognitiva legata al consumo di carne

A fronte di queste gravi conseguenze, la letteratura sul Meat Paradox è sorprendentemente scarsa. Rothgerber (2020) ha teorizzato diverse ipotesi riguardo alla dissonanza cognitiva legata alla carne, offrendo i primi spunti teorici su come i consumatori di carne prevengano e riducano la dissonanza. L’autore sostiene che il Meat Paradox sia suscitato da fattori scatenanti come, ad esempio, il ricordo della carne proveniente da animali e quindi l’associazione diretta tra la carne e l’animale in sé; le persone utilizzerebbero dunque delle strategie per bloccare i fattori scatenanti a priori, ancor prima di sperimentare la dissonanza o, a posteriori, per ridurre la dissonanza il più possibile nel caso in cui i fattori scatenanti siano inevitabili.

Uno studio di Gradidge et al. (2021) ha esplorato la letteratura riguardante il Meat Paradox evidenziando diversi aspetti interessanti.

 Diversi articoli scientifici considerati dalle autrici supportano l’ipotesi della dissonanza cognitiva: per esempio, concettualizzare gli animali comunemente considerati fonte di cibo, come incapaci di provare dolore è risultata una strategia diretta (negazione) nella gestione della dissonanza. Nello specifico, per quanto riguarda i triggers, diversi articoli hanno evidenziato come a scatenare dissonanza fossero espliciti ricordi o immagini legati sempre alla sfera del dolore o alla reminiscenza della figura animale in sé. Infatti, grande fonte di dissonanza risulta essere il fatto che, nel momento in cui si acquista della carne, per esempio al supermercato, essa è già stata impacchettata e tagliata, così da non ricordare più in maniera immediata una parte del corpo animale.

In ultimo, diversi articoli che indagavano le differenze di genere, hanno evidenziato l’utilizzo di strategie dirette nei maschi: infatti, la produzione di carne convenzionale può suscitare una dissonanza più forte a causa di un maggiore investimento comportamentale, suscitando così strategie più forti e dirette (ad esempio, la giustificazione morale) nei maschi ma non nelle femmine, le quali invece tendono ad attuare strategie più indirette; questo fattore potrebbe essere dovuto al fatto che gli uomini tendenzialmente consumano più carne delle donne.

 

Il gioco d’azzardo come dipendenza patologica

In questo articolo ci soffermiamo sul modello del gioco d’azzardo patologico presentato da Blaszczynski e Nower (2002), che tentano di integrare fattori biologici, di personalità, teorie dell’apprendimento e fattori ambientali.

Gioco d’azzardo: croce e delizia dei tempi moderni

 La dipendenza da gioco d’azzardo (non ludopatia come ancora viene erroneamente definita) è una patologia che sta diffondendosi a macchia d’olio in tutto il mondo, a cui non si sta dando la giusta rilevanza al pari delle dipendenze da sostanze stupefacenti. Probabilmente è l’assenza concreta e visibile di un qualcosa di pericoloso per la nostra salute o probabilmente è il termine “gioco” a deviare da quella che è l’effettiva tossicità del gioco d’azzardo.

È per questo motivo che nell’ultimo ventennio molti studiosi specializzati nelle addiction hanno deciso di dedicare le ricerche proprio a tale fenomeno, al fine di dare una maggiore e veritiera conoscenza del gioco in termini patologici, di saperla riconoscere e di fornire strumenti attraverso cui intervenire.

Cosa significa dipendenza?

Per dipendenza si intende “un’alterazione del comportamento che da semplice e comune abitudine diventa una ricerca esagerata del piacere attraverso mezzi, sostanze o comportamenti che sfociano nella condizione patologica” (DSM 5) o, volendo citare Griffiths (2005), la differenza tra un sano entusiasmo, sebbene eccessivo, e la dipendenza patologica è che i sani entusiasmi arricchiscono la vita mentre le dipendenze la impoveriscono.

Nel caso specifico del gioco d’azzardo, l’American Psychiatric Association (APA) lo riconosce clinicamente come una patologia già nel 1980 inserendolo, infatti, nella terza versione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) descrivendolo come un comportamento persistente, resistente e maladattivo di gioco che comprende aspetti di vita personali, lavorativi e familiari del soggetto (Goudriaan et al., 2004). Qualche anno più tardi (1992) l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) lo presenta, invece, come un disordine del comportamento e degli impulsi che consiste in frequenti e ripetuti comportamenti di gioco che dominano la vita del soggetto e ne compromettono i vari contesti in cui è coinvolto. Viene introdotto, quindi, il termine “impulso” come se questo comportamento sfuggisse alla volontà e alla razionalità della persona, cosa che non consente di considerarlo una vera e propria dipendenza. In effetti, nella quarta versione del DSM il cosiddetto gioco d’azzardo patologico viene inserito sotto la categoria “Disturbo del Controllo degli Impulsi”, supportato da studi che ne indagano la relazione (Sareri e Gori, 2012) e che introducono anche altri fattori che potrebbero assumere il ruolo di mediatori o moderatori, come evidenziato dallo studio di Chimienti e De Luca (2012), che coinvolgono gli stili di attaccamento e che approfondiscono tale legame col gioco e l’impulsività anche nei familiari dei partecipanti in questione.

Il gioco d’azzardo secondo l’ipotesi eziopatogenetica

È solo con l’entrata in vigore della quinta versione del DSM (2013) che il gioco d’azzardo viene inserito nella macrocategoria dei “Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction”. Viene definito, perciò, un comportamento problematico ricorrente o persistente legato al gioco d’azzardo che comporta un disagio clinicamente significativo.

Affinché si possa diagnosticare un disturbo da dipendenza da gioco d’azzardo è necessario che si verifichino 4 delle 9 condizioni complessive individuate dagli studiosi che hanno redatto il manuale, ovvero:

  • la persona è completamente assorbita dal gioco d’azzardo;
  • compromissione o perdita di relazioni significative;
  • bisogno di aumentare la quantità di denaro;
  • irritabilità;
  • dopo una perdita, il soggetto ritorna a giocare per recuperare il denaro perso;
  • ripetuti tentativi di ridurre il tempo dedicato al gioco;
  • prestito di denaro da altri;
  • utilizzo del gioco per sfuggire ai problemi;
  • il soggetto mente ai familiari.

 Tale patologia è stata indagata attraverso vari approcci (soprattutto quello psicodinamico e cognitivo-comportamentale), in questo articolo ci soffermeremo sul modello presentato da Blaszczynski e Nower (2002), che tentano di integrare fattori biologici, di personalità, teorie dell’apprendimento (in particolare il condizionamento operante) e fattori ambientali in una cornice teorica più ampia. Tale modello presuppone l’esistenza di tre vie che possono portare al gioco d’azzardo patologico dalle quali possono nascere tre tipologie di giocatori.

Il modello di Blaszczynski e Nower

Il modello di Blaszczynski e Nower prevede:

  • fattori ecologici
  • vulnerabilità emotiva
  • vulnerabilità ecologica

I fattori ecologici comprendono l’apprendimento attraverso la teoria del condizionamento operante, ovvero, la spiegazione dell’interiorizzazione di un comportamento quando si ottiene una ricompensa dall’esterno subito dopo averlo attuato, o, viceversa, l’estinzione dello stesso a seguito di una punizione (Avanzi, 2022).

Nel caso del giocatore, una vincita può portare alla costruzione di una serie di schemi cognitivi costituiti da quelle che in ambito psicologico vengono definite fallacie (Leonard, C. A., & Williams, R. J., 2016). Per esempio, la fallacia dello scommettitore che implica che due eventi indipendenti vengono considerati legati tra loro; la fallacia dell’esito caldo e della mano calda; la fallacia del giocatore o di Montecarlo, secondo la quale, dopo una serie di eventi negativi ne seguirà uno positivo; le illusioni di controllo.

L’instaurazione di questi schemi cognitivi spiega l’abituazione, ovvero, la ripetuta messa in atto di quelle sequenze comportamentali che, secondo il giocatore, hanno maggiori probabilità di portare ad una vincita.

Il secondo fattore è la vulnerabilità emotiva e, parallelamente, i tratti impulsivi: presenza di disturbi di personalità, disturbi dell’umore, ansia, depressione, ADHD, impulsività, comportamenti antisociali, abuso di sostanze.

Infine, la vulnerabilità biologica, ovvero l’alterazione nei circuiti serotoninergici, dopaminergici e noradrenergici, responsabili del cosiddetto sistema di gratificazione.

Secondo Blaszczynski e Nower, da queste tre vie si distinguerebbero tre tipologie di giocatori:

  • Giocatori senza psicopatologia: sono persone senza alcun problema psicologico ma che sviluppano la dipendenza a seguito dell’instaurarsi degli schemi cognitivi precedentemente descritti. Sono presenti sintomi ansiosi e depressivi come conseguenza del gioco e di ciò che di negativo comporta.
  • Giocatori emotivamente labili: sono soggetti con tratti ansiosi e depressivi già prima della dipendenza dal gioco che, in seguito ad essa, vengono accentuati. Hanno difficoltà nell’affrontare gli imprevisti e le situazioni stressanti del quotidiano.
  • Giocatori con tratti antisociali: oltre ad essere persone con vulnerabilità emotiva e biologica, come nella seconda tipologia, presentano anche tratti antisociali, comportamenti impulsivi e difficoltà di attenzione.

Tale modello può risultare utile in quanto capace di integrare più fattori e dare una visione completa di ciò che significa avere una dipendenza dal gioco d’azzardo. Sicuramente è necessario dare più rilevanza a tale fenomeno, non solo attraverso gli studi che riescono a rilevare l’effettiva disfunzionalità del comportamento e di ciò che esso comporta, anche nell’ambiente circostante al giocatore (famiglia, amici, lavoro), ma soprattutto attraverso provvedimenti legali e giuridici che ne possano ridurre la diffusione.

Versetti ironici contro l’ansia (2021) di Fabio Santa Maria – Recensione

“Versetti ironici contro l’ansia” è una raccolta fresca e scorrevole di versetti spiritosi e sagaci, composti da un ansioso e rivolti a un pubblico di ansiosi o di loro amici, frequentatori e compagni, in cui Fabio Santa Maria si fa portavoce delle disavventure dei tantissimi ansiosi che popolano il mondo contemporaneo.

 Inizialmente concepito come un quaderno in cui annotare i piccoli traguardi quotidiani, le strategie, i sogni e i pensieri, su indicazione dello psicologo di Santa Maria, ben presto questo “diario ansioso” si è trasformato in una raccolta di piccoli brani e racconti ironici per affrontare l’ansia, sdrammatizzare, accettarsi e sentirsi meno soli.

Nell’introduzione ansiosa, l’autore stesso chiarisce l’origine del nome attribuito alla sua opera:

Ma perché proprio versetti?

Perché sono corti e così non stressano. Versetti nel senso di “piccoli versi”, nel senso che faccio il verso all’ansia, la prendo in giro, disegno la caricatura di me stesso: il tipico ansioso medio. Poi “versetti” suona biblico, quasi apocalittico, e l’ansia si spaventa. (p. V)

“Tutti insieme ansiosamente”

Ma in media quante persone soffrono di disturbi d’ansia?

In uno dei primi racconti, è lo stesso autore a rispondere a questa domanda, colto dalla curiosità di conoscere la portata numerica di questo fenomeno e combattere un diffuso senso di solitudine e inadeguatezza: solo in Italia, si parla di 3 milioni di persone che soffrono di disturbi d’ansia, e alcuni studi riportano che il 79% della popolazione avrebbe avuto almeno una crisi d’ansia, attacco di panico o sperimentato i sintomi tipici di questa condizione.

