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Un modello cognitivo delle Dipendenze Affettive Patologiche e della Violenza nelle Relazioni Intime 

Cosa c’è dietro la violenza nelle relazioni intime e le dipendenze affettive patologiche? Cosa spinge due persone a mantenere un legame che almeno per uno/a di loro genera sofferenza?

La dipendenza affettiva patologica

 Negli ultimi anni, diversi ricercatori e psicologi hanno iniziato a spiegarsi la creazione e il mantenimento di relazioni intime violente come conseguenza di una condizione chiamata dipendenza affettiva patologica (Pathological Affective Dependence, PAD). La violenza nelle relazioni intime (Intimate Partner Violence, IPV) avviene quando un/a partner o ex-partner agisce un comportamento che causa all’altro/a danni fisici, sessuali o psicologici. In genere, rientrano tra gli strumenti dell’abusante l’aggressione fisica, la coercizione sessuale, l’abuso psicologico ed emotivo o i comportamenti di controllo. Un’aggiunta importante a questa definizione è che la violenza nelle relazioni intime può verificarsi tra coloro che hanno età pari o superiore a 16 anni, indipendentemente dal genere di appartenenza e dall’orientamento sessuale, andando a sfatare l’idea stereotipica che la violenza nelle relazioni intime è unilateralmente un fenomeno che colpisce solo le donne. Se la violenza nelle relazioni intime non è un problema del genere maschile, bensì è un problema relazionale, cosa spinge dal punto di vista psicologico alcune persone a mantenere relazioni disfunzionali anche quando è la propria vita a essere a rischio?

Sebbene diversi studi abbiano analizzato gli antecedenti della violenza nelle relazioni intime soprattutto a livello sociale, mancava un modello clinico in grado di inquadrare il fenomeno e ricerche che indagassero le determinanti cognitive della vittima di violenza, riconducibili alla condizione di dipendenza affettiva patologica. Si ignoravano, dunque, le caratteristiche specifiche che spiegano il profilo psicologico di una persona che forma e mantiene legami caratterizzati da violenza e abusi ripetuti. Questo vuoto di ricerche non veniva colmato sebbene la comprensione dei meccanismi psicologici della violenza nelle relazioni intime legati alla condizione di dipendenza affettiva patologica fosse fondamentale proprio per guidare la pratica clinica, finalizzata a tirare fuori le vittime da relazioni più simili a trappole mortali. A tal fine l’autrice dell’articolo propone un modello clinico per la dipendenza affettiva: se infatti l’esperienza psicologica della dipendenza affettiva patologica influisce negativamente sulla salute mentale e fisica delle persone coinvolte, il mancato riconoscimento di questa condizione e/o un cattivo intervento del professionista possono condurre a esiti irreversibili come l’omicidio, il suicidio e il femminicidio (Perdighe et al. 2022).

Il dipendente affettivo tipico: un modello clinico

Per capire come agire con persone che vivono una sofferenza simile, è essenziale comprendere la mente del dipendente affettivo tipico (typical affective dependent, TAD), e il perché si congela in relazioni così insoddisfacenti e pericolose. Prima di tutto, procediamo con il definire la dipendenza affettiva patologica come una condizione relazionale (Pugliese et al., 2019; Pugliese et al. 2023a). In questo tipo di relazione, uno o entrambi i partner mettono in atto comportamenti abusivi, di controllo, violenti o manipolativi e la relazione è fonte di dolore per almeno uno dei partner. Tuttavia, si sentono incapaci di porre fine alla relazione o accettare che uno dei partner possa scegliere di separarsi. In caso di separazione/divorzio o rifiuto, si sentono estremamente ansiosi e stressati e prevengono con tutte le loro forze il verificarsi di questo scenario. Possono anche sentirsi disperati e/o arrabbiati e cercare di far fronte al conseguente disagio rimuginando continuamente su possibili soluzioni per riconnettersi con il partner violento, costringendosi alla sottomissione o aggrappandosi a una nuova relazione disfunzionale.

Gli individui con dipendenza affettiva patologica sperimentano stati d’animo e sentimenti negativi quando sono lontani dai loro partner. Un modo per affrontare la separazione/rifiuto e il conseguente craving (desiderio incontrollato) è forzare la vicinanza con il partner violento (Pugliese et., 2023a). Infine, la dipendenza affettiva patologica è sia una condizione di stato, ovvero temporanea, che di tratto, cioè stabile nel tempo.

I dati preliminari di uno studio di ricerca su un campione di vittime di violenza (Pugliese et al. 2023b), finalizzato alla costruzione di una scala di misura della dipendenza affettiva patologica, ha rivelato che la dipendenza affettiva patologica è una condizione latente, che può essere innescata da un partner o un ambiente violento. Gli autori hanno dimostrato che quando le persone sono in una relazione violenta, possono mostrare comportamenti, convinzioni o obiettivi disfunzionali tipici di un individuo con un disturbo di personalità. Questi tratti negativi e gli aspetti malfunzionanti sembrano scomparire quando sono fuori dall’ambiente patologico e la separazione dal partner violento è stata completamente elaborata. I partner violenti possono essere considerati un fattore scatenante della dipendenza affettiva patologica. Quindi, per prevenire l’effetto negativo del fenomeno sociale della violenza nelle relazioni intime, gli interventi dovrebbero essere mirati sia alle vittime che ai maltrattanti.

L’impossibilità di porre fine alla relazione patologica – a prescindere dalle conseguenze anche gravi che comporta – è ciò che definisce la peculiarità della dipendenza affettiva patologica (Pugliese et al., 2019; Pugliese et al., 2023a e Pugliese et al., 2023b). Le persone con dipendenza affettiva patologica possono essere o non essere consapevoli della condizione paradossale che stanno vivendo. Di conseguenza, questo scenario contraddittorio è strutturato in tre possibili conflitti interni, tra l’obiettivo di mantenere la relazione patologica e l’obiettivo di porvi fine. I dipendenti affettivi tipici oscillano tra questi due obiettivi apparentemente senza alcuna soluzione. A questo punto la guerra è nella loro testa, non solo in casa loro. Il conflitto può essere assente, alternato o akrasico (Pugliese et al., 2023a).

Il conflitto della dipendenza affettiva patologica

 Nel primo tipo di conflitto (assente), il dipendente affettivo tipico non è consapevole di essere in una relazione disfunzionale ma spesso sono le persone che lo circondano (come i familiari, gli amici o il terapeuta) a farglielo notare. Nel secondo conflitto (alternato) il dipendente affettivo tipico passa da uno stato all’altro senza integrare gli scopi: potrebbe quindi una settimana decidere di interrompere la relazione e la settimana successiva investire nella relazione con una proposta di matrimonio, o con la scelta di fare un figlio. Nel terzo conflitto (akrasico), gli scopi sono integrati senza risoluzione, il dipendente affettivo tipico è consapevole allo stesso tempo di essere in una relazione disfunzionale e di non riuscire a separarsi. Gli stadi del ciclo della dipendenza affettiva patologica sono quattro: stadio 0-1-2-3. Ad eccezione dello stadio 0 (o stadio della Luna di Miele), le altre fasi sono caratterizzate dai tre principali conflitti interni. Nello stadio 1 il conflitto è assente nella mente del dipendente affettivo tipico. Con l’aumento della consapevolezza della disfunzionalità della relazione, il dipendente affettivo tipico passerà allo stadio 2, oscillando tra i due scopi del conflitto alternato, fino allo stadio 3 nel quale diviene consapevole del conflitto ma non è in grado di risolverlo (conflitto akrasico). Gli stadi 1-2-3 potrebbero portare a una rottura, ma è proprio la condizione di dipendenza affettiva patologica a riportare la vittima dentro la relazione violenta. Il dipendente affettivo tipico infatti considera la relazione seppur insoddisfacente comunque indispensabile, il suo anti-scopo (evitamento dello scenario drammatico) è quello di mantenerla a tutti i costi, anche quando il sacrificio è la propria vita (Pugliese et al., 2023a). Sono state ipotizzate più tipologie di dipendente affettivo tipico: come suddetto, tutti i dipendenti affettivi tipici condividono la comune paura di porre fine alla relazione e i tre conflitti (che sono i fattori cognitivi nel mantenere la sofferenza). Ciò che distingue i vari cluster di dipendenza affettiva patologica, invece, sono le motivazioni cognitive ed emotive che spingono ad avere paura di chiudere il rapporto violento: alcuni dipendenti affettivi tipici non vogliono porre fine alla relazione perché potrebbero sentirsi indegni e disgustosi (tipo indegno), altri perché potrebbero sentirsi soli e impotenti (tipo traumatico), altri perché potrebbero stare male quando non si prendono (eccessivamente) cura e “salvano” il partner povero, fragile (tipo altruista), altri ancora per tutti e tre i motivi o alcuni di essi insieme (tipo misto). Questi ultimi sono i più problematici e caotici.

Per concludere

In conclusione, alla luce del modello cognitivo delle dipendenze affettive patologiche elaborato dall’autrice e dei risultati dello studio preliminare, la dipendenza affettiva patologica può essere considerata un antecedente psicologico fondamentale e una concausa della violenza nelle relazioni intime. Questi risultati sottolineano l’importanza di un intervento psicologico sia per le vittime che per gli autori di violenza.

Inoltre, se fino ad oggi la dipendenza affettiva patologica è stata trattata come una semplice declinazione del disturbo dipendente di personalità o di una delle forme di dipendenza (alcol, droghe, sesso, gioco d’azzardo), ne consegue che i trattamenti utilizzati non tengono conto della molteplicità della dipendenza affettiva patologica. Il modello cognitivo della dipendenza affettiva patologica, i quattro profili del dipendente affettivo tipico (indegno, altruista, traumatico e misto) e il ciclo a quattro stadi della dipendenza affettiva patologica permettono finalmente una maggiore comprensione del funzionamento mentale delle persone che vivono questa condizione, e sono la base per la creazione di un una scala di misura e di un intervento clinico mirato, basati su un modello teorico confermato per la prima volta da dati di ricerca. Questo oggi rappresenta un passo in avanti nella prevenzione e nell’intervento del ciclo inconvertibile della violenza nelle relazioni intime.

Sconfitta, entrapment e ideazione suicidaria: quale relazione?

L’obiettivo dello studio di Höller et al. (2022) è stato quello di fornire ulteriori prove sulla relazione causale tra sentimento di sconfitta, entrapment (interno ed esterno) e ideazione suicidaria, come proposto dal modello integrato motivazionale volitivo.

I concetti di sconfitta ed entrapment

 La sconfitta e l’entrapment (NdR – in italiano si tradurrebbe con intrappolamento) sono stati proposti come due importanti costrutti clinici con rilevanza transdiagnostica nello sviluppo di depressione, ansia e disturbo da stress post-traumatico (Siddaway et al., 2015). Gilbert e Allan (1998) descrivono la sconfitta come un sentimento di impotenza e umiliazione, mentre l’entrapment è caratterizzato dall’incapacità di fuggire da situazioni insopportabili (Gilbert & Allan, 1998). Hanno proposto che l’entrapment consiste in due sottotipi: l’entrapment interno e quello esterno, dove l’entrapment esterno descrive la sensazione di essere intrappolati da circostanze esterne e l’entrapment interno si riferisce all’essere intrappolati da aspetti interni come i propri pensieri (Owen et al., 2018). Inoltre, per quanto riguarda la rilevanza transdiagnostica del sentimento di sconfitta e dell’entrapment, è stato empiricamente testato che entrambi sono predittori per i tentativi di suicidio (O’Connor et al., 2013) e per l’ideazione suicidaria (Rasmussen et al., 2010; Wetherall et al., 2018), sottolineando il loro ruolo centrale nello sviluppo dell’ideazione e del comportamento suicidario in generale, nonostante la differenziazione tra entrapment interno ed esterno.

Il modello integrato motivazionale volitivo del comportamento suicidario

La recente ricerca sul suicidio si concentra sulla distinzione tra i predittori dell’ideazione suicidaria e quelli dell’effettivo comportamento suicidario nell’ambito delle cosiddette “ideation-to-action theories” (Klonsky et al., 2018), come il modello integrato motivazionale volitivo del comportamento suicidario (Modello IMV – Integrated Motivational–Volitional Model; O’Connor & Kirtley, 2018). Il modello integrato motivazionale volitivo presuppone che i sentimenti di sconfitta e di entrapment siano di centrale importanza nello sviluppo dell’ideazione suicidaria (O’Connor & Kirtley, 2018). Il modello integrato motivazionale volitivo è un quadro teorico relativamente nuovo, che consiste in tre fasi diverse. La fase pre-motivazionale, che comprende il contesto biopsicosociale, la vulnerabilità individuale e gli eventi di vita negativi e si basa su modelli di stress-diatesi del suicidio (Mann et al., 1999). La seconda fase è la fase motivazionale, che descrive lo sviluppo dell’ideazione suicidaria includendo i costrutti di sconfitta ed entrapment (senza però distinguere tra entrapment interno ed esterno) (O’Connor & Kirtley, 2018). L’ultima fase del modello integrato motivazionale volitivo è quella volitiva, in cui si verifica l’effettivo comportamento suicidario (O’Connor & Kirtley, 2018). Il modello integrato motivazionale volitivo propone che i sentimenti di sconfitta portino a sentimenti di entrapment e, di conseguenza, allo sviluppo di idee suicidarie (O’Connor & Kirtley, 2018).

Sentimento di sconfitta, entrapment e ideazione suicidaria

I risultati delle ricerche recenti sono eterogenei, con maggiori evidenze di un’associazione tra l’entrapment interno e quello esterno con l’ideazione suicidaria e una generale mancanza di studi che indagano la relazione differenziale tra entrapment interno ed esterno e ideazione suicidaria (Höller et al., 2022). Purtroppo, c’è mancanza di dati prospettici in questo settore. Finora solo Owen et al. (2018) hanno fornito dati prospettici con la distinzione tra entrapment interno ed esterno (Höller et al., 2022). Alla luce del fatto che, anche dopo decenni di ricerca, i dati sulla previsione di ideazione suicidaria, tentativi di suicidio e decessi risultano ancora insufficienti (Franklin et al., 2017), diventa chiaro che si rendono necessari più studi prospettici che abbiano il potenziale di far luce sui potenziali percorsi causali che portano all’ideazione e al comportamento suicidario (Höller et al., 2022). Pertanto, sono assolutamente necessarie ulteriori prove sulla relazione causale tra sentimento di sconfitta, entrapment (interno ed esterno) e ideazione suicidaria, come proposto dal modello integrato motivazionale volitivo, basate su un disegno prospettico appropriato, che questo studio cercherà di fornire (Höller et al., 2022). Inoltre, la maggior parte degli studi ha indagato popolazioni generali o campioni di studenti, ma mancano studi su pazienti psichiatrici ricoverati a causa di un tentativo di suicidio o di una grave ideazione suicidaria (Höller et al., 2022). Questo studio mira a colmare queste due importanti lacune, non solo fornendo dati prospettici, ma anche esaminando un campione di individui ad alto rischio di suicidio (Höller et al., 2022).

Lo studio di Höller et al. (2022)

L’obiettivo dello studio è quello di indagare empiricamente se il senso di sconfitta, l’entrapment interno ed esterno e l’ideazione suicidaria sono associati e se il percorso postulato nel modello integrato motivazionale volitivo dalla sconfitta, all’entrapment, fino all’ideazione suicidaria può essere confermato prospetticamente.

In questo studio si ipotizza che: (1) sentimenti di sconfitta siano associati all’entrapment interno ed esterno, e che (2) il senso di sconfitta possa prevedere l’entrapment interno ed esterno in modo prospettico. Per quanto riguarda l’ideazione suicidaria, si ipotizza che (3) la sconfitta e l’entrapment interno, ma non quello esterno, siano associati all’ideazione suicidaria e che (4) la sconfitta e l’entrapment interno, ma non quello esterno, possano prevedere l’ideazione suicidaria nel tempo.

Un campione di 308 pazienti psichiatrici (53% donne) di età compresa tra i 18 e gli 81 anni è stato valutato per i quattro costrutti subito dopo l’ammissione in un reparto psichiatrico e successivamente a sei, nove e dodici mesi dopo l’ammissione (Höller et al., 2022).

