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L’eziologia del disturbo antisociale di personalità

Lo studio condotto nel 2019 da DeLisi e colleghi ha avuto come scopo la valutazione dei fattori antecedenti al disturbo antisociale di personalità, quali esperienze avverse infantili e psicopatologie infantili.

Il disturbo antisociale di personalità: eziologia e caratteristiche

 Gli individui con disturbo antisociale sono caratterizzati da tre o più dei seguenti criteri: impulsività, mancata conformità alle norme sociali, falsità, irritabilità, aggressività, trascuratezza della propria e altrui sicurezza, irresponsabilità e mancanza di rimorso (American Psychiatric Association, 2013). Inoltre, per ricevere questa diagnosi gli individui devono avere più di 18 anni e aver manifestato un Disturbo della Condotta prima dei 15 anni (APA, 2013).

Nel complesso, questi fattori rendono questo disturbo uno dei più impattanti negativamente a livello sociale, con gravi problemi di condotta, violenza e criminalità (Black, 2013; Moran, 1999).

Le cause del disturbo antisociale risultano essere multifattoriali, con basi biologiche e ambientali ed ereditarietà stimata al 38% (Altintas & Bilici, 2018; Loeber et al., 2000). Infatti, fattori ambientali quali esperienze avverse (Loeber et al., 2000) e psicopatologie infantili (Lahey et al., 2005; Storebø & Simonsen, 2016) si sono mostrati essere interconnessi con questo disturbo. Le prime si riferiscono a forme di abuso e di negligenza vissute durante l’infanzia e possono essere considerate le prime esperienze di socializzazione negative; le psicopatologie infantili invece comprendono, per esempio, il disturbo da Deficit dell’Attenzione/Iperattività, il Disturbo Oppositivo Provocatorio e i disturbi della Condotta.

Esperienze avverse, psicopatologie infantili e disturbo antisociale, quali connessioni?

Esistono differenti studi che hanno mostrato le associazioni esistenti tra esperienze avverse accumulate durante l’infanzia, problemi di salute e comportamenti aggressivi e violenti cronici (Baglivio, 2018; Wolff & Baglivio, 2017).

Uno studio condotto nel 2008 (Fergusson et al., 2008) che ha esaminato le relazioni tra abuso sessuale, abuso fisico infantile e disturbo antisociale ha riscontrato una prevalenza del disturbo dalle 2 alle 4 volte superiore tra coloro che avevano subito abusi sessuali rispetto a chi non l’aveva subito. In questo studio, è stato rilevato che l’abuso sessuale gioca un ruolo predittivo nei confronti del disturbo antisociale di personalità (ASPD). Inoltre, la prevalenza di disturbo antisociale di personalità tra coloro che avevano riportato abusi fisici si è mostrata essere dalle 2 alle sette 7 volte maggiore.

Uno studio (Lynam, 1996) che ha analizzato bambini e adolescenti con problemi di condotta di rilevanza clinica, accompagnati da sintomi di iperattività, impulsività e problemi attentivi, ha riscontrato una correlazione tra questa configurazione di sintomi e quelli propri del disturbo antisociale di personalità.

Uno studio riguardante la valutazione dei fattori antecedenti il disturbo antisociale di personalità

Nonostante i risultati significativi dal punto di vista statistico, molte interrelazioni non sono ancora chiare. Perciò, lo studio condotto nel 2019 da DeLisi e colleghi ha avuto come scopo la valutazione dei fattori antecedenti, quali esperienze avverse infantili e psicopatologie infantili.

I partecipanti erano 863 persone che avevano commesso crimini e che presentavano una sintomatologia di disturbo antisociale.

Dai risultati sono emersi dati coerenti con studi precedenti (Battle et al., 2004; Mersky et al., 2017). Uno di questi riguarda l’associazione riscontrata tra abuso fisico e disturbo antisociale di personalità. Infatti, l’abuso fisico potrebbe generare sentimenti di ostilità, disprezzo e sfiducia nei confronti delle figure autoritarie adulte, riconducibili ad uno stile di personalità caratterizzato da aggressività, irritabilità e indifferenza nei confronti degli altri.

Rispetto all’abuso emozionale e verbale, inoltre, l’abuso fisico genera segni e ferite visibili che permetteno più facilmente una segnalazione alle Autorità Giudiziarie per un cambio di affido e un ricollocamento presso nuove famiglie o comunità di minori, che, per molti autori di reato con severi problemi di condotta, è il primo passo verso un lungo processo di ricollocamento istituzionale.

 Una forma di abuso che si è mostrata essere correlata ad una diagnosi di disturbo antisociale è l’abuso sessuale. Secondo gli autori questo riscontro risulta essere comprensibile: la forma più grave tra le categorie delle esperienze avverse infantili correlata ad una delle condizioni più severe di disturbo di personalità. D’altro canto, questa forma di abuso sembra avere una relazione significativa con la probabilità di commettere crimini sessuali (DeLisi et al., 2014; Drury et al., 2017; Papalia et al., 2017; Reavis et al., 2013; Widom et al., 2015).

Questi risultati sono coerenti con quelli di una recente metà-analisi che ha rilevato una correlazione tra abuso sessuale/fisico e devianza aggressiva (Braga et al., 2017).

Rispetto alle variabili psicopatologiche infantili, l’unica forma che si è mostrata essere collegata ad un disturbo antisociale in età adulta riguarda il disturbo della condotta; questo dato conferma le ricerche che hanno riscontrato che circa l’80/90% degli individui con diagnosi di disturbo antisociale hanno sperimentato il disturbo della condotta in età infantile (Loeber et al., 1995, 2002).

In qualunque modo si generi, il disturbo antisociale ha gravi conseguenze in termini di gravità e di crimini commessi. È stato visto che una diagnosi completa –ovvero una condizione che soddisfi i criteri necessari a differenza della condizione in cui siano presenti solo alcuni sintomi– è collegata ad una criminalità precoce, più cronica e più violenta. Un’eccezione riguarda gli individui arrestati per stupro, dove chi riferiva solo alcuni sintomi del disturbo, ha registrato un maggior numero di arresti rispetto a quelli con diagnosi completa.

Prospettive future

Ricerche future potrebbero concentrarsi sull’ordine di insorgenza di comportamenti dirompenti durante l’infanzia e l’adolescenza. In alcuni autori di reato si è vista una coincidenza tra il verificarsi di un trauma infantile e l’emergere di sintomi esternalizzanti, ovvero comportamenti problematici diretti verso l’ambiente esterno messi in atto per affrontare un disagio, presenti per esempio nel disturbo della Condotta e nel disturbo Oppositivo Provocatorio. Tuttavia, sarebbe necessario uno studio empirico a riguardo.

Dato il peso sociale di questo disturbo, associato a crimini e violenze, sarebbe necessaria una maggior focalizzazione alla prevenzione dei fattori di rischio quali le esperienze avverse infantili e interventi mirati per il trattamento del disturbo della condotta ai primi suoi segni.

Il disturbo da accumulo patologico: origini e manifestazioni – Partecipa alla ricerca

La prospettiva psicopatologico-evoluzionistica al disturbo da accumulo ritiene che gli individui con alte tendenze ad accumulare tendano a sperimentare un senso affettivo di forte insicurezza interna e di avversione al rischio percepito; per far fronte a questo stato l’individuo risponderebbe attraverso una motivazione all’accumulo come forma (maladattiva) di protezione dal mondo esterno.

Il disturbo da accumulo

 La tendenza ad esprimere comportamenti di accumulo patologico è stata tradizionalmente considerata un sottotipo del disturbo ossessivo-compulsivo (Fontenelle et al., 2004), fino a che, con la pubblicazione della quinta versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5; American Psychiatric Association, 2013), è stata resa indipendente attraverso la formulazione di una categoria diagnostica separata, denominata disturbo da accumulo. Attualmente il disturbo da accumulo viene definito da un bisogno percepito di salvare i propri oggetti associato ad una persistente difficoltà a separarsene, cosa che comporta la congestione degli spazi di vita domestica, spesso minandone la sicurezza e risultando in una significativa compromissione del funzionamento sociale e occupazionale dell’individuo. Dato che il tasso di prevalenza del disturbo da accumulo nella popolazione generale è stimato essere dell’1.5-2.5% (Postlethwaite et al., 2019; Zaboski et al., 2019; Samuel et al., 2008), negli ultimi anni, il fenomeno ha suscitato notevole interesse rispetto ad una maggiore comprensione clinica ed al trattamento. Infatti, il costo stimato di 6.65 miliardi associato a tale disturbo nel contesto statunitense, all’anno (Tolin et al., 2008), rende questa condizione clinica un enorme onere di tipo economico e sociale.

La prospettiva etologica/evoluzionistica sul disturbo da accumulo

Rifacendosi ad una prospettiva etologica/evoluzionistica come tentativo di comprensione dei comportamenti di accumulo nell’essere umano, si evidenza come negli animali, ed in particolare nelle specie mammifere, questo comportamento venga ritenuto una strategia adattiva di allocazione delle risorse (Preston et al., 2014; Preston, 2011). Tale fenomeno è stato selezionato dall’evoluzione naturale al fine di permettere un costante accesso alle proprie risorse nello spazio e nel tempo in relazione alla variabilità ecologica, contestuale ed ambientale in cui l’organismo può trovarsi (VandeWall, 1990). Anche gli esseri umani mostrano forme di accumulo analoghe e funzionali all’allocazione adattiva delle risorse, si pensi, ad esempio, all’utilizzo di dispense domestiche, di frigoriferi e delle diverse forme di conservazione dei beni (es. banche, casseforti, ecc…); questi esempi offrono solo alcuni elementi possibili attribuibili all’accumulo umano. Alla luce di ciò, la tendenza ed il relativo comportamento di accumulo umano si ritiene essere potenzialmente adattivo, fondamentale per la sopravvivenza, in maniera analoga a quanto avviene in altre specie animali. Una condizione specifica che elicita il comportamento da accumulo è quella dovuta ad una risposta avversa al rischio percepito (Bergstorm, 2014; Murray et al., 2006; Preston, 2011, 2014). Per esempio, durante la recente situazione relativa alla condizione pandemica del COVID-19 è stato documentato un acuirsi della tendenza, nella popolazione, all’accumulo (Banerjee, 2020; David et al., 2021; Micalizzi et al., 2021).

 È stato infatti proposto che, a fronte di un mondo esterno percepito come imprevedibile e rischioso, l’accumulo potrebbe rappresentare un tentativo di protezione attraverso gli oggetti, in maniera analoga al comportamento animale di costruzione di una tana o di un nido volto al raggiungimento di un livello ottimale di calore, comfort e protezione dai predatori (Preston, 2014). La funzione motivazionale alla base dell’accumulo comporta che esso sia elicitato da segnali affettivi di rischio e insicurezza ed inibito da segnali di sicurezza percepita internamente (Preston, 2014). Negli individui con disturbo da accumulo si assisterebbe a livelli esageratamente elevati e non adattativi di questo meccanismo motivazionale (“alti” segnali affettivi di forte rischio vs “bassi” segnali di sicurezza percepita internamente inibizione). Di conseguenza, gli individui con disturbo da accumulo sperimenterebbero il loro contesto e ambiente di vita come estremamente rischioso, imprevedibile ed insicuro. L’accumulo patologico sarebbe determinato quindi da una cronica attività di tale funzione della motivazione, che non risulterebbe mai placata ed inibita da sentimenti di comfort e sicurezza, portando l’individuo verso una costante ricerca per il suo raggiungimento attraverso l’accumulo stesso. Infatti, gli individui con disturbo da accumulo sarebbero sorretti da una forte e cronica tendenza motivazionale-affettiva, la cui intensità comporterebbe una bassa capacità di regolazione della motivazione sottostante al loro comportamento.

Partecipa alla ricerca

La prospettiva evoluzionistica al disturbo da accumulo non ha ancora ricevuto un supporto empirico adeguato vista l’esiguità di progetti di ricerca sull’argomento. A tal proposito, l’Università degli Studi di Torino sta conducendo uno studio dal titolo “Struttura disposizionale e motivazionale nel Disturbo da accumulo” (Prot. n. 0420699; nella sua versione inglese dal titolo “Dispositional and motivational structure in hoarding disorder”) a cui è possibile accedere e partecipare in forma totalmente anonima.

Per partecipare alla ricerca:

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Medicina per la coscienza (2022) di Françoise Bourzat – Recensione

Nel meraviglioso saggio “Medicina per la coscienza. Saggezza indigena, enteogeni e stati modificati di coscienza” Françoise Bourzat propone, a chiunque desideri leggerla, una nuova chiave di lettura circa l’impiego delle sostanze psicoattive nella cura di diversi quadri psicopatologici, quali la depressione e il disturbo da stress post traumatico.