D’altronde, risultano numerosi anche i personaggi famosi, realizzati ed eccelsi, che hanno solcato i mari dell’ansia: da Woody Allen a Carlo Verdone, da Pavarotti a Federica Pellegrini.

Aneddoti e origini dell’ansia

L’ansia ha una tale faccia tosta da riuscire a superare i limiti della stessa persona ansiosa in cui abita. È come se volesse tracimare, traboccare, invadere lo spazio altrui… (p.57)

L’autore definisce la sua ansia, facendo uso delle potenze: un’ansia al cubo, elevata alla terza, per indicare la sua genesi che affonda le radici in altri vissuti d’ansia, tutti logicamente connessi tra loro, ma esistenti soltanto nella sfera del possibile, in quanto semplici ipotesi.

Si interroga sul primo incontro con la sua ansia, pur consapevole dell’origine multifattoriale di questa condizione –dai fattori genetici, alle problematiche familiari a caratteristiche di personalità–, e riesce a scovare il momento zero: il suo battesimo dell’ansia.

 Aveva circa quattro anni, stava giocando al parco con altri bambini mentre la madre lo aspettava e osservava insieme ad altri genitori, quando improvvisamente si accorse di avere una scarpa slacciata e in preda al panico corse dalla madre, che prontamente allacciò le stringhe. Peccato che sorse un altro problema: la scarpa appena allacciata risultava molto più stretta e scomoda dell’altra, tanto da rendere al piccolo Santa Maria difficile camminare. Ebbe così inizio la sua prima ruminazione mentale ansiosa: meglio allentare la scarpa appena allacciata o stringere la vecchia? Aspettare che qualcuno risolvi la situazione o restare fermi, bloccati da una sensazione di disagio e impotenza?

Nel corso della raccolta, Santa Maria propone una serie di spiritosi aneddoti autobiografici, simili alla storia delle scarpe, tutti accomunati da una protagonista d’eccezione: l’ansia. Restare bloccati in ascensore, fare benzina al self-service, fronteggiare gli innumerevoli inviti al bar a prendere un caffè –nota sostanza eccitante e quindi ansiogena–, distinguere gli effetti di un innamoramento imprevisto dalla pervasività dell’ansia, e tanti altri ancora.

Particolarmente spassoso il dialogo che Santa Maria instaura con la sua ansia, come se formassero una vecchia coppia di coniugi:

Cara ansia, oggi avrei un impegno. Dai, non te la prendere, guarda che non scappo! Te lo dico col cuore: sei parte della mia vita. Anzi, ormai dovresti aver capito bene che ti ho riservato un bel posto in prima fila, che sei importante, che non potrei più vivere senza di te. Però oggi avrei bisogno di stare un po’ da solo (p.5).

Istruzioni per l’uso

“Versetti ironici contro l’ansia” è un’opera fresca e sincera, dalla lettura scorrevole e l’immedesimazione semplice e immediata, consigliata a tutti coloro che navigano o hanno navigato, almeno una volta, nei mari sconfinati dell’ansia.

In conclusione, citando i consigli di lettura dell’autore stesso: è possibile divorare l’intera opera in una serata, oppure centellinare i versetti, ad uno ad uno, lasciando che si sciolgano lentamente sotto la lingua e cercando di coglierne le sottili sfumature; è possibile vagare ansiosi tra un versetto e l’altro, alla ricerca spasmodica di quello che possa fare al caso proprio, oppure leggerli tutti d’un fiato, con l’ansia di perderne anche solo uno.

 

La stigmatizzazione interiorizzata nella psicopatologia

La stigmatizzazione interiorizzata dei disturbi mentali ha un impatto negativo sul funzionamento dei soggetti con tali diagnosi e sulla loro qualità di vita. 

 

 La stigmatizzazione che provano gli individui con una o più psicopatologie verso sé stessi, si riferisce all’interiorizzazione di percezioni sociali negative che, inserite in un contesto socio-culturale (Livingston & Boyd, 2010), portano gli individui con malattie mentali a provare sentimenti di autosvalutazione, depressione e mancanza di motivazione (Boyd et al., 2014). Inoltre, l’auto-stigmatizzazione risulta avere un impatto anche sul funzionamento sociale e lavorativo degli individui, essendo associata ad una diminuzione del reddito, ad una minor aderenza ai trattamenti psichiatrici e ad una maggiore gravità dei sintomi psicopatologici (Livingston & Boyd, 2010).

La stigmatizzazione del disturbo borderline di personalità

Il disturbo borderline di personalità, nonostante i numerosi studi evidence-based (National Collaborating Centre for Mental Health, 2009) a conferma della remissione sintomatologica dopo il trattamento, è ancora associato ad una forte stigmatizzazione, anche tra gli individui che svolgono professioni riguardanti la salute mentale. Infatti, gli episodi di rabbia intensa e la grande difficoltà nell’instaurare una relazione terapeutica con questi pazienti, possono portare i professionisti a provare sentimenti di frustrazione e di impotenza che favoriscono i giudizi ed i pregiudizi verso gli individui con questo disturbo (Bodner et al., 2015; Sansone & Sansone, 2013).

Anche a livello pubblico e familiare è presente una marcata stigmatizzazione; è frequente il giudizio dei familiari nei confronti dei parenti con diagnosi di disturbo borderline e in ambito lavorativo, infatti i dati suggeriscono che spesso gli individui con questo disturbo siano disoccupati (Sheehan et al., 2016).

Inoltre, nelle persone con questa diagnosi è evidente l’interiorizzazione della stigmatizzazione, che si riflette come giudizio verso il loro stesso comportamento o disagio; questo conseguentemente aumenta le visione negativa della personalità degli individui, influenzandone l’autostima, l’adesione al trattamento ed il funzionamento globale (Rüsch et al., 2006).

La stigmatizzazione del disturbo bipolare

Anche i pazienti con diagnosi di disturbo bipolare riferiscono spesso di sentirsi giudicati sul posto di lavoro e nella loro rete sociale; questo è stato associato principalmente ad una mancanza di conoscenza della malattia (Hawke et al., 2013). D’altra parte, solo recentemente a livello mediatico sono aumentati i film, le serie tv e le dichiarazioni da parte di personaggi pubblici che riportano la diagnosi, che sembrano essere associati anche ad un cambiamento culturale nei confronti della stigmatizzazione di questo disturbo. Infatti, attualmente, le persone con disturbo bipolare sono spesso descritte come artistiche e produttive ed alcuni studi suggeriscono addirittura la speranza da parte di alcune persone di ricevere questa diagnosi (Bonnington & Rose, 2014). Nonostante questo una revisione condotta nel 2013 (Ellison et al., 2013) ha rilevato una moderata auto-stigmatizzazione negli individui con diagnosi bipolare, associata ad un’alterazione dell’identità e ad un maggior senso di impotenza e di isolamento sociale.

La stigmatizzazione nel disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività

Gli individui con disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD), fin da bambini possono essere esposti a discriminazioni per via dei loro comportamenti impulsivi e delle difficoltà attentive (Fuermaier et al., 2012); il rifiuto sociale, assieme alle difficoltà scolastiche a cui possono andare incontro, possono impattare notevolmente sull’autostima e sullo stigma interiorizzato degli individui che soffrono di ADHD.

A livello clinico, per via del numero di sintomi simili (impulsività, cambiamento umorale repentino, disregolazione emotiva, comportamenti a rischio) è comune che le diagnosi di bipolarismo, disturbo borderline di personalità e ADHD vengano confuse dai professionisti. Uno studio che ha analizzato la diagnosi di 57 individui ha riportato che circa il 40% dei pazienti con disturbo borderline era stato erroneamente diagnosticato con disturbo bipolare (Carpiniello et al., 2011).

Lo studio

L’articolo di Quenneville et al. pubblicato nel 2019 (Quenneville et al., 2019) ha avuto come scopo quello di analizzare la stigmatizzazione interiorizzata di individui con disturbo bipolare, disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività e disturbo borderline di personalità.

 Attraverso la valutazione di 244 pazienti, reclutati presso un centro di psichiatrico specializzato, lo studio ha osservato che i pazienti con diagnosi borderline di personalità sono risultati essere quelli con il livello di stigma interiorizzato maggiore; questo potrebbe essere dovuto dal fatto che gli individui con questo disturbo mostrano dei bias cognitivi nella valutazione delle espressioni facciali che li portano ad attribuire erroneamente emozioni negative ad espressioni facciali neutrali (Mitchell et al., 2014). Questo, in aggiunta alla visione sociale negativa attribuita al disturbo borderline di personalità, contribuisce all’auto-stigmatizzazione inducendo ipervigilanza per i segnali di rifiuto o di critica (Gunderson & Links, 2008).

Inoltre, i pazienti con diagnosi di bipolarismo, rispetto a quelli con ADHD, dallo studio (Quenneville et al., 2019) sembravano mostrare maggiori livelli di auto-stigmatizzazione nelle sottoscale di discriminazione percepita e ritiro scoiale, che a loro volta si sono visti essere collegati a maggior disoccupazione.

In una revisione sistematica (Latalova et al., 2014), l’imbarazzo nel cercare aiuto e l’auto-giudizio si sono dimostrati essere i due fattori maggiormente collegati ad una mancanza di ricerca di assistenza, mentre gli alti livelli di stigma interiorizzato sono stati associati al suicidio o al tentato suicido.

I risultati dello studio (Quenneville et al., 2019), a conferma dell’impatto negativo dell’auto-stigmatizzazione sul funzionamento globale degli individui con malattie mentali, hanno mostrato una relazione con minori livelli di qualità di vita. Inoltre, la discriminazione percepita si è vista essere associata a maggior disoccupazione e isolazione sociale per tutti e tre i disturbi.

Il gruppo di soggetti che ha riportato i minori livelli di auto-stigmatizzazione si è visto essere quello dei pazienti con ADHD; questo potrebbe essere dovuto dal fatto che a livello clinico e sociale l’ADHD risulta essere un disturbo del neurosviluppo ampiamente conosciuto da insegnanti, genitori e opinione pubblica ed esistono programmi di intervento efficienti per le persone con questa diagnosi (Quenneville et al., 2019).

Considerazioni conclusive

In conclusione, considerando che l’auto-stigmatizzazione contribuisce a differenti aspetti negativi quali l’adesione ai trattamenti (Livingston & Boyd, 2010), sarebbero necessari maggiori studi riguardo agli interventi mirati alla riduzione dello stigma verso loro stessi degli individui con psicopatologie.

I professionisti, inoltre, dovrebbero affrontare questa tematica con i pazienti e cercare di ricorrere alla psicoeducazione e sensibilizzare alla tematica anche i parenti e le equipe mediche per limitare i pregiudizi nei confronti di determinate psicopatologie.

Il modello topico di Sigmund Freud: prima e seconda topica

Il conflitto interno tra pulsioni e difese presuppone che entrambe siano inconsce, di conseguenza il modello topico della mente non funziona e Freud concepisce il modello strutturale.