I risultati dello studio

In linea con la prima ipotesi, i risultati hanno indicato che il sentimento di sconfitta era associato sia all’entrapment interno che a quello esterno.

 La seconda ipotesi ha potuto essere confermata solo in parte in quanto il senso di sconfitta non era in grado di prevedere l’entrapment interno, né quello esterno né la variazione dell’entrapment esterno nel tempo. L’associazione tra l’entrapment (interno ed esterno) e i sentimenti di sconfitta è in linea con le ipotesi del modello integrato motivazionale volitivo (O’Connor & Kirtley, 2018) e con precedenti ricerche empiriche (Carvalho et al., 2013; Gilbert & Allan, 1998). Tuttavia, il modello integrato motivazionale volitivo indica che i sentimenti di sconfitta portano all’entrapment nella fase motivazionale, suggerendo un percorso prospettico, che ha potuto essere confermato solo in parte per l’entrapment interno, ma non per quello esterno.

In linea con la terza ipotesi, la sconfitta e l’entrapment interno sono stati associati all’ideazione suicidaria. L’entrapment esterno non è stato associato né all’ideazione suicidaria né alla variazione dell’ideazione suicidaria, evidenziando ancora una volta l’importanza di distinguere tra entrapment interno ed esterno.

Per la quarta ipotesi, che proponeva che il sentimento di sconfitta e l’entrapment interno, ma non quello esterno, fossero in grado di prevedere l’ideazione suicidaria nel tempo, i risultati sono stati contrastanti. L’entrapment interno, ma non il sentimento di sconfitta, può predire l’ideazione suicidaria nel tempo. L’entrapment interno e la sconfitta, ma non l’entrapment esterno, potevano prevedere un cambiamento nell’ideazione suicidaria nel tempo. È interessante notare che l’associazione tra l’entrapment interno e l’ideazione suicidaria, era positiva. Pertanto, su brevi periodi di tempo (come giorni o ore, dato che i questionari chiedevano di rilevare i sentimenti di sconfitta o entrapment e l’ideazione suicidaria negli ultimi giorni), alti livelli di entrapment interno coincidevano con alti livelli di ideazione suicidaria, il che è in linea con le ipotesi del modello integrato motivazionale volitivo.

Tuttavia, in questo campione, l’ideazione suicidaria e tutti gli altri costrutti valutati sono diminuiti nel tempo. In altre parole, i partecipanti si sono sentiti sempre meglio in tutte le variabili nel corso dello studio, mostrando i punteggi più alti nella valutazione iniziale e i punteggi più bassi nella valutazione finale.

In generale, quindi, i risultati evidenziano l’importanza di distinguere tra entrapment interno ed esterno e la loro specifica associazione con l’ideazione suicidaria. Le percezioni di entrapment interno sono di importanza centrale quando si sperimenta l’ideazione suicidaria e dovrebbero essere considerate nella pratica clinica.

 

Dipendenza affettiva (2022) di Lebruto, Calamai, Caccico e Ciorciari – Recensione

La dipendenza affettiva non sempre è facilmente riconoscibile, eppure essa riflette appieno un quadro psicopatologico rispetto al quale convergono fattori psichici, interpersonali e non ultimo di natura psicosomatica.

 

 Per quanto la dipendenza affettiva sembri condividere determinate caratteristiche con la dipendenza relativa all’uso di sostanze, quella di tipo affettivo sembra mettere a nudo la fragilità cognitiva e psicofisica della persona, che si scopre prigioniera di uno stato mentale ricorrente, invasivo e dinanzi al quale le proprie modalità di autoregolazione non sempre risultano funzionali (Siegel, J. D. 2001). Attraverso le pagine di questo saggio gli autori non solo offrono una panoramica ben dettagliata circa quello che oggi si presenta quale uno dei quadri psicopatologici maggiormente diffusi, bensì descrivono nel dettaglio la fisionomia attraverso la quale la dipendenza affettiva prende vita entro la cornice intrapsichica della persona. Offrono inoltre al clinico validi strumenti finalizzati all’esplorazione del disturbo e dei suoi numerosi volti, tra cui il colloquio psicologico, il diario dei desideri e non ultimo la colorazione di quelle parti corporee rispetto alle quali si manifestano i sintomi della dipendenza stessa.

Affondando le sue radici nel passato della persona, la dipendenza affettiva riflette quell’automatismo linguistico ed espressivo, in grado di tradursi in un quadro sintomatologico che dalla dimensione cognitiva intacca peraltro quella emotiva, relazionale e corporea. Quanto viene ad emergere e purtroppo ad instaurarsi sotto forma di “intossicazione acuta” (Lebruto, A., 2022) è un vero e proprio schema, che in maniera ripetitiva e ben strutturata non solo decentra la persona dalla sua individualità, bensì trasforma l’amore sano, fisiologico e passionale in un amore patologico, disfunzionale e rispetto al quale la propria individualità prende vita esclusivamente in funzione della persona amata.

A tal riguardo Reynaud (Reynaud, M., 2010) ha infatti proposto una prima distinzione tra le due modalità di sentire le emozioni e di condividerle con un’altra persona, descrivendo così l’amore sano da quello patologico quale riflesso di un processo fisiologico che, tuttavia, rischia di tradursi in comportamenti ossessivi, ripetitivi e che gradualmente limitano la libertà individuale dei due partner. Nondimeno l’autore propone la lettura del seguente quadro psicopatologico, come preceduto da una strutturazione tripartita delle fasi che pian piano sfociano in uno stato mentale disfunzionale e disadattivo.

 Partendo infatti dall’innamoramento, quale modalità di espressione del tutto fisiologica, si procede con il coinvolgimento sentimentale, rispetto al quale inizia ad emergere non solo una sincera complicità tra ambo i partner, bensì una piena conferma circa l’indispensabilità dell’altra persona, senza la quale la propria individualità verrebbe meno e attraverso la quale si è in grado di ottenere un riconoscimento, ergendo dunque l’altra persona a figura indispensabile e insostituibile, in funzione della quale il proprio Io assume importanza. L’indispensabilità, quindi, si traduce in vero e proprio trampolino di lancio entro il quale la cognizione, l’emozione e il sentire corporeo operano un investimento relazionale ed emotivo, innescando quel meccanismo ossessivo circoscritto al coinvolgimento.

Quest’ultima tappa infatti chiama in causa e a pieno titolo una nuova concatenazione di fattori che, oltre a manifestarsi sotto il profilo cognitivo, non tardano ad esprimersi anche sotto quello neurobiologico, trasformando il proprio sentire e le proprie modalità di autoregolazione in un’arma a doppio taglio. Nel dettaglio infatti emerge il tema della pianificazione, ossia quel comportamento attraverso il quale il legame con l’altra persona sembra non dover trovare ostacoli rispetto al proprio desiderio di stare con lei, di incontrarla e di ergerla sempre più a piedistallo della propria esistenza. Come sopra accennato, si assiste dunque ad un effetto domino ove l’attenzione selettiva, la pianificazione delle attività, la forte spinta motivazionale e le memorie pervasive rispecchiano appieno gli ingredienti essenziali, per rendere l’amore una sostanza difficile da ingerire.

Attraverso le pagine di questo libro, le caratteristiche sintomatologiche presentate e descritte invitano non solo a conoscere i numerosi volti di questa condizione psicopatologica, a prendere consapevolezza circa la fragilità che le persone (incastrate nel labirinto di questa forma di dipendenza) sperimentano nel quotidiano, ma al contempo a riscoprire e a riappropriarsi dei propri spazi. Anche e soprattutto in assenza di un’altra figura, valorizzando l’unico legame che più di ogni altro conta: quello con sé stessi.

Body positivity o body neutrality: un dilemma “apparente”?

Nelle società occidentali non è raro che il corpo venga considerato un oggetto da guardare, giudicare e di cui disporre, portando le persone a porre attenzione alla propria immagine corporea e suscitando insoddisfazione ed emozioni negative negative a riguardo. Tuttavia un movimento socioculturale noto come body positivity sta emergendo sempre di più sui social media..

Immagine corporea

 Schilder, nel 1935, definisce l’immagine corporea come l’immagine del proprio corpo nella propria mente, ovvero il modo in cui il corpo appare a se stessi. In seguito, Slade (1994) la descrive più precisamente come l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e alle singole parti del nostro corpo: cioè, la rappresentazione soggettiva che ogni persona ha del proprio corpo. Lo sviluppo della propria immagine corporea è un processo fortemente influenzato da alcuni fattori sociali e culturali: in primo luogo, l’esposizione a immagini mediatiche su piattaforme social e su riviste tradizionali; in secondo luogo, il confronto con la propria realtà socioculturale e con i propri pari (Thompson et al., 1999). In particolar modo, negli ultimi decenni l’aumento dell’utilizzo dei social – in particolar modo Instagram – in età pre-adolescenziale e adolescenziale ha reso necessario un approfondimento di questo fenomeno di influenza sulla percezione del sé corporeo. Un recente studio sperimentale condotto su un campione di giovani donne italiane (Di Gesto et al., 2022) ha dimostrato che, indipendentemente dai livelli di interiorizzazione degli standard socioculturali di bellezza, l’esposizione ad immagini di Instagram alle quali è associato un elevato numero di like rappresenta un fattore di rischio per l’aumento delle preoccupazioni e delle emozioni spiacevoli relative al proprio corpo, come insoddisfazione corporea e ansia sociale per il proprio aspetto fisico.

Oggettivazione corporea e auto-oggettivazione corporea

La percezione e la consapevolezza del proprio corpo come involucro della propria identità personale sono elementi fondamentali durante la transizione dall’adolescenza all’età adulta (Rollero, 2019). Nelle società occidentali non è raro che gli individui vengano depersonalizzati, spogliati della propria umanità e identità personale. Il corpo viene considerato un oggetto da guardare, giudicare e di cui disporre. Attraverso la Teoria dell’Oggettivazione, Fredrickson e Roberts (1997) hanno portato alla luce questa tendenza tipica delle società attuali: le persone vengono indotte ad interiorizzare questa prospettiva sul loro stesso corpo; si verifica quella che Fredrickson & Roberts (1997) definiscono auto-oggettivazione, consistente nella tendenza a percepire e giudicare il proprio corpo secondo un ipotetico sguardo esterno interiorizzato. La letteratura negli anni ha esaminato questo fenomeno focalizzandosi maggiormente sulle giovani donne, oggi però risulta doveroso considerare gli effetti allarmanti anche relativamente alla controparte maschile, dato che, sempre di più, sembra rappresentare un target altrettanto vulnerabile alle influenze socioculturali sulla rappresentazione del proprio corpo (Nagata et al., 2020). Secondo Calogero e Thompson (2010), sin dall’infanzia le bambine vengono spinte a focalizzarsi sul loro aspetto estetico e sulle qualità relazionali, mentre i bambini vengono incentivati a concentrarsi sulle loro qualità assertive e sulle loro competenze, anche fisiche (Eagly & Koenig, 2006). Sembrerebbe che in Italia i processi di oggettivizzazione e di sessualizzazione siano più pervasivi che in altri paesi europei (Dakanalis et al., 2015; Rollero et al., 2019): questa consapevolezza rende necessario estendere le ricerche all’interno dei diversi paesi europei e non, al fine di poter avere una visione più ampia rispetto alle differenze culturali in riferimento a tale ambito.

Thinspiration e fitspiration

Le piattaforme social basate sulla condivisione di fotografie, come Instagram, hanno contribuito alla diffusione di ideali basati sulla thinspiration (contenuti destinati a ispirare la perdita di peso) e sulla fitspiration (contenuti destinati a ispirare obiettivi di fitness) (Cohen et al., 2021; Fardouly & Vartanian, 2016). L’analisi dei contenuti di thinspiration e fitspiration sui social media ha rilevato che la maggior parte dei post e delle stories ritrae tipicamente corpi magri e tonici in pose sessualmente oggettivanti, con messaggi che inducono al senso di colpa rispetto a diete, peso ed esercizio fisico (es., Tiggemann & Zaccardo, 2018; Wick & Harriger, 2018), aumentando l’umore negativo e l’insoddisfazione corporea (Robinson et al., 2017; Tiggemann & Zaccardo, 2015). La letteratura dimostra che gli adolescenti e i giovani adulti, caratterizzati da cambiamenti nella fisicità (ad esempio, sviluppo dei muscoli e del seno, comparsa di brufoli), instabilità emotiva e comportamento esplorativo per costruire la propria identità, sono particolarmente bersaglio degli standard di apparenza nei contenuti promossi tramite i social media. Molti studiosi (ad esempio, Harriger et al., 2023) hanno espresso preoccupazione verso i giovani a causa delle rappresentazioni degli ideali di apparenza nei social media. I mezzi di comunicazione di massa tradizionali, come la televisione – quindi film e cartoni animati –, e quelli più recenti, come i social media, rappresentano in modo persistente una visione omogenea delle caratteristiche estetiche considerate ideali per uomini e donne, riducendo la possibilità di veder rappresentati tutti i corpi possibili. Per quanto si pensi che esista una dittatura del politicamente corretto, ad esempio, le persone con corpi grassi sono sottorappresentate a livello mediatico e social-mediatico e, quando appaiono sugli schermi, il loro aspetto è quasi sempre connesso a caratteristiche stereotipate e/o negative (es., Holland et al., 2015). Questo contribuisce a creare un immaginario collettivo che influenza non solo quello che la società pensa delle persone con un corpo considerato non conforme ai canoni estetici dominanti in una data cultura, ma anche ciò che tali persone pensano di loro stesse. Gli ideali estetici veicolati attraverso i media sono accompagnati da indici di accettazione sociale, come i like, che forniscono all’utente il punto di vista del pubblico social, influendo sui livelli di insoddisfazione corporea e ansia nel mostrare il proprio corpo per timore di un giudizio negativo (es., Di Gesto et al., 2022). Questa modalità stringente di rappresentare solo alcuni corpi si distacca dal concetto di salute promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo cui la salute è uno stato di totale benessere fisico, psicologico, sociale e spirituale e non semplicemente assenza di malattie o infermità. Una maggiore rappresentazione da parte dei media di personaggi e corpi che rispecchiano questo concetto potrebbe favorire negli utenti un maggiore riconoscimento del proprio corpo come uno dei corpi possibili, riducendo così le emozioni negative di frustrazione legate al gap presente tra la percezione del proprio corpo e gli ideali estetici rappresentati e rinforzati dai media. L’idea che la rappresentazione di determinati corpi possa “promuoverli” fra le persone, determinando un aumento del numero di persone con corpi grassi è contraria alle evidenze scientifiche. Non rappresentare o farlo in modo stereotipato e, quindi, marginalizzare e stigmatizzare le persone, spinge chi ha un corpo grasso a ritenere fuori dalla propria portata alcune cose che invece potrebbe avere piacere e voglia di fare (es. aumentare il proprio grado di fitness). Questa idea è confermata da decenni di studi scientifici sullo stigma (es., Bidstrup et al., 2022; Rojas-Sanchez et al., 2022). La rappresentazione di tutti i corpi è salute pubblica; nella rappresentazione la varietà educa a una realtà possibile ed è importante mostrarla tutta.

Body positivity e body neutrality

 Mentre gli account Instagram che mostrano immagini idealizzate continuano a crescere in popolarità, un movimento socioculturale noto come body positivity è emerso sempre di più sui social media, con l’obiettivo di portare alla luce modelli corporei non corrispondenti agli iconici ideali di magrezza, snellezza, perfezione proporzionale o cutanea. La body positivity mira a promuovere l’idea che sia importante accettare tutti i corpi, senza tralasciarne nessuno, indipendentemente da forma, dimensioni e caratteristiche (Rodgers et al., 2022). In una recente analisi del contenuto di 640 post di Instagram campionati da account popolari di body positive, gli autori hanno trovato che tali post includono tipicamente immagini che rappresentano forme e taglie corporee di diverse dimensioni e ideali estetici altrimenti sottorappresentati negli account tradizionali (Cohen et al., 2019). Hashtags associati con la body positivity e la fat acceptance sono #healthateverysize, #haes, #effyourbeautystandards, #fatspiration. Ciò è coerente con i principi Health At Every Size® (HAES), che sostengono un approccio alla salute a peso neutro, dando la priorità al benessere rispetto alla perdita di peso (Association for Size Diversity and Health, 2013). Attraverso tali post, i sostenitori del body positive mirano a dimostrare che tutti i corpi meritano rispetto e promuovono una relazione più positiva con il proprio corpo e se stessi. Alcuni recenti studi (es. Cowles et al., 2023) hanno mostrato che l’esposizione a post di body positivity si associava positivamente a maggiori livelli di soddisfazione corporea e un miglioramento dell’umore.