 

 Quanto di più affascinante emerge sin dalle prime pagine è il richiamo da parte dell’autrice a quel linguaggio comune che sembra aver cristallizzato proprio le capacità di espressione, nonché quel lato trasformativo e creativo, che attraverso il corretto impiego delle sostanze, possono risentire di quel ripristino capace di connetterci con il nostro linguaggio più autentico. Che se l’autrice definisce trasformativo e terapeutico, James Hillman (Hillman, J., 2013) descrive quale “predisposizione dell’anima a riconnettersi con quanto di più ancestrale abita in ognuno di noi”. L’aspetto oltremodo affascinante si correla non tanto ad una visione descrittiva e spesso limitante del concetto di disturbo, quanto piuttosto ad una nuova percezione in grado di valorizzare il sintomo quale punto di partenza, in grado di comunicare quanto la coscienza razionale non è più in grado di esprimere.

La coscienza odierna non solo sembra risentire delle influenze sociali e ancor più delle richieste provenienti dall’esterno, ma al contempo secondo la Bourzat, riflette l’arresto di quella capacità trasformativa che Hillman traduce nella presenza di un linguaggio unilaterale. Quest’ultimo infatti, se da un lato descrive l’esordio delle attuali nevrosi quali riflesso di una predisposizione unilaterale e non conforme al proprio Dàimon (Hillman, J., 2013), dall’altro conferma quanto la propria autenticità possa essere riscoperta dando spazio ai numerosi volti dai quali siamo abitati e attraverso i quali scoprire nuovi stati di coscienza.

 Le medicine della coscienza, vengono dunque proposte quali validi strumenti per stimolare ed accedere a nuovi stati di consapevolezza in grado non solo di scardinare gli automatismi cognitivi e comportamentali, ma anche di ripristinare quelle che Françoise Bourzat definisce il dialogo con le proprie radici antiche. Quest’ultime, infatti, vengono presentate nel libro quali vere e proprie fonti da cui attingere ciò che di “non ordinario” (Bourzat, F., 2022) abbiamo perduto. I rituali e i miti sono infatti in grado di “presentificare quanto di più ancestrale risiede in noi”, (Hillman, J., 2019) offrendo così un valido canale di comunicazione grazie al quale conoscere e rinnovare le nostre “coscienze ordinarie” (Bourzat, F., 2022).

Tuttavia se ciò che conosciamo risulta apparentemente sicuro proprio perché già prestabilito, di contro rispecchia appieno il limite al potere creativo, esplorativo e ancor più trasformativo che al nostro interno hanno la fisionomia di “diversi mondi e di diverse divinità” (Hillman, J., 2019). Se la dipendenza da uso di sostanze viene ricercata quale strumento con cui accedere a qualcosa di diverso e lontano dal quotidiano, l’impiego consapevole e legale dell’uso delle sostanze psichedeliche altro non farebbe se non legittimare quella ricerca di noi stessi e della nostra coscienza antica, che troppo spesso cerchiamo di ottenere in maniera sbagliata e sovente pericolosa.

La proposta di questo saggio si traduce in una nuova presa di coscienza circa quei limiti e quegli schemi ordinari che a nostra insaputa cristallizzano sia il linguaggio dell’anima sia le sue modalità di espressione, facendo del disturbo e/o del sintomo il richiamo della nostra parte più antica che altro non chiede se non di vivere grazie alla nascita di una nuova coscienza.

“Il Mondo di Leo” – Comunicato stampa

Presentato ieri alla Camera dei Deputati “Il Mondo di Leo”, il primo progetto multimediale inclusivo al mondo che racconta le avventure di un bambino con disturbo dello spettro autistico.

 

 Roma, 27 aprile 2023 – Ieri presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati è stato presentato “Il Mondo di Leo”, il primo progetto multimediale inclusivo al mondo che racconta le avventure di un bambino con disturbo dello spettro autistico, alla presenza del Ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli, del Sottosegretario del Ministero dell’Istruzione e del Merito Paola Frassinetti, del segretario Ufficio di Presidenza presso la Camera dei deputati Chiara Colosimo e dell’eurodeputato Stefania Zambelli. A presentare il progetto alle istituzioni, la produttrice e ideatrice del progetto Emanuela Cavazzini, CEO & Executive Producer Brand-Cross, Eleonora Vittoni, co-ideatrice del progetto, Luca Milano, Direttore Rai Kids, e Paolo Moderato, Presidente di IESCUM e Professore Emerito di Psicologia presso l’Università IULM.

Nato da un’idea di Eleonora Vittoni ed Emanuela Cavazzini, prodotto da Brand-Cross, con la consulenza scientifica del Prof. Paolo Moderato, “Il Mondo Di Leo” è un progetto che si compone di una serie tv animata prodotta in collaborazione con Rai Kids, in onda su Rai YoYo e RaiPlay, realizzata con il contributo del Ministero della Cultura, di un libro edito da Piemme Edizioni – Il Battello a Vapore, di un’innovativa app di gioco educational, di una raccolta fondi benefica con opere originali NFT, di un contest di disegno e un brano musicale originale pubblicato su tutte le piattaforme streaming.

“La prima volta che ho conosciuto il progetto ero Assessore in Regione Lombardia, era ancora in bozza, ricordo le prime immagini che ancora non erano state viste da nessuno. Oggi “Il Mondo di Leo” è un cartone animato già visto da milioni di bambini. É una grande soddisfazione pensare che “Il Mondo di Leo” riesca ad entrare nella quotidianità di tutti i bambini ed essere capito da tutti i bambini”, ha dichiarato il Ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli. “Credo che abbia una potenza innovativa straordinaria e sono contenta e orgogliosa che in Italia si possa avere dei progetti di questo tipo. Ne parlerò anche alla Conferenza Mondiale della Disabilità all’Onu che si svolgerà a giugno e dove il Ministero per le Disabilità organizzerà due eventi collaterali: uno proprio sull’autismo e l’altro sui protocolli DAMA. Questi progetti talvolta nascono da storie reali” ha continuato il Ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli “e per questo possono diventare davvero un modo per educare ed includere, per partecipare e far partecipare tutti alla vita quotidiana. Leo vive la sua giornata superando difficoltà, attraversando momenti difficili e altri che lo agitano. Leo è un bambino come tanti che può essere capito e può imparare sempre qualcosa di nuovo. Mi complimento con tutti per averlo saputo trasformare da un sogno alla realtà. Ringrazio anche il dottor Moderato che ha dato un contributo da un punto di vista scientifico davvero straordinario, da soli non si va da nessuna parte e “Il Mondo di Leo” credo ci insegni anche questo. In bocca al lupo per i prossimi passi e grazie per averlo messo a disposizione di tanti bambini e tante famiglie”.

”Inclusione” non è una parola, “inclusione” è un modo di vivere, “inclusione” è un approccio che tutti noi dovremmo avere e che non abbiamo, e quando l’inclusione passa per la televisione italiana è un segnale che non arriva soltanto a chi ha figli nello spettro, ma arriva a tutti coloro i quali hanno figli”, ha dichiarato Chiara Colosimo, Segretario Ufficio di Presidenza presso la Camera dei deputati. “Vivere 24 ore con chi ha un disturbo dello spettro autistico è per una famiglia un dramma e questo non può lasciare le istituzioni indifferenti. Noi dobbiamo mettere in campo tutte le energie possibili a tutti i livelli perché questo isolamento di questi bambini e delle loro famiglie abbia fine. Ci dobbiamo occupare dagli zero a fine vita di queste persone, perché se sulla diagnosi precoce abbiamo fatto tanti passi avanti, non li abbiamo ancora fatti sul durante e sul dopo. Per questo stiamo lavorando ad una proposta di legge nazionale che diventi una legge quadro con il Ministero della Salute, perché questo è un tema che va preso nel suo complesso, in tutte le sue fasi. Quindi sì la diagnosi precoce, sì i pediatri, sì gli insegnanti di sostegno, ma sì anche mettere a frutto le capacità che i bambini neurotipici, che poi diventano adulti, hanno e che possono veramente permettergli una reale inclusione. Per questo io ci sono, ci sarò sempre e ci sono innanzitutto perché penso che alcune diversità arricchiscano prima me e poi tutti gli altri”.

Paola Frassinetti, Sottosegretario del Ministero dell’Istruzione e del Merito, ha aggiunto: “Ho avuto modo di guardare questo progetto e posso dire che corrisponde alla metodologia giusta per affrontare questi temi. Io ho la delega alla disabilità e quindi sono sempre impegnata per cercare di trovare dei modi per l’inclusività intelligente e dinamica e questo progetto ne è un esempio. Ho già preso i contatti con il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, perché vogliamo istituire un tavolo di concertazione per approfondire queste tematiche. “Il Mondo di Leo” lo trovo un progetto autenticamente differente dagli altri, ha qualcosa in più. Anche i modelli che vengono dati normalizzano alcuni comportamenti ed è questo il valore aggiunto che si può evincere da questa serie tv animata. Noi sappiamo che l’autismo è ancora in fase di stabilizzazione per quanto riguarda l’approccio, è una forma che va trattata con molta cautela, soprattutto per questa sua unicità a differenza di altri tipi di disabilità che sono ormai conformi ad alcune procedure che vengono messe in atto dal personale adibito. Quindi ancora di più hanno bisogno di trovare in elementi ulteriori e in diversivi ludici il loro trattamento, perché non sta certo al Ministero dell’Istruzione entrare nel merito delle dinamiche comportamentali, però noi che abbiamo questo compito, insieme al Ministro per le Disabilità, siamo sicuramente molto soddisfatti di avere degli strumenti di aiuto così innovativi e vi ringrazio per questo”.

 Così Luca Milano, Direttore di Rai Kids, sulla serie tv: “Una caratteristica di questo programma è che riesce a riunire le tre finalità per le quali come servizio pubblico noi lavoriamo verso i ragazzi e i bambini. La prima è offrire ai bambini il miglior contenuto audiovisivo disponibile, quindi belle storie, bei racconti, belle immagini, la seconda è dare voce e spazio agli autori e ai produttori italiani perché anche loro abbiano uno spazio nel mondo dell’audiovisivo internazionale e la terza è l’innovazione, passare avanti e avere nuove idee. Questi tre elementi si fondono nel progetto “Il Mondo di Leo” intorno al grande tema dell’inclusione. E i risultati sono stati importanti: abbiamo cominciato a mandare in onda “Il Mondo di Leo” dal 28 novembre e le 10 puntate sono già state trasmesse 143 volte su Rai Yoyo, questo significa che lo stesso episodio è stato visto 10-14 volte ed è una cosa che succede con le serie di maggiore successo. Gli ascolti sono stati molto positivi, ogni volta che va in onda almeno 1 bambino su 5 lo guarda quindi pensiamo di aver raggiunto l’intero universo dei bambini che guardano la tv e le loro famiglie. Se fossimo YouTube potremmo dire che ormai siamo a 16 milioni di visualizzazioni. Penso che il risultato sia di stimolo e invito e insieme agli amici e colleghi della Brand-Cross stiamo avviando una seconda stagione, anche leggermente più numerosa di episodi con una velocità notevole, perché il mondo dei cartoni animati richiede in genere molto tempo. Penso sia una bella esperienza quella che stiamo raccontando e presentando nella sua seconda versione, è un programma unico a livello europeo e internazionale quindi sono fiducioso che possa svilupparsi e essere presentato non solo in Italia ma anche in altri Paesi”.

“Ho da sempre avuto a cuore il tema delle disabilità e dell’autismo e sin da quando ho mosso i primi passi in politica mi sono impegnata affinché le istituzioni potessero aiutare concretamente migliaia e migliaia di ragazze e ragazzi affetti da tali disabilità. “Il Mondo di Leo” è uno straordinario progetto che merita un’eco ancor più grande. Proprio per questa ragione lo presenterò alla Presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola, una donna ed una madre molto sensibile a questa tematica”. Così, l’eurodeputato Stefania Zambelli. “Il disturbo dello spettro autistico è una realtà che riguarda tutti i Paesi con numeri di casi sempre più in aumento, ritengo dunque che questo progetto meriti di essere conosciuto in tutti gli Stati Membri dell’Ue”.

Paolo Moderato: ‘Se l’autismo è una sfida scientifica da “far tremar le vene e i polsi”, immaginare e produrre un cartone con protagonista un bambino nello spettro autistico, per i bambini nello spettro, è una sfida nella sfida. La sfida era produrre un cartone divertente, oltre che educativo, perché anche i bambini con disabilità evolutive e intellettive hanno diritto a momenti di divertimento, non solo di training abilitativi, purtroppo necessari’.