Il modello topico

 La prima concezione della mente proposta da Sigmund Freud detta “modello topico” è caratterizzata da un sistema conscio e da un sistema inconscio. Tuttavia, già nel formulare questa concezione della mente, Freud riconosce che non tutto l’inconscio è patologico e revisiona la sua teoria: difatti, Freud, nelle sue prime formulazioni condivideva con i suoi precursori (quali Charcot e Janet, esponenti della Psichiatria Dinamica Francese, o Joseph Breuer) il fatto che esistano delle idee che rimangono estranee alla coscienza (contenuti psichici isolati dalla coscienza e non integrati nella personalità). Il modello topico della mente è caratterizzato da:

  • sistema conscio: include le rappresentazioni che sono presenti alla coscienza e di cui abbiamo la percezione
  • sistema preconscio: include idee e sentimenti accettabili prossimi a diventare coscienti qualora l’individuo dovesse averne bisogno. Secondo Freud, quindi, esiste un sistema inconscio non patologico, presente anche nelle persone sane, con contenuti mentali accettabili ma non utili nelle esperienze quotidiane, che per non sovraccaricare la mente vengono immagazzinati nel sistema preconscio. Il sistema preconscio differisce dal sistema inconscio per l’accettabilità dei suoi contenuti, prossimi a diventare coscienti qualora l’individuo dovesse averne necessità
  • sistema inconscio: include idee e sentimenti inaccettabili che conviene tenere lontani dalla coscienza

Nel modello topico della mente, inoltre, la rimozione e le difese sono concepite come processi attivi consci e volontari. La rimozione è intesa come un atto attivo, conscio e volontario dell’individuo di esclusione dalla coscienza di ricordi traumatici, perturbanti e inaccettabili e in contrasto con il resto delle idee, dei sentimenti e della personalità dell’individuo. Tuttavia, la teoria di Freud è una teoria in evoluzione: Freud ha apportato numerosi cambiamenti alla sua teoria, difatti sono cambiati l’obiettivo della sua teoria (passa da una teoria del funzionamento dell’isteria e delle nevrosi ad una teoria del funzionamento psichico normale e psicopatologico), la concezione del trauma (dal trauma reale a carattere sessuale vissuto in età infantile a pulsioni sessuali e aggressive derivate da conflitti irrisolti nell’età infantile) e la concezione delle difese: da processi consci, attivi e volontari a processi inconsci e adattivi.

In particolare, secondo la teoria dello sviluppo psicosessuale proposta da Freud, dopo il superamento della teoria della seduzione, lo sviluppo della pulsione sessuale richiede il passaggio della libido (energia associata alla pulsione sessuale) attraverso cinque stadi biologicamente predeterminati. Lo sviluppo della pulsione sessuale può essere impedito da arresti (fissazioni) che bloccano parte della libido in una fase e privano la fase successiva della quantità di energia (libido) necessaria ad attraversarla. La fissazione ad una fase dello sviluppo psicosessuale di per sé non è patologica, può influenzare il carattere di una persona ma non essere associata ad una nevrosi. La fissazione si associa ad una nevrosi quando i desideri infantili correlati sono radicati in un conflitto interno.

Il modello strutturale

Il conflitto interno tra pulsioni e difese presuppone che entrambe siano inconsce, di conseguenza il modello topico della mente non funziona e Freud concepisce il modello strutturale. Il modello strutturale della mente, la seconda concezione della mente secondo Freud, è caratterizzato da tre istanze psichiche che interagiscono dinamicamente:

  • Es: associato ai bisogni primitivi, opera secondo il principio di piacere (la funzione primaria della mente è la scarica e la soddisfazione delle pulsioni che permette la scarica dell’eccesso di eccitamento: la scarica dell’eccitamento provoca affetti positivi mentre l’accumulo affetti negativi) teso alla soddisfazione immediata delle spinte pulsionali dell’individuo. In questo senso è amorale e disinteressato alle regole e alle convenzioni della società
  • Io: istanza psichica che consente di organizzare e rendere accettabili gli aspetti dell’Es. Opera secondo il principio di realtà (per poter vivere bene in società è necessario rinunciare almeno in parte alla gratificazione immediata delle pulsioni). Trasforma in realistici gli obiettivi, gli oggetti e le direzioni dell’Es. Si può definire come un insieme di funzioni regolatrici e armonizzatrici (difese) che tengono sotto controllo le pulsioni dell’Es. Le principali difese sono: resistenza, rimozione, sublimazione, spostamento, regressione, proiezione, razionalizzazione, annullamento, formazione reattiva, formazione di compromesso (importante per i sogni e per i sintomi nevrotici). Quando queste funzionano bene consentono all’individuo di non agire impulsi e desideri che potrebbero nuocere al benessere individuale e della società e permettono di contenere la potenza dell’angoscia associata ai desideri perturbanti, cioè di mantenere ben immagazzinati nell’inconscio i desideri perturbanti e l’affetto associato
  • Super Io: internalizzazione individuale dei principi, delle regole, delle convenzioni della società. Questi principi sono assimilati in primo luogo attraverso i genitori. Il Super Io è l’interiorizzazione di una serie di rappresentazioni cognitive ed emotive (proibizioni, credenze, valori, norme, atteggiamenti etc) legate ai rapporti precoci con le figure genitoriali. È un sistema di ideali e valori appresi. È spesso inteso come una parte di sé non completamente assimilata. Molte persone parlano della loro coscienza come qualcosa di esterno. Un esempio può essere il grillo parlante di Pinocchio. Il Super Io è diviso in due sottosistemi: coscienza, che deriva dalle punizioni genitoriali, e Io ideale, che deriva dai rinforzi e dalle gratificazioni genitoriali.

La funzione principale del Super Io è inibire gli impulsi e le pulsioni dell’Es e convincere l’Io a perseguire la perfezione e obiettivi morali (standard elevati).

Es, Io e Super Io interagiscono dinamicamente:

 L’Es influisce sull’Io facendo pressione affinché trasformi gli standard elevati del Super Io, riducendone la pressione, rendendo realistici i suoi obiettivi e diminuendo l’importanza di perseguire degli standard troppo elevati.

Il Super Io influisce sull’Io facendo pressione affinché trasformi i bisogni primitivi dell’Es in obiettivi e azioni realistiche, adeguate ai principi della società, accettabili e tendenti a standard elevati (ad esempio trasformando l’aggressività in successo in ambito sportivo).

L’io, attraverso il principio di realtà e l’azione delle difese, deve armonizzare e modulare la relazione tra le istanze psichiche dell’Es e del Super Io in maniera più realistica e adattiva. Le difese dell’Io non devono agire solo per rendere accettabili gli aspetti dell’Es ma anche per ridurre le pressioni del Super Io.

Le istanze psichiche differiscono non solo per il principio a cui si riferiscono (principio di piacere e principio di realtà) ma anche per la relazione con i processi cognitivi (le modalità di pensiero). In particolare:

  • l’inconscio e l’Es sono caratterizzati da un processo primario, un pensiero primitivo caratterizzato dalla soddisfazione immediata delle pulsioni dell’individuo, da un disinteresse per le conseguenze e un confronto con la realtà
  • l’Io e il Super Io sono caratterizzati da un processo secondario, che è caratterizzato da una struttura logica, da una considerazione delle conseguenze, una valutazione della realtà e da una consapevolezza del rapporto mezzi fini.

Per quanto riguarda l’organizzazione pulsionale della cognizione, secondo Freud i processi emotivi/pulsionali influenzano e definiscono i processi cognitivi:

  • i ricordi si organizzano in base alle dimensioni affettive
  • l’influenza pulsionale impatta sui processi percettivi
  • la cognizione è influenzata dallo stato emotivo in cui si verifica il processo cognitivo

Freud inoltre riconosce l’esistenza di un inconscio descrittivo (esistenza di processi psichici inconsci, un magazzino della mente che consente di organizzare il materiale in modo da non averlo sempre presente alla coscienza, per non sovraccaricare la mente, ma di poterlo recuperare abbastanza facilmente) e un inconscio dinamico (inconscio formato da desideri che premono per la scarica e l’accesso alla rappresentazione cosciente e vengono bloccati da forze contrarie; i contenuti dell’inconscio dinamico sono integralmente formati e una volta portati alla coscienza risultano immutati rispetto alla loro forma originaria).

Terapia Metacognitiva Interpersonale e disturbi alimentari: una proposta d’intervento

Un’interessante ricerca (Eielsen et al., 2022) ha mostrato che una delle principali variabili che interferiscono con la risoluzione del disturbo alimentare è la presenza di un disturbo di personalità in comorbidità, che deve quindi essere tenuto in considerazione nel trattamento.

I disturbi alimentari

 I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, sono patologie caratterizzate da un’alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo (Fairburn, 2002). I disturbi alimentari comprendono, oltre ad Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata, anche disturbi alimentari provenienti dalle classificazioni dedicate all’infanzia, quali Pica, Disturbo da ruminazione e Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo. Tra i comportamenti tipici di una persona che soffre di un disturbo alimentare, secondo il DSM-5, ritroviamo la “restrizione alimentare” finalizzata al calo ponderale, l’uso di check, la presenza di abbuffate e l’uso di inappropriate condotte compensatorie.

Si tratta di gravi malattie con frequenti e significative comorbilità psichiatriche (Udo et al., 2019), associate ad alti tassi di mortalità e compromissioni nella vita quotidiana, spesso accompagnate da gravi conseguenze fisiche (Jenkins et al., 2011; Treasure et al., 2015; Treasure, Duarte et al., 2020). Tra i vari modelli di intervento utilizzati nei disturbi alimentari, la CBT-E (terapia cognitiva-comportamentale per i disturbi alimentari) è attualmente la terapia di riferimento (Dalla Grave et al., 2020). La sua efficacia sembrerebbe consistere nella sua capacità di intervenire precocemente sulle errate abitudini alimentari e compensatorie (Byrne et al., 2002; Lampard et al., 2013); tuttavia gli outcome ottenuti con questo trattamento​ necessitano di ulteriori studi. Alcuni studi clinici randomizzati, infatti, mostrano che nel “mondo reale” il 50% dei pazienti con bulimia nervosa rimane sintomatico a fine trattamento (Poulsen et al., 2014; Wallter et al., 2014). Inoltre, i percorsi di trattamento sono caratterizzati da un tasso di drop-out stimato intorno al 24% (Linardon, 2018)​.

Una interessante ricerca recente (Eielsen et al., 2022), ha mostrato che una delle principali variabili che interferiscono con la risoluzione del disturbo alimentare è la presenza di uno o più disturbi di personalità in comorbidità. Questo studio è in linea con precedenti ricerche che mostrano che un ruolo centrale nella fenomenologia del disturbo è rivestito da: difficoltà nella regolazione emotiva, nella percezione e rappresentazione di sé e presenza di problemi interpersonali (Harrison et al., 2010; Hartmann et al., 2010; Lavender et al., 2015; Ung et al., 2017).

In quest’ottica, un modello di intervento che possa essere efficace per la risoluzione del disturbo e il mantenimento dei risultati ottenuti deve prevedere una concettualizzazione del caso che favorisca sia la promozione del cambiamento dei comportamenti legati al disturbo (normalizzazione dell’alimentazione e del peso), sia un intervento rispetto alle difficoltà psicologiche mostrate dai pazienti (per esempio, sulla regolazione emotiva o sull’autostima; Zeeck et al., 2018). Data la presenza in comorbidità in circa il 50% dei casi di un disturbo di personalità (Eielsen et al., 2022), il lavoro terapeutico deve necessariamente includere interventi volti all’intervento su questa categoria di disturbi e una costante e attenta regolazione della relazione terapeutica (Zeeck et al., 2021).