Tuttavia, non mancano in letteratura critiche mosse verso i contenuti promossi dalla body positivity, i quali, focalizzandosi in ogni caso sull’apparenza estetica, sembrano incrementare i livelli di oggettivazione e auto-oggettivazione corporea (Cortez & Alfonso, 2021). Cohen e colleghi (2019) hanno realizzato uno studio sperimentale in cui le partecipanti – giovani donne – sono state sottoposte alla visualizzazione di post di Instagram che promuovono ideali di body positivity, thinspiration e post neutrali rispetto all’aspetto estetico. I risultati hanno mostrato miglioramenti dell’umore e più alti livelli sia di soddisfazione che di apprezzamento corporeo in risposta all’esposizione a contenuti di body positivity, rispetto ai post volti a promuovere ideali di magrezza e ai post neutrali dal punto di vista dell’apparenza fisica. Tuttavia, sia i post che promuovono l’ideale di magrezza che i post di body positivity sono stati associati a un aumento dell’auto-oggettivazione rispetto ai post neutrali dal punto di vista dell’aspetto corporeo. Di conseguenza, questa ricerca preliminare suggerisce che, da un lato, la visione di immagini positive per il corpo è associata a un miglioramento dell’umore e a una maggiore soddisfazione corporea, dall’altro, è ancora associata a un’eccessiva attenzione focalizzata sull’aspetto corporeo.

I risultati emersi dallo studio condotto da Cohen e colleghi (2019) suggeriscono la necessità di nuove ricerche su un approccio al corpo meno oggettivante: la body neutrality sembrerebbe rappresentare la via di mezzo per i messaggi polarizzati su amore-odio verso il proprio corpo (Weingus, 2018). Mentre la body positivity mira a cambiare la definizione di bellezza nella società, promuovendo l’accettazione e l’apprezzamento di tutte le forme e dimensioni del corpo, la body neutrality mira a cambiare il valore che la società attribuisce alla bellezza, incoraggiando le persone a porre meno enfasi sul proprio aspetto fisico (Rees, 2019). Questo approccio potrebbe contribuire a ridurre la tendenza, ampiamente diffusa, a percepire e a giudicare il proprio corpo assumendo uno sguardo esterno.

Nel contesto dell’immagine corporea, negli ultimi anni la ricerca ha cominciato a focalizzarsi anche sui concetti di body compassion (Altman et al., 2017). La compassion è definita come un atteggiamento di sensibilità alla sofferenza propria e altrui in aggiunta al desiderio di alleviare tali stati di disagio; essa implica la combinazione di emozioni, motivazioni, pensieri e comportamenti che coinvolgono due dimensioni: gli attributi compassionevoli, cioè una sensibilità intenzionale alla sofferenza e la capacità di tollerare l’angoscia senza un atteggiamento giudicante, e le azioni compassionevoli, cioè la motivazione a intraprendere azioni utili per prevenire l’angoscia e/o affrontarla (de Carvalho Barreto et al., 2020). Alcuni autori (es., Policardo et al., 2021) hanno rivelato che alti livelli di body compassion, ossia un atteggiamento di gentilezza e accettazione delle proprie inadeguatezze corporee percepite, si associa a minore insoddisfazione corporea, incrementando i processi psicologici di: defusion, ossia la tendenza a non identificarsi eccessivamente con le imperfezioni, i limiti o le inadeguatezze percepite relativamente al proprio corpo; common humanity, cioè la capacità di considerare i propri difetti corporei percepiti come parte dell’esperienza umana; acceptance, cioè l’accettazione di pensieri, percezioni e pensieri dolorosi legati al corpo in contrapposizione a un atteggiamento critico e giudicante verso il proprio sé corporeo.

Alla luce delle ricerche in tale ambito, risulta fondamentale promuovere interventi di sensibilizzazione primaria volti a contrastare l’effetto delle influenze socioculturali sull’immagine corporea e a potenziare i fattori di protezione, come l’apprezzamento della funzionalità corporea e la body compassion.

 

Il Disturbo Dissociativo dell’Identità attraverso la figura di Aaron Luke Stampler nel film “Schegge di paura”

Il disturbo dissociativo dell’identità (DDI) è connesso a traumi emotivi intensi di esperienze molto dolorose che comportano la patologia come forma di difesa della mente da una realtà impossibile da gestire.

 

 Magistrale interpretazione dell’attore Edward Norton nel film “Schegge di paura” del 1996 nel ruolo di un giovane chierichetto balbuziente accusato dell’omicidio dell’arcivescovo di Chicago Richard Rushman. L’avvocato penalista Martin Vail (Richard Gere), è l’unico a decidere di difendere Aaron convinto della sua innocenza, seppure le prove raccolte sulla scena del crimine mostrino Aaron come unico indiziato e partecipe del delitto.

Il giovane soffre di perdite di memoria che non gli permettono di fare un riepilogo coerente dell’accaduto. L’avvocato Martin decide, dunque, di sottoporlo ad una analisi psichiatrica e dalle sedute si scopre che il ragazzo soffre di disturbo dissociativo dell’identità, disturbo sviluppatosi in seguito a imposizioni di carattere sessuale provenienti dall’arcivescovo quando Aaron era un ragazzino.

Negli studi di psicologia clinica, secondo il DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder dell’American Psychiatric Association) e secondo l’approccio teorico del modello postraumatico, il disturbo dissociativo dell’identità (DDI) è connesso a traumi emotivi intensi di esperienze molto dolorose che comportano la patologia come forma di difesa della mente da una realtà impossibile da gestire. Si pensi ai traumi subiti durante il periodo infantile, quali abusi sessuali e ripetuti maltrattamenti fisici. Tali eventi portano l’individuo a dissociare le esperienze soggettive in personalità multiple, i cosiddetti “alter ego”.

 Proprio la presenza degli alter ego è ben rappresentata da una particolare scena del film, una scena in cui il giovane Aaron subisce forte stress causato dal pubblico ministero Janet Venable (Laura Linney) in aula di tribunale attraverso un attacco fatto di parole incisive che gli fanno rivivere le violenze psicologiche subite. Ed ecco che, improvvisamente, Roy si sostituisce ad Aaron: cambia tono di voce, modifica la sua espressione facciale, mostra spavalderia verso la giuria e la pubblica accusa. Roy si differenzia da Aaron per il linguaggio senza balbuzie, per le parole che scadono nel volgare e per il suo scagliarsi verbalmente e fisicamente contro l’avvocato accusatore. A questo punto, le guardie intervengono, prendono di forza Aaron/Roy, portandolo fuori dall’aula mentre continua a urlare e minacciare il pubblico ministero Janet Venable.

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Da quanto emerge da diversi studi psicologici, le due o più personalità presenti in un unico individuo sono distinte, vale a dire, hanno modi di pensare, essere, sentire e agire totalmente indipendenti. Solitamente vi è una personalità principale, una identità che assume il controllo del comportamento della persona e ciascuna di esse non ha consapevolezza dell’esistenza delle altre personalità, né ha ricordo di ciò che fanno le altre. Ogni identità ha la sua personalità con i suoi modi di percepire, pensare e relazionarsi nei confronti di sé e dell’ambiente.

Tuttavia, nonostante le diverse identità riferiscano di non condividere i ricordi, in realtà alcune identità sembrano conoscere le altre ed interagire con esse. Infatti, nel film c’è una scena dove l’avvocato Martin ha un colloquio con Aaron per obbligarlo a dirgli la verità sull’omicidio dell’arcivescovo Rushman. Questa conversazione porta il giovane a far prevalere l’altra identità, quella di Roy, il quale fa capire di ricordarsi molto bene di Aaron. Ne parla come un debole, incapace di commettere un crimine così violento, ribadendo il concetto della fragilità e della viltà di Aaron.

Il ruolo del trauma infantile nell’aumento della disregolazione emotiva

L’Organizzazione Mondiale Della Sanità definisce il trauma infantile come un insieme di esperienze avverse esperite prima del compimento dei 18 anni. Comprende molteplici forme di maltrattamento, come l’abuso fisico, emotivo e/o sessuale, il neglect, cioè la trascuratezza, sia fisico che emotivo e l’essere spettatore di abusi su persone vicine.

 

 È stato stimato come più di 300 milioni di bambini tra i due e i quattro anni subiscano percosse, punizioni fisiche o abusi psicologici da parte di adulti e più di 40 milioni vengono uccisi ogni anno a causa di maltrattamenti, che spesso vengono riferiti come incidenti. Eventi traumatici durante l’infanzia possono causare conseguenze a lungo termine, come la depressione, l’abuso di alcolici e anche problematiche evolutive dovute a cambiamenti strutturali del cervello (WHO, 2020). Infatti, i bambini vittime di maltrattamenti spesso mostrano importanti modifiche nella modalità di elaborazione delle informazioni sociali e tendono a focalizzarsi su stimoli paurosi. Inoltre, di solito mostrano un’elevata reattività emotiva, una minore consapevolezza in termini di emozioni, problemi di apprendimento emotivo e difficoltà nella regolazione delle emozioni (McLaughlin et al., 2020).

Trauma Infantile e Regolazione delle Emozioni

I primi studi incisivi sugli effetti dell’abbandono risalgono al 1949, quando René Spitz condusse un esperimento su bambini sottoposti a neglect sia fisico che emotivo. Egli osservò che nella maggior parte dei casi, un periodo prolungato di neglect portava ad un progressivo deterioramento e sottosviluppo della personalità dei bambini e che ciò causava marasma e morte entro il secondo anno di vita (Patterson & Hidore, 1997). Sebbene casi come questo siano estremi, la letteratura sugli effetti del trauma infantile concorda sul fatto che esso sia un forte fattore di rischio per l’esordio di psicopatologie sia nell’infanzia che in età adulta. Ad esempio, nel 1998, Felitti e colleghi riportarono di aver notato come i bambini vittime di maltrattamento mostrassero maggiori difficoltà nella regolazione delle emozioni rispetto ai bambini “sani”. In aggiunta, Heleniak e colleghi (2016), hanno riscontrato un’associazione tra esperienze traumatiche infantili, maggior reattività emotiva e maggiori risposte disadattive al disagio, sia dal punto di vista cognitivo che da quello comportamentale; secondariamente, hanno osservato che queste ultime svolgevano il ruolo di mediatore nella relazione tra trauma e psicopatologia.

Tuttavia, come affermato da Gross (2015), il processo di regolazione delle emozioni in età adulta è sfaccettato e complesso. È stato osservato come una carenza di strategie di regolazione adattive risulti nella difficoltà di controllo dell’impulsività e a tal proposito, Oshri e colleghi (2015) hanno condotto uno studio su un campione di studenti universitari, grazie al quale è emersa una correlazione tra problematiche relative al controllo degli impulsi, al comportamento goal-directed (orientato al raggiungimento degli obiettivi) e un comportamento dirompente. In particolare, in un campione di studentesse universitarie è stato osservato che esperire abusi emotivi durante l’infanzia era associato ad una diminuzione della chiarezza delle proprie emozioni, dell’accettazione di esse, a minori azioni goal-directed e ad un maggior discontrollo degli impulsi (Burns et al., 2010).

Genitori con un passato di maltrattamenti

 Un altro risultato importante di cui tenere conto in questo ambito è la trasmissione generazionale della capacità di regolazione emotiva quando un genitore è stato vittima di abusi a sua volta durante l’infanzia. In tale ambito, Osborne e colleghi (2021) hanno condotto uno studio avente lo scopo di esaminare il legame diretto e indiretto tra una storia di maltrattamento subita dal genitore e la capacità di regolazione emotiva nella prole. Esaminando un campione di 101 diadi genitore-figlio, è emerso che il trauma infantile subito dal genitore era fortemente associato a disregolazione nel figlio; inoltre, per quanto riguarda l’effetto indiretto delle esperienze avverse esperite dai genitori sulla prole, esso è risultato significativo quando i primi esibivano maggiori difficoltà nell’assumere comportamenti goal-directed. In particolar modo, questo studio ha evidenziato che le figlie di sesso femminile presentavano una maggior difficoltà nell’autoregolazione indipendentemente dalla storia di abusi dei genitori, mentre le capacità di regolazione emotiva genitoriale sembravano impattare più significativamente nella trasmissione intergenerazionale della disregolazione nei figli maschi.

Infine, Gruhn e Compas (2020) hanno condotto una revisione della letteratura volta a stimare l’impatto dei maltrattamenti nelle prime fasi della vita sulle strategie di coping e di regolazione emotiva durante il periodo di infanzia e adolescenza. Sono stati inclusi nello studio 35 articoli, dai quali è emerso che il trauma infantile era fortemente associato a scarse strategie di regolazione e di conseguenza ad alti livelli di disregolazione in entrambe le fasce di età. Questo studio ha inoltre evidenziato un aumento dell’evitamento (una strategia comportamentale che porta le persone a sottrarsi dall’esporsi a situazioni, persone, eventi temuti per evitare di affrontare l’emozione negativa che ne può derivare) e della soppressione emotiva (ovvero l’inibizione cosciente dell’espressione emotiva) nei bambini traumatizzati.

Conclusione

In conclusione, vi è un ampio corpo di letteratura riguardante l’impatto del trauma infantile sulla regolazione delle emozioni durante tutto il corso della vita della vittima, così come studi riguardanti la possibilità che la disregolazione emotiva possa essere trasmessa a livello generazionale da un genitore vittima di abusi durante le prime fasi della crescita alla prole sana.

La salute mentale dei migranti all’interno dei CPR

Nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio le persone ristrette vengono “tenute buone” tramite un uso dei medicinali arbitrario, eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico.”

L’inchiesta pubblicata da Altraeconomia ad aprile Rinchiusi e sedati: l’abuso quotidiano di psicofarmaci nei CPR italiani dei giornalisti Luca Rondi e Lorenzo Figoni restituisce un’immagine dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) che rimanda alle condizioni dei vecchi manicomi in cui per tenere buoni i pazienti si abusava di antipsicotici, antidepressivi e ansiolitici, le cosiddette ‘camicie di forza chimiche’.

Secondo gli autori la quantità di psicofarmaci acquistati dai CPR è spropositata e se giustificata, significa che tratteniamo in queste strutture persone che si trovano in uno stato psichico tale da essere incompatibile con il soggiorno nei CPR.

Analizziamo quindi cosa sappiamo sullo stato di salute dei migranti rinchiusi nei CPR per capire se l’utilizzo di psicofarmaci sia giustificato o meno.

Prima, però, qualche informazione in più su chi sono le persone trattenute nei CPR.

Cosa significa essere uno straniero in Italia

Con il termine ‘straniero’ la legge italiana indica chi non è cittadino di uno Stato membro dell’Unione Europea, quindi il cittadino extracomunitario.

Gli stranieri che si trovano in Italia senza visto o permesso di soggiorno validi vengono considerati irregolari. Il nostro Stato prevede delle misure volte sia a prevenire l’ingresso irregolare degli stranieri, sia a impedire la loro presenza irregolare sul territorio italiano: sono i provvedimenti di espulsione e respingimento. Se uno straniero irregolare viene intercettato alla frontiera viene respinto, altrimenti, se è già su territorio italiano, viene espulso.