IESCUM, Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano, Italian Chapter di ABA International, è un centro studi e ricerche e impresa sociale a carattere non profit che nasce per promuovere lo studio scientifico e l’avanzamento della conoscenza relativi al comportamento umano inteso nella sua più ampia accezione, compresi gli aspetti più difficilmente accessibili come quelli emotivi, cognitivi e verbali. Fondato nel 2004, da un gruppo di docenti universitari e professionisti nel campo della psicologia, in continuo rapporto con importanti realtà scientifiche e professionali nazionali e internazionali, IESCUM è una realtà non profit e una delle prime imprese sociali in Italia.

La validazione italiana della Liebowitx Social Anxiety Scale

Misurare le componenti dell’ansia sociale permette di dare loro un nome, di normalizzare l’esperienza e di ridurre l’impatto e la potenza che il vissuto di ansia può avere sulla persona.

L’ansia sociale

 L’ansia sociale è una condizione che ognuno di noi può vivere quotidianamente, ma quando diventa invalidante e non ci permette di vivere la vita al meglio delle nostre possibilità, diventa un vero e proprio disturbo, il disturbo d’ansia sociale.

Quest’ultimo è un disturbo piuttosto invalidante, genera molta sofferenza e spesso causa numerose ricadute e notevoli limitazioni nella vita quotidiana. Nonostante sia abbastanza diffuso tra la popolazione, è spesso sottovalutato e sottostimato sia da parte dei clinici, che lo derubricano a fattore secondario, sia da parte dei pazienti stessi e dei loro familiari, che lo interpretano come semplice timidezza.

Inoltre, le persone che ne soffrono fanno spesso fatica a rivolgersi a un professionista, proprio a causa del timore del giudizio e per la vergogna che il disturbo stesso fa provare loro. Si stima, infatti, che circa due terzi di chi soffre di ansia sociale non cerchi alcun tipo di aiuto. Questo aspetto rappresenta una delle sfide maggiori a cui sono chiamati i professionisti della salute che si occupano del trattamento di questo disturbo.

Caratteristiche del disturbo d’ansia sociale

Il disturbo d’ansia sociale (già fobia sociale) è molto comune tra la popolazione. Secondo alcuni studi, la percentuale di persone che ne soffre va dal 3% al 13% e sembra insorgere più frequentemente tra le donne che tra gli uomini. L’età di esordio si colloca generalmente durante l’adolescenza o nella prima età adulta.

Questo disturbo si caratterizza per la paura marcata e persistente di una situazione sociale, prevista o da affrontare, in cui si è esposti al giudizio degli altri, come ad esempio parlare in pubblico. Nelle situazioni sociali temute, gli individui con disturbo d’ansia sociale sono preoccupati di apparire imbarazzati e, soprattutto, sono timorosi che gli altri li giudichino ansiosi, deboli o stupidi. Possono quindi temere di parlare in pubblico per la preoccupazione di dimenticare improvvisamente quello che devono dire o per la paura che gli altri notino il tremore delle mani o della voce, oppure possono provare ansia estrema quando mantengono una conversazione per paura di apparire poco chiari o, ancora, quando si trovano a mangiare, bere o scrivere in pubblico, per timore che gli altri possano vedere, ad esempio, le loro mani tremare.

Spesso le persone con problematiche di ansia sociale, al fine di abbassare i livelli di ansia, evitano le situazioni temute, ma tale comportamento è un rinforzo molto potente e un fattore di mantenimento. Inoltre, mettono in atto comportamenti protettivi quali mettersi le mani sul viso per nascondere il rossore o indossare maglioni per evitare che si noti la sudorazione sugli indumenti. Queste strategie sono controproducenti e mantengono il circolo vizioso.

Misurare l’ansia sociale

 L’ansia sociale potrebbe apparire come un’unica esperienza schiacciante e opprimente, anche se in realtà si caratterizza per sintomi differenti e specifici. Misurare le sue componenti permette di dare loro un nome, di normalizzare l’esperienza e di ridurre l’impatto e la potenza che il vissuto di ansia sociale può avere sulla persona.

Ci sono alcune componenti che interagiscono tra loro e provocano ansia sociale:

  • le sensazioni fisiologiche (ad esempio, sudorazione, rossore);
  • i pensieri (“Se risultassi impacciato e teso tutti gli altri mi guarderebbero”);
  • le emozioni (“Ho paura di comportarmi in modo strano davanti ad altre persone”);
  • i comportamenti (“Evito di telefonare in pubblico”).

Identificare le reazioni fisiche associate all’ansia sociale, misurarne l’intensità e identificare gli evitamenti è fondamentale per un buon assessment e per il monitoraggio dei progressi terapeutici.

Con la Scala di Liebowitz è possibile valutare l’intensità dell’ansia e la tendenza all’evitamento in alcune situazioni quotidiane.

La validazione italiana della Liebowitz Social Anxiety Scale (LSAS)

Il gruppo di lavoro del Centro di Eccellenza per il Disturbo d’Ansia Sociale (CEDAS), in collaborazione con IPSICO – Istituto di Psicologia Psicoterapia Cognitivo Comportamentale e l’Associazione Italiana per i Disturbi dell’Ansia Sociale (AIDAS) ha pubblicato la validazione italiana della Liebowitz Social Anxiety Scale (LSAS). Si tratta di un breve questionario, sviluppato da Michael Liebowitz (1987), utile alla diagnosi di disturbo d’ansia sociale. La LSAS rappresenta la più diffusa scala di autovalutazione dei sintomi di ansia sociale, molto utile in ambito clinico per la rilevazione di punteggi baseline, in itinere e post-trattamento, e dispone oggi di dati normativi su popolazione italiana.

La scala è composta da 24 item, contenenti ciascuno la descrizione di una situazione sociale potenzialmente attivante, di natura interazionale o prestazionale. Il soggetto è invitato ad indicare, in riferimento ad ogni situazione, quanto è il livello di ansia esperito (utilizzando una scala Likert a 4 punti, dove 0=nessuna ansia; 1=ansia lieve; 2=ansia moderata; 3=ansia grave) e quanto frequentemente mette in atto condotte di evitamento (utilizzando una scala Likert a 4 punti, dove 0=mai; 1=qualche volta; 2=spesso; 3=quasi sempre). È così possibile ottenere punteggi parziali (scala Ansia e scala Evitamento), oltreché un punteggio totale.

Le analisi statistiche condotte su un campione di 257 pazienti (Età media = 27.10, DS = 10.7) e 351 persone estratte dalla popolazione generale (Età media = 33.07, DS = 11.94) hanno mostrato una struttura monofattoriale per ciascuna scala, nonché buona validità convergente e discriminante.

Dalla Receiver Operating Characteristic (ROC) analysis i punteggi ottimali di cut-off sono risultati:

  • Ansia (Fear): 30
  • Evitamento (Avoidance): 28

La LSAS è quindi un ottimo strumento, utile sia per la ricerca e sia per la pratica clinica.

A porte chiuse. Violenza domestica e dipendenza affettiva (2022) di Floriana Lunardelli – Recensione

La dott.ssa Floriana Lunardelli è operatrice all’interno del centro antiviolenza di Via Cairoli a Genova, nel quale vengono accolte e seguite donne che hanno subito violenza e racconta nel suo libro “A porte chiuse” le caratteristiche della violenza domestica.

 

Il perturbante è quella sorta 

di spaventoso che risale a 

quanto ci è noto da lungo 

tempo, a ciò che ci è 

familiare (Sigmund Freud, Il perturbante, 1919).

 Porta deriva dal latino porta che ha la stessa radice di porto e del greco antico πορός (porós): significa vano aperto in un muro o altra struttura per poter passare. Da qui il significato di accesso, apertura, passaggio, varco per entrare, ma anche per uscire.

Da sempre e in ogni cultura l’atto di varcare una soglia rappresenta il punto di incontro o di separazione tra due ambiti, non solo considerati come fisici, ma anche e soprattutto come dimensioni: noto ed ignoto, sacro e profano, certo ed incerto. La stessa porta ha una valenza significativa nell’ambito del setting analitico, perché separa dal caos del mondo esterno, permettendo di creare un’atmosfera protetta e accogliente.

Quando si pensa alla porta di casa si ha la sensazione di accesso al proprio focolaio domestico e, dunque, d’istinto si riporta la mente ad un senso di familiarità e sicurezza. Ma cosa succede se quella stessa porta viene improvvisamente bloccata o si blocca, impedendo l’uscita? Proprio il nostro luogo sicuro diventa impervio, nemico, perturbante (Unheimliche). L’estraneità provoca senso di disagio, ansia che può, a sua volta, scatenare angoscia e terrore. La porta di casa diventa un ostacolo, non dà più via d’uscita.

La dott.ssa Floriana Lunardelli è operatrice all’interno del centro antiviolenza di Via Cairoli a Genova, nel quale vengono accolte e seguite donne che hanno subito violenza.

Nel suo saggio descrive e analizza un fenomeno in continua crescita: la violenza domestica, soprattutto a carico di donne e minori. In effetti, l’autrice lo descrive come la forma di violenza più pericolosa e anche più subdola, in quanto molto spesso la più celata agli occhi delle stesse vittime e aggressori, calati in schemi relazionali disfunzionali e tossici da cui difficilmente riescono a uscire senza un valido aiuto.

Il libro è suddiviso in tre parti.

Il concetto di Male

Nella prima parte si evidenzia e si analizza il concetto di Male dal punto di vista letterario, filosofico, artistico e psicologico. Che cos’è il Male? “Il Male è zona vuota od oscura, male è dolore, ansia, paura, attacco di panico, terrore, depressione […]. Male è minaccia imprecisa ed improvvisa, simile ad un uragano, capace di distruzione”.

Dal mito della caverna di Platone, dove si sottolinea allegoricamente che tutto sta nella capacità di conoscere il Bene e soprattutto saperlo riconoscere, si passa, in ambito sociologico, al Male banale, così definito da Hannah Arendt a sottolineare l’impossibilità di analisi nel profondo di una tematica che continua ad avere confini indefiniti: si vorrebbe credere che questa dimensione abbia sembianze demoniache, quasi fosse una rassicurazione, ma si rimane delusi, se si porta avanti tale convinzione. Il Male non sempre è crudeltà innata, in quanto può essere generato da cieca obbedienza o processi di deumanizzazione o, addirittura, banalmente, da lavoro abitudinario, eseguito in maniera meticolosa. Dal punto di vista psicoanalitico il saggio presenta l’antinomia tra Eros e Thanatos, tra pulsione di vita secondo il principio di piacere e pulsione di morte, quella che Freud evidenzia come necessità di ritorno alle origini, all’immobile, così elaborato dalla stessa tradizione filosofica greca: una tendenza di regressione allo stato di pietra, quasi ad essere l’unica illusione di poter dominare il Male.

Molto interessante è la rassegna sulle modalità di espressione artistica utilizzate per rappresentare le forme del Male; nel corso del tempo, si passa da una vera e propria antitesi ad un magnetismo tra poli opposti, quasi a sottolineare la duplicità incarnata nell’essenza umana. Non c’è bene senza male e non c’è male senza bene, in una forma di compromesso che l’autrice esprime con l’ossimoro “il piacere del Male”, utilizzato a partire dalla seconda metà del XVI secolo e per tutto il successivo. In questa descrizione si arriva al 1962, anno in cui Anthony Burgess presenta nelle pagine del suo testo i dettagli della crudeltà: “Arancia meccanica”, riprodotto successivamente sul grande schermo da Kubrick. L’autrice riflette sulle divergenze nel finale tra testo e pellicola, a sottolineare, ancora una volta, l’impossibilità di un’unica spiegazione o di un’unica direzione. Il Male può essere recidivo, incarnato, fine a sé stesso o da esso ci si può salvare? Il dipinto “Lo stupro” di Edgar Degas che si trova nel saggio non ha bisogno di parole.

Il tema della violenza

Nella seconda parte del testo ci si immerge nel tema della violenza, fenomeno, scrive l’autrice, “di tutti e di ognuno”. Violenza che non sempre sfocia in aggressione fisica, in quanto pervasa da una moltitudine di gradienti che includono anche uno sguardo sprezzante, segno di un non riconoscimento. Tra i bisogni della scala di Maslow sono annoverati il bisogno di sicurezza e il senso di appartenenza. Quest’ultimo, se sottratto, comporta un meccanismo incisivo e tagliente, quasi come un coltello, perché presuppone esclusione, indifferenza, rigetto. Un vero cancro della società moderna che può avere conseguenze drammatiche, senza un ritorno.