Gli schemi interpersonali nei disturbi alimentari

A partire da queste considerazioni, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), inizialmente elaborata e manualizzata per il trattamento dei disturbi di personalità (Dimaggio et al., 2015), è un modello di intervento promettente nel trattamento dei disturbi alimentari, proprio perché interviene sulle dimensioni del disturbo appena descritte. La TMI infatti favorisce una comprensione condivisa con il paziente delle difficoltà riportate in seduta e della sua sofferenza vissuta all’interno delle relazioni che vengono lette in maniera rigida a partire da schemi che si sono strutturati nel corso della vita. Permette contemporaneamente un lavoro sulla riduzione dei sintomi alimentari, attraverso la promozione di strategie cognitive e comportamentali che promuovono la regolarizzazione dell’alimentazione e la sospensione del rimuginio, aspetti centrali nel disturbo alimentare (Sassaroli et al., 2020). Secondo la TMI infatti, il disturbo alimentare non è altro che un meccanismo di coping disfunzionale nato dall’esigenza di soddisfare un bisogno (wish) sano, all’interno di uno schema interpersonale maladattivo (SMI). In quest’ottica, la promozione e lo sviluppo di parti sane, in affiancamento alla promozione dell’adozione di comportamenti proattivi per la remissione dei sintomi dei disturbi alimentari, permetterebbe il soddisfacimento dei bisogni nucleari sottostanti allo sviluppo del disturbo alimentare, che a quel punto non ha più ragione di essere.

 Detto in altri termini, l’essere umano agisce guidato dai propri scopi, desideri e dalle credenze che si è formato nel corso delle proprie esperienze nel mondo. Le esperienze relazionali ripetute e le disposizioni temperamentali di base danno origine a strutture intrapsichiche stabili (schemi interpersonali), che portano a prevedere come gli altri risponderanno ai loro bisogni e quali modalità potranno adottare per realizzare i propri desideri e fronteggiare la risposta ricevuta dagli altri (Caspar e Ecker, 2008; Kramer et al., 2011). Lo schema interpersonale, dunque, è una struttura procedurale intrapsichica, che nasce dall’esigenza di soddisfare un bisogno ricollegabile ai sistemi motivazionali, quali attaccamento, autonomia, rango sociale e appartenenza al gruppo, che diventa una configurazione cognitivo-affettiva a carattere previsionale (Dimaggio et al., 2013). Lo schema interpersonale diventa poi maladattivo quando un bisogno espresso all’interno della relazione con le principali figure di riferimento del soggetto viene sistematicamente frustrato, poiché il soggetto dovrà sviluppare modalità alternative (coping) disfunzionali per soddisfare il bisogno non riconosciuto; coping disfunzionali come lo sviluppo di un disturbo alimentare.

Queste osservazioni sono sostenute dalla ricerca. Ad esempio, alcuni autori (Binder e Strupp, 1999; Cotugno et al., 2008; 2012; Glibert e Leahy, 2009) sottolineano che per risolvere le rotture dell’alleanza e l’impasse terapeutica con pazienti affetti da disturbi alimentari, sia necessaria la ristrutturazione degli schemi interpersonali dei pazienti stessi e che pazienti con disturbi alimentari presentano schemi individuali negativi che contribuiscono al mantenimento del disturbo stesso. Ad esempio, alcuni studi hanno evidenziato una correlazione tra contenuti cognitivi, schemi maladattivi e comportamenti alimentari disfunzionali (Lagenbauer, 2018) come dei coping utilizzati per gestire emozioni e credenze negative su di sé (Halmi et al., 2000; Diaz-Maria et al., 2000; Dalle Grave, 2012; Fairburn, 2014; Oliva et al., 2020) al fine di proteggersi da stati mentali dolorosi che emergono con l’attivazione degli schemi.

In quest’ottica, dunque, si può leggere l’eccessiva importanza attribuita a peso e forma del corpo, e i comportamenti di mantenimento del disturbo alimentare, come dei meccanismi di coping disfunzionali nati all’interno di uno schema interpersonale maladattivo, che vanno compresi e risolti, non solo nella loro dimensione patologica ricollegabile al sintomo alimentare, quindi attraverso terapie volte solo alla cura del comportamento disfunzionale, ma anche nella loro dimensione interpersonale, ovvero come tentativo di dare voce ad un bisogno insoddisfatto.

 

Franco Rotelli (1947-2023): un importante contributo alla salute mentale e ai diritti dei pazienti

Il 16 marzo, a Trieste, è scomparso Franco Rotelli a 76 anni, uno dei protagonisti della riforma psichiatrica italiana promossa da Franco Basaglia nonché uno dei principali collaboratori di Basaglia stesso.

Rotelli fu uno dei principali sostenitori del movimento storico di de-istituzionalizzazione, promozione dei diritti dei pazienti e miglioramento delle condizioni di vita per le persone con disturbi mentali. Questo suo contributo sociale e politico ebbe anche un lato clinico, perché in tal modo egli aumentò anche la sensibilità per pratiche psichiatriche meno coercitive e repressive e più attente alla reintegrazione sociale e lavorativa dei pazienti e alla riattivazione delle loro funzioni cosiddette auto-direzionali dei pazienti, ovvero la capacità di organizzarsi la vita in maniera attiva e autonoma, perseguendo scopi personali ed esistenziali: integrazione lavorativa, sociale e affettiva. Insomma, uno dei più influenti attori nel campo della salute mentale, contribuendo al miglioramento delle pratiche psichiatriche.

Nato a Casalmaggiore in provincia di Cremona nel 1947, Franco Rotelli si laureò e si specializzò in psichiatria presso l’Università di Parma. Cresciuto nell’ambiente delle cooperative sociali agricole della bassa padana, ne ereditò l’attenzione al rispetto dei diritti e delle libertà concrete delle persone e scelse la psichiatria come medicina dell’uomo sociale e non poteva accettare la psichiatria oppressiva di quei tempi, ben lontana dal rispetto elementare dei diritti umani dei malati. Per questo nel suo primo incarico all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, ottenuto nel luglio 1969, trasformò il reparto di internati per gravi reati in una comunità terapeutica, promuovendo una maggiore libertà di vita autonoma per i pazienti all’interno dell’istituto. Grazie a questa iniziativa altamente innovativa Rotelli suscitò l’attenzione di Basaglia che nel 1971 lo chiamò a lavorare nel suo gruppo di lavoro, prima in provincia di Parma (dove Basaglia era direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Colorno) e poi nel 1973 a Trieste, dove Franco Rotelli diventò primario a soli trent’anni e dove Basaglia gli affidò la responsabilità di una parte consistente dell’Ospedale Psichiatrico. In quegli anni Rotelli fu al fianco di Basaglia in tutte le sue battaglie. Trieste diventò zona pilota per l’Italia nella ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per lo sviluppo sviluppo di una nuova psichiatria non coercitiva. L’azione di Basaglia portò, nel gennaio 1977, all’annuncio della chiusura dell’Ospedale Psichiatrico “San Giovanni” di Trieste e il 13 maggio 1978 all’approvazione della legge 180 di riforma psichiatrica. Quando nel 1979 Basaglia lasciò la direzione dell’Ospedale di Trieste, Rotelli venne incaricato, su indicazione dello stesso Basaglia, di dirigere dapprima l’Ospedale Psichiatrico e poi, con il suo superamento, il sistema dei servizi psichiatrici del territorio. Rotelli realizzò una rete di servizi interamente sostitutivi dell’Ospedale Psichiatrico, fondata su Centri di Salute Mentale aperti 24 ore 7 giorni su 7, appartamenti protetti, case famiglia, cooperative sociali per l’inserimento lavorativo, laboratori per attività artistiche, culturali, teatrali, e così via, diventando il realizzatore pratico della riforma di Basaglia, che era purtroppo prematuramente morto nel 1980.

Il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, sotto la sua guida, diventò un modello internazionale per i servizi territoriali, tra cui centri diurni, case famiglia e servizi per l’occupazione e il sostegno alla vita autonoma. Negli anni successivi Rotelli condivise la sua esperienza di superamento del manicomio coercitivo in paesi al di fuori dell’Italia, come la Grecia, Il Brasile, L’Argentina, Cuba e la Repubblica Dominicana. Negli ultimi anni portò la sua esperienza anche nell’ambito politico e amministrativo, riuscendo a farsi eleggere dal 2013 al 2018 Consigliere Regionale del Friuli Venezia Giulia. Come il suo maestro Basaglia, Rotelli seguì l’impostazione fenomenologica, cercando di passare dal concetto semplicistico di psicopatia a quello umanistico di incontro con l’altro in una pratica orientata ai valori universali e all’etica della libertà. Il suo impegno è fonte d’ispirazione per le future generazioni di professionisti e attivisti.

La redazione di State of Mind esprime le sue condoglianze alla famiglia e ai suoi amici, ricordando il suo significativo contributo al settore. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo L’Impresa Sociale (1994), Per la normalità (1997) e L’istituzione inventata/Almanacco Trieste 1971-2010 (2015).

Giovanni Maria Ruggiero

Processi di adattamento dopo la prima ondata della pandemia di COVID-19: uno studio qualitativo basato sull’esperienza degli psicologi clinici

Lo studio di Lamiani e colleghi (2022) mira a comprendere i processi di adattamento della popolazione a seguito della prima ondata della pandemia da COVID-19. Per questo scopo gli autori hanno condotto uno studio attraverso un metodo qualitativo “grounded theory”, basandosi sull’esperienza di psicologi clinici che hanno effettuato supporto durante la pandemia.

Le conseguenze della pandemia da COVID-19

La pandemia da COVID-19 ha apportato un aumento di distress, tra cui ansia, depressione e stress post-traumatico nella popolazione generale, come evidenziato da molteplici studi a livello globale (Castelli et al., 2020; Morales-Vives et al., 2020; Wang et al., 2020; Prati and Mancini, 2021).

In particolare l’Italia fu il primo tra i paesi occidentali ad esserne gravemente colpito. All’esordio della pandemia da COVID-19, molti paesi implementarono misure di lockdown e di quarantene allo scopo di contenere la diffusione del virus. A fronte di tale situazione pandemica, le persone si trovarono di fronte a diversi fattori stressanti, tra cui l’isolamento, la coabitazione forzata, l’impossibilità di celebrare riti funebri all’interno delle proprie reti sociali e familiari, la chiusura prolungata delle scuole e delle attività sociali-ricreative, perdite economiche e sovraccarico lavorativo (Pfefferbaum and North, 2020).

In alcuni studi effettuati nel contesto italiano si sono evidenziati esiti in termini di salute mentale: ad esempio uno studio di Rossi et al. (2020) che ha esplorato lo stress psicologico causato dalla pandemia nella popolazione italiana durante la prima ondata, ha osservato la presenza di sintomi post-traumatici e disturbi dell’adattamento rispettivamente in un terzo e un quarto del campione studiato. Similmente, Lenzo e colleghi (2020) hanno e evidenziato che circa un terzo del campione dello studio, costituito da persone italiane, presentava sintomi di ansia, depressione e stress.

Come in altri paesi, durante l’estate del 2020, l’Italia entrò quindi in una fase di ri-aperture dei servizi e attività che gradualmente ripresero a funzionare nella quotidianità. La ri-apertura rappresentò una sfida non solo in termini epidemiologici, ma anche dal punto di vista psicologico. Secondo studi precedenti (Young et al., 2002), nelle fasi di recupero a seguito di situazioni di emergenza la prevalenza delle difficoltà psicologiche e dei disturbi psichici ad esse associate possono persino aumentare. Al di là delle risorse di resilienza individuale, le persone possono avere difficoltà ad adattarsi alle nuove circostanze e ad integrare gli eventi traumatici in narrative di senso (Kazlauskas and Quero, 2020); la paura, il panico, lo stigma possono perdurare nella popolazione a seguito di pandemie anche quando la situazione dal punto epidemiologico si è normalizzata (Strong, 1990; Hong et al., 2009; Ji et al., 2017).