Stranieri irregolari: chi sono e quanti sono

Si stima che attualmente in Italia ci siano poco più di 500.000 stranieri irregolari 

Migranti trattenuti nei CPR e psicofarmaci abuso o scelta giustificata - IMM1

 

Si tratta di persone a cui è scaduto il permesso di soggiorno oppure sbarcate sulle coste italiane o che hanno aggirato i controlli di frontiera, molti dei quali richiedenti asilo, altri, i cosiddetti migranti in transito, sono profughi intenzionati a raggiungere altri Paesi dell’Unione Europea e che per questo hanno fatto perdere le loro tracce.

Espellere gli stranieri irregolari: cosa sono i Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR)

I Centri di permanenza e rimpatrio, prima denominati Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) e prima ancora Centri di Permanenza Temporanea (CPT), sono delle strutture nate per ospitare gli stranieri colpiti da un provvedimento di espulsione che non può essere eseguito immediatamente perché:

  • lo straniero deve prima essere soccorso;
  • sono necessari ulteriori accertamenti per stabilire la sua identità o nazionalità;
  • lo straniero deve reperire il proprio documento di viaggio (es. passaporto);
  • non è disponibile un mezzo di trasporto idoneo per rimpatriarlo.

I Centri sono gestiti da società private che hanno vinto un appalto bandito dal Ministero dell’Interno.

Al momento sono 10 i CPR attivi sul territorio italiano:

  • Bari;
  • Brindisi;
  • Caltanissetta;
  • Gradisca d’Isonzo (GO);
  • Macomer (NU);
  • Milano;
  • Palazzo San Gervasio (PZ);
  • Roma;
  • Torino;
  • Trapani.

Chi è trattenuto in un CPR può rimanervi solo per il tempo strettamente necessario a superare gli impedimenti che non ne permettono l’immediata espulsione; massimo 90 giorni, prorogabili a 120 in casi eccezionali.

Se entro questo lasso di tempo non si è riusciti a eliminare gli ostacoli che ne impediscono l’espulsione e a rimpatriarlo, lo straniero viene rilasciato e ha cinque giorni di tempo per abbandonare l’Italia, se non vuole incorrere in sanzioni penali che prevedono la reclusione.

Chi sono gli stranieri trattenuti nei CPR

Esistono diversi motivi per cui uno straniero può essere colpito da un provvedimento di espulsione ed essere portato in un CPR:

Espulsione amministrativa

Viene disposta dal Ministero:

  1. per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, se lo straniero è ritenuto pericoloso;

Viene disposta dal Prefetto:

  1. se lo straniero è clandestino, cioè è entrato nel territorio italiano irregolarmente eludendo i controlli alla frontiera;
  2. se lo straniero è irregolare, cioè privo di permesso di soggiorno valido.

Espulsione giuridica

A seguito di un procedimento penale, uno straniero può essere espulso dall’Autorità Giudiziaria:

  1. per motivi di sicurezza, perché è stato condannato per uno dei delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza e ritenuto socialmente pericoloso;
  2. come misura alternativa alla detenzione in casi di soggiorno irregolare oppure se sta espiando una condanna definitiva per reati non gravissimi oppure se sta scontando gli ultimi due anni della pena;
  3. come sanzione sostitutiva alla detenzione, se ha commesso un reato non colposo, punito con detenzione inferiore a due anni o per il reato di ingresso e soggiorno illegale;
  4. come sanzione sostitutiva a una pena pecuniaria.

Le persone che vengono trattenute nei CPR sono per lo più clandestini o irregolari (es. migranti sbarcati illegalmente o soccorsi in mare) e in percentuale minore soggetti ritenuti socialmente pericolosi o che hanno commesso reati non gravi. Questi ultimi sono infatti una minoranza, come si evince dai dati dei rimpatri relativi all’anno 2021 (sebbene i dati si riferiscano solo ai rimpatriati, che sono poco meno del 50% delle persone trattenute nei CPR).

Migranti trattenuti nei CPR e psicofarmaci abuso o scelta giustificata - IMM3

Lo stato di salute degli stranieri irregolari

Il tema della salute degli stranieri irregolari mostra un quadro fortemente condizionato da fattori che si intrecciano tra loro come per esempio l’effetto migrante sano (cioè è più facile che decida di emigrare chi è in migliori condizioni di salute) e l’effetto migrante esausto. Quest’ultimo interessa particolarmente gli immigrati irregolari che si trovano in situazioni di precarietà, di svantaggio sociale ed economico, con scarsissime possibilità di integrazione, una relazione problematica con i servizi sanitari (nonostante sia previsto il sistema STP che consente l’accesso anonimo alle cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative per malattia ed infortunio), scarsa compliance ai trattamenti di lunga durata; tutti fattori di rischio per lo sviluppo di disagi psicologici e psichiatrici.

Migranti economici

Alle considerazioni sopra elencate si aggiunge, per i migranti economici irregolari, il rischio di sviluppo di traumi legati al lavoro nero, dove le condizioni lavorative implicano totale assenza di tutela e sfruttamento.

Profughi

Le persone che sbarcano in Italia presentano – ma ciò non stupisce – un’alta incidenza di problemi psichici dovuti alle violenze che hanno subito sia in patria sia durante il viaggio, in particolare Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD).

Come affermato da Baglio e colleghi (2017), “Nel contesto delle migrazioni la salute degli irregolari si presenta maggiormente vulnerabile per il sommarsi degli effetti delle condizioni di partenza e di viaggio e per la marginalità in cui molti di loro si trovano a vivere nel Paese ospite.”

Lo stato di salute mentale nei CPR

I disturbi psichiatrici più diffusi

A fronte di quanto sopra descritto è verosimile che le persone trattenute nei CPR abbiamo un’alta probabilità di soffrire di ansia, PTSD, depressione, dipendenza da sostanze o più in generale di disagio psichico.

Autolesionismo e rischio suicidario

I fattori individuali, ambientali e situazionali che possono influenzare il rischio che uno straniero irregolare trattenuto in un CPR commetta atti di autolesionismo o si suicidi sono diversi. Per esempio:

  • la consapevolezza che il proprio progetto di migrazione, e quindi di cambio vita, è fallito
  • lo stress determinato dalla vita detentiva
  • lo stress determinato dalla carenza di informazioni
  • l’impatto che la vita detentiva può avere su eventuali traumi pregressi legati a violenze o torture subite prima della partenza o durante il viaggio
  • l’astinenza da sostanze in caso di tossicodipendenza
  • la difficoltà ad accedere a un’assistenza psichiatrica adeguata
  • l’isolamento all’interno della struttura e l’assenza di contatti con l’esterno
  • vulnerabilità psicologiche personali

Aggressività

Le condizioni in cui versano le persone trattenute nei Centri contribuiscono inoltre a esacerbare le problematiche psicologiche e psichiatriche. Per esempio, la totale assenza di attività (es. ricreative o sportive) e quindi lo stato di inerzia forzata a cui le persone trattenute sono costrette, determina un aumento di malessere e aggressività che spesso sfocia in sfoghi violenti all’interno delle strutture.

Chi si prende cura della salute mentale degli stranieri nei CPR

Quando una persona è destinata a un CPR, è necessario verificare che non soffra di patologie che siano incompatibili con il suo ingresso o la sua permanenza nel Centro; per esempio, malattie infettive o contagiose, disturbi psichiatrici oppure patologie acute o cronico degenerative che necessitano di cure idonee non erogabili all’interno della struttura.

Già in passato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (organismo statale indipendente che monitora i luoghi di privazione della libertà) ha segnalato quanto sia “deficitaria, nonostante le rassicurazioni in merito, l’adeguata presa in carico delle persone affette da disagio mentale” all’interno dei CPR, inclusa l’assenza di interventi di prevenzione del rischio suicidario. Ma chi dovrebbe occuparsene?

La valutazione di idoneità all’ingresso in un CPR

All’interno dei CPR è previsto un presidio medico coperto da professionisti sanitari contrattualizzati dalla società che gestisce la struttura.

Tuttavia per legge (articolo 3 del Regolamento unico dei Cie) la visita medica per stabilire l’idoneità all’ingresso e alla permanenza nel Centro deve essere affidata alla sanità pubblica ed essere effettuata da un medico della Asl o dell’Azienda ospedaliera. Spetta alle Prefetture stipulare Protocolli di intesa con le Aziende sanitarie locali.

Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha però evidenziato come nel corso del 2019 e del 2020 questa fondamentale verifica di garanzia sia spesso stata parzialmente disattesa: la valutazione all’idoneità era infatti spesso demandata al personale medico contrattualizzato dal gestore del Centro che si limitava a controllare l’assenza di malattie infettive e a un rapido esame obiettivo.

Nei casi in cui sia stata attivata la collaborazione con il Servizio Sanitario per accertamenti e visite specialistiche, se non è prevista una corsia preferenziale per i migranti trattenuti (vedi, per esempio, CPR di San gervasio, come segnalato dal report di ASGIAssociazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), si ha una dilatazione dei tempi di attesa per la valutazione di idoneità.

Ad oggi la situazione non sembra cambiata.

La valutazione di idoneità alla permanenza in un CPR

I medici della struttura hanno il compito di monitorare lo stato di salute dei trattenuti per cogliere l’eventuale insorgenza di sintomi di disagio mentale; in tal caso il paziente dovrebbe essere indirizzato verso visite specialistiche e a una nuova valutazione di idoneità alla permanenza nel centro da parte della Asl o Azienda ospedaliera del territorio.

Prevenzione del rischio suicidario

Nonostante i casi di suicidio e di autolesionismo che si sono verificati nei CPR, a oggi non sono previsti protocolli o interventi di prevenzione del suicidio.

Personale inadeguato

Il numero di professionisti sanitari che presta servizio presso i CPR (stabilito da tabella di dotazione minima del capitolato d’appalto) spesso è inferiore rispetto al numero di pazienti che devono essere gestiti. In alcuni casi si fa affidamento a gruppi di medici volontari grazie ad accordi con gli Ordini di provincia (es. CPR Torino), ma appare evidente come non sia sufficiente tentare di sopperire a una assistenza medica così critica tramite il volontariato.

Per di più, segnala il Garante, il personale non ha competenze specifiche in materia di medicina delle migrazioni e non segue specifici percorsi di formazione (per es. sulla prevenzione del rischio suicidario).

Ne consegue che l’assistenza fornita è fortemente inadeguata.

L’acquisto di psicofarmaci da parte dei CPR

L’inchiesta di Altraeconomia sostiene un massiccio uso di psicofarmaci all’interno dei CPR, in particolare di:

Benzodiazepine

Le benzodiazepine sono farmaci utilizzati per ridurre l’ansia e i suoi sintomi fisiologici poiché hanno proprietà ansiolitiche, sedative, anticonvulsivanti e miorilassanti (es. Bromazepam, Diazepam, Clonazepam).

Tra le benzodiazepine acquistate nei CPR  si segnalano, per esempio, Tavor, Valium, Tranquirit, ma soprattutto Rivotril. Colpisce che quest’ultimo sia il più acquistato, considerando che è indicato come prima scelta per il trattamento di stati di epilessia e che come ansiolitico è ormai stato superato da altri farmaci che hanno minor rischio di sviluppare dipendenza.

Antidepressivi

Gli antidepressivi SSRI sono farmaci utilizzati sia per il trattamento della depressione sia per il trattamento dell’ansia a lungo termine (es. Sertralina, Paroxetina, Fluoxetina).

Nei CPR si segnala in particolare l’acquisto di Zoloft (Sertralina).

Antipsicotici

Gli antipsicotici o neurolettici sono farmaci utilizzati nel trattamento di schizofrenia, disturbi psicotici, disturbo bipolare.

Altraeconomia segnala l’acquisto da parte dei CPR di Quetiapina (utilizzata per il trattamento di schizofrenia e disturbo bipolare), Olanzapina (schizofrenia) o Depakin (epilessia e disturbo bipolare).

L’acquisto di narcotici da parte dei CPR

L’inchiesta evidenzia inoltre un acquisto significativo di Metadone, un narcotico utilizzato per gestire le crisi di astinenza e ridurre l’assuefazione nella terapia sostitutiva della dipendenza da droghe oppiacee.

Rinchiusi e sedati per essere tenuti buoni?

La tipologia di psicofarmaci acquistati risulta in linea con i disturbi di cui verosimilmente soffrono gli immigrati irregolari sbarcati sulle coste italiane o che hanno vissuto in stato di clandestinità, anche alla luce dell’effetto migrante esausto citato in precedenza; in particolare ansia, depressione e dipendenza da sostanze.

Appare però evidente come l’inefficienza burocratica, il personale inadeguato per numero e per formazione e l’assenza di una valutazione psichiatrica che accerti l’eventuale presenza di disturbi determinano l’ingresso e la permanenza nei CPR di persone che soffrono di disagio mentale che la struttura non è in grado di gestire.

Dai dati in nostro possesso emerge un quadro in cui i CPR non hanno gli strumenti adatti per far fronte al complesso tema della salute mentale dei migranti irregolari (es. supporto medico specializzato, programmi di recupero per tossicodipendenti, assistenza psicologica adeguata, protocolli per la prevenzione del rischio suicidario, accesso a servizi esterni pubblici), se non l’utilizzo di procedure di isolamento e l’uso di psicofarmaci.

La speranza è che l’attuale attenzione mediatica sui CPR, data l’intenzione del Governo di aprirne, spinga a un ripensamento sulla loro organizzazione e a una maggiore attenzione alla salute delle persone trattenute, come sancito dalla nostra Costituzione che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, regolare o irregolare che sia.

 

La nuova era digitale: i selfie e l’immagine di sé

Il selfie, in quanto strumento di autopresentazione, può essere considerato un mezzo per migliorare la propria autostima, in quanto le persone tendono a mostrare solo la parte migliore di sé.

 

 Negli ultimi anni ha preso sempre più piede quella che si potrebbe definire una “nuova era digitale”. La comunicazione via web attraverso i siti di social networking (SNS) rappresenta, infatti, un’attività quotidiana molto diffusa soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti. In particolare, circa l’80% degli adolescenti tra i 13 e i 17 anni ha un profilo attivo sui social media (Mascheroni & Ólafsson, 2018). Questi profili sono diventati ormai molto rilevanti nelle interazioni sociali e nelle attività di svago degli adolescenti (Gioia et al., 2021). Infatti, i siti di social networking sono comunità virtuali che consentono agli utenti di interagire con amici, incontrare altre persone che condividono interessi comuni, visualizzare e commentare le attività degli altri e condividere varie forme di contenuti (Boursier & Manna, 2018).

Al giorno d’oggi, i social network vengono considerati, quindi, come un vero e proprio “modo di essere” (Kuss & Griffiths, 2017) ed influiscono sulla costruzione dell’identità degli adolescenti, rispondendo al loro bisogno di confronto e appartenenza tra pari (Boursier & Manna, 2018). Inoltre, sembrano essere soprattutto incentrati sulle immagini e sull’autopresentazione visiva (Gioia et al., 2020), rendendo la vita quotidiana una vita “più fotografica” (Gioia et al., 2021).

L’immagine di sé nell’era digitale: il selfie

L’immagine di sé nell’era digitale si alterna tra due tendenze opposte: quella del conformismo, ovvero tendenza ad uniformarsi ai criteri di bellezza estratti dai social network, e quella del “difformismo”, ovvero lo sforzo di curare l’immagine di sé, grazie anche agli strumenti di editing, per garantire la propria unicità (Nizzoli, 2021).

Una delle attività più popolari associate all’uso dei social e alla creazione di una propria immagine è la condivisione di selfie (Boursier et al., 2020). Il neologismo “selfie” si riferisce ad una fotografia scattata da sé stessi (da soli o con altre persone) tipicamente con smartphone o webcam e condivisa sui social media (Oxford Dictionary, 2013). Tuttavia, definizioni più recenti sottolineano il ruolo del fotografo nell’immagine, in quanto il comportamento dei selfie rappresenta un fenomeno sfumato e complesso che comprende azioni multiple, tra cui lo scatto (come la preparazione e la posa), la modifica (come l’editing e il filtraggio) e la pubblicazione sui social network (Lim, 2016).