 In questa parte centrale vengono definite le varie forme di violenza con un accento sull’ambito domestico: da una violenza fisica conclamata che ingloba anche l’abuso sessuale, si sottolinea la pervasività di una psicologica, meno evidente, ma altrettanto devastante. Spesso si ritrova in quella ruota di potere e di controllo che scaturisce a partire dal concetto di intimità, a sua volta messaggero di parti più profonde e più intime di ciascuno. L’intimità custodisce gelosamente segreti, desideri e fantasie, ma può anche ricollegarsi alla relazione di coppia, in quel campo di condivisione e di scambio di sentimenti ed emozioni positive. Ma non sempre è così: se da questo scambio reciproco ognuno dei due partner riesce, in maniera funzionale, a modulare i propri atteggiamenti nel rispetto dell’altro, la relazione può arricchirsi e potenziarsi. Eros Ramazzotti, in uno dei suoi pezzi storici canta questo: “Ma il Bene che cos’è? È la fatica di un passo indietro per fare spazio a te”. Ma se questa relazione paritaria diventa motivo di accese discussioni, soprattutto quando l’uomo tende ad essere meno favorevole al dialogo, “può subentrare quel “classico gioco di ruolo”, in cui il “silenzio” si rivela pericoloso proprio per le donne” (Kaufmann, 2008). La donna che ama follemente, la donna che giustifica sempre e comunque, la donna che perfino si colpevolizza di colpe che non le appartengono, si ritrova in quel circolo di dipendenza affettiva che, paradossalmente, fa sì che proprio l’Amore sia la sua pena e condanna; un Amore che crea dipendenza alla stessa maniera di una droga.

E allora che fare?

Floriana Lunardelli rimanda alle varie strategie di coping messe in atto dalla donna, non sempre funzionali: dall’andare incontro al molestatore nel tentativo di farlo ragionare, all’andare contro, fino a quel movimento orientato verso l’interno che innesca meccanismi di diniego da parte della vittima o che porta all’uso di sostanze e farmaci, nel tentativo di alleviare il dolore fisico e psicologico.

La violenza domestica non è un semplice conflitto, essa si perpetua nel tempo e si manifesta secondo modalità di graduale escalation, approfittando di una situazione di potere e di supremazia. Il “primo schiaffo” può essere interpretato come un incidente di percorso, ma risulta solo un pensiero illusorio difensivo. Si può assistere perfino a quella “fase di luna di miele” dove la donna riesce a perdonare il carnefice, illudendosi che non succederà mai più.

In questo ambiente serrato, quasi come se si fosse dietro alle sbarre, non si può dimenticare la presenza di bambini, testimoni di eventi che terrorizzano e immobilizzano. Il medesimo atto di assistere diventa esso stesso violenza: come ben evidenzia l’autrice, il bambino, non ancora in possesso di strumenti per reagire alla situazione, vive dei profondi sensi di colpa, anche per il fatto di non essere lui stesso il maltrattato o per l’idea che la lite sia scaturita a causa sua. Non si presta attenzione ai suoi bisogni primari di accudimento, alla sua ricerca di sicurezza e al suo bisogno di amore.

Il centro antiviolenza

Nella terza parte del saggio vengono presentati, in maniera accurata, due casi di donne che hanno avuto la forza di rivolgersi al Centro antiviolenza dove lavora Floriana: si mettono in luce la complessità del fenomeno e tutti gli sforzi fatti per fronteggiarla.

Il saggio è la rappresentazione di un Male contemporaneo vischioso ed invischiante, intricato nella sua diversità di forme e di volti. L’autrice pone l’accento su quanto possa inficiare sulla salute, intesa come benessere psicofisico, l’esposizione di minori a maltrattamenti ripetuti. L’assistere a tali fenomeni può gravare fortemente sulle capacità cognitive e può innescare disagi più o meno conclamati con esordio in adolescenza o in età adulta. Nelle donne vittime di violenza spesso si riscontrano bassa autostima, locus of control esterno e un senso di sé fragile o diffuso. I modelli di riferimento disfunzionali interiorizzati possono spingere alla presa di una posizione di passività che caratterizza la vittima, da cui derivano anche senso di responsabilità e di colpa. Oppure è possibile, come nel secondo caso esposto, l’aver inglobato l’idea che l’aggressività nelle relazioni affettive sia naturale.

Un valore aggiunto al testo sta nella possibilità di ascoltare, attraverso i QR code presenti, le voci di donne vittime di violenza che hanno avuto il coraggio di raccontare le loro storie, reali e crude, con l’intento di aiutare chi ancora non è riuscito a chiedere aiuto. In effetti, ascoltandole, è possibile immaginare che qualche lettore si possa immedesimare in una di loro ed essere supportato nella ricerca di un centro antiviolenza. Qui si lavora individualmente, ma anche in gruppi, per incrementare consapevolezza e comprensione, per aiutare ogni persona a non sentirsi né sola né giudicata, e soprattutto ad accompagnarla in questo processo, rispettando tempi e modalità.

Una via di uscita da quella porta chiusa non solo per la vittima, ma anche per il carnefice, se pronto a consegnarsi spontaneamente ad uno dei centri per autori di violenza sul territorio.

Una via di uscita da quella porta, spettatrice silente ed impotente.

 

Da cosa sono caratterizzati lo stile di pensiero e il comportamento criminale?

La ricerca in psicologia ha indagato la personalità e gli stili di pensiero criminale insieme ad altre variabili psicosociali, per capire se possono essere individuati dei predittori del comportamento offensivo, tuttavia sono disponibili pochissimi studi.

 

Alcune persone sono inclini al crimine?

 Lo stile di pensiero criminale è definito da Walters (2006) come “contenuto, materia e processo di pensiero che porta all’inizio e al mantenimento del comportamento caratterizzato dalla violazione abituale della legge”.

La personalità è definita come “un’unità dinamica, di quei sistemi psicofisici e sociali che determinano i modelli di comportamento, i pensieri e i sentimenti caratteristici della persona” (Allport, 1961).

Il Modello di personalità a tre fattori di Eysenck, descrive la vulnerabilità a commettere un crimine attraverso tre dimensioni della personalità:

  • Psicoticismo, delinea individui aggressivi, egoisti e impulsivi;
  • Nevroticismo, rappresenta individui preoccupati e tendenti agli sbalzi d’umore;
  • Estroversione, descrive individui propensi a prendere parte ad attività sociali e alla continua ricerca di sensazioni nuove e intense.

Alti livelli di questi tratti si trovano solitamente negli individui con precedenti di reclusione (Caspi et al., 2006). Uno studio di Cauffman (2016) sui tratti della personalità psicopatologica, condotto su 130 maschi detenuti nelle carceri svedesi condannati per reati gravi, ha rilevato una correlazione tra criminalità e alcuni tratti quali impulsività, ostilità, aggressività, ricerca di sensazioni, tensione, stress e ansia sociale. Inoltre, altri studi collegano anche la dipendenza (ad es. di sostanze psicoattive, alcol, gioco d’azzardo) al comportamento delinquenziale (Brochu et al., 2001; Jennings et al., 2015; Lind et al., 2015). Come mostrato da Fehrman e collaboratori (2019) su 1885 intervistati (tossicodipendenti), tratti della personalità quali impulsività e ricerca di sensazioni sono più alti nei tossicodipendenti rispetto ai non consumatori. Tuttavia sono necessari ulteriori studi per testare le proposte di Eysenck.

Walters (1990) ha osservato che “i modelli di pensiero criminale possono essere definiti come integrazione di pensieri irrazionali negativi (errori di pensiero) e distorsioni della realtà (strategie di coping patologiche)”. L’autore ha suggerito che lo stile di pensiero criminale comporta processi decisionali che riflettono pensieri contrari alle norme sociali.

La personalità antisociale è il concetto che è stato utilizzato più spesso per riferirsi alla personalità criminale. Secondo Kruger et al. (2005), il disturbo antisociale di personalità è caratterizzato da disprezzo per gli altri, per le norme e per le regole. Di solito inizia durante l’infanzia o l’adolescenza e continua nella vita adulta.

 Il modello dei sistemi duali di Steinberg (2008) dell’assunzione di rischi adolescenziali propone che l’aumento del comportamento a rischio durante la tarda infanzia e la prima adolescenza sia spiegato da un aumento della ricerca di sensazioni, dovuto al rimodellamento del sistema dopaminergico durante la pubertà, mentre la diminuzione del comportamento a rischio nella tarda adolescenza e nella prima età adulta è attribuibile alla diminuzione dell’impulsività sostenuta dallo sviluppo del sistema di controllo cognitivo del cervello. Il modello dei sistemi duali è stato usato anche per spiegare il crimine. In un’analisi longitudinale Burt, Sweeten e Simons (2014) hanno scoperto che l’impulsività e la ricerca di sensazioni erano associate a 11 diversi atti illegali. Anche altri lavori hanno mostrato che i tratti che spiegano il comportamento rischioso all’interno del modello dei sistemi duali sono associati a comportamenti problematici, incluso il crimine (Morgan e Lilienfeld, 2000; Ogilvie, Stewart, Chan e Shum, 2011). I comportamenti rischiosi e criminali condividono un aspetto: entrambi possono essere elettrizzanti e avere gravi conseguenze. Pertanto, ci aspetteremmo che sia i comportamenti criminali che quelli rischiosi siano più probabili tra gli individui con una maggiore ricerca di sensazioni e una maggiore impulsività. Altri autori hanno rilevato che tratti quali egocentrismo, narcisismo, machiavellismo, insensibilità, mancanza di empatia sono associati a problemi di condotta e comportamento criminale in campioni di comunità, clinici e forensi di diverse età (Dadds, Fraser, Frost , & Hawes, 2005; Frick & White, 2008; Kahn, Byrd, & Pardini, 2013; Pardini, Obradovic, & Loeber, 2006).

Criminalità e malattia mentale

L’opinione che esista una stretta connessione tra crimini violenti e malattia mentale è molto diffusa. Se è vero che a volte malattia mentale e criminalità sono contemporaneamente presenti è anche vero che nella maggior parte dei casi, malattia mentale e criminalità sono fenomeni del tutto indipendenti l’uno dall’altro. Dunque la possibilità di commettere reati riguarda tanto le persone mentalmente sane quanto quelle affette da disturbi psichiatrici (Greco et al., 2007). Come evidenziato da uno studio (Widiger & Sankis, 2000), la malattia mentale grave è spesso associata a disregolazione o discontrollo degli impulsi, rabbia, ostilità o aggressività, che in alcuni casi possono sfociare in comportamenti violenti più o meno gravi. Inoltre, alcuni soggetti durante un episodio psicotico acuto possono diventare violenti quando credono che qualcuno li stia minacciando, oppure certi soggetti durante un episodio maniacale diventano violenti o commettono un reato, perché incapaci di frenare un impulso irresistibile. Anche i disturbi di personalità antisociale, borderline, narcisistico, istrionico e paranoide, sembrano essere direttamente correlati ad alcune forme di comportamento criminale. Ma sono soprattutto le droghe e l’alcool ad essere direttamente responsabili di comportamenti criminali.

Swanson e coll. (2006) hanno esaminato un campione di 1410 individui affetti da schizofrenia reclutati in 56 luoghi differenti negli Stati Uniti, registrando un tasso di violenza pari al 19.1%, con un 3.6% di violenza grave (aggressione armata, violenza sessuale e violenza che aveva comportato lesioni alla vittima). I sintomi psicotici, in particolare l’ideazione paranoide, in combinazione con altri fattori, quali una storia di problemi della condotta nella fanciullezza, erano fortemente correlati ai comportamenti gravemente violenti. In uno studio condotto ad Istanbul, in cui sono stati esaminati 85 casi di figlicidio commessi tra il 1995 e il 2000, il 61% degli autori del crimine aveva una diagnosi di schizofrenia (in alcuni casi sotto il comando di una voce che indicava al genitore di uccidere il proprio figlio) (Karakus e coll., 2003). Alcuni studi inoltre hanno individuato come fattore di rischio la presenza in comorbidità di abuso di sostanze o di un disturbo di personalità (Andersen e coll., 1996; Côtè, Hodgins, 1990; 1992; Eronen, Hakola, Tiihonen, 1996 a; 1996 b; Hodgins, 1992; Hodgins, Côtè, 1993; Hodgins e coll., 1996; Karakus e coll., 2003; Lindqvist, Allebek, 1990; Modestin, Ammann, 1995; Räsänen e coll., 1998; Steadman e coll., 1998; Swanson, Holzer, Ganju, Jono, 1990; Swartz e coll., 1998; Volavka e coll., 1995). Per quanto riguarda invece la prevalenza di disturbi affettivi tra i detenuti, essa potrebbe essere reattiva alla condizione di detenzione. Infine, i disturbi d’ansia risultano non associati ad un rischio elevato di violenza (Greco et al., 2007).