I processi di adattamento dopo la prima ondata

In tal senso, i processi di adattamento degli individui dopo la fase emergenziale della prima ondata nella pandemia da COVID-19 rimangono ancora da esplorare e approfondire in termini di ricerca. L’adattamento può essere definito come un processo attraverso cui gli individui modificano i loro atteggiamenti e comportamenti in risposta a richieste ambientale o condizioni inaspettate (American Psychological Association, 2020).

L’adattamento può essere visto come un tentativo di mantenere un bilanciamento tra i propri bisogni e le circostanze che possono impendirne la loro soddisfazione. La pandemia da COVD-19, la radicale modificazione delle routine individuali e i cambiamenti di vita ad essa associati, hanno significativamente impattato sulla soddisfazione dei bisogni umani di base, come i bisogni di sicurezza, appartenenza e autorealizzazione (Maslow, 1954).

I processi di adattamento visti da psicologi e psicoterapeuti: uno studio

Lo studio di Lamiani e colleghi (2022) mira a comprendere i processi di adattamento della popolazione a seguito della prima fase emergenziale della pandemia da COVID-19 (la cosiddetta prima ondata). Per questo scopo gli autori hanno condotto uno studio attraverso un metodo qualitativo “grounded theory”, basandosi sull’esperienza di psicologi clinici che hanno effettuato supporto durante la pandemia; tale metodo induttivo può essere utile per andare ad esplorare e approfondire processi e fenomeni psico-sociali largamente sconosciuti, dove modelli teorici esplicativi risultano ancora carenti o assenti.

Lo studio ha coinvolto psicologi psicoterapeuti che lavorarono nei servizi comunitari e ospedalieri nel territorio italiano durante la prima fase emergenziale della pandemia, che potessero quindi avere una prospettiva privilegiata sul distress psicologico e sui processi di adattamento della popolazione incontrata nel loro contesto lavorativo. In particolare, sono stati condotti tre focus group in cui sono stati inclusi 24 psicologi clinici che hanno fornito supporto emergenziale alla popolazione (bambini e adolescenti, famiglie, adulti e pazienti cronici) nelle strutture socio-sanitarie durante la pandemia in diverse regioni italiane. Le trascrizioni di quanto verbalizzato nei focus group sono state analizzate attraverso una modalità specifica di codifica.

Le analisi delle trascrizioni dei focus group hanno messo in luce nel complesso uno specifico modello che tenta di spiegare il processo di adattamento dopo la prima ondata della pandemia da COVID-19.

Il riposizionamento

In particolare, per far fronte a una “nuova realtà” consistente nella pandemia, nelle restrizioni e cambiamenti di abitudine ad essa legate (es. distanziamento e lockdown) e a un aumento dell’incertezza, gli individui hanno dovuto rispondere a un nuovo compito evolutivo che è stato definito dagli autori come “riposizionamento”. Il riposizionamento viene descritto come un lavoro interno di attribuzione di senso alle esperienze emotive negative attivate dalla nuova realtà al fine di adattarvisi. Il riposizionamento richiede quindi agli individui un processo interno di integrazione delle esperienze emotive legate alla nuova realtà della pandemia attraverso strategie di coping. Il compito evolutivo di riposizionamento poteva quindi essere facilitato o ostacolato da fattori contestuali e ambientali, e portare dunque a due tipologie di esiti in termini di adattamento: una crescita o un blocco.

Imm. 1 – Il processo di adattamento dopo la prima ondata della pandemia da Covid-19 - Lamiani G. et al. (2022)

Imm. 1 – Il processo di adattamento dopo la prima ondata della pandemia da Covid-19 (Lamiami, 2022)

Le esperienze emotive negative

Da alcune parole emerse nei focus group, la nuova realtà che gli individui si sono trovati a vivere nella fase emergenziale della pandemia da COVID-19 è stata descritta “…come se ci fosse una grande pietra che pesava su tutti, anche su coloro che non erano direttamente coinvolti dal contagio…”.

La brusca interruzione della “vecchia realtà” ha causato diverse esperienze emotive negative, cui le persone hanno tentato di far fronte attraverso varie strategie di coping per riposizionarsi nelle loro vite: riposizionarsi significava dare significato alle esperienze emotive in atto allo scopo di riadattarsi e “ricollocarsi progettando il futuro a fronte di condizioni ancora incerte”.

Tra le esperienze emotive negative si riscontravano carenza di sicurezza, paura, ansia: ad esempio nei pazienti cronici che “ritornavano negli ospedali ri-aperti alle loro cure riluttanti e intimoriti poiché li percepivano come luoghi potenzialmente pericolosi in termini di contagio”; nei bambini è stata osservata “la paura di questo virus invisibile che può infettare i nonni” e tra gli operatori sanitari la sensazione di essere fisicamente ed emotivamente esausti. Tra le persone emergeva la sensazione di incertezza “esistenziale” con la distruzione del senso di onnipotenza della medicina e l’elevato timore per la propria incolumità. Altre esperienze emotive negative sono emerse nei familiari di persone con disabilità cognitive che dovevano far fronte a un maggior carico in termini di care. Inoltre, il lockdown e il distanziamento fisico hanno significativamente aumentato il vissuto di solitudine nelle persone, nonché la sensazione di sentirsi disconnessi dagli altri. I lutti complicati hanno colpito molte persone che hanno perso i loro cari “senza poterli vedere, senza poter svolgere i riti funebri, senza avere il supporto della propria rete sociale e familiare nei momenti della perdita del proprio caro”. Inoltre esperienze emotive negative sono state riportate in relazione a difficoltà lavorative ed economiche, alla sensazione di perdita di esperienze e opportunità in termini scolastici e accademici.

Le strategie di coping

Per far fronte a tali esperienze emotive le persone avrebbero utilizzato diverse strategie di coping. Tra le strategie di coping adattive possiamo citare il mantenimento delle relazioni nonostante il distanziamento, la richiesta di aiuto, tentare di vivere nel momento presente, l’essere creativi nonostante le restrizioni imposte e l’integrazione delle esperienze passate e presenti in una narrazione di senso per una coerente costruzione del sé. Invece, le strategie di coping disfunzionali implicano ad esempio, l’evitamento e il diniego, comportamenti controllanti per gestire l’ansia da contagio e l’abuso di alcool.

I fattori di rischio e protettivi

Diverse condizioni intervenienti potevano contribuire nella facilitazione del processo di riposizionamento, configurandosi quindi come fattori protettivi, come ad esempio la presenza di reti sociali solide, risorse economiche e culturali, la disponibilità di servizi sanitari e di supporto psicologico e la coesione del gruppo di lavoro. Altri fattori riguardavano variabili personologiche individuali quali la resilienza e la flessibilità, oppure la pre-esistenza di difficoltà psicologiche e mediche e il pregresso funzionamento familiare.

Dai fattori di rischio all’adattamento

A fronte di tali fattori di rischio e protettivi, nella complessità delle esperienze emotive e relative strategie di coping, la capacità di riposizionamento ha portato alcuni individui in termini di adattamento verso un outcome di crescita, ad esempio in termini di cambiamenti di priorità e ridefinizioni identitarie. In altri casi, la difficoltà nel riposizionamento ha portato le persone verso situazioni di blocco nel “nuovo presente”, con difficoltà nel proiettarsi verso il futuro, sia in termini lavorativi che in termini sociali, anche influenzati da paure legate a esperienze traumatiche vissute nella fase emergenziale.

In conclusione, lo studio qualitativo di Lamiani e colleghi (2022) ha approfondito in maniera interessante la comprensione dei vissuti emotivi e dei processi di adattamento dopo la prima ondata della pandemia da COVID-19, basandosi sulle narrazioni delle esperienze degli psicologi clinici che hanno fornito supporto alla popolazione italiana. Essendo lo studio qualitativo presenta alcune limitazioni in termini di generalizzabilità dei risultati, e anche alla presenza di possibili bias legati al fatto che le narrazioni raccolte provengono dagli psicologi che hanno supportato la popolazione nella fase emergenziale.

 

Il trattamento della depressione nei pazienti con disturbo narcisistico di personalità

La revisione di Fjermestad-Noll e colleghi (2019) analizza le comuni difficoltà e le differenze metodologiche nelle psicoterapie per i pazienti con depressione e disturbo narcisistico di personalità. Per la sua buona riuscita, il trattamento dovrebbe mirare alla cura della sottostante patologia narcisistica, così da ottenere spontaneamente la remissione dei sintomi depressivi.

 

 Nei casi di co-occorrenza di sintomi depressivi e disturbo narcisistico di personalità, la sintomatologia depressiva ha una forma che riflette direttamente il funzionamento personologico sottostante: fluttuazioni nell’autostima e disregolazione emotiva sono i segni dell’autocritica che questi pazienti si rivolgono a causa di standard perfezionistici non soddisfatti, insieme a sentimenti di vergogna e fallimento. La convinzione di avere un potenziale non reclamato, di fatto, può esporre a vulnerabilità depressiva, specie nei soggetti dalla presentazione narcisistica più vulnerabile (covert) (Tritt et al., 2010). Visto che il trattamento di questi pazienti può essere complesso per i terapeuti, la revisione di Fjermestad-Noll e colleghi (2019) si è posta l’obiettivo di fornire una panoramica dei fattori che possono complicare la psicoterapia e dei punti in comune e non fra i diversi modelli terapeutici, così da migliorare la risposta al trattamento e prevenire la ricorrenza depressiva.

I fattori di complicazione al processo terapeutico

Le variabili che tendono a complicare comunemente il percorso dei terapeuti con i pazienti narcisisti affetti da depressione sono principalmente tre:

1. Identificare la patologia narcisistica

Identificare la patologia narcisistica, anche se mascherata dalla sintomatologia depressiva (Miller et al., 2012; Gabbard 1989, 2009; Erkoreka e Navarro, 2017), è fondamentale per consentire il processo terapeutico.

I clinici potrebbero essere portati a misinterpretare i sintomi della manifestazione più sensibile (covert) come indicatori di una depressione maggiore (errore che non sussiste con la tipologia grandiosa/overt, perché ben rappresentata dai criteri diagnostici), senza considerare il fatto che sentimenti di inadeguatezza, vuoto e inferiorità sono dominanti nel narcisista in condizione di vulnerabilità.

Si riscontra una certa convergenza tra i modelli psicoterapeutici rispetto all’importanza di riconoscere la patologia narcisistica: la tradizione psicoanalitica e psicodinamica trovano nella diffusione identitaria il cuore della patologia narcisistica, mentre la Terapia Metacognitiva Interpersonale, considerando il funzionamento narcisistico fluttuante fra i poli della grandiosità e della vulnerabilità, ammette il possibile presentarsi della depressione (Dimaggio et al., 2008).

2. La resistenza al trattamento

La specifica resistenza narcisistica al trattamento (Almond, 2004; Gabbard, 2009) può complicare il processo terapeutico stesso.

I pazienti narcisisti resistono alla terapia distanziandosi dagli affetti negativi, avendo l’illusione di controllare il senso di vulnerabilità. Anche se all’inizio del percorso d’aiuto possono sembrare collaborativi, presto si perderanno nei propri pensieri e ignoreranno la presenza del terapeuta, fino a che questo sperimenterà i primi sentimenti di irritazione e noia. In questo modo, tali individui sopprimono la potenziale dipendenza nei confronti del terapeuta, complicando la creazione di un’alleanza.