Recentemente sono stati indagati i possibili meccanismi che sottostanno al comportamento dei selfie, tra cui la ricerca di attenzione, l’appartenenza, la pressione sociale, la documentazione, la conservazione di momenti speciali e la creatività (Boursier et al., 2020). In particolare, però, alla base del selfie-taking, si possono individuare due motivazioni comuni principali: l’autopresentazione e il bisogno di appartenenza (Nadkarni & Hofmann, 2012). La condivisione di selfie sui siti di social networking sembra migliorare la propria autostima e il proprio stato d’animo attraverso l’apprezzamento dei pari e sembra essere particolarmente legata alla creazione di una propria identità e alla costruzione di relazioni (Boursier & Manna, 2018). Tuttavia, ricerche recenti hanno evidenziato non solo aspetti positivi del fenomeno dei selfie, ma anche diversi aspetti negativi che vanno ad influire sul benessere degli adolescenti (Boursier & Manna, 2018).

Il selfie intacca il benessere e la fiducia nel proprio corpo?

Il selfie, in quanto strumento di autopresentazione, può quindi essere considerato un mezzo per migliorare la propria autostima, in quanto gli adolescenti tendono a mostrare solo la parte migliore di sé (Boursier & Manna, 2018): i social network consentono agli individui di presentare il proprio sé migliore e ideale attraverso attività basate sulle foto, tra cui l’editing (Gioia et al., 2021). Tuttavia, questa crescente centralità dell’autopresentazione visiva online potrebbe aumentare anche le preoccupazioni degli adolescenti legate all’aspetto, al monitoraggio problematico e alla manipolazione delle foto (Fox & Vendemia, 2016). Di conseguenza, la manipolazione digitale delle foto e la loro pubblicazione sui social media potrebbe generare un confronto sociale con una presentazione di sé online ideale, ma non realistica (McLean et al., 2019). Questo confronto può avvenire anche tra le proprie foto e le immagini idealizzate viste sui social network, rendendo così il modo in cui il corpo appare qualcosa da controllare per soddisfare gli ideali corporei socioculturali interiorizzati ed evitare giudizi negativi da parte degli altri (Gioia et al., 2021; McLean et al., 2019).

 Inoltre, il confronto con le foto postate da coetanei potrebbe indurre gli adolescenti a sperimentare una scarsa fiducia e soddisfazione nel proprio corpo o a desiderare di cambiare la propria immagine (McLean et al., 2019). Coerentemente, un recente studio ha dimostrato esserci una correlazione tra un maggior numero di selfie scattati e un minor benessere e fiducia nel proprio corpo: gli individui con una maggiore tendenza a confrontare il proprio aspetto con quello degli altri sembrano avere un maggior rischio di subire quelli che sono gli effetti negativi del selfie (Chang et al., 2019). In particolare, un fattore che sembra influire molto sulla soddisfazione e il benessere relativo al proprio aspetto fisico è il riconoscimento e il feedback da parte dei coetanei ai propri selfie pubblicati sui social network che può, conseguentemente, andare a motivare l’impegno e il tempo dedicato allo scattare ed editare i selfie (McLean et al., 2019).

A conferma di ciò, anche lo studio condotto da Gioia e colleghi nel 2020 dimostra una forte associazione tra la vergogna del corpo e il controllo dell’immagine corporea in ambienti online e offline: gli adolescenti che si vergognano del proprio corpo, poiché riscontrano una discrepanza tra la loro immagine corporea reale e gli standard culturalmente promossi, sembrano ricorrere attivamente a strategie volte a controllare la propria immagine corporea nelle foto (Gioia et al., 2020).

Conclusioni

In conclusione, si può dedurre che potrebbe esserci un’influenza reciproca tra l’uso dei social media e la soddisfazione sulla propria immagine corporea (Gioia et al., 2021; McLean et al., 2019), ma allo stesso tempo, secondo la letteratura citata, sembrano essere pochi gli studi che hanno esplorato la soddisfazione per il proprio aspetto fisico, in particolare per il volto, in relazione al comportamento del selfie.

Proprio per la mancanza di risposte ad alcuni interrogativi e la scarsa comprensione degli effetti che il selfie e i social network possono avere sugli adolescenti, il dipartimento di Milano della Sigmund Freud University e la Facoltà di Psicologia dell’Università Vita Salute San Raffaele hanno dato vita al progetto SatisFACE, che ha l’obiettivo di indagare la percezione e la relazione con l’immagine di sé nell’era digitale, concentrandosi sul volto nell’esaminare l’entità e l’impatto del fenomeno del selfie-editing negli adolescenti. Questo progetto prevede la somministrazione di un questionario alle classi terze della Scuola Secondaria di Primo Grado e a tutte le classi della Scuola Secondaria di Secondo Grado interessate a partecipare. La finalità di questo progetto è sia conoscitiva, ovvero acquisire informazioni sui comportamenti target negli adolescenti, sia formativa, ossia aumentare la consapevolezza nell’uso delle tecnologie digitali e la promozione del benessere digitale.

Perché l’intelligenza umana batte ancora gli algoritmi (2023) – Recensione

L’argomento del volume “Perché l’intelligenza umana batte ancora gli algoritmi” è di grandissima attualità. Ce ne accorgiamo o meno, aspetti sempre più rilevanti della nostra vita sono controllati da computer, algoritmi e intelligenza artificiale.

Il tema del libro

 Sempre di più, tantissime funzioni svolte da noi saranno in un prossimo futuro gestite in nostra vece da macchine che, in linea teorica, saranno in grado di evitare gli errori umani. Ancora, macchine sempre più sofisticate sono in grado di produrre dialoghi e conversare in modo da risultare indistinguibili da un essere umano. Anche la produzione di testi può essere affidata a computer con memorie-dati prodigiose e in possesso di regole sintattiche raffinate, che possono sostituirsi a scrittori e saggisti. Ma sarà davvero così? Ed è ovvio che la vita affidata all’intelligenza artificiale (IA) che, comunque, da qualcuno sarà gestita, pone clamorosi interrogativi etici, politici ed economici. Come conservare sufficienti gradi di libertà nei confronti di algoritmi che conoscono tutto di noi? I nostri spostamenti, i nostri gusti, i nostri acquisti?

Si confrontano sul tema due posizioni estreme. Da un lato c’è chi è convinto (talvolta, perché ha interessi in gioco in tal senso) che affidarsi alle macchine e all’intelligenza artificiale porterà un sensibile miglioramento alle nostre vite, dall’altro c’è chi pensa preoccupato ai rischi di controllo e di possibile riduzione delle libertà individuali e collettive in un mondo sotto controllo orwelliano. Inoltre, tra gli apocalittici, c’è chi teme che il progresso tecnologico possa farci perdere abilità essenziali: con la calcolatrice abbiamo smesso di fare i conti a mente, con il Gps si riduce il senso dell’orientamento, con ChatGpt potremmo perdere abilità cognitive più sofisticate, fino all’estremo, con l’incapacità di produrre frasi di senso compiuto, a cui penserebbe l’intelligenza artificiale. Inoltre, l’evoluzione delle macchine pensanti, capaci di auto correggersi e di imparare dall’esperienza, comporta domande affascinanti: cosa è esattamente la coscienza e dove va situata? Cosa è un pensiero?

Il libro è un’utile raccolta di informazioni, ricco di esempi pratici che spaziano in ambiti diversi della vita quotidiana, tanto che  i diversi capitoli rischiano di essere un po’ scollegati tra loro. Gli argomenti trattati sono disparati e anche apparentemente banali. Ad esempio, il primo capitolo si occupa di verificare se gli algoritmi e l’intelligenza artificiale possono aiutarci in uno dei più complessi problemi umani, ovvero la ricerca dell’anima gemella. Si rivolge al grande pubblico, fornisce un’utile panoramica a chi vuole approcciare queste tematiche, mentre chi è più esperto di intelligenza artificiale e di tecnologie digitali probabilmente si orienterà verso testi più tecnici. L’autore afferma che lo scopo del volume è dotare le persone di una conoscenza realistica di ciò che l’intelligenza artificiale può darci e nel contempo di come possa essere utilizzata per influenzare le nostre scelte, da quelle commerciali a quelle di carattere politico. Egli prova ad assumere una posizione equilibrata, rifuggendo dal panico tecnofobico, nella consapevolezza che il progresso tecnologico è comunque inarrestabile e confidando nella capacità critica dell’essere umano.

Intelligenza umana e algoritmi

 Proprio perché gli algoritmi saranno sempre più presenti, Gigerenzer ribadisce l’importanza del discernimento umano, che deve ampliarsi per fronteggiare in modo attivo un mondo complesso e automatizzato. Affidarsi in modo acritico agli algoritmi complessi, laddove le scelte riguardano la vita delle persone, conduce a illusioni di certezza che sono una precondizione perfetta per un disastro. La tesi di fondo è che l’intelligenza artificiale, basata su una raccolta di dati sempre più imponente, può effettivamente sconfiggere l’intelligenza umana in una serie di problemi “del mondo stabile” (come ad esempio giocare a scacchi, dove effettivamente la velocità di calcolo delle possibili variabili è decisiva). L’intelligenza umana invece è abituata a gestire anche le situazioni di incertezza, laddove la soluzione giusta non è influenzata soltanto da calcoli statistici riguardanti le migliori soluzioni già adottate in passato. O, per fare un esempio, le macchine sono state in grado di predire con esattezza, anche a distanza di anni, il luogo dove una sonda spaziale sarebbe atterrata, perché si dispone di informazioni affidabili sul movimento dei pianeti, sulla velocità costante della sonda e sono noti altri dati astronomici. Al contrario, quando si tratta di predire il comportamento di un singolo essere umano, i fattori in gioco sono troppi e il risultato può essere imprevedibile. Così, la guida automatica di un’auto è oggi possibile in un ambiente stabile, ma diventa più difficile laddove le variabili (da quelle meteorologiche a quelle legate all’imprevedibilità degli altri guidatori umani) aumentano e paradossalmente risulta più facile, come già avviene oggi, far guidare in automatico un aeroplano.

Per il futuro, si ipotizza che cambieranno le nostre strade e il concetto di città per favorire l’uso di veicoli che non necessiteranno della guida umana. In pratica, i big Data si basano sempre sul passato e, quindi, sono utili a predire il futuro se esso si basa su risposte già messe in pratica, mentre, se il futuro non sarà come il passato, gli algoritmi rischiano di essere fuorvianti. Personalmente, ho trovato particolarmente interessanti le pagine dedicate alle fake-news e alle tecniche utilizzate per far apparire convincenti messaggi promozionali, talvolta persino fraudolenti.

L’autore

L’autore del libro, scienziato cognitivo nato in Baviera nel 1947, è un’autorità indiscussa nel suo campo. Ha insegnato in numerose università, tra cui l’Università di Chicago, l’Università della Virginia e attualmente dirige dal 1997 il Max Planck Institute for Human Development e dal 2009 l’Harding Center for Risk Literacy, entrambi di Berlino. Ha ricevuto tre lauree honoris-causa in università europee e numerosi premi e riconoscimenti. I suoi campi di ricerca comprendono l’uso della razionalità limitata e i procedimenti euristici con cui l’uomo giunge ad assumere decisioni in un tempo ridotto e con conoscenze parziali; le strategie per affrontare l’incertezza e i rischi in diversi ambiti; le differenza tra mente umana e sistemi di intelligenza artificiale. I suoi studi passati più noti hanno dimostrato come, identificando situazioni in cui “less is more”, l’euristica assume decisioni più accurate con meno sforzo. Ciò contraddice la visione tradizionale secondo cui più informazioni sono sempre migliori o almeno non possono mai nuocere se sono gratuite. Critico del lavoro del Premio Nobel Kahneman e Tversky, egli sostiene che l’euristica non dovrebbe portarci a concepire il pensiero umano come pieno di pregiudizi cognitivi irrazionali, ma piuttosto a concepire la razionalità come uno strumento adattivo che non è identico alle regole della logica o al calcolo delle probabilità; Gigerenzer e i suoi collaboratori hanno dimostrato teoricamente e sperimentalmente come molti errori cognitivi possano essere meglio compresi come risposte adattive a un mondo di incertezza.

Tre modi per ristrutturare i pensieri: logico-empirico, pragmatico e costruttivista

Il lavoro di Moorey (2023) ha lo scopo di analizzare le basi epistemologiche dei diversi interventi cognitivi per aiutare i terapeuti a scegliere di volta in volta quale tecnica adottare. Sono approfonditi i tre principali approcci epistemologici attraverso cui la tradizione cognitivo-comportamentale mette in atto la ristrutturazione delle credenze dei pazienti: logico-empirico, pragmatico e costruttivista.

La ristrutturazione cognitiva

Aiutare i pazienti a cambiare la prospettiva con cui vedono il mondo è un processo centrale nelle terapie di tipo cognitivo-comportamentale: con l’aiuto dello psicoterapeuta le persone arrivano a comprendere che, in qualche misura, le loro convinzioni sono false o inutili. Anche se la letteratura clinica si è spesa molto riguardo a questo tema, poco si è approfondito delle teorie della conoscenza che sottostanno agli interventi di ristrutturazione cognitiva. Le diverse scuole cognitivo-comportamentali assumono prospettive epistemologiche diverse nei criteri con cui valutano i pensieri dei pazienti come adattivi o maladattivi; analizzarle e comprenderle, secondo Moorey (2023), potrebbe essere d’aiuto ai terapeuti nella scelta della tecnica di volta in volta più adatta.

Gli stili epistemici

È possibile distinguere tre principali modi di conoscere la realtà o “stili epistemici” che sembrano essere associati al tipo di tecniche che i terapeuti utilizzano (Lee et al., 2013; Toska et al., 2010):

Logico-empirico: “La verità è là fuori”

Lo stile epistemico logico-empirico (ndr: rational-empiricist nel paper originale) implica il relazionarsi con il mondo attraverso le proprie capacità analitiche e secondo i propri sensi. Le credenze, pertanto, vengono valutate per la loro consistenza logica e la loro evidenza empirica (Royce, 1964). Secondo Lyddon (1991), l’approccio logico sarebbe proprio della Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (REBT) di Ellis e l’approccio empirico corrisponderebbe alla Terapia Cognitiva-Comportamentale (CBT) di Beck. Per entrambe le scuole di pensiero esisterebbe un concetto di verità oggettiva, in virtù del quale la logica e l’evidenza sono i metri di paragone per stabilire la validità di un pensiero. Per aiutare le persone a cambiare idea, la scoperta guidata alle proprie convinzioni attraverso il metodo socratico sarebbe l’ideale: con una serie di domande mirate, quest’ultimo cercherebbe di estrarre il significato idiosincratico del paziente rispetto a una situazione per esaminare le prove a favore e contro il pensiero, oltre che eventuali errori logici (Padesky, 1993). Successivamente, alcuni esperimenti comportamentali rinforzerebbero il cambiamento cognitivo.

Pragmatico: “La verità è ciò che funziona”

Lo stile epistemico pragmatico implica il relazionarsi con il mondo attraverso la dimensione dell’utilità: anche se alcuni pensieri automatici negativi possono essere veri, cioè compatibili con la realtà, non per forza sono anche utili per il nostro benessere psicofisico. Se la verità è dunque rilevante solo nella misura in cui aiuta ad affrontare le cose, le credenze possono cambiare nel momento in cui il paziente scopre la loro inutilità, soprattutto attraverso gli esperimenti comportamentali. Tecnicamente, l’approccio pragmatico valuta i costi e i benefici in relazione a ciascun pensiero o comportamento inutile o dannoso.