Le credenze popolari, rinforzate anche dai mass media, si sono focalizzate sull’idea che esista una forte connessione tra malattia mentale e crimini violenti. Tuttavia l’associazione tra violenza e malattia mentale è solo in termini di maggiore rischio, ed è paragonabile al rischio riguardante l’associazione tra violenza e giovane età, basso livello di educazione e genere maschile (Link et al., 1992; Swanson et al., 1990) o rispetto ad altre caratteristiche socio-culturali (come livello di scolarità, appartenenza etnica o locazione urbana) e nettamente inferiore al rischio associato all’abuso di sostanze e al disturbo antisociale di personalità. Dunque è bene sottolineare che la maggioranza delle persone affette da disturbi mentali non commette violenza in misura maggiore rispetto alla popolazione generale (Greco et al., 2007).

Disturbi alimentari e obesità: il ruolo della costituzione genetica individuale

I disturbi alimentari e l’obesità colpiscono circa il 6% della popolazione italiana e causano significativo disagio. Secondo studi recenti, però, questi disturbi non sembrerebbero solo causati da scelte consapevoli e/o tratti psicologici, bensì dall’azione di circa 60 geni specifici in grado di determinare in parte o anche completamente il nostro peso corporeo.

 

Introduzione

 I Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, in particolare Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata, sono una classe eterogenea di malattie mentali complesse caratterizzate da una disregolazione del peso corporeo e dell’appetito e da caratteristiche comportamentali e psicologiche distintive in base alla tipologia di disturbo (Bulik et al., 2022). Questi disturbi stanno diventando sempre di più oggetto di difficoltà a livello sanitario e sociale, a causa della loro diffusione soprattutto tra i giovani e per la loro natura multifattoriale complessa (Ministero della Salute, 2023). I disturbi alimentari colpiscono principalmente il genere femminile, con un rapporto femmine/maschi di circa 9 a 1, anche se questi disturbi cominciano ad aumentare anche all’interno del sesso maschile (Ministero della Salute, 2023). Ricerche nazionali recenti hanno riportato un aumento di questi disturbi di circa il 40% rispetto al 2019 (Ministero della Salute, 2023) oltre che rilevato difficoltà di accesso alle cure in molte Regioni italiane, fatto che porta con sé conseguenze sulla prognosi (Ministero della Salute, 2023).

L’obesità invece, nonostante sia anch’essa caratterizzata da un’assunzione di calorie continuata nel tempo ed eccessiva rispetto al consumo individuale, non è al momento classificata come disturbo mentale (APA, 2022).

I disturbi alimentari e l’obesità non sono rimasti esenti da giudizi. Molto spesso, infatti, questi disturbi vengono considerati come quasi esclusivamente dovuti alle scelte consapevoli dell’individuo o/e ai suoi tratti psicologici.

Ma è veramente tutta “responsabilità” del soggetto che ne è affetto? Cosa dice la scienza moderna? Ecco che lo studio del gruppo di ricerca dell’Università Laval (Canada) dimostra la falsità di questo stigma sociale.

La ricerca

Negli ultimi 40 anni, i cambiamenti nell’ambiente alimentare hanno indubbiamente contribuito al rapido aumento dell’Indice medio di Massa Corporea (IMC) in quasi tutti i Paesi, a causa dell’influenza che l’ambiente stesso ha avuto sui nostri comportamenti alimentari. È così che i ricercatori dell’Università Laval (Canada), hanno ritenuto che l’identificazione dei determinanti genetici e biologici del peso corporeo fosse di fondamentale importanza dal punto di vista evolutivo e della salute pubblica (Gagnon et al., 2023). Tuttavia, diverse evidenze suggeriscono che i fattori genetici hanno plasmato la risposta individuale all’ambiente obesogeno. Studi su gemelli e famiglie, infatti, hanno rivelato che le variazioni genetiche possono spiegare il 50-75% della varianza dell’Indice di Massa Corporea.

 Su questi dati, quindi, i ricercatori si sono proposti di determinare se le varianti genetiche legate all’Indice di Massa Corporea potessero essere mappate sulle proteine cerebrali. È stato così esaminato il genoma di 800 mila persone. Il team di ricerca si è concentrato, grazie all’uso di tecniche di proteomica (tecniche specifiche per lo studio delle proteine cerebrali) sulla corteccia prefrontale dorsolaterale, sede del cervello coinvolta all’interno dei processi di fame e sazietà.

I risultati della ricerca

Grazie alle tecniche di proteomica, sono stati identificati circa 60 geni attivi nella corteccia prefrontale dorsolaterale, geni che contribuiscono ad influenzare la nostra massa corporea. Essi, quindi, potrebbero svolgere la funzione di controllo dell’Indice di Massa Corporea umano tramite la loro espressione in quella specifica parte del cervello sopracitata.

Questi risultati evidenziano quindi il ruolo fondamentale dei geni nella regolazione del peso corporeo, permettendoci anche di dare una spiegazione alla variazione significativa dell’Indice di Massa Corporea da persona a persona.

Conclusioni

Questo studio dimostra come l’obesità e/o i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione non siano necessariamente la conseguenza di comportamenti volontari e quindi di scelte consapevoli dell’individuo che ne è affetto. Il nostro DNA, infatti, risulta essere determinante in maniera parziale (o anche completa) nella quantità di grasso corporeo che ognuno di noi possiede. Nonostante ciò, ci sono situazioni in cui questa espressione genetica è celata da alterazioni comportamentali individuali tipiche dei disturbi alimentari, come le perdite di controllo sul cibo, che rendono così difficile la comprensione di questo fenomeno. Esisterebbe quindi una differenza, sebbene non sempre evidente, tra “responsabilità” e “costituzione genetica” individuale. Dati questi risultati, la scienza riuscirà ad abbattere lo stigma esistente nei confronti di queste patologie?

 

Cosa vuol dire essere una persona altamente sensibile?

L’indagine qualitativa di Bas e colleghi (2019) ha l’obiettivo di comprendere il funzionamento delle persone altamente sensibili nelle loro percezioni, esperienze e strategie di coping.

Alta sensibilità: lo studio di Bas e colleghi (2019)

 Anche se ognuno di noi, per sopravvivenza, è sensibile agli stimoli ambientali, il livello di suscettibilità a tali informazioni differisce fra gli individui in base al tratto di “sensibilità all’elaborazione sensoriale” (Sensory Processing Sensitivity, SPS) (Aron et al., 2012). Anche se in passato la sensibilità all’ambiente era vista esclusivamente come un fattore di rischio, oggi le ricerche suggeriscono che, se gli individui possono essere diversamente suscettibili a contesti avversi o supportivi in funzione del loro grado di sensibilità (Homberg, J.R. e Jagiellowicz, 2021), allora le persone con alti livelli di sensibilità all’elaborazione sensoriale avranno più probabilità di sperimentare problemi legati allo stress (Greven et al., 2019). In questa direzione, lo studio qualitativo di Bas e colleghi (2019) si è posto l’obiettivo di porre luce sugli aspetti positivi e negativi dell’elevata sensibilità, approfondendo le strategie di coping che gli individui con elevata sensibilità all’elaborazione sensoriale utilizzano per affrontare le conseguenze di tale tratto.

Percezioni ed esperienze degli individui altamente sensibili

Anche se la letteratura ad oggi presente sull’argomento definisce la sensibilità all’elaborazione sensoriale come un costrutto unitario, rimangono ancora poco chiare le sue caratteristiche centrali.

Rispetto alle percezioni e alle esperienze che gli individui con alti livelli di sensibilità all’elaborazione sensoriale vivono quotidianamente, sono emersi 6 temi significativi con relativi sotto-domini:

Risposta emotiva

  • Forti emozioni negative in risposta a eventi avversi, emozioni o comportamenti negativi degli altri (es. rabbia o rifiuto), e triggers quali informazioni negative da parte dei media (sentire notizie allarmanti o vedere violenza);
  • Forti emozioni positive, incluso essere profondamente toccati dall’arte o godere intensamente delle piccole cose della vita;
  • Richiesta di più tempo per elaborare e regolare le emozioni, specie quelle negative.

Connessione con gli altri

  • Notare o sentire le emozioni degli altri e l’atmosfera delle situazioni in maniera intensa (ad esempio, avvertendo quando c’è del non detto);
  • Elevata attenzione ai bisogni altrui, anche se a volte a costo delle proprie necessità;
  • Elevata comprensione delle intenzioni degli altri, riuscendo ad adottare la prospettiva con cui questi vedono il mondo;
  • Agire sulla base dell’empatia (ad esempio, offrendo aiuto quando capiscono che qualcuno sta male);
  • Sentirsi connessi agli altri (anche con chi non si conosce), con i quali stabilire un contatto profondo e condividere i propri sentimenti.

Pensiero

  • Rimuginio e ruminazione, con la tendenza a preoccuparsi molto;
  • Pensare e riflettere a lungo, non riuscendo a concludere in breve tempo le decisioni;
  • Necessità di andare in profondità e carpire il significato delle cose

Facilità alla sovrastimolazione

  • Dagli stimoli sensoriali (rumori, luci, sensazioni tattili);
  • Dagli stimoli sociali (situazioni dove ci sono tante persone con cui interagire);
  • Effetti sulla cognizione (distrazione, affatticamento, confusione mentale);
  • Effetti sull’umore (maggiore irritabilità o rabbia).

Percezione dei dettagli

  • Percezione di una maggiore quantità di informazioni (“senza filtro”);
  • Percezione dettagliata delle informazioni, “in alta definizione” (ad esempio, le persone altamente sensibili percepiscono le sottigliezze della comunicazione non verbale)

Aspetti generali dell’elevata sensibilità

  • Diminuzione dell’autostima a causa dell’alta sensibilità;
  • Stress, perché questi individui si affaticano più facilmente e, contemporaneamente, trovano più difficile rilassarsi;
  • Stanchezza, riportando di avere spesso un basso livello di energia.

 Altre aree emerse come significative sono maggiori difficoltà nell’area lavoro/studio, elevata creatività, esperienze intense e un ricco mondo interiore, spiritualità, pensiero associativo, tendenza all’impulsività e capacità di trarre conclusioni da molteplici dettagli.

Le strategie di coping delle persone altamente sensibili

Rispetto alle strategie che gli individui con alti livelli di sensibilità all’elaborazione sensoriale utilizzano per migliorare il loro livello di benessere, sono emerse due strategie significative con relativi sotto-domini:

Ridurre l’input sensoriale:

  • Bisogno di solitudine e ambienti tranquilli come strategie per affrontare o prevenire la sovrastimolazione;
  • Specifiche strategie per ridurre le stimolazioni sensoriali, come utilizzare gli auricolari per attutire i rumori o gli occhiali da sole per schermarsi dalla luce.

Strategie psicologiche:

  • Ricevere supporto dagli altri, con i quali condividere le proprie esperienze interiori e sentirsi compresi;
  • Attività di mindfulness, meditazione per aiutarsi a lasciare andare i pensieri negativi.

Conclusioni

Anche se tende ad emergere presto nella vita, molti dei partecipanti riportano di aver purtroppo scoperto tardi la loro elevata sensibilità; alcuni di loro, infatti, hanno espresso che, se l’avessero saputo prima, molti dei loro problemi legati allo stress avrebbero potuto essere prevenuti. Di fatto, quando le persone sono consapevoli della loro ipersensibilità, possono esprimere al massimo il loro potenziale. Ad esempio, l’efficacia e la soddisfazione nell’ambiente lavorativo sono migliori quando le caratteristiche personali (come la sensibilità all’elaborazione sensoriale e le esigenze che ne derivano) e le caratteristiche ambientali sono compatibili. Oltre a creare consapevolezza nella popolazione, una maggiore conoscenza sull’alta sensibilità potrebbe essere utile nei programmi educativi per insegnanti e specialisti sanitari.

L’impiego dei sogni lucidi nei setting clinici

Cosa sono i sogni lucidi e come potrebbero essere impiegati nella pratica clinica e nei percorsi terapeutici?

 

 Sperimentare un sogno lucido significa acquisire un certo grado di consapevolezza della propria attività onirica durante il sonno (Baird et al., 2018). È raro ma non impossibile averne esperienza spontaneamente e la frequenza di presentazione può essere aumentata attraverso l’utilizzo di specifiche tecniche (Gott et al., 2020). Sebbene il fenomeno dei sogni lucidi non sia una novità, esistono pochi studi, spesso contrastanti, al riguardo; nella pratica clinica infatti non è ancora stato stabilito se possano essere utili o dannosi.