3. Altri fattori psicologici

Fattori psicologici come la vergogna, il perfezionismo e l’aggressività durante il trattamento possono complicarne il processo.

La vergogna rappresenta la fase in cui il paziente diventa consapevole dell’incompatibilità fra l’immagine di sé reale e l’immagine di sé ideale, e dunque sperimenta delusione. Essa, emergendo dalla coscienza delle proprie fantasie megalomani, avrebbe la funzione di proteggere il soggetto dalla frustrazione di non essere riuscito a raggiungerle (Broucek, 1982).

I narcisisti sono sensibili alla critica esterna perché vissuta come una minaccia ai loro standard perfezionistici. Portando la riluttanza a riconoscere i primi limiti, tale perfezionismo crea difficoltà nel costruire un’alleanza positiva col terapeuta.

 L’aggressività si presenta in risposta a rifiuto o critica, generando rabbia narcisistica nel paziente (Dimaggio e Attina, 2012). Può prendere la forma di comportamenti sadici o masochistici che migliorino temporaneamente la coesione del sé, scongiurando l’offesa contro la parte grandiosa (ad esempio, esprimendo ostilità o pretese di perfetta corrispondenza nei confronti del terapeuta) (Ornstein, 1998).

Comunanze e differenze nelle psicoterapie

I punti in comune e le differenze che caratterizzano i metodi terapeutici applicati alla depressione nei pazienti narcisisti si possono sintetizzare come segue.

1. Costruire un’alleanza con il paziente

Dato che i pazienti narcisisti possono interrompere prematuramente il trattamento, è importante costruire un’alleanza terapeutica su due fronti: da un lato riconoscere la patologia di personalità come il target terapeutico, dall’altro prestare attenzione al rischio di reagire in modo eccessivo al funzionamento grandioso del paziente. È bene che il terapeuta si ricordi che dietro la presentazione grandiosa del soggetto c’è una fragilità di fondo; il paziente, infatti, potrebbe non essere in grado di esplorare i sentimenti di vergogna, aggressività e perfezionismo frustrato fino a che non si sente accettato dal proprio terapeuta (Ronningstam, 2012; Dimaggio e Attina, 2012; Kernberg et al., 2008). Queste considerazioni risultano trasversali alla tradizione psicoanalitica, psicodinamica e metacognitiva (Dimaggio et al., 2006).

2. Lavorare con transfert e controtransfert

Nei pazienti narcisisti e depressi dominano transfert idealizzati e negativi in continua alternanza fra loro (Kernberg et al., 2008). D’altro canto, la più comune reazione controtransferale include la sensazione di sentirsi svalutati, incompetenti, timorosi di offendere (con i pazienti covert), ammirati o annoiati (Gabbard, 2009).

In psicoanalisi, il transfert e il controtransfert sono la base per le successive interpretazioni (Weiner e White, 1982), nella terapia psicodinamica precedono interventi di chiarificazione e confrontazione tesi a riconoscere le parti scisse del paziente (Kernberg et al., 2008), nella Terapia Metacognitiva Interpersonale essi sono sfruttati per far riconoscere al paziente la propria limitatezza (DiMaggio et al.  2006) e nella Schema Therapy sono oggetto di lavoro per guarire gli Schemi Maladattivi Precoci che popolano la relazione terapeutica (Seavey e Moore, 2012).

Discussione e conclusioni

La principale difficoltà del lavoro di revisione di Fjermestad-Noll e colleghi (2019) è stata riconoscere i molteplici spunti che le tradizioni psicoanalitica e psicodinamica hanno maturato sulla tematica depressiva nei pazienti narcisisti e, parallelamente, la scarsa letteratura da parte dei modelli cognitivo-comportamentali.

Rispetto a quanto considerato, è possibile credere che i sintomi depressivi dei pazienti narcisisti abbiano un’origine personologica che è bene comprendere da subito al fine di costruire un’alleanza terapeutica che limiti il rischio di drop-out: sfidare l’immagine disfunzionale che il paziente ha di sé e degli altri sarebbe un intervento troppo confrontativo, mentre andrebbero preferita la validazione e il supporto. Anche se i diversi approcci differiscono rispetto ai metodi, convergono nel ritenere che la patologia narcisistica ponga le sue radici nell’infanzia e debba essere curata con empatia nella sua ciclica resistenza al trattamento.

Ruminazione rabbiosa e narcisismo: quale relazione?

Alcuni autori hanno ipotizzato come l’associazione tra narcisismo vulnerabile ed aggressività relazionale sia mediata dal senso di vergogna internalizzato e dalla ruminazione rabbiosa.

 

Introduzione

 La ruminazione rabbiosa viene definita come “la tendenza a conservare sentimenti, aspettative, attribuzioni e desideri di vendetta dopo una provocazione rivolta al sé” (Caprara et al., 1985). La dissipazione e la ruminazione sono considerate esiti opposti di una singola dimensione di comportamento, allo stesso modo, manifestazioni opposte di uno stesso costrutto di personalità. Questo continuum è caratterizzato da un lato, da un’inclinazione verso una rapida dissipazione ed una ruminazione minima, dall’altro da un’inclinazione verso una lenta dissipazione ed una ruminazione prolungata (Caprara et al., 1992). Sappiamo come la ruminazione incrementi le emozioni negative favorendone il mantenimento (Nolen- Hoeksema, 1998; Watkins, 2008) ed inoltre, vi è notevole accordo nel considerare la presenza di ruminazione rabbiosa nei pazienti con disturbi di personalità del Cluster B (Disturbo Borderline, Disturbo Narcisistico, Disturbo Istrionico e Disturbo Antisociale). Evidenze empiriche mostrano come i tratti del disturbo borderline di personalità sono correlati a ruminazione depressiva e rabbiosa (Abela at al. 2003; Smith et al., 2006; Baer et al., 2011). Inoltre, la ruminazione rabbiosa predice l’aggressività fisica e verbale nel disturbo borderline di personalità (Anestis at al., 2008; Baer et al., 2011; Martino et al., 2015)

Narcisismo e ruminazione

L’ipotesi che i narcisisti grandiosi siano poco propensi ad ingaggiarsi nella ruminazione è supportata dal lavoro di Birkas, Gacs e Csatho (2016).

I narcisisti grandiosi si mostrano maggiormente propensi ad utilizzare un problem solving di tipo produttivo: un processo significativamente differente rispetto a quello ruminativo. Secondariamente, il focus su aspetti positivi del sé è negativamente correlato a stati emotivi negativi (Moor & Winquist, 2002) suggerendo come i narcisisti grandiosi (che hanno la tendenza a reprimere gli aspetti negativi del sé) siano meno propensi a ruminare (Pincus et al., 2009; Thomas et al., 2012). Come ci si potrebbe aspettare, un pattern differente si osserva nel narcisismo vulnerabile: questo gruppo di soggetti si è mostrato in lotta con il sé e con la regolazione emotiva, indicando come siano più propensi ad utilizzare strategie maladattive come la ruminazione (Thomas et al., 2012).

Narcisismo, ruminazione rabbiosa, vergogna ed aggressività

Con riferimento a studi precedenti, alcuni autori (Ghim et al., 2015) hanno ipotizzato come l’associazione tra narcisismo vulnerabile ed aggressività relazionale sia mediata dal senso di vergogna internalizzato e dalla ruminazione rabbiosa. Le ipotesi di ricerca che hanno ricevuto conferma sono essenzialmente due:

  • Narcisismo vulnerabile, ruminazione rabbiosa, vergogna internalizzata ed aggressività relazionale sono positivamente correlate;
  • È presente una sequenza attraverso cui la vergogna interiorizzata, porta alla ruminazione rabbiosa, che di conseguenza porta a maggiori livelli di aggressività relazionale.

 I pazienti con disturbo narcisistico sono descritti come aventi un’alta vulnerabilità alla vergogna, che è anche considerata una delle emozioni preminenti in questi pazienti (Broucek, 1982; Morrison, 1989). Pazienti con aspetti grandiosi riportano generalmente minori sentimenti di vergogna, mentre pazienti con aspetti vulnerabili riportano sentimenti intensi e persistenti di vergogna (Broucek, 1982). La vergogna è spesso associata con sentimenti di helplessness, impotenza, fragilità e perdita di controllo. L’onnipotenza e la rabbia possono, quindi, agire come una difesa psicologica contro i sentimenti di vergogna (Mollon, 1984). Se la vergogna è mobilitata dalla ferita narcisistica, può attivare il comportamento aggressivo piuttosto che indurre sentimenti depressivi, in quanto il soggetto si sente costretto al contrattacco (Trumbull, 2003; Velotti et al., 2014). La tendenza a provare vergogna è connessa a risposte maladattive come rabbia ed arousal connesso alla rabbia, ostilità autodiretta, sospettosità, risentimento, irritabilità e tendenza a considerare gli altri colpevoli degli eventi negativi che capitano a sè (Tangney, Wagner, Flechter & Gramzow, 1992; Tangney, Wagner, Hill- Varlow, Marshall & Gramzow, 1996).

Lo studio di Fjermestad-Noll et al. (2020)

Per far luce su questi aspetti, uno studio recente del 2020, di Fjermestad-Noll et al. ha esaminato la correlazione tra perfezionismo, vergogna e aggressività in pazienti depressi con disturbo di personalità narcisistico (NPD) e esplorato gli effetti di mediazione o moderazione della vergogna sulle espressioni dell’aggressività in questa tipologia di pazienti.

Dalle analisi effettuate, gli autori concludono quanto segue: viene confermata la presenza di perfezionismo, vergogna e aggressività in pazienti depressi con disturbo narcisistico. Il perfezionismo, in particolare quello self-oriented e quello socialmente prescritto, sembrano essere caratteristiche comuni in pazienti con disturbo narcisistico. I livelli di vergogna e aggressività, sono molto elevati in pazienti depressi con diagnosi di disturbo narcisistico, ma non in pazienti depressi senza disturbo di personalità. Gli ideali perfezionistici potrebbero rendere i pazienti con disturbo narcisistico predisposti a maggiore vulnerabilità ad esperienze di offese o critiche da parte degli altri, che potrebbero evocare sentimenti di vergogna. I sentimenti di vergogna sono di difficile gestione e possono favorire reazioni di aggressività sia verbale sia fisica e questo è confermato da un robusto corpo di letteratura; tuttavia, lo studio in questione mantiene un carattere puramente esplorativo e pertanto non permette di definire in maniera specifica le traiettorie di sviluppo di queste interazioni. In conclusione, sarebbe auspicabile per il futuro, perseguire la comprensione delle dinamiche interne e delle interazioni di questi fattori psicologici preminenti.

 

DOP. Disturbo Oppositivo Provocatorio. Guida rapida per insegnanti (2023) di Muratori e Papini – Recensione

“DOP Disturbo Oppositivo Provocatorio – cosa fare – guida rapida per insegnanti” è un libro edito da Erickson e scritto da Pietro Muratori, psicologo clinico e docente di Psicologia dell’Educazione e dell’Inclusione all’Università di Pisa, e Marina Papini, psicologa e specializzanda in psicoterapia cognitivo-comportamentale.