Costruttivista: “La verità dipende da me”

 Lo stile costruttivista implica il relazionarsi con il mondo attraverso l’esperienza simbolica: le credenze, pertanto, vengono valutate in base a un ragionamento analogico finalizzato alla costruzione e alla trasformazione dei significati della persona. Secondo Lyddon (1991), questo approccio sarebbe proprio della terapia cognitivo-costruttivista. Teoricamente, questa adotterebbe una visione della cognizione e dell’organismo proattiva (al contrario della tradizionale CBT reattiva), che promuove un modello di sistema complesso in cui pensiero, sentimento e comportamento sono espressioni interdipendenti dell’evoluzione delle interazioni tra il sé e i sistemi sociali lungo tutta la vita (Mahoney, 1991). Tecnicamente, tale terapia sarebbe meno strutturata, focalizzata sul problema e orientata all’obiettivo rispetto alla CBT tradizionale. Il suo scopo, infatti, sarebbe quello di facilitare la creazione di nuovi significati per il paziente, dando particolare interesse alla sua individualità e identità (Mahoney, 1991; Guidano, 1995). Coerentemente, i metodi che aiuterebbero a cambiare prospettiva di pensiero sul mondo sono più esperienziali e focalizzati sulle emozioni. Del resto, se la verità dipende dal punto di vista da cui si guarda il mondo, in terapia non sarebbe utile sfidare direttamente i pensieri, ma piuttosto aprire a nuove possibilità di visione della realtà.

Conclusioni

Quando usiamo la scoperta guidata per aiutare qualcuno a valutare i propri pensieri, lo stiamo invitando a cambiare prospettiva. Raramente, però, pensiamo al criterio che chiediamo loro di applicare per stabilire la validità dei pensieri. Alcune tecniche cognitive sono empiriche o razionali nelle loro assunzioni sulla verità, altre sono più pragmatiche e fanno riferimento all’utilità dei pensieri e altre ancora lavorano partendo dal presupposto che la conoscenza dipende dalla posizione in cui ci troviamo. Essere consapevoli di questi tre modi di invitare al cambiamento può dare ai terapeuti flessibilità nella scelta degli interventi, soprattutto ai professionisti più giovani che possono così sfuggire alla camicia di forza di pensare che confutare un pensiero sia l’unica forma di ristrutturazione cognitiva. D’altronde, uno dei motivi per cui alcune persone non rispondono a particolari tecniche potrebbe essere quello di non essere adatti a un modello empirico e più compatibili con uno stile epistemico costruttivista o viceversa.

Cervello e disturbi dissociativi dell’identità (DDI)

Il disturbo dissociativo dell’identità (DDI) è un disturbo mentale caratterizzato da una perdita di integrità e coerenza dell’identità personale e una alterazione della memoria autobiografica.

Il disturbo dissociativo dell’identità

 Il disturbo dissociativo dell’identità è stato oggetto di studio per decenni, ma la comprensione delle cause sottostanti e del suo meccanismo di sviluppo rimane ancora incompleta. Negli ultimi anni, ci sono state molte ricerche che hanno cercato di mettere in relazione il funzionamento cerebrale con il disturbo dissociativo dell’identità, con l’obiettivo di comprenderlo meglio e sviluppare nuove strategie terapeutiche.

Recenti studi neurobiologici hanno mostrato che il disturbo dissociativo dell’identità è associato a disfunzioni nei sistemi di regolazione emozionale e nei circuiti neurali che supportano la memoria autobiografica. Ad esempio, alcuni studi hanno dimostrato che i pazienti con disturbo dissociativo dell’identità hanno una minore attività nell’amigdala, una regione del cervello che è importante per la regolazione delle emozioni e la memoria emotiva. Inoltre, sono stati osservati deficit nei circuiti neurali che supportano la coerenza dell’identità personale, come il sistema di memoria episodica e il sistema di riconoscimento facciale.

Gli studi sul disturbo dissociativo dell’identità

Uno studio pubblicato nel 2012 (Schoenle et al., 2012) ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esplorare il funzionamento cerebrale dei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità durante la percezione di immagini emotigene. Gli autori hanno scoperto che i pazienti con disturbo dissociativo dell’identità avevano una minore attività nell’amigdala rispetto ai controlli sani, e che questa disfunzione era associata a una maggiore incidenza di dissociazione durante la percezione di immagini emotigene. Questi risultati suggeriscono che la disfunzione nei sistemi di regolazione emozionale potrebbe essere un fattore chiave nello sviluppo del disturbo dissociativo dell’identità.

 Un altro studio pubblicato nel 2015 (Baker et al., 2015) ha utilizzato la tomografia ad emissione di positroni (PET) per esplorare la funzione cerebrale dei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità durante l’utilizzo della memoria autobiografica. Gli autori hanno scoperto che i pazienti con disturbo dissociativo dell’identità avevano una minore attività nella corteccia prefrontale mediale, una regione del cervello che è importante per la memoria autobiografica e la coerenza dell’identità personale. Inoltre, i pazienti con disturbo dissociativo dell’identità hanno mostrato una disfunzione nei circuiti neurali che supportano la memoria episodica, che è una forma di memoria che ci aiuta a ricordare eventi specifici e personali.

Questi risultati suggeriscono che i deficit nei sistemi di memoria possono essere un fattore importante nello sviluppo del disturbo dissociativo dell’identità.

Prospettive future

In futuro, sarà importante continuare a esplorare il funzionamento cerebrale dei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità per comprendere meglio questo disturbo e sviluppare nuove strategie terapeutiche. Ad esempio, sarà importante condurre ulteriori ricerche sulla relazione tra il disturbo dissociativo dell’identità e la regolazione emotiva, la memoria autobiografica e la coerenza dell’identità personale, al fine di comprendere meglio come questi sistemi siano compromessi nei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità.

Inoltre, sarà importante valutare l’effetto di terapie psicologiche e farmacologiche sulla funzione cerebrale dei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità. Ad esempio, sarà interessante esplorare se le terapie psicologiche, come la terapia psicodinamica o la terapia cognitivo-comportamentale, possono aumentare l’attività nei circuiti neurali che supportano la memoria autobiografica e la coerenza dell’identità personale nei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità.

In conclusione, recenti studi hanno fornito prove solide del fatto che il disturbo dissociativo dell’identità è associato a disfunzioni nei sistemi di regolazione emozionale e nei circuiti neurali che supportano la memoria autobiografica e la coerenza dell’identità personale. Questi risultati forniscono una base solida per ulteriori ricerche sulle cause sottostanti il disturbo dissociativo dell’identità e per lo sviluppo di nuove strategie terapeutiche.

 

Diventare Madre (2022) di Monique Bydlowski – Recensione

“Diventare madre” di Monique Bydlowski è un libro complesso che esplora le esperienze connesse alla maternità.

 L’autrice, psichiatra e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, indaga la maternità attraverso una lente psicologica, guidandoci attraverso ogni fase del processo, dal concepimento in poi.

Non si tratta propriamente di un testo di natura pratica, finalizzato ad offrire, come altri manuali in circolazione, suggerimenti utili su come affrontare le sfide che possono sorgere durante la maternità (sonno del neonato, allattamento al seno, difficoltà nel rapporto con il partner dopo l’arrivo di un bambino etc.).

Il libro prende in analisi l’esperienza interiore della madre come individuo, e non solo come genitore. Bydlowski, basandosi sui colloqui effettuati e sui dati raccolti durante la sua lunga esperienza professionale all’interno dei reparti di maternità, esplora il modo in cui diventare madre può cambiare l’identità e la vita di una donna, e come la società spesso mette sotto pressione le madri per indurle a conformarsi a determinati standard.

L’esperienza della maternità viene inserita in un quadro più ampio, con approfondimenti anche sull’infertilità, sugli aborti spontanei, sull’interruzione volontaria di gravidanza, sulla fecondazione assistita e sulla maternità surrogata tramite utero in affitto, prendendo in esame le dinamiche psicologiche, coscienti e non, sottese a questi temi.

 Viene posto l’accento sulla necessità di promuovere la salute mentale delle madri, evitando di pensare che diventare madre si riduca a seguire un istinto materno innato. Bydlowski riconosce che la maternità può essere un’esperienza emotivamente intensa e stressante, e fornisce spunti di riflessioni che aiutano a comprendere problematiche come, ad esempio, la depressione post-partum.

L’autrice affronta con coraggio e sincerità il tema della maternità, analizzandolo in tutti i suoi aspetti, dalle aspettative che essa suscita alla realtà del suo vissuto, passando per le paure, le gioie e le difficoltà che ne derivano.

L’esperienza del diventare madre viene indagata anche nei suoi lati più complessi e conflittuali, in modo da riconoscere l’ambivalenza delle emozioni da cui è contraddistinta. In questo quadro viene dato ampio spazio alle paure, alla maternità non voluta e rifiutata, a livello cosciente e al di sotto della consapevolezza.

Il libro approfondisce, in uno dei capitoli, anche il tema scomodo e doloroso dell’infanticidio, proprio nell’ottica di esplorare la maternità anche nei suoi lati più “oscuri”, senza volerne a tutti i costi fornire una narrazione stereotipata ed edulcorata.

Ciò che emerge dal libro è la consapevolezza che, di fronte alla maternità, come di fronte alla vita stessa, non esistono risposte univoche o universali, ma solo la necessità di affrontare le proprie paure e le proprie fragilità, per riscoprire la propria forza interiore e il proprio senso di integrità interiore di fronte ad un’esperienza che può essere, al tempo stesso, profondamente entusiasmante e destabilizzante.

In conclusione, “Diventare Madre” è un libro che permette di approcciare il tema della maternità andando oltre gli stereotipi e i cliché cui, troppo spesso, viene associato.

La realtà virtuale nella valutazione e nel trattamento del Disturbo da Uso di Alcol 

Nell’applicazione clinica della cue-exposure therapy per il disturbo da uso di alcol sono stati riscontrati risultati incoerenti, pertanto alcune ricerche stanno sperimentando l’uso della realtà virtuale.

 Negli ultimi anni si sta assistendo ad un aumento di studi che si occupano di indagare le possibili applicazioni della realtà virtuale nei disturbi di carattere psicologico: disturbi d’ansia come la fobia sociale, bulimia nervosa e binge eating disorder, anoressia nervosa e anche nei disturbi da uso di sostanze.

Disturbo da uso di alcol

Il Disturbo da Uso di Alcol rientra, secondo il DSM-5 (Diagnostic and statistical manual of mental disorders; APA, 2013), all’interno della categoria diagnostica dei Disturbi da Uso di Sostanze, e consiste in una modalità patologica di consumo della sostanza che conduce a disagio o compromissione clinicamente significativi. Una condizione che caratterizza le persone affette da questo disturbo è il craving, ovvero un fenomeno multidimensionale che comporta un intenso bisogno di consumare la sostanza ed è percepito come un’esperienza individuale di “desiderio” dell’alcol che può provocare pattern comportamentali di motivazione e di ricerca della sostanza (Van Lier et al., 2018), un impulso impetuoso a consumare la sostanza (Hartwell & Ray, 2017).

Il craving è uno dei meccanismi principali nel disturbo da uso di alcol, poiché ha implicazioni cliniche nello sviluppo della psicopatologia e nel mantenimento del disturbo (Hernández-Serrano et al., 2020) ed è considerato uno dei principali fattori che promuovono la ricaduta dopo la dimissione dal trattamento (Sliedrecht et al., 2019, anche dopo un periodo prolungato di astinenza. Per queste ragioni in letteratura si trovano diversi approcci di trattamento psicologico che si occupano di esplorare il desiderio all’alcol, e tra questi troviamo il paradigma cue-exposure (Mellentin et al., 2017).

Terapia di esposizione (CET, cue-exposure therapy)

La cue-exposure therapy (CET; in italiano “terapia di esposizione allo stimolo”) è nota anche come Exposure and Response Prevention (ERP; in italiano, esposizione e prevenzione della risposta) e comporta un’esposizione ripetuta e prolungata a stimoli correlati all’alcol senza che gli individui possano mettere in atto alcun comportamento alcolico (Hernández-Serrano et al., 2020). Sulla base dei principi del condizionamento classico, alcuni stimoli legati all’alcol diventano trigger, o “altamente sensibili”, per le persone che hanno un disturbo di uso di alcol, in seguito al consumo sistematico e ripetitivo della sostanza accompagnato da proprietà positive e gratificanti dell’uso di alcol (Hernández-Serrano et al., 2020). Secondo questo approccio si ipotizza che tale esposizione ripetitiva e sistematica possa portare ad una riduzione delle risposte psicofisiologiche agli stimoli correlati all’alcol con l’obiettivo ultimo di estinguere le risposte/reazioni inizialmente condizionate agli stimoli alcolici, come il craving (Mellentin et al., 2016).

 Tuttavia, nell’applicazione clinica della cue-exposure therapy per il disturbo da uso di alcol sono stati riscontrati risultati incoerenti, in particolare uno dei maggiori limiti dell’approccio consiste nella difficoltà di generalizzazione gli effetti della terapia nelle situazioni della vita quotidiana (Mellentin et al., 2017). Questo limite è riconducibile al fatto che le sessioni di esposizione in vivo avvengono all’interno di un setting terapeutico, inevitabilmente differente dal luogo dove solitamente emerge il craving, e prevedono l’esposizione ad un solo stimolo alla volta e ciò non rispecchia quello che avviene nella quotidianità (Mellentin et al., 2017). In virtù di questo limite, la cue-exposure therapy si è evoluta attraverso lo sviluppo di approcci terapeutici più esaustivi che possano beneficiare della realtà virtuale (VR; Ghiţă & Gutiérrez-Maldonado, 2018).

Terapia di esposizione in Realtà Virtuale per il disturbo da uso di alcol

La realtà virtuale è una tecnologia che permette di creare ambienti virtuali dove il soggetto interagisce in tempo reale e vive un’esperienza completamente immersiva, grazie a una vasta gamma di stimoli (Ghiţă & Gutiérrez-Maldonado, 2018). Infatti, per ottenere un buon livello di immersione è importante che siano presenti stimoli sensoriali multipli (uditivi, olfattivi, visivi e tattili) poiché questo fa sì che l’esperienza virtuale si avvicini sempre di più a quella reale e che i pazienti possano sperimentare un maggior “senso di presenza”, ovvero la percezione soggettiva di “essere dentro” l’ambiente virtuale (Simon et al., 2020).

Di conseguenza, i soggetti possono generalizzare meglio gli effetti della terapia di esposizione e le strategie di coping apprese in virtù della somiglianza tra ambiente virtuale e situazioni di vita quotidiana (Ghiţă & Gutiérrez-Maldonado, 2018).

Nel disturbo da uso di alcol la realtà virtuale è stata utilizzata sia come strumento di valutazione, per suscitare il craving, sia come strumento di terapia di esposizione, per ridurre l’intensità del craving (Ghiţă & Gutiérrez-Maldonado, 2018). Ghiţă e colleghi (2021) hanno svolto un case study sull’applicazione di un protocollo che prevedeva esposizione in realtà virtuale con un soggetto con diagnosi di disturbo da uso di alcol di livello grave. L’ambiente virtuale è stato creato sulla base di risultati di studi precedenti in cui sono stati individuati gli stimoli scatenanti correlati all’alcol (es: bevande alcoliche preferite) e i contesti significativi per l’attivazione del craving (per esempio: ristorante, bar, pub, ambienti domestici) in un campione di pazienti con diagnosi di disturbo da uso di alcol (Ghiţă et al., 2019). Per quanto riguarda l’efficacia del protocollo nel suscitare il craving gli autori hanno ottenuto risultati positivi in quanto, attraverso valutazioni self-report, hanno osservato che il paziente stava sperimentando un costante e intenso desiderio di alcol soprattutto in presenza di stimoli correlati all’alcol (Ghiţă et al., 2021). Dal punto di vista del trattamento, hanno ottenuto risultati altrettanto promettenti in quanto nella valutazione successiva alle sessioni di realtà virtuale è stata riscontrata una riduzione dei sintomi del disturbo da uso di alcol e del desiderio di bere, ovvero del craving.

In conclusione, si potrebbe affermare che l’esposizione in realtà virtuale per il disturbo da uso di alcol sia un’alternativa funzionale all’esposizione in vivo (Lebiecka et al., 2021) e, inoltre, permette una maggiore possibilità di generalizzazione al contesto di vita quotidiana e la possibilità di esporre il paziente a più stimoli contemporaneamente (Ghiţă & Gutiérrez-Maldonado, 2018).