Sogni lucidi e incubi

Nel corso dell’ultimo decennio è nata l’idea di combinare i trattamenti psicoterapeutici per i militari affetti da Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) e l’impiego dei sogni lucidi: questo progetto ha preso il nome di “Power Dreaming”. L’interesse per questa nuova pratica è nato dagli aspetti preoccupanti e dagli effetti a lungo termine causati dalla malattia sul personale militare, dal momento che il 52% dei veterani con PTSD riferisce di avere incubi frequenti, rispetto al 3-7% della popolazione generale (Kuhn, 2011). Secondariamente, la proposta di introdurre questa procedura innovativa combinata con strategie psicoterapeutiche alternative è stata dettata dalla necessità di trovare una soluzione ai nuovi problemi psicologici derivanti dal moderno servizio militare. L’utilizzo dei sogni lucidi potrebbe essere una possibilità per aiutare i militari, e generalmente i pazienti affetti da PTSD, a controllare consapevolmente i propri incubi legati al trauma e modificare le risposte fisiche ed emotive ad essi legate (Smith, 2020). In questo ambito, l’utilizzo dei sogni lucidi come pratica terapeutica potrebbe servire come strumento per aiutare gli individui a risolvere i propri conflitti interni, cambiando la percezione degli eventi traumatici già vissuti e allo stesso tempo preparare la psiche a potenziali scenari pericolosi nella vita reale, sperimentandoli in un ambiente controllato e sicuro (Zink & Pietrowsky, 2015).

Alla luce di queste considerazioni, è stato ipotizzato che possano avere un impatto positivo sulla riduzione dell’intensità e della frequenza di comparsa degli incubi, i quali possono essere fonte di disagio significativo e compromissione del funzionamento lavorativo e sociale. Possono essere anche connessi a sintomi di depressione e ansia e predire la comparsa del fenomeno delle paralisi del sonno. Pertanto, essere consapevoli di star sognando potrebbe essere molto utile in queste situazioni (de Macêdo et al., 2019).

 Eppure, sebbene l’induzione di sogni lucidi possa essere un possibile supporto nel trattamento dei soggetti che soffrono di incubi, riducendone la frequenza e l’intensità, la letteratura a riguardo è scarsa o quasi inesistente (de Macêdo et al., 2019), anche perché stabilire il legame tra incubi e sogni lucidi è estremamente complesso (Drinkwater et al., 2020). Ad esempio, Glicksohn (1990) ha osservato come solo credere nelle esperienze paranormali predicesse i sogni lucidi e, nel 2017, Denis e Poerio hanno dimostrato come la paralisi del sonno e i sogni lucidi fossero collegati alla credenza nel paranormale, suggerendo che una spiegazione valida per questo legame potrebbe essere l’apertura all’esperienza.

Sogni lucidi e insonnia

Il trattamento di prima scelta per l’insonnia è la terapia cognitivo-comportamentale specifica per questo disturbo (CBT-I). Tuttavia, è stato osservato come anche l’impiego dei sogni lucidi potrebbe attenuarne la sintomatologia, come affermato da Ellis e colleghi (2020) in uno studio pilota. L’obiettivo dello studio era quello di verificare se il training sui sogni lucidi per l’insonnia potesse influire positivamente su di essa e sui sintomi di depressione e ansia. Il training consisteva in quattro moduli distribuiti in un periodo di due settimane e prevedeva l’introduzione di cinque tecniche di induzione di tipo cognitivo, come la normalizzazione dei sogni, il controllo della realtà, le affermazioni lucide, la visualizzazione e l’autosuggestione. Dei 48 partecipanti dello studio, 37 hanno riferito di aver fatto sogni lucidi almeno una volta durante il percorso, mentre 11 non sono riusciti a sperimentarli. Al termine della procedura, 26 soggetti non soddisfacevano più i criteri per la diagnosi di insonnia e inoltre, nessuno dei partecipanti ha richiesto il supporto della CBT-I.

Ad ogni modo, a prescindere dai suoi possibili risultati terapeutici, l’utilizzo dei sogni lucidi nella pratica clinica è ampiamente dibattuto, soprattutto perché il loro innesco può causare disturbi nei pattern del sonno (Stumbrys et al., 2012) e nell’equilibrio dei sistemi serotoninergici e colinergici (Biard et al., 2016). A tal proposito, vi sono infatti opinioni contrastanti: ad esempio, alcune ricerche (es. Ellis et al., 2020) sostengono che i sogni lucidi possano conferire un buon livello di benessere e che perciò possano essere integrati alla terapia standard. Al contrario, altre si concentrano sulla possibilità che gli stati di sonno-veglia possano essere correlati a cognizioni bizzarre, stress e psicopatologia e, seguendo questa linea di pensiero, Aviram e Soffer-Dudek (2018) hanno condotto uno studio per osservare il legame tra quest’ultima e la comparsa o induzione dei sogni lucidi. Dallo studio è emerso che l’intensità del sogno lucido, le emozioni positive ad esso legate e l’uso di tecniche di stimolazione fossero profondamente associati a diversi sintomi psicopatologici, evidenziando soprattutto un forte legame con l’induzione deliberata e l’aumento della dissociazione e di sintomi psicotici in un periodo di 2 mesi.

Conclusioni

Il dibattito sull’impiego dei sogni lucidi nel trattamento delle malattie continua, poiché non è ancora chiaro se gli aspetti positivi del loro utilizzo possano essere più solidi di quelli negativi; inoltre, gli effetti a lungo termine sul cervello causati dall’induzione dei sogni lucidi necessitano di ulteriori studi.

In conclusione, sebbene la lucidità possa presentare aspetti sia positivi che negativi a seconda delle sue caratteristiche, questa procedura dovrebbe essere utilizzata con cautela, soprattutto in ambito terapeutico.

Funzioni esecutive. Il programma Unstuck and on Target! (2023) – Recensione

Alla base delle difficoltà che spesso si incontrano, non solo in chi ha una diagnosi psichiatrica, ci sono quelle riguardanti le funzioni esecutive, capacità con base neurologica per il controllo del comportamento e il raggiungimento di scopi (iniziazione, controllo inibitorio, memoria di lavoro, organizzazione e pianificazione, automonitoraggio, ecc.).

 

 Tra le funzioni esecutive la flessibilità cognitiva assume un ruolo molto importante, per tollerare i cambiamenti e gli eventi inaspettati, trovare nuovi modi di affrontare un problema, accettare interpretazioni flessibili delle regole, negoziare con gli altri e accettare punti di vista diversi.

Il libro di Cannon e collaboratori presenta un protocollo innovativo e specifico per lavorare sulle funzioni esecutive e applicabile per migliorare la flessibilità e le altre funzioni, la regolazione emotiva, il problem solving, l’organizzazione e la pianificazione.

La flessibilità ci consente di capire che si possono fare le cose in più di un modo, si contrappone al pensiero rigido che considera giusto un solo punto di vista e assume posizioni estreme.

Unstuck and on Target! è un piano d’azione per insegnare/apprendere a essere più flessibili e abili nella pianificazione e orientati verso scopi. La proposta del volume è stata sviluppata per i bambini con autismo, ma è applicabile in modo ampio.

 La struttura del libro comprende 21 sessioni divise in 6 fasi. Ogni fase e sessione prevede la definizione dello scopo, l’elenco dei materiali da utilizzare, la descrizione delle attività da svolgere e il monitoraggio dei progressi. Una guida per la pratica a casa e a scuola completa l’illustrazione del percorso.

La prima fase concerne le abilità fondamentali: conoscere sé stessi, identificare le emozioni, mettere a punto un piano, scegliere strategie di coping. La seconda fase è relativa alla flessibilità e alle attività per migliorarla.

La terza fase addestra ad avere un comportamento flessibile nell’affrontare i problemi e giungere a soluzioni di buon compromesso, anche quando si è di fronte all’inaspettato. Nella fase successiva sono presi in considerazione i vantaggi di un comportamento flessibile.

La fase cinque tratta di come raggiungere i propri scopi attraverso il format SMART (Scopo, Motivazione, Architettare un piano, Realizzare, Tenere d’occhio), mentre l’ultima fase evidenzia l’importanza della flessibilità quando si è orientati a uno scopo.

Il libro, corredato da pratiche schede di lavoro, è molto utile per chi opera con bambini con disturbo dello spettro autistico, con disturbo da deficit d’attenzione e iperattività, con disturbi d’ansia o problemi correlati, ma offre anche spunti e indicazioni interessanti per applicare alcune attività e procedure in modo più generalizzato con soggetti deficitari nelle funzioni esecutive.

Perché odiamo i regali costosi. Guida al regalo perfetto

 Per il compleanno del mio migliore amico non ho badato a spese.

Volevo fargli un regalo figo e siccome è il tipico milanese imbruttito stressato che lavora “accaventiquattro”, ho pensato: “Quale sorpresa migliore di un ingresso alle terme più esclusive della città?”.

Ho ignorato le proteste del mio portafoglio e ho concluso l’acquisto pensando che l’amicizia che ci lega dai tempi del liceo valeva senza dubbio il sacrificio economico.

Non vedevo l’ora di consegnargli il biglietto e condividere il suo entusiasmo per un regalo che, ammettiamolo, chi non vorrebbe ricevere?!

Qualche mese dopo, per il mio compleanno, mio fratello non ha badato a spese.

Voleva farmi un regalo figo e siccome sono la tipica milanese imbruttita stressata che lavora “accaventiquattro”, mi ha sorpreso con un ingresso alle terme più esclusive della città.

Quando ho aperto la busta contenente il regalo ho pensato: “E quando ci vado, che non ho mai tempo?! Non c’è nemmeno parcheggio e arrivarci coi mezzi è un incubo!!”.

Il buono fa ancora bella mostra di sé sulla mensola del salotto; probabilmente ormai è scaduto, non ho il coraggio di controllare.

Giudicare un regalo: meglio l’effetto wow o la praticità?

Un regalo (es. una cena in un ristorante) può essere giudicato in base a due parametri: la desirability, cioè il valore in sé, legato alla qualità e alle caratteristiche che lo contraddistinguono (es. in quel ristorante si mangia divinamente) e la feasibility, cioè gli aspetti non essenziali, come la praticità o la facilità di utilizzo (es. quel ristorante è comodo da raggiungere).

Lo stesso regalo, però, viene valutato da chi lo fa e da chi lo riceve in maniera differente: il primo tende a dare maggiore importanza alla desirability ed è questo l’aspetto che lo guida nella scelta; il secondo tende a considerare più rilevante la feasibility.

Date queste premesse, cosa potrà mai andare storto!

Un buon regalo costa tanto…

Quando scegliamo un regalo di solito riteniamo che più spendiamo più dimostriamo all’altro quanto teniamo a lui. Non solo, pensiamo anche che ciò che costa di più sia migliore di ciò che costa di meno. Questo perché c’è stato un tempo in cui, effettivamente, vi era una forte correlazione tra prezzo e qualità degli oggetti; è stato l’avvento della rivoluzione industriale a permettere la produzione di buoni oggetti a prezzi contenuti. Tuttavia tendiamo ancora a inferire la qualità di un oggetto dal suo prezzo e a odiare le cose che costano poco (Why we hate cheap things)… ma solo se dobbiamo regalarle!

Infatti chi fa un regalo considera il prezzo come indicatore di desirability più che di feasibility: se costa tanto significa che è di buona qualità e quindi è un buon regalo! Il fatto che sia ritenuto di buona qualità giustifica l’esborso e, anche se il portafoglio ne risente, il sacrificio economico percepito risulta accettabile.

 Al contrario, chi riceve il regalo non solo non considera il prezzo come indicatore di qualità, ma non percepisce nemmeno il sacrificio economico sostenuto (per forza, mica ha dovuto sborsare lui i soldi!) e scevro dall’influenza di questi due aspetti, valuta come migliori… i regali più economici!

Questi sono i risultati di uno studio del 2022 della Shandong Normal University su quanto il prezzo influenzi i nostri giudizi quando valutiamo un regalo. Pensate a quanti soldi avremmo potuto risparmiare in tutti questi anni, se solo Shouxin Li e colleghi avessero condotto prima le loro ricerche!

… o un buon regalo costa poco?

Prima di versare lacrime amare sul saldo della carta di credito, cerchiamo di capire come sia possibile che questi ingrati non apprezzino tanto quanto noi i regali che gli abbiamo fatto!

Il costo d’uso

Chi riceve un regalo è molto più sensibile al costo d’uso (per esempio alla feasibility). Di solito un oggetto che ha un costo elevato richiede maggiori cure, manutenzione o “sbattimenti” rispetto a uno che costa meno.