 

 Questo volume si presenta come un quaderno di Teacher Training in cui viene adottato un approccio pragmatico e operativo nell’offrire suggerimenti e indicazioni efficaci che gli insegnanti possono utilizzare per aiutare bambini con un Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP), con particolare riferimento ai 12 comportamenti problema tipici di questo disturbo. Il libro, dunque, si propone di indicare alcune modalità utili ad alleviare le difficoltà sia dei bambini che dei loro insegnanti, cercando di far diventare la scuola e le relazioni alunno-insegnante una palestra in cui il bambino può allenare la sua empatia. Questo è di particolare importanza poiché bambini con una diagnosi di Disturbo Oppositivo Provocatorio tendono a manifestare sia difficoltà comportamentali sia affettive, tra cui scarse capacità empatiche e scarso senso di colpa e rimorso. Infatti, il Disturbo Oppositivo Provocatorio rientra nei “Disturbi del Comportamento”, termine che si riferisce alla presenza di comportamenti aggressivi, difficoltà nella regolazione delle emozioni e scarso rispetto delle regole date da insegnati e genitori, vedendole come una limitazione alla propria volontà di esplorare. Questo certamente ha delle conseguenze sul piano relazionale: compaiono difficoltà di adattamento, nelle relazioni familiari e sociali, e appaiono poco interessati alle interazioni con l’altro. Tuttavia, i bambini con Disturbo Oppositivo Provocatorio non sono consapevoli della loro eccessiva irascibilità e/o irritabilità, giustificandola come una conseguenza delle intenzioni malevole degli altri.

Per perseguire gli obiettivi precedentemente indicati, il volume si apre con un capitolo introduttivo in cui si presenta come un libro di ricette che mira a mescolare al meglio gli ingredienti che la scienza e l’esperienza clinica mostrano come più efficaci nella gestione del bambino con Disturbo Oppositivo Provocatorio: l’esperienza aiuta, così come in cucina, anche nella gestione del bambino difficile, nella consapevolezza che non c’è garanzia di risultato e che tutto è imprevedibile, perché esso non è mai solo sotto il controllo del “cuoco”.

 A questa introduzione, seguono dodici capitoli, ognuno dedicato ad uno specifico comportamento problema del Disturbo Oppositivo Provocatorio: crisi di rabbia, permalosità, tendenza a pensare che le persone ce l’abbiano con loro, cattivo umore, convinzione che le regole siano solo fonte di punizione e frustrazione, poche competenze relazionali e bassa autostima che li portano a denigrare l’altro per sentirsi potente (sia nei confronti dei compagni che degli insegnanti), il materiale scolastico diventa oggetto di provocazione a cui il bambino rivolge rabbia e frustrazione nel tentativo di attirare attenzione, dispettosità senza filtri, incuranza delle relazioni altrui e vissuto egocentrico della socialità con interesse limitato ai propri tornaconti, mancanza di senso di colpa e scarso interesse per ciò che non reputano piacevole o importante per loro (ad esempio, i compiti).

Questi capitoli seguono tutti la stessa struttura che prevede brevi paragrafi iniziali volti a mettere a fuoco “perché fa così, cosa fare, cosa non fare”. Segue poi una riflessione su “cosa tenere a mente”, affinché l’insegnante eviti di reagire in maniera impulsiva alle provocazioni del bambino, e una riflessione su “come intervenire” attraverso strategie di intervento specifiche.

In definitiva, questo libro è uno strumento utile per professionisti che si trovano a dover insegnare a bambini con Disturbo Oppositivo Provocatorio. Bambini con le loro fragilità che possono essere affrontate con coraggio e pazienza grazie all’aiuto di un insegnante che li accompagni e li guidi, tenendogli la mano. Di conseguenza, l’applicazione delle indicazioni contenute in questo libro dovrebbe essere fatta con l’intenzione di sostenere i bambini nell’affrontare le proprie fragilità, perché il bambino con Disturbo Oppositivo Provocatorio ha certamente comportamenti difficili, ma non per forza ingestibili.

Qualsiasi bambino che percepisca e venga toccato da questa vostra sincera intenzione tornerà a sperare di potercela fare, tornerà a credere nelle proprie capacità, tornerà a meravigliarsi di fronte alla vita.

Giovani e servizi di salute mentale: organizzazione dei servizi e compliance alle cure

I servizi di salute mentale sono in Italia, ed in altri paesi europei, organizzati a seconda dell’età dell’utenza che sono preposti ad assistere.

 Questa organizzazione comporta che i giovani che iniziano un percorso devono, man mano che crescono, lasciare il servizio che li ha presi in carico per affidarsi alle cure di un altro servizio.

Questa organizzazione in servizi destinati ai bambini, agli adolescenti e agli adulti può creare una discontinuità nel percorso di cura che i pazienti intraprendono.

Una recente ricerca pubblicata su The Lancet Psychiatry (Gerritsen et al., 2022) indaga, attraverso uno studio di coorte longitudinale, la salute mentale dei giovani di 8 paesi europei (Belgio, Croazia, Francia, Germania, Italia, Irlanda, Paesi Bassi e Regno Unito) che hanno ricevuto cure da differenti servizi.

 La coorte esaminata dai ricercatori, detta Milestone, comprende 736 giovani con un’età media di 17,5 anni, 60% femmine e 40% maschi. Nello studio sono stati presi in considerazione i dati ottenuti conducendo un follow-up di 24 mesi. Durante questo periodo il 6,3% di partecipanti si sono ritirati dallo studio.

Per la valutazione dei partecipanti è stata utilizzata la Health of the Nation Outcome Scale for Children and Adolescents e la Youth Self-Report and Adult Self-Report.

In base ai punteggi riportati dai giovani, i ricercatori hanno potuto constatare che la loro salute mentale, quando presi in carico dai differenti servizi, in 24 mesi è globalmente migliorata. Tuttavia, il 24,4% dei giovani ha presentato un aumento delle problematiche ed il 5,3% un aumento delle problematiche clinicamente rilevanti.

Lo studio ha messo in evidenza che circa la metà dei giovani che raggiungono l’età massima per essere in carico ad un determinato servizio, non passa ad un altro servizio ma interrompe il percorso. Questa interruzione però non si associa ad un peggioramento della salute mentale. I giovani che rimangono più a lungo in carico ai servizi sono quelli con problemi clinicamente più rilevanti.

I risultati ottenuti da questa ricerca suggeriscono che gli investimenti nei servizi di salute mentale destinati ai giovani, dovrebbero essere mirati al sottogruppo di giovani che presentano un aumento di problematiche e non ricevono un trattamento continuativo.

 

Rabbia e ruminazione rabbiosa in soggetti con tratti narcisistici di personalità – Partecipa alla ricerca

Studi Cognitivi ha attivato un progetto di ricerca allo scopo di indagare la relazione tra tratti di personalità narcisistici, rabbia e ruminazione rabbiosa.

Narcisismo e personalità narcisistica

 Negli ultimi anni il concetto di “narcisismo” è diventato oggetto di grande interesse sia pubblico che nel campo della ricerca scientifica. Quando si parla di “personalità narcisistica” in genere si fa riferimento a persone carismatiche, determinate, sicure di sé, che ricercano e si esaltano di fronte a lodi e riconoscimenti e che tendono ad assumere posizioni di rilievo nella loro comunità di appartenenza.

Tali caratteristiche possono però essere lette, agli occhi degli altri, anche come segni di arroganza e presunzione. Si tratta di persone che possono apparire polemiche, che ostentano costantemente successi e qualità, che si aspettano sempre un trattamento speciale e di aver diritto ad essere soddisfatte in ogni loro richiesta.

Nelle relazioni interpersonali tendono ad essere focalizzati soltanto sui propri bisogni e desideri, per cui hanno difficoltà a riconoscere quelli degli altri. Richiedono eccessive attenzioni e ammirazione, si aspettano incondizionate disponibilità e dedizione, sono spesso invidiosi e competitivi poiché mirano ad una posizione di supremazia nei confronti dell’altro. Tendono a formare amicizie o relazioni sentimentali esclusivamente se hanno la certezza che l’altro possa favorire la soddisfazione dei propri scopi, primo fra tutti rafforzare la stima di sé e il valore personale.

Infatti, dietro questa maschera di forza e superiorità, ben costruita dal narcisista come forma di protezione, si celano carenza di autostima, elevata sensibilità al giudizio altrui, specialmente alle critiche, e al fallimento (Dimaggio et al., 2002; Cain et al., 2008).

Wink (1991) ha identificato due diverse forme di narcisismo note come overt e covert.

Nella sua manifestazione overt il narcisista presenta un evidente atteggiamento di superiorità, sprezzante verso gli altri, oltre a bisogno di dominanza e eccessiva ricerca di successo; ostenta estrema fiducia in sé, manca di empatia, tende ad attaccare e svalutare le altre persone con cui intrattiene relazioni tendenzialmente superficiali.

Al contrario, nella sua forma covert il narcisismo è contraddistinto da introversione, modestia, timidezza, talvolta inibizione, estrema sensibilità alle critiche, che celano i sentimenti di grandezza e si associano a svalutazioni del sé e timore di essere rifiutati. Tali caratteristiche causano importanti difficoltà nel mantenere relazioni stabili anche perché innescano sentimenti di invidia e atteggiamenti denigratori nei confronti dell’altro.

 Secondo alcuni autori (Dimaggio et al., 2002; Horowitz 1989; Young & Flanagan, 1998) le persone con tratti di personalità narcisistici presentano alcuni caratteristici stati mentali e toni emotivi ad essi correlati. In particolare, i narcisisti overt, dato il prevalere di stati dominati da un senso di superiorità, di forza, di autoefficacia, sono tendenzialmente euforici oppure, nel tentativo di camuffare insicurezza e depressione, appaiono distaccati o reagiscono con rabbia diretta verso gli altri (colpevolizzati e denigrati). Invece, i narcisisti covert tendono a sperimentare maggiormente la paura, la rabbia, la vergogna e l’umiliazione associate a temi di fallimento, sconfitta e rifiuto, che a loro volta generano vissuti depressivi.

Rabbia e aggressività

La rabbia è una delle emozioni fondamentali e come tale estremamente adattiva e utile alla sopravvivenza; tuttavia spesso genera aggressività.

Secondo una definizione comune, l’aggressività umana è una forma di interazione sociale che implica l’intenzione di ferire, danneggiare o distruggere un altro individuo, nella realtà o nella fantasia. Quindi, viene intesa come un comportamento che può avere conseguenze dannose per sé (soprattutto sociali, giuridiche, relazionali) e per gli altri.

Esistono più tipi di aggressività. La letteratura scientifica ne distingue chiaramente due: aggressività reattiva (come conseguenza istintiva di un’offesa o un torto subiti, volta a difendere il soggetto che la attua) e aggressività proattiva (premeditata, predatoria, utilizzata a freddo per impadronirsi di qualcosa o vendicarsi).

Ruminazione rabbiosa e tratti narcisistici: il progetto di ricerca

Le ricerche che si sono interessate allo studio della personalità hanno inoltre dimostrato che non solo determinati vissuti emotivi ma anche specifici stili di pensiero sono associati alle caratteristiche di personalità. Nel caso dei tratti narcisistici uno di questi sarebbe la ruminazione rabbiosa. Essa consiste in un processo di pensiero ripetitivo e negativo che si concentra su eventi che inducono rabbia e che hanno particolare significato personale (Denson, 2012). Nella ruminazione rabbiosa prevale una modalità di elaborazione analitica e astratta, focalizzata sulle cause, i significati, le motivazioni e le intenzioni che hanno causato l’evento (Denson et al., 2012) e talvolta finalizzata a progettare piani di reazione allo scopo di vendetta.