L’efficacia dei trattamenti psicologici: alcune osservazioni

Ringraziamo Franco Del Corno, Vittorio Lingiardi e Paolo Migone che il 9 aprile 2023 sul Sole 24 Ore hanno risposto all’intervento di Gilberto Corbellini del 29 febbraio ribadendo l’efficacia delle psicoterapie: “esistono ormai prove incontrovertibili che per l’ansia e la depressione la psicoterapia in media è efficace e, in alcuni casi – anche se la contrapposizione è insensata – più dei farmaci”.

Inoltre, scrivono giustamente i tre colleghi, “la psicoterapia sembra essere efficace quanto le farmacoterapie a breve termine, ma più efficace a lungo termine. È questo dato del miglioramento a lungo termine che ci sembra particolarmente interessante, perché significa una minor incidenza di ricadute”. In particolare, Del Corno, Lingiardi e Migone hanno citato i dati della recente meta-analisi del 14 gennaio 2023 pubblicata su World Psychiatry di Pim Cuijpers “Cognitive behavior therapy vs. control conditions, other psychotherapies, pharmacotherapies and combined treatment for depression: a comprehensive meta-analysis including 409 trials with 52,702 patients”

L’intervento di Del Corno, Lingiardi e Migone è ulteriormente meritevole in quanto si domanda anche perché, con questi dati, si continui a “contrapporre l’approccio biologico alla psicoterapia, a volte addirittura svalutandola” quando invece è chiaro che “la psicoterapia sembra essere efficace quanto le farmacoterapie a breve termine, ma più efficace a lungo termine”. Nonostante questo, “dati come questi vengono ignorati dalla maggioranza dei medici e degli amministratori della salute mentale. Il trattamento principale è sempre quello farmacologico”. Invece sarebbe giusto investire sulla psicoterapia perché determina miglioramenti più stabili nel tempo e, come scrivono Del Corno, Lingiardi e Migone “è questo dato del miglioramento a lungo termine che ci sembra particolarmente interessante, perché significa una minor incidenza di ricadute”.

A nostra volta noi confermiamo tutto quello che scrivono i nostri tre colleghi e ringraziamo il loro sforzo a favore della psicoterapia. Ci permettiamo di aggiungere una sola notazione forse pignola che non vuole essere una critica. Del Corno, Lingiardi e Migone scrivono che il lavoro di Pim Cuijpers, dopo aver passato in rassegna ben 409 studi sulla terapia della depressione, per un totale di 52.702 pazienti, giunge alla conclusione che «è documentato che la terapia cognitivo-comportamentale per la depressione è efficace nelle sue diverse formulazioni e per differenti età, tipologie di pazienti e contesti. Tuttavia, da questa meta-analisi non emerge con evidenza una superiorità della CBT rispetto ad altre psicoterapie per la depressione»

Del Corno Lingiardi Migone - 2023-04-09 ilSole24Ore
Del Corno F., Lingiardi V., Migone P. (2023) “Una psicoterapia lunga ed efficace”. Il Sole 24 Ore, edizione del 9 aprile

Un commento all’articolo

È a quel “tuttavia” che vorremmo aggiungere un commento. Il lavoro di Cuijpers a favore delle psicoterapie si basa soprattutto sulla terapia cognitivo-comportamentale, che è il trattamento psicologico che mostra di gran lunga il maggior numero di dati a favore. Nel lavoro di Cuijpers, su 409 studi ben 271 sono dedicati alla terapia cognitivo-comportamentale che si dimostra più efficace dei trattamenti non psicologici. Quindi il dato a favore delle psicoterapie è soprattutto un dato a favore della terapia cognitivo-comportamentale. E le altre psicoterapie? Cuijpers cita altri 87 studi che hanno confrontato terapia cognitivo-comportamentale e altre psicoterapie. Il risultato è che la terapia cognitivo-comportamentale risulta leggermente superiore alle altre psicoterapie ma che questa superiorità non è più statisticamente significativa se prendiamo in considerazione solo i dati più rigorosi e più affidabili.

Questo dato pone varie questioni da discutere. La prima è che la psicoterapia cognitivo-comportamentale deve prendere atto di un parziale ridimensionamento della sua superiorità nel trattamento della depressione, superiorità che per anni è stata data per scontata e che era fondata sul fatto che questa psicoterapia era l’unica la cui efficacia fosse messa alla prova empiricamente. Ora, in base ai primi confronti, questa superiorità si ridimensiona, diventa solo leggera e scompare se prendiamo in esame i dati più rigorosi. Questo dato ci dice che la terapia cognitivo-comportamentale non può limitarsi a vantare i suoi pregi ma deve affrontare nuove sfide, dopo avere vinto quella di prima psicoterapia di provata efficacia.

La seconda è la natura di questo avvicinamento degli altri trattamenti alla terapia cognitivo-comportamentale. Anche gli altri trattamenti devono affrontare alcuni limiti del loro successo. Ci sono varie osservazioni che si possono avanzare. La prima è che è la terapia cognitivo-comportamentale stessa che si fa carico del confronto, organizzando o partecipando alla realizzazione degli 87 studi di confronto. La terapia cognitivo-comportamentale rimane quindi all’avanguardia dello sforzo di analisi, quello stesso sforzo che ha permesso a tutte le psicoterapie di non poter più essere considerate trattamenti inaffidabili rispetto ai farmaci.

Il programma IAPT e la Consensus Conference in Italia

Il ruolo chiave svolto dalla terapia cognitiva comportamentale è riconosciuto dagli stessi Del Corno, Linguardi e Migone, quando scrivono che “può essere interessante segnalare (…) che nel 2022 è stato pubblicato in Italia il documento finale della «Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione», costituita con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità a partire da un convegno organizzato da Ezio Sanavio a Padova nel novembre 2016. A quel convegno era stato invitato David Clark, che aveva presentato il programma inglese Improving Access to Psychological Therapies (migliorare l’accesso alle terapie psicologiche), da lui promosso assieme a Richard Layard, docente di Economia alla London School of Economics, e poi attivato dal governo inglese nel 2008. Secondo London School of Economics, migliorando l’accesso ai trattamenti psicologici nei Servizi di salute mentale è possibile ottenere non solo un maggiore benessere per gli utenti, ma anche un guadagno per le casse dello Stato (minori assenze lavorative, maggiori entrate per l’erario, minori spese sanitarie e costi indiretti dei disturbi, etc.)”. Non c’è bisogno di aggiungere che sia la Consensus Conference italiana che il programma inglese Improving Access to Psychological Therapies sono iniziative promosse da esponenti della terapia cognitivo comportamentale come il prof. Sanavio di Padova e il prof. Clark di Oxford.

Quali sono gli altri trattamenti?

C’è poi da chiedersi quali siano questi altri trattamenti. Cuijpers confronta la terapia cognitivo-comportamentale con i seguenti trattamenti: psicoterapia supportiva, attivazione comportamentale, psicoterapia interpersonale, psicoterapia psicodinamica, psicoterapie processuali di terza onda, problem-solving e altre terapie. Osserviamo che vi sono almeno tre trattamenti che appartengono all’ombrello cognitivo-comportamentale in senso lato (attivazione comportamentale, psicoterapie processuali di terza onda e problem-solving), che la psicoterapia interpersonale promuove una ristrutturazione cognitiva consapevole di problemi interpersonali vietando una impostazione psicodinamica stretta basata su interpretazioni di relazioni transferali inconsce e che i trattamenti supportivi e altri, non sempre ben definibili, integrano in essi stessi aspetti di ristrutturazione cognitiva. Rimangono solo 7 studi che confrontano modelli davvero diversi tra loro in termini teorici come gli studi che paragonano terapia cognitivo-comportamentale e psicoterapia psicodinamica, anche se in termini clinici sappiamo che la psicoterapia psicodinamica ha mescolato all’oro della psicoanalisi il piombo delle tecniche spurie, compresi interventi di ristrutturazione cognitiva. Insomma, anche la distinzione tra terapie cognitivo comportamentali e terapie che non lo sono va ridimensionata. La componente cognitiva è diventata significativa anche in altri trattamenti.

In conclusione

Bene fanno Franco Del Corno, Vittorio Lingiardi e Paolo Migone a difendere l’efficacia della psicoterapia per i disturbi mentali contro i dubbi di Corbellini e bene anche fanno a citare, sia pure di sfuggita, che la psicoterapia efficace non è solo quella cognitiva-comportamentale. Tuttavia, a nostra volta ci riserviamo di ricordare che lo sforzo di analisi rigorosa dell’efficacia è merito dell’impostazione empirica della terapia cognitiva-comportamentale, impostazione che poi è stata accolta dagli altri paradigmi psicoterapeutici e che la possibilità di rendere misurabile l’efficacia dei trattamenti psicologici significa impostare questi trattamenti secondo linee guida tipiche della terapia cognitiva-comportamentale: interventi operazionalizzati, modelli di funzionamento della mente empiricamente controllabili, il che spesso significa l’abolizione delle variabili non verificabili, come quelle dell’inconscio profondo. A sua volta, la psicoterapia cognitiva-comportamentale sta iniziando ad assorbire dagli altri paradigmi descrizioni più dettagliate dei processi terapeutici che non consentono più di considerare la psicoterapia cognitiva-comportamentale una black-box il cui funzionamento è dato per scontato come descritto nel modello teorico ma un processo articolato che va investigato con l’osservazione diretta di ciò che accade in seduta tra terapeuta e paziente.

Quale stile genitoriale predice ansia nei figli?

La revisione di Yaffe (2021) ha evidenziato l’associazione tra stili genitoriali e lo sviluppo di ansia dei figli, soffermandosi sul ruolo di accettazione/rifiuto genitoriali, ipercontrollo e punizioni corporali.

Introduzione

 I disturbi d’ansia si riferiscono a una serie di disturbi che condividono caratteristiche come paura o apprensione eccessive.

Un’ampia letteratura si concentra sul contesto genitoriale, su vari aspetti della genitorialità e delle relazioni genitore-bambino che giocano un ruolo significativo nello sviluppo dell’ansia, sebbene l’entità di questo legame debba essere ancora chiarita (Bosmans et al., 2014; McLeod et al., 2007).

Per “stile genitoriale” si intende la modalità educativa con cui i genitori svolgono le funzioni genitoriali e, in generale, si rapportano ai propri figli. Gli stili genitoriali influenzano il clima familiare e condizionano il benessere psicologico dei figli. La revisione di Yaffe (2021) ha evidenziato l’associazione tra stili genitoriali e lo sviluppo di ansia dei figli, soprattutto per quanto riguarda il controllo eccessivo e le punizioni corporali. Bambini e adolescenti con disturbi d’ansia avevano più probabilità di essere cresciuti da genitori iperprotettivi o distaccati, i quali tendevano a mettere in atto forme di controllo eccessivo o del tutto assente.

Il legame tra rifiuto/accettazione genitoriale e ansia

Un consistente numero di ricerche si è concentrato sul legame tra rifiuto/scarsa accettazione e assenza di calore da parte dei genitori e il conseguente sviluppo di ansia nella prole (Ginsburdg  et al., 2004; McLeod et al., 2007; Wood et al., 2003). La scarsa accettazione e il calore genitoriale sono espressi tramite comportamenti di freddezza e rifiuto e sembrano influire sull’ansia dei bambini (Mattanah, 2001; Yaffe, 2018). In particolare, è emersa un’associazione tra l’accettazione/rifiuto dei genitori e sintomi di ansia sociale tra bambini e adolescenti (Weymouth & Buehler, 2018; Xu et al., 2017; Yaffe, 2018), suggerendo che il rifiuto dei genitori possa giocare un ruolo significativo nello sviluppo dell’ansia sociale nella prole, proprio perché i frequenti feedback negativi da parte dei genitori favoriscono la percezione di un mondo minaccioso e ostile; questo, a sua volta, potrebbe aumentare la percezione e le aspettative del bambino di conseguenze negative degli eventi sociali nella sua vita e, in alcune condizioni, sfociare in una grave ansia sociale (Yaffe, 2018).

È importante sottolineare la limitatezza di questi risultati, che mancano di considerare il temperamento e la predisposizione del bambino all’ansia, ovvero l’inibizione comportamentale, le quali a livello teorico sembrano interagire in varia misura con le caratteristiche genitoriali (Ollendick & Benoit, 2012).

Il legame tra controllo genitoriale e ansia

 Invece, le prove a sostegno dell’associazione tra i comportamenti di controllo dei genitori e l’ansia in bambini e adolescenti appaiono maggiormente convincenti. L’ipercontrollo genitoriale si manifesta tipicamente tramite una disciplina rigida, iper-regolazione del comportamento (cioè istruzioni su come comportarsi), iper-protezione e controllo psicologico (cioè istruzioni su come pensare e sentire; Barber, 1996; Barber et al., 2012). Tutti questi elementi possono ostacolare il progressivo e naturale sviluppo dell’autonomia da parte del bambino. L’aspetto dell’ipercontrollo è stato più volte correlato ai disturbi d’ansia della prole: questa relazione suggerisce che i bambini ansiosi hanno maggiori probabilità di essere cresciuti da genitori ipercontrollanti e meno favorevoli allo sviluppo di autonomia (Bosmans et al., 2014; Pinquart, 2017; Rose et al, 2018; Wood et al., 2003). Quindi, la mancanza di concessione dell’adeguata autonomia da parte dei genitori ostacola le opportunità del bambino di vivere adeguate esperienze di indipendenza, con conseguente carenza di senso di controllo e aumento dell’impotenza (Wood et al., 2003).

In ultimo troviamo le punizioni corporali, le quali comprendono qualsiasi tipo di misura punitiva fisica in risposta a comportamento inappropriato della prole. Tendenzialmente, le punizioni corporali possono diminuire il senso di controllo dei bambini sull’ambiente, amplificando così la loro sensibilità all’ansia (Graham & Weems, 2015). In diversi studi le punizioni corporali dei genitori sono risultate correlate positivamente con l’ansia di bambini e adolescenti (Gershoff et al, 2010; Graham & Weems, 2015; Lansford et al., 2014; Xing & Wang, 2013; Yaffe & Burg, 2014).

Cosa dico ai figli dei miei pazienti (2022) di Katia Roncoletta – Recensione

“Cosa dico ai figli dei miei pazienti” rappresenta un interessante approfondimento sulla vita dei figli di persone con dipendenze patologiche, sempre più considerate come malattie familiari.

 

 Le dipendenze patologiche, e in particolar modo la dipendenza da alcol, sono malattie dall’elevato carico familiare. A livello mondiale si stima che 237 milioni di uomini e 46 milioni di donne soffrano di disturbi legati al consumo di alcol e che questo sia aumentato esponenzialmente durante il periodo di pandemia da Covid-19.

Numerosi sono i testi scientifici o divulgativi di approfondimento del Disturbo da Uso di Alcol e del vissuto dei pazienti che ne soffrono. L’approccio della dottoressa Roncoletta in questo libro è invece innovativo: è reso centrale il punto di vista dei figli di persone con dipendenza da alcol. Spesso si tratta di giovani che sono stati adultizzati precocemente, imparando ad assumere le veci del genitore, figura da cui hanno ricevuto in alcuni momenti amore e protezione e in altri momenti stress e paura, in una fortissima confusione emotiva. In tale contesto si alimenta il disagio dei figli di alcolisti, i quali, quando non supportati adeguatamente, hanno una maggiore probabilità di sviluppare una franca psicopatologia rispetto alla popolazione generale. Tra i sintomi riscontrati più frequentemente ci sono l’ipervigilanza, l’ipercontrollo, la difficoltà nella gestione delle emozioni, la bassa autostima e altri problemi di salute fisica e mentale.

 “Cosa dico ai figli dei miei pazienti” è un manuale utile per quanti lavorano nei Servizi per le Dipendenze Patologiche ma, soprattutto, per loro, i figli di persone dipendenti, perché non si sentano soli, ma possano anzi trovare un aiuto competente. Interessante in questo senso la testimonianza di R, 20 anni: “finché non se ne parla, forse, il problema non esiste davvero, sembrava aleggiare nell’aria”. In questo libro si parla apertamente e si invitano i figli di persone con dipendenza da alcol a condividere il proprio vissuto affinché, una volta elaborato, non si ritrovino a viverlo successivamente in prima persona e non tendano a scegliere un partner con dipendenze, andando ad instaurare relazioni di codipendenza.