Il costo comportamentale

Chi riceve un regalo è molto più sensibile agli sforzi fisici, mentali e al tempo dedicati nella ricerca di un regalo personale. Un regalo costoso può essere percepito come il risultato di un minor investimento di tempo e sforzi nella sua scelta.

Il costo emozionale

A meno che non siate un asociale, quando ricevete un regalo dovete sopportare il peso della reciprocità insita nello scambio e ricambiare alla prossima occasione con qualcosa che sia all’altezza di quanto ricevuto. Questo può essere fonte di imbarazzo, ansia, stress o comunque una fastidiosa seccatura.

Le regole per un buon regalo

Un buon regalo deve rispondere alle esigenze utilitaristiche e psicologiche di chi lo riceve.

Ecco quindi alcuni consigli da seguire per non sbagliare e fare il regalo perfetto:

  • Puntate sulla feasibility, non sulla desirability. Immaginate come voi stessi utilizzereste concretamente quel regalo, così da coglierne più chiaramente gli aspetti di feasibility, e puntate su qualcosa che sia semplice e comodo da usare. La parola d’ordine è #zerosbattimenti.
  • Riducete la distanza psicologica tra voi e il destinatario del regalo. Quando scegliamo un regalo spesso seguiamo i nostri gusti. Scegliete invece qualcosa dalla sua lista dei desideri o chiedetegli cosa vorrebbe ricevere, così da essere sicuri di andare incontro ai suoi criteri di utilità e qualità (e non ai vostri).
  • Mostrate quanto ci tenete. Fate in modo che il regalo esprima il più possibile quanto tenete al destinatario della vostra sorpresa e che si veda che è un regalo dedicato e personalizzato.
  • Occhio al prezzo! Chi riceve un regalo considera il prezzo un criterio psicologico soggettivo: un prezzo basso indica premura (dice: “non è niente di impegnativo, ma quando l’ho visto ti ho pensato!”) e premura indica che si è in una relazione stretta con chi ha fatto il regalo e il regalo di un amico intimo è un buon regalo.

Alla fine, è davvero il pensiero che conta!

 

Lutto e EMDR: dalla diagnosi all’intervento clinico (2022) di Roger Solomon – Recensione

Lutto e EMDR: dalla diagnosi all’intervento clinico è un libro che fornisce ai professionisti della salute mentale informazioni dettagliate e complete circa il modello EMDR per l’elaborazione del lutto, definendo poi le differenti forme di lutto e i rispettivi modelli teorici, per poi guidare il professionista passo dopo passo nella diagnosi e nell’intervento.

 

 La morte di una persona amata può essere un momento di enorme sofferenza. Perdere qualcuno che amiamo, infatti, spesso significa anche perdere qualcuno che ci offriva un senso di sicurezza ed equilibrio nella vita, dando a quest’ultima prevedibilità e significato. All’indomani di una perdita, soprattutto quando essa è stata traumatica, improvvisa e inaspettata, è difficile capire chi siamo senza la persona amata o come la nostra vita possa andare avanti senza di lei.

La ricerca ha ormai dimostrato che la terapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è un approccio efficace per il trattamento del trauma psicologico. Può essere utilizzata per trattare anche il trauma legato alla morte di una persona amata e per facilitare i processi di assimilazione e adattamento alla perdita. Una perdita importante può infatti essere fonte di notevole sofferenza; possono esserci molti momenti, situazioni e ricordi che l’individuo immagazzina in modo disfunzionale, specialmente quando la morte è avvenuta in maniera improvvisa, inaspettata o violenta (Solomon, 2022).

Il presente volume, scritto da Roger Solomon –direttore del programma e docente dell’EMDR Institute di Watsonville, CA e insegnante della terapia EMDR a livello internazionale– e curato da Benedetto Farina –Psichiatra e Psicoterapeuta, dottore di ricerca in neuroscienze, professore Ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università Europea di Roma–, offre una visione completa e dettagliata della terapia EMDR e del lutto, fornendo al professionista della salute mentale una guida strutturata su come procedere passo dopo passo dalla diagnosi all’intervento.

 Nella parte iniziale del libro, l’autore passa in rassegna i principi cardine su cui si fonda la terapia EMDR, specificando le varie declinazioni di applicazione, per poi proseguire con una descrizione accurata delle differenti forme di lutto e i diversi modelli del lutto.

Inoltre, viene dedicato un intero capitolo alla teoria dell’attaccamento, nonché alla comprensione dei diversi stili che essa stessa delinea. Difatti, la ricerca indica che lo stile di attaccamento è un fattore importante nel determinare come una persona affronti la perdita della persona cara.

Successivamente il volume passa a descrivere come per la terapia EMDR sia importante identificare le memorie, evocare e consolidare il ricordo positivo della persona defunta come forma di “rappresentazione interna adattativa” che fornisca alla persona in lutto un senso di connessione con il defunto.

Infine l’autore, attraverso un’alternanza di esempi pratici di casi clinici e parziali trascrizioni di sessioni di terapia EMDR, guida il lettore in maniera semplice e chiara nella formulazione della diagnosi e nella strutturazione di un intervento. In particolare, Solomon sottolinea l’importanza di comprendere come gli attuali fattori scatenanti possano essere dei dolorosi promemoria dell’assenza della persona amata e di identificare quali aspetti debbano essere affrontati, applicando così il protocollo a tre tempi della terapia EMDR al dolore e al lutto (Solomon, 2022).

Pertanto, questo libro risulta essere di fondamentale importanza per tutti quei professionisti che si trovano a lavorare con pazienti che stanno affrontando un lutto nella loro vita, offrendo in maniera completa e dettagliata tutti i passi da seguire dalla diagnosi all’intervento, per giungere così ad una risoluzione efficace della sintomatologia e della sofferenza associata.

Procrastinazione in ambito accademico: il ruolo mediatore dell’autostima

Con il termine procrastinazione si intende la tendenza a rimandare o un’azione o una decisione (Ferrari, Johnson, & McCown, 1995; Ferrari, 2010).

Il meccanismo di procrastinazione

 Diversi studi hanno evidenziato l’associazione tra procrastinazione e conseguenze psicologiche negative, ma ad oggi la definizione di questo costrutto non è ancora chiara (Ferrari & Tibbett, 2017; Howell et al., 2006; Klassen, Krawchuk, & Rajani, 2008). La messa in atto della procrastinazione, soprattutto in ambito scolastico e accademico, è risultata legata a una riduzione generale delle performances e un aumento di problematiche psicologiche come per esempio la presenza di credenze irrazionali, bassa autostima, basso autocontrollo, ansia, depressione (Ferrari & Tibbett, 2017; Chabaud, Ferrand, & Maury, 2010).

L’autostima, nell’ambito della personalità, è definita come il modo in cui gli individui percepiscono se stessi e il proprio valore come persone (Brown & Marshall, 2006). In quest’ottica, la messa in atto di procrastinazione in maniera cronica, ovvero ripetuta in eccesso malgrado le conseguenze negative, è inteso come un metodo di auto-protezione causato da una bassa autostima generale (Burka & Yuen, 1983; Ferrari & Tibbett, 2017).

Procrastinazione e autostima

La letteratura suggerisce che il concetto di performance riflette anche il concetto di abilità, che a sua volta influenza il valore personale di un soggetto e la sua autopercezione. Da questo punto di vista, il fallimento di un compito o obiettivo diventerebbe indicatore di un limitato valore personale. In ambito accademico, la procrastinazione, usata come comportamento protettivo da un ipotetico fallimento, potrebbe incrementare il senso di scarsa autoefficacia e fallimento, andando a intaccare ancora una volta l’autostima e generando un circolo vizioso maladattivo (Burka & Yuen, 1983). Queste ipotesi sono sostenute da numerose fonti presenti in letteratura che, nel corso degli anni, hanno messo in luce il legame tra procrastinazione e bassa autostima (Ferrari, 1994; Uzun Ozer, Demir, & Harrington, 2012; Beck, Koons, & Milgrim, 2000; Sirois, 2004). Dunque, l’autostima potrebbe essere una variabile mediatrice tra procrastinazione e ritardi nelle consegne in ambito accademico.

Procrastinazione e autocontrollo

 Un’altra variabile studiata in quest’ambito è l’autocontrollo, che si riferisce alla capacità di modificarsi e adattarsi all’ambiente esterno e alle richieste dell’ambiente verso l’individuo (Rothbaum, Weisz, & Snyder, 1982). Sono stati teorizzati quattro domini dell’autocontrollo: controllo su pensieri, emozioni, impulsi e performance (Vohs & Baumeister, 2004). L’autocontrollo implica l’abilità di limitare l’individuo dall’ingaggiarsi in comportamenti potenzialmente dannosi come per esempio: fumare, spendere in maniera eccessiva e procrastinare (Faber & Vohs, 2004). Alcuni autori suggeriscono che la procrastinazione potrebbe essere considerata come il fallimento dei meccanismi di autocontrollo che si attivano durante una performance, in situazioni di stress (Ferrari, 2010).

Uno studio su procrastinazione, autostima e autocontrollo

Uno studio di Uzun e colleghi (2020) ha indagato la relazione tra autocontrollo e procrastinazione in ambito accademico, considerando l’autostima come possibile mediatrice. Sono stati reclutati 426 studenti universitari, ai quali sono stati fatti compilare dei questionari funzionali alla misurazione di autocontrollo, procrastinazione e autostima. I risultati hanno rivelato che la procrastinazione in ambito accademico era negativamente correlata ad autostima e autocontrollo; questo significa che, in soggetti con bassa autostima e basso autocontrollo, la procrastinazione risultava essere maggiormente presente rispetto a soggetti con punteggi più alti in autostima e autocontrollo, i quali hanno riportato livelli inferiori di procrastinazione. Questi risultati suggeriscono che la percezione che un individuo ha di se stesso influenza il proprio autocontrollo e quindi il comportamento messo in atto come conseguenza, in questo caso la procrastinazione. Inoltre, l’autostima sembrerebbe avere una funzione autoregolatoria, la quale migliorerebbe la performance stessa e il suo risultato, proprio grazie al suo legame con l’autocontrollo (Rothman, Baldwin, & Hertel., 2004). In caso contrario, come emerso dai risultati appena citati, una bassa autostima potrebbe mediare il rapporto tra scarso autocontrollo e procrastinazione.

L’associazione tra il trauma infantile e il disturbo ossessivo compulsivo

Ou e colleghi (2021) hanno condotto una meta-analisi sull’associazione tra trauma infantile e sintomatologia ossessivo-compulsiva, esaminando i risultati provenienti da 10 studi comprendenti la popolazione Araba, Cinese, Italiana, Olandese, Tedesca o Turca

Introduzione

 Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è un disturbo caratterizzato da ossessioni, ovvero pensieri, impulsi o immagini indesiderati e vissuti come intrusivi e da compulsioni, ossia comportamenti ripetitivi messi in atto dall’individuo in risposta alle ossessioni. Sebbene il contenuto delle ossessioni o delle compulsioni sia soggettivo e possa variare da persona a persona, sono stati identificati quattro temi ricorrenti: pulizia, simmetria, pensieri “proibiti” e di danno. Ad ogni modo, a prescindere dal contenuto, sia le ossessioni che le compulsioni sono molto dispendiose in termini di tempo e causano disagio significativo e una compromissione del funzionamento quotidiano nell’individuo. Il disturbo ossessivo-compulsivo può presentarsi in comorbilità (compresenza – NdR) con altre patologie, come disturbi d’ansia e dell’umore (APA, 2013).

Il trauma infantile è definito come una serie di esperienze avverse vissute dalla vittima prima del compimento dei 18 anni; comprende principalmente cinque macro aree, ovvero abuso fisico, emotivo, sessuale e neglect (trascuratezza – NdR) sia fisico che emotivo. È ormai assodato come i maltrattamenti subiti durante i primi anni di vita portino ad un maggior rischio di sviluppo di diverse forme di psicopatologia durante il corso della vita, come depressione e abuso di alcolici (WHO, 2020).

Il ruolo del trauma infantile nella sintomatologia ossessivo-compulsiva

È stato riscontrato come i pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo sembrino riferire maggiori vissuti traumatici rispetto alla popolazione che non presenta psicopatologie (Jaisoorya, et al., 2017; Osland et al., 2018).

A tal proposito, Ou e colleghi (2021) hanno condotto una meta-analisi (uno studio comparativo tra molte ricerche sullo stesso argomento – NdR) sull’associazione tra trauma infantile e sintomatologia ossessivo-compulsiva, esaminando i risultati provenienti da 10 studi comprendenti la popolazione Araba, Cinese, Italiana, Olandese, Tedesca o Turca, per un totale di 1611 partecipanti. Dai risultati ottenuti è stato possibile osservare una correlazione positiva tra la sintomatologia ossessivo-compulsiva del DOC ed esperienze avverse durante l’infanzia. Più nello specifico, è stata evidenziata una relazione positiva tra l’abuso e la gravità del disturbo ossessivo-compulsivo, così come una forte associazione tra l’abuso sessuale e la componente ossessiva del disturbo. Similmente, anche Boger e colleghi (2020) hanno osservato una forte correlazione tra maltrattamento infantile e sintomatologia ossessivo-compulsiva: nello specifico, dopo aver osservato maggior abuso sia fisico che sessuale e neglect emotivo tra i pazienti affetti dal disturbo rispetto alla popolazione generale, gli autori hanno evidenziato delle forti associazioni tra la gravità dell’abuso emotivo e fisico e la gravità del disturbo ossessivo-compulsivo. Successivamente, attraverso un’analisi statistica specifica (ovvero, regressione multivariata) è stata messa in luce una relazione di causalità tra l’aver esperito abusi emotivi in infanzia e una maggior gravità della sintomatologia ossessivo-compulsiva in età adulta. Risultati simili sono stati riscontrati anche attraverso una revisione sistematica della letteratura scientifica pubblicata nel 2021 da Destrée e colleghi, sia nella popolazione clinica che nella popolazione generale.

 Per studiare tale fenomeno, Chu e colleghi (2020) hanno utilizzato la risonanza magnetica per immagini per osservare le differenze organiche tra 79 pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo (di cui 22 con alti livelli di trauma infantile e 57 con bassi livelli) e 47 partecipanti con nessuna patologia. I risultati hanno mostrato una significativa riduzione della connettività funzionale a riposo caudato-talamica in tutti i pazienti rispetto ai controlli sani; tuttavia, nei pazienti con alti livelli di trauma è stato anche evidenziato un aumento della connettività funzionale talamica a riposo con la corteccia prefrontale rispetto agli altri partecipanti. Gli autori suggeriscono che questi risultati potrebbero indicare che complessivamente i pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo con una storia di maltrattamenti presentano alterazioni patologiche nelle regioni talamiche, implicando che il trauma infantile possa essere un fattore predisponente alla sintomatologia ossessivo-compulsiva. Più nello specifico, Chu e colleghi (2020) hanno discusso come questa maggiore connettività talamica nei pazienti altamente traumatizzati possa essere associata a disfunzioni inibitorie, considerate deficit fondamentali nel disturbo ossessivo-compulsivo e concorrenti alla comparsa sia dei pensieri intrusivi che delle compulsioni (Kalanthroff et al., 2017), in quanto la connessione talamo-corteccia prefrontale laterale fa parte del circuito “cognitivo ventrale” associato alla risposta inibitoria (van den Heuvel et al., 2016).

Conclusione

In conclusione, si potrebbe supporre che la presenza di esperienze avverse durante l’infanzia potrebbe essere associata alla sintomatologia ossessivo-compulsiva in età adulta. Inoltre, è stato ipotizzato come nei pazienti altamente traumatizzati questa forte associazione possa essere causata da una maggior attivazione della connessione talamo-corteccia prefrontale.

L’ingannevole paura di non essere all’altezza (2020) di Roberta Milanese – Recensione

Roberta Milanese descrive l’utilizzo della psicoterapia breve strategica in soccorso all’autostima nel suo libro dal titolo “L’ingannevole paura di non essere all’altezza”.

 

 La terapia strategica breve non si occupa della ricerca delle cause dei problemi vissuti nel passato, che nessuno ha il potere di cambiare, ma si focalizza sull’introdurre cambiamenti nel presente. Quindi non sul perché c’è un problema, ma su come funziona il problema. Utilizza cicli di psicoterapia di durata contenuta, con una cadenza ottimale di una seduta ogni 15 giorni.

La paura di non essere all’altezza

È in costante aumento il numero di persone con la sensazione di non essere all’altezza, e questo può riferirsi a tutti gli ambiti della vita: dall’estetica, all’intelligenza, alla simpatia, alla cultura, fino a generalizzarsi e diventare un sentirsi inferiore agli altri in tutto.

In molti casi quello che si teme di più è il non essere all’altezza delle aspettative degli altri. Ci si sente come in vetrina, sottoposti ad un continuo giudizio che non si riesce a sostenere. La realtà è che molto spesso il nostro giudice più severo siamo proprio noi stessi, e la sensazione di inadeguatezza che percepiamo è del tutto infondata.

La capacità di valutare noi stessi è fortemente influenzata dalle nostre modalità percettive, ossia dagli autoinganni su chi siamo in relazione agli altri e al mondo. Il nostro accesso alla realtà non è mai diretto, ma è mediato dai nostri processi percettivi, emotivi e cognitivi.

John Weakland, uno dei grandi maestri della psicoterapia breve strategica, parla di “psicotrappole”, sostenendo che la maggior parte dei problemi che portano a patologie sono riconducibili alla tendenza di sopravvalutare o sottovalutare noi stessi, gli altri o la realtà. Una persona che teme il giudizio, ad esempio, può sopravvalutare la minima critica ricevuta e trasformarla in provocazione a cui reagirà con aggressività. All’opposto, una persona eccessivamente ben disposta avrà difficoltà a cogliere i segnali di pericolo anche di fronte a persone palesemente inaffidabili.

 Quando non ci si sente adeguati, la domanda da porsi è quale metro di valutazione si sta utilizzando. Possiamo distinguere due grandi categorie: coloro che delegano questa decisione ad un giudice interno e coloro che invece proiettano il loro giudice all’esterno, in persone specifiche o nel mondo in generale.

C’è chi teme maggiormente il giudizio di chi considera superiore a sé, ad esempio sul posto di lavoro, ma non teme il giudizio di colleghi e amici. Chi teme il giudizio di chi conosce e chi degli sconosciuti, fino a chi estende questo timore a tutti i campi.

Anche le cause dei presunti giudizi negativi variano: c’è chi teme giudizi negativi da un punto di vista intellettuale, chi estetico, chi di personalità.

Secondo l’approccio strategico, in tutti questi casi il rapporto tra sé e gli altri risulta in qualche misura compromesso.

La paura di esporsi

Essere impopolari fa paura, per farsi apprezzare si cade sovente nell’errore di essere sempre molto, troppo, attenti alle esigenze degli altri, con la speranza di ottenere in cambio le stesse attenzioni. Questo spesso non si realizza causando amarezza e irritazione. Da qui il desiderio di disinvestire da certi rapporti ma senza riuscirci mai completamente per paura di deludere l’altro. E qualora si dovesse riuscire a chiudere un rapporto troppo sbilanciato tra quello che si dà e quello che si riceve, per alcune persone il rischio è di replicarlo secondo un copione che finisce per intrappolare nuovamente. In realtà è solo un’illusione quella di pensare che tanta dedizione porti al successo della relazione.

Il passato è passato

Nel libro di Milanese L’ingannevole paura di non essere all’altezza” si evidenzia che se non è naturalmente possibile tornare indietro e correggere il passato, allora possiamo solo intervenire su quello che quel passato ha prodotto nel presente. Inoltre spesso quello che ha originato la causa del problema nel passato, non persiste più nel presente, ma rimangono solo le sue conseguenze.

Oltre alla parte teorica il libro riporta una serie di esperienze di terapie brevi, con pazienti che presentano diverse delle problematiche legate ad una scarsa autostima, esempi pratici che danno al lettore la possibilità di seguire in che modo è stata affrontata la situazione e come il paziente è riuscito, nel breve tempo previsto da questo tipo di terapia, a superare il blocco che frenava la sua fiducia in sé.

Rabbia da frustrazione, disregolazione emotiva e aggressività nel disturbo borderline di personalità

Le persone con Disturbo Borderline di Personalità provano più rabbia in una situazione di frustrazione? Un recente studio ha indagato la relazione tra rabbia da frustrazione, disregolazione emotiva e aggressività

Disregolazione emotiva e aggressività

 La disregolazione emotiva si riferisce ad un’aumentata sensibilità, con stati emotivi ad alta intensità, labilità e deficit nelle strategie di regolazione delle emozioni (Carpenter & Trull, 2013), che lasciano il posto a strategie maladattive come l’aggressività, intesa come un comportamento violento intento al danneggiamento di un altro individuo (Anderson & Bushman, 2002).

L’aggressività nel disturbo borderline di personalità

Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da disregolazione emotiva e da compromissione grave e duratura delle funzioni personali ed interpersonali (Gunderson et al., 2018).

Nel disturbo borderline di personalità l’aggressività è strettamente interconnessa ai sentimenti di rabbia, frustrazione, provocazione e minaccia e può causare differenti problematiche interpersonali e relazionali (Mancke et al., 2015); infatti differenti studi hanno dimostrato il ruolo di mediatore della disregolazione emotiva nell’aggressività nel disturbo borderline di personalità (Mancke et al., 2017; Scott et al., 2014).

In generale i pazienti con questa diagnosi riferiscono una maggior prevalenza ed una maggior intensità di emozioni negative; tra queste la rabbia risulta essere tra le più rilevanti e, quando associata a disregolazione emotiva, risulta interconnessa con l’aggressività (Ebner-Priemer et al., 2007).

Frustrazione, rabbia e disregolazione emotiva

Nel Disturbo Borderline inoltre l’aggressività è prevalentemente di natura reattiva, spesso innescata da frustrazione, provocazione o minaccia sociale ed è associata – come anticipato – a rabbia intensa e incapacità di regolare questa forte emozione negativa.

Per questo lo studio condotto nel 2021 da Bertsch et al. ha indagato l’emotività negativa in generale e la rabbia in particolare in un gruppo di pazienti con disturbo borderline prima e dopo aver provato una frustrazione.

I ricercatori hanno inoltre cercato di capire se la rabbia indotta dalla frustrazione fosse più forte in quegli individui con Disturbo Borderline che tendono ad agire in modo aggressivo nella loro vita quotidiana e che mostrano problemi di disregolazione emotiva.

Uno studio su frustrazione e disregolazione emotiva nel disturbo borderline di personalità

Attraverso la valutazione di un gruppo di pazienti donne con disturbo borderline e di uno di controllo (composto da individui senza tale diagnosi), lo studio ha valutato l’intensità delle emozioni negative (rabbia, frustrazione, imbarazzo, nervosismo) prima e dopo aver eseguito il “Titrated Mirror Tracing Task” (TMTT, (Ebner-Priemer et al., 2007), un compito che consisteva nel tracciare un punto rosso lungo le linee di una stella usando il mouse, in cui il mouse era programmato per andare verso la direzione opposta rispetto a dove era indirizzato e lo spostamento del punto fuori dalle linee della stella provocava un forte ronzio ed il ritorno del puntino al punto di partenza. Il TMTT induce in modo affidabile frustrazione e angoscia.

In linea con le ipotesi iniziali, lo studio ha messo in luce che:

  • le persone con Disturbo Borderline riportano un’intensità significativamente maggiore di emozioni negative prima e dopo la frustrazione rispetto ai partecipanti senza diagnosi.
  • Nello specifico, i dati hanno mostrato un aumento della rabbia indotto dalla frustrazione significativamente più forte, mentre le altre emozioni negative non sono state influenzate dalla situazione frustrante.
  • Inoltre la rabbia nelle pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità, oltre ad essere risultata significativamente più alta rispetto a quella rilevata nel gruppo di controllo, si è vista essere correlata al comportamento aggressivo delle due settimane precedenti.

Questi dati confermano i risultati rilevati da studi precedenti che hanno evidenziato specifici bias di rabbia, come la tendenza a classificare erroneamente come rabbiose le immagini di volti emotivi o neutri o a riconoscere più spesso la rabbia nelle espressioni facciali ambivalenti (Bertsch et al., 2017; Izurieta Hidalgo et al., 2016). Inoltre, è stato riportato che gli individui con diagnosi borderline tendono a sperimentare la rabbia più frequentemente e più intensamente a lungo, mostrando anche una maggiore ruminazione rispetto a quest’ultima (Kockler et al., 2020; Martino et al., 2018).

La frustrazione genera sempre disregolazione emotiva?

 Contrariamente alle aspettative, tuttavia, lo studio non ha identificato un’associazione tra disregolazione emotiva e rabbia indotta dalla frustrazione; le situazioni frustranti (anche quando si tratta di piccoli fattori scatenanti), come quella esaminata dallo studio, possono attivare degli schemi maladattivi negli individui (come sentimenti di abbandono, di umiliazione o sentirsi attaccati e feriti) (Bach & Farrell, 2018) che a loro volta possono essere associati a strategie di coping maladattive e forti risposte emotive, come la rabbia (Dimaggio et