Il contenuto della ruminazione può essere focalizzato sulle argomentazioni che dimostrano l’evento come danno o offesa ingiusta, attribuendo così responsabilità esterne, o può essere focalizzato sulle proprie responsabilità (Pedersen et al., 2011). Tra le varie conseguenze della ruminazione si ritrova l’aumento di comportamenti aggressivi, emozioni negative e sintomi depressivi.

Studi Cognitivi ha attivato un progetto di ricerca allo scopo di indagare:

  • la relazione che intercorre tra tratti di personalità narcisistici, vissuti di rabbia, aggressività e ruminazione rabbiosa;
  • le differenze rispetto a tali aspetti tra i soggetti con personalità narcisistica covert e quelli con personalità narcisistica overt.

La partecipazione alla ricerca comporta la compilazione di alcuni questionari che richiederà circa 20 minuti.

Tutti i dati saranno trattati in forma anonima e riservata.

La ringraziamo anticipatamente per il suo contributo al nostro progetto.

Le saremmo grati se inoltrasse questo link anche ad amici, familiari e colleghi per aiutarci a raccogliere ulteriori partecipazioni.

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA

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DSM-5-TR, pubblicata la versione italiana: quali novità?

Pubblicata a marzo 2023, da Raffaello Cortina Editore, la versione italiana del  Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione, Text Revision (DSM-5-TR). 

Nove anni fa usciva la versione italiana del DSM-5, la cui edizione fu curata, per Raffaello Cortina Editore, da Massimo Biondi. È ora disponibile in Italia la versione TR del manuale, curata, sempre per lo stesso editore, da Giuseppe Nicolò ed Enrico Pompili.

Realizzato grazie al contributo di più di 200 esperti nell’ambito della salute mentale, il DSM-5-TR risulta ad oggi lo strumento più completo e aggiornato a disposizione di clinici e ricercatori di tutto il mondo.

Il volume raccoglie infatti i dati più recenti emersi dalla letteratura scientifica, descrive in modo puntuale i disturbi mentali, offrendo al contempo una presentazione completa ed ordinata dei criteri diagnostici e dei sistemi di codifica.

DSM-5-TR: quali novità?

Nella versione TR, il DSM-5 risulta completamente revisionato per ogni disturbo su caratteristiche associate, dati relativi a prevalenza, sviluppo e decorso, nonché sui fattori di rischio e prognosi, sui marker diagnostici e sulla diagnosi differenziale.

Per gli utilizzatori del manuale le novità e i cambiamenti sono esplicitati tramite   l’aggiornamento dell’introduzione e della guida all’uso del manuale, entrambe riscritte per agevolare la fruizione del testo.

Tra le più importanti novità del DSM-5-TR si riscontra un maggiore interesse per gli aspetti socioculturali (nel testo sono state inserite diverse considerazioni in merito agli effetti del razzismo e della discriminazione sui disturbi mentali) e per le tematiche legate al genere (viene posta molta attenzione sull’utilizzo del linguaggio inclusivo).

Un’altra novità riguarda il comportamento suicidario e il comportamento autolesionistico non suicidario, fenomeni in crescita soprattutto tra i più giovani. In merito a questi aspetti, sono indicati nuovi codici per contrassegnare e monitorare il comportamento suicidario disponibili per tutti i medici di qualsiasi disciplina, senza la necessità di effettuare ulteriori diagnosi.

Nella Sezione II è stato inoltre introdotto il Disturbo da lutto prolungato, descritto come un’incapacità pervasiva a superare il lutto per la perdita di una persona cara, i cui sintomi sono così gravi da influenzare il funzionamento quotidiano dell’individuo.

Tra gli altri disturbi che hanno subito modifiche nel DSM-5-TR troviamo il Disturbo dello spettro autistico, il Disturbo bipolare, il Disturbo dello sviluppo intellettivo, il Disturbo delirante, il Disturbo psicotico breve e altri ancora.

Tanti quindi i cambiamenti, molte le novità e sempre alto lo standard offerto ai professionisti, aspetti di cui ora potremo finalmente meglio beneficiare grazie alla pubblicazione della – tanto attesa – versione italiana.

Suicidio post-dimissioni ospedaliere: è possibile prevenirlo?

La conduzione di un colloquio che affronti con delicatezza e in modo aperto il tema “suicidio” facilita l’instaurarsi di un rapporto empatico con il paziente, fungendo da fattore protettivo.

I comportamenti suicidari

 La letteratura scientifica (Ho et al., 2003; Pirkola et al., 2007; Kan et al., 2007) ha rivelato come il periodo successivo alle dimissioni ospedaliere sia estremamente delicato per un paziente ricoverato per tentato suicidio. Solitamente, tali individui sono presi in carico dal Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (S.P.D.C.) locale. Durante il periodo di ricovero, riuscire a comprendere l’intento suicidario in pazienti che hanno tentato il suicidio è un fattore cruciale al fine di effettuare un valido assessment del rischio. I gesti suicidari sono imprevedibili nella maggior parte dei casi, quindi una valutazione accurata dell’intento suicidario può risultare una procedura alquanto complessa.

Il termine “tentato suicidio” ha destato non pochi dubbi negli anni a causa della mancanza di una definizione che potesse descrivere correttamente l’agito. L’OMS ha definito tale fenomeno come atto intenzionale, non abituale e non fatale, svolto da una persona con l’intenzione di mettere fine alla propria vita (Suominen et al., 2004). In relazione a ciò, deve essere considerato l’intento che l’individuo pone nell’atto. Con il termine “intento” viene indicata la serietà o intensità del desiderio che il paziente possiede nel momento in cui decide di terminare la sua vita (Beck et al., 1974).

Valutare il rischio suicidario

Data la complessità del fenomeno, sono molteplici i fattori da considerare negli individui intenzionati a morire. Tuttavia, la presenza di lacune mnestiche, livelli elevati di agiti impulsivi e negazione dell’accaduto possono ostacolare una corretta valutazione del rischio suicidario durante il periodo di ricovero ospedaliero, estremamente importante per garantire una dimissione controllata e di conseguenza attuare attività preventive. Infatti, in alcuni studi (Bani et al., 2007) è stato osservato che durante il primo mese dalla dimissione dai reparti ospedalieri di Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, il rischio di suicidio è 200 volte più elevato rispetto alla popolazione generale nei pazienti. Ricerche internazionali (Luoma et al., 2002) hanno evidenziato che molto spesso il rischio che un paziente possa attuare condotte suicidarie non sia riconosciuto né in medicina generale né in altri contesti clinici. Difatti, è stato osservato che il 45% di coloro che tentano il suicidio hanno avuto almeno un contatto col proprio medico di medicina generale nelle 4 settimane antecedenti ad esso. A questo proposito, uno studio di Busch e colleghi (2003) indica che pazienti vittime di suicidio durante le cure o dopo la dimissione avevano negato di possedere ideazione suicidaria nei loro ultimi colloqui. A volte è l’efficacia del trattamento che, fornendo buoni risultati, fa pensare al paziente di essere in buona salute e di poter sospendere la cura, generando conseguenze gravi.

Dunque, gli accorgimenti da mettere in atto durante un ricovero dovrebbero considerare dapprima lo svolgimento di un colloquio clinico approfondito, che abbia come fulcro l’esplorazione dei vissuti interiori e delle credenze del paziente concatenate ai sentimenti di disperazione ed agonia esistenziale che lo hanno condotto all’ultima decisione, utilizzando anche appositi strumenti di valutazione. La conduzione di un colloquio che affronti con delicatezza e in modo aperto il tema “suicidio” facilita l’instaurarsi di un rapporto empatico con il paziente, fungendo da fattore protettivo (Michel et al., 2000; Schwartz et al., 2004; Jacobs et al., 2006).

 Un’anamnesi completa ed una ricostruzione della storia recente e passata del paziente, nonché delle eventuali diagnosi cliniche e valutazioni psicosociali, è molto utile a fini preventivi, in quanto il 30-40% dei pazienti suicidi hanno già tentato il suicidio. Molto spesso, le persone che giungono a conclusioni anticonservative hanno sopportato una sofferenza psicologica protratta nel tempo, considerando infine il suicidio come unica via d’uscita (Pompili et al., 2008). Infatti, anche l’indagine su avvenimenti remoti può essere un fattore importante da considerare a fini preventivi. Ad esempio, la presenza di esperienze infantili avverse è associata al rischio 30 volte maggiore di tentare suicidio in coloro che le hanno vissute rispetto al non averle esperite (Centers for Disease Control and Prevention). Inoltre, espone a maggior rischio suicidario la presenza di una doppia diagnosi, per cui cogliere la presenza di una dipendenza o abuso di sostanze oltre che di una diagnosi psichiatrica o precedenti atti autolesivi è di fondamentale importanza. Anche la rilevazione di segni quali difficoltà di ragionamento, riferimenti al suicidio o all’assenza di speranza, bassa stima di sé, rabbia, agitazione, ipergeneralizzazione, senso di colpa, discontrollo degli impulsi e scarsa capacità di giudizio risultano essere indicativi.

Diagnosi e rischio di suicidio

Considerare i ricoveri un fattore di rischio per la morte a causa del suicidio è un elemento chiave della valutazione. Infatti, oltre a coloro che hanno una storia pregressa di tentato suicidio, le persone che soffrono di un disturbo psichiatrico posseggono un rischio 10 volte maggiore di morire per suicidio rispetto alla popolazione generale. Generalmente, è possibile distinguere una stima del rischio per ciascuna etichetta diagnostica. Ad esempio, il suicidio è la prima causa di morte tra i pazienti affetti da schizofrenia, con rischio attorno al 10%. In uno studio di Biack e colleghi (1985) è stato osservato che tre quarti delle morti per suicidio dei pazienti schizofrenici erano avvenute durante una fase attiva della malattia e circa metà entro tre settimane dalla dimissione dall’ospedale. In particolare, un paziente su 10 aveva sentito un ordine allucinatorio che gli imponeva di suicidarsi, mentre quasi due terzi presentavano anche una sindrome depressiva al momento della morte. Ulteriori evidenze scientifiche (Tondo et al., 1997) hanno mostrato come i pazienti ricoverati a causa di manifestazioni date da gravi disturbi affettivi abbiano una probabilità di suicidarsi del 15-20% maggiore rispetto alla popolazione generale. In questi pazienti, il rischio di una morte a causa del suicidio è massimo nelle settimane successive alla dimissione. Inoltre, l’interruzione del litio entro il primo anno dell’assunzione correla con un aumento del rischio suicidario che appare circa 16 volte maggiore (Tondo et al., 1997), nei pazienti affetti da disturbo bipolare il rischio è di 15 volte maggiore (Hawton & Fagg, 1988; Sakinofsky, 2000).

Un’ottica sistemica sulla prevenzione post-dimissioni

Alla luce di quanto esplorato, è possibile dedurre che al fine di ridurre il numero di suicidi post-ricovero occorre considerare variabili che vadano al di là della mera osservazione del paziente durante il periodo di degenza, quali il contesto socio-ambientale di reinserimento del paziente. Le relazioni importanti, che siano familiari o meno, dovrebbero essere coinvolte nella fase di gestione dei fattori di rischio in seguito alle dimissioni protette, al fine di coadiuvare il paziente nell’affrontare la quotidianità e nell’accompagnamento agli appuntamenti concordati con i Servizi territoriali di competenza. Infatti, l’impatto con il mondo reale al di fuori del reparto ospedaliero protetto potrebbe riacutizzare i pensieri disfunzionali presenti nella persona, gli stessi che lo hanno condotto nello stato di disperazione antecedente il tentativo di suicidio.

 

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