 

L’esperienza dell’adozione nei bambini istituzionalizzati: i correlati neurobiologici

Grazie a uno studio condotto a partire dal 2001 da un gruppo di ricercatori dell’Ospedale dei bambini di Boston della Harvard Medical School, è stato possibile documentare e analizzare le alterazioni che si producono nei circuiti cerebrali di bambini istituzionalizzati negli orfanotrofi di Bucarest.

Introduzione

 L’infanzia rappresenta un periodo di grande importanza, durante il quale alcune funzioni come la comunicazione e l’acquisizione delle capacità di autoregolazione emotiva, riflettono uno dei processi fondamentali di sviluppo. Infatti attraverso la comunicazione visuo-spaziale, uditivo-prosodica e tattile-gestuale, sia il caregiver che il bambino imparano reciprocamente ad apprendere la struttura ritmica dell’altro (Papousek, 1995). Un vero e proprio scambio traducibile in un processo di co-creazione, che dà vita sia ad una interazione reciproca che ad un processo di adattamento sempre più graduale. Proprio attraverso le comunicazioni affettive, (come il contatto fisico), la madre si sintonizza psicologicamente con il bambino (Kohut, 1971). Non solo valuta le espressioni non verbali degli stati di attivazione interna, ma anche gli stati affettivi del bambino stesso, che verranno regolati e soprattutto ricambiati. Tuttavia questo scambio non sempre risulta fluido e lineare, e la rottura dei legami di attaccamento può provocare una disfunzione inerente sia le capacità di autoregolazione sia l’omeostasi dell’organismo (Tronick, 1989).

Da una prospettiva psicobiologica l’attaccamento è stato definito da Schore (2000), come “regolazione interattiva degli stati di sincronicità di tipo biologica”. Grazie ad essa è dunque possibile notare e comprendere come la sincronizzazione affettiva e la riparazione interattiva, nonché co-costruttiva, siano i capisaldi che costituiscono le basi dell’attaccamento e delle emozioni connesse ad esso (Oliverio, 2002). Le prime relazioni rappresentano infatti il punto centrale in grado di favorire un sano e adattivo sviluppo del bambino, sotto due importanti profili: quello cognitivo e quello affettivo. Nondimeno, nel loro insieme, consentono la fioritura di alcune funzioni psichiche come ad esempio il senso di Sé, l’autoconsapevolezza, le strategie di regolazione emotiva, le modalità con cui pensare, conoscere e percepire la realtà; funzioni che con il passare del tempo si sviluppano, maturano e rappresentano la lente con cui il soggetto inizierà a percepire sé stesso e il mondo circostante.

Prendendo dunque in esame le prime relazioni è possibile comprendere come esse diano vita ad uno stile di interazione che in alcuni casi può divenire disfunzionale e disadattivo. Spesso infatti esperienze negative quali maltrattamenti, abusi e trascuratezza emotiva, possono determinare gravissime conseguenze inerenti sia lo sviluppo psicologico che quello neurobiologico (Schore, 2003). Nel panorama dell’adozione si traducono in uno o più eventi traumatici che, se ripetuti e costanti, prendono il nome di “trauma cumulativo“ (Khan, 1963). Il trauma si riferisce non solo all’evento in sé, ma anche all’intensità con cui esso viene a presentarsi dinanzi al soggetto.

I correlati neurobiologici delle esperienze traumatiche

Col termine trauma si designa un’esperienza che in un breve lasso di tempo apporta delle modifiche somatopsichiche, che in futuro, se non elaborate in modo adattivo, possono innescare dei comportamenti e degli stili di risposta disfunzionali a determinati eventi (Bromberg, P. M., 2006). Evidenziando dunque un profilo psicologico caratterizzato non solo da una bassa autostima, ma anche da una fragilità psichica, che se non identificata e supportata può sfociare in un quadro psicopatologico.

L’esperienza adottiva (Oliverio, 2002) se non pienamente accolta ed elaborata può rispecchiare una condizione di profonda sofferenza, poiché possono essere presenti esperienze di contesti abusanti e/o trascuranti, come ad esempio la realtà degli orfanotrofi. Secondo Ross (Ross, C. A. 2000), il trauma evolutivo apre le porte ad un ventaglio di possibili fenomeni psicopatologici, infatti secondo l’autore più si è esposti a contesti relazionali abusanti e trascuranti durante l’infanzia, maggiore è la possibilità di sviluppare un disturbo mentale. Infatti, il bambino, acquisendo schemi cognitivi disfunzionali, interiorizza una percezione ed una rappresentazione di sé e degli altri disadattiva.

Più nello specifico si può assistere ad una ridotta capacità da parte del soggetto di identificare, rappresentare e monitorare i propri stati corporei, mentali, affettivi e comportamentali, i quali a livello somatico riflettono un cablaggio disfunzionale/neurobiologico che rischia di creare una lente attraverso la quale guardare la realtà esterna e i propri vissuti interni, in maniera non del tutto adeguata; spesso difficile da adoperare e a volte restrittiva e/o limitante sotto un profilo relazionale (Caretti, 2007).

Traumi di natura interpersonale precoci possono costituire dei “disorganizzatori psichici dell’esperienza” (Schimmenti, A., 2008) connessi con sistemi rappresentazionali, che portano a concepire il mondo in maniera minacciosa, ostile e difficile da fronteggiare (Fonagy, 2001). Dunque, il trauma nell’infanzia può portare ad esiti di natura psicopatologica influenzando in varia misura il meccanismo di attaccamento, la biologia, la regolazione affettiva, la dissociazione, il controllo comportamentale, le capacità cognitive ed il concetto di Sé.

Questa concatenazione di eventi rappresenta dunque non solo l’esito di esperienze traumatiche, ma anche l’ingresso verso l’esordio di disturbi mentali come la depressione (Bifulco, 1998), i disturbi del comportamento alimentare, le dipendenze da sostanze, il disturbo borderline (Fonagy, 2003) e i disturbi dissociativi (Nijenhuis, 2000).

A sostegno di quanto descritto sinora, lo psichiatra Van Der Kolk (2005), ha affermato come l’esposizione cronica ad una o a più forme di trauma a livello interpersonale (come l’abbandono, l’abuso e la violenza fisica) facciano emergere schemi di risposta disfunzionali a determinati eventi, che si possono riscontrare a più livelli. Infatti, ad essere inficiati sono il livello emotivo, somatico, comportamentale, cognitivo e relazionale; un insieme di fattori che nel loro insieme determinano un’alterazione delle rappresentazioni del Sé e degli altri e intaccano il modo di vedere la realtà circostante ed attribuirgli un significato.

La struttura cerebrale dei bambini istituzionalizzati: il Bucharest Early Intervention Project

 A sostegno di quanto introdotto e descritto, un ulteriore contributo deriva da uno studio condotto a partire dal 2001 da un gruppo di ricercatori dell’Ospedale dei bambini di Boston della Harvard Medical School, grazie al quale è stato possibile documentare e analizzare le alterazioni che si producono nei circuiti cerebrali di bambini vissuti negli orfanotrofi di Bucarest. Ben descritto dalla figura di Bottaccioli (2005), l’autore ha ampiamente introdotto non solo gli obiettivi stessi dello studio, bensì i cambiamenti biochimici e neurobiologici, che nel cervello dei bambini istituzionalizzati hanno tracciato un’architettura ben precisa. Nonché una modalità di autoregolazione emotiva e fisiologica che sulla base di esperienze pregresse rischiano dunque di ripercuotersi sul presente.

Iniziato nel 2001, lo studio faceva parte del progetto “Bucharest Early Intervention Project”, che ha coinvolto ben 6 orfanotrofi della capitale romena (Charles, 2007), tre Università statunitensi con capofila Harvard, il cui obiettivo è stato quello di esaminare da un lato gli effetti della istituzionalizzazione infantile sullo sviluppo cerebrale e comportamentale e dall’altro verificare se l’affidamento familiare possa determinare il ripristino dei medesimi danni cerebrali. Secondo quanto riportato da Bottaccioli (2005), in un’intervista a La Repubblica, le caratteristiche dello studio si sono rivelate davvero uniche, “in quanto 136 bambini attorno ai due anni di età che stavano in orfanotrofio dalla nascita, o comunque da pochi mesi dopo la nascita, sono stati divisi in modo casuale in due gruppi, uno inviato in affidamento, l’altro rimasto invece in orfanotrofio. Nondimeno lo studio ha previsto un gruppo di controllo formato da bambini di Bucarest della stessa età che vivono in famiglia”. Come riportato dall’autore, tutti i bambini sono stati osservati per circa 8 anni ad intervalli regolari, monitorando il loro sviluppo intellettivo e comportamentale fino ad un’età compresa tra i 9 e gli 11 anni. Valorizzando sempre più una visione olistica inerente sia lo sviluppo psicobiologico sia quello cognitivo. “Infine, un campione per ognuno dei tre gruppi è stato selezionato per essere sottoposto a una minuziosa ed estesa indagine cerebrale realizzata con la tecnica della Diffusione del tensore. Questa tecnica, in sigla DTI (immagini di diffusione del tensore), consente di visualizzare i fasci di fibre di materia bianca che connettono le aree cerebrali tra di loro”. Grazie ai risultati emersi è stato possibile notare come i bambini che avevano trascorso una parte della propria vita in orfanotrofio avessero riportato modificazioni strutturali e funzionali che coinvolgono diversi distretti cerebrali, tra i quali il corpo calloso. Quest’ultimo infatti ha inoltre permesso di constatare quanto il proprio background esperienziale sia in grado di ripercuotersi in un possibile esordio psicopatologico e comportamentale, accompagnato da eventuali deficit cognitivi ed emotivi, che spesso si riscontrano nei soggetti abbandonati. Traumi di natura interpersonale precoci possono dunque contribuire a far emergere veri e propri “disorganizzatori psichici” dell’esperienza, (Schimmenti, 2008) connessi con sistemi rappresentazionali, che portano a concepire il mondo in maniera minacciosa, ostile e difficile da fronteggiare (Fonagy, 2001).

Viceversa, nei bambini in affidamento si è riscontrata una modalità di autoregolazione emotiva differente, meno disfunzionale ma soprattutto in grado di essere maggiormente gestita dal bambino.

Attraverso questo studio (Gallino, 2015) è stato possibile valorizzare sempre più il ruolo delle esperienze traumatiche non solo durante l’infanzia, quanto piuttosto nei contesti di abbandono e trascuratezza emotiva, che spesso si riscontrano negli orfanotrofi. Questi ultimi, infatti, riflettono a pieno titolo un luogo entro il quale diversi fattori non sempre risultano lasciare una traccia adattiva e promotrice di cambiamenti, ma al contrario descrivono una realtà dove l’infanzia sembra essere una tappa mai vissuta. E che tuttavia andrebbe riconquistata, esplorata e vissuta.

Ruminazione in infanzia e adolescenza: quale contributo della genetica?

La review della Dott.ssa Scaini e colleghi (2020) pubblicata su Journal of Affective Disorders presenta una breve panoramica finalizzata alla sintesi dei risultati emersi dagli studi genetici che hanno analizzato i potenziali geni coinvolti nella ruminazione in infanzia e adolescenza

 

La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative. La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo legato ai sintomi della depressione (Nolen-Hoeksema, 2008).  La ruminazione quindi si attiva come tentativo di controllo dell’emozione negativa, tuttavia, tale processo nel tempo aggrava l’intensità dello stato d’animo negativo, induce a un maggiore abbassamento dell’umore, e comporta una distorsione della percezione sia di se stessi, in termini negativi, sia dell’ambiente circostante (Wells, 2009). L’utilizzo continuo e costante della ruminazione determina l’automatizzazione di tale processo che provoca in chi la sperimenta un senso di mancanza di controllo sui pensieri ed evidente abbassamento del tono dell’umore.

Ruminazione e depressione

La ruminazione ha ricevuto grande attenzione dalla ricerca nello studio della depressione (Just, Alloy, 1997) ed è stata riconosciuta già da tempo come un elemento chiave della fenomenologia depressiva.

Anche in riferimento all’adolescenza la letteratura evidenzia come la ruminazione possa considerarsi un fattore di vulnerabilità cognitiva per l’esordio e il mantenimento della depressione in tale fase di vita (Treynor et al., 2003).

Eziologia della ruminazione: quali sono le cause della tendenza a ruminare?

In termini di determinanti eziologiche, ad oggi la letteratura presenta ancora risultati parziali e lacune da colmare. Alcuni studi hanno evidenziato l’importanza dei fattori ambientali nell’eziologia della fenomenologia della ruminazione (Hankin et al., 2009). Aspetti ambientali favorenti la ruminazione possono essere ad esempio eventi di vita stressanti, fenomeni di bullismo tra pari (McLaughlin and Hatzenbuehler, 2009), criticismo e iperprotettività genitoriale (Alloy et al., 2004; Manfredi et al., 201), esperienze di maltrattamento nell’infanzia (Spasojevic and Alloy 2002; Hankin, 2005; Hilt et al., 2012), psicopatologia genitoriale (Gibb et al., 2012).

La ruminazione potrebbe avere delle basi genetiche?

In considerazione di modelli eziologici multifattoriali, se da un lato i diversi studi sopracitati hanno evidenziato le origini ambientali alla base della ruminazione, ancora poca attenzione è stata dedicata dalla ricerca alle possibili basi genetiche coinvolte.

Solide e coerenti evidenze in letteratura dimostrano il contributo degli aspetti genetici nello sviluppo della depressione in infanzia e in adolescenza (Lau and Eley, 2006; Lau and Eley, 2010); di conseguenza è rilevante chiedersi se le differenze nella tendenza alla ruminazione possano essere correlate alla vulnerabilità genetica per la depressione. Diversi studi inoltre evidenziano che i bambini a rischio di depressione presentano elevati livelli di ruminazione (Gibb et al., 2012).

La review della Dott.ssa Scaini e colleghi (2020) pubblicata su Journal of Affective Disorders presenta una breve panoramica finalizzata alla sintesi dei risultati emersi dagli studi genetici che hanno analizzato i potenziali geni coinvolti nella ruminazione nei bambini e negli adolescenti.

La review si è basata su una ricerca bibliografica degli studi scientifici presenti in PubMed e Science Direct fino al mese di febbraio 2020. I termini chiave utilizzati per la ricerca sono stati: ‘rumination, ruminative thinking, repetitive thinking e ‘gene, gen*’.

Dalla ricerca bibliografica sono stati identificati otto studi inerenti alla tematica della ruminazione e degli aspetti genetici in bambini e adolescenti.

In termini di esplorazione degli effetti genetici, gli otto studi alcuni si sono focalizzati sull’indagine degli aspetti genetici coinvolti nella trasmissione della serotonina (5-HTTLPR) (Schepers and Markus, 2017), nel brain derived neurotrophic factor (BDNF) (Hilt et al., 2007; (Beevers et al., 2009; Clasen et al., 2011; Gibb et al., 2012; Stone et al., 2013) e nel rilascio dell’ormone della corticotropina (CRHR1) (Woody et al., 2016; Van Hulle et al., 2017).

I risultati presenti negli studi considerati dalla review evidenziano che le variazioni nei geni 5-HTTLPR e BDNF possono significativamente contribuire a una maggiore tendenza alla ruminazione nei bambini e negli adolescenti, andando a moderare la relazione tra eventi di vita stressanti e ruminazione.

Pertanto, la review va a supportare l’assunto secondo cui le variazioni individuali a carico dei geni 5-HTTLPR e BDNF sarebbero correlate a una aumentata vulnerabilità biologica per la tendenza alla ruminazione nell’età evolutiva e in adolescenza.

La presente review presenta diversi limiti: in primo luogo, va sottolineato che il campione degli studi considerati è comunque esiguo; in secondo luogo, tra gli studi considerati si riscontra un’elevata eterogeneità nei disegni di ricerca e negli strumenti utilizzati per l’assessment della ruminazione.  In conclusione, ulteriori studi sono necessari per approfondire ulteriormente il contributo della genetica nei processi ruminativi e replicare queste evidenze su campioni più ampi.

 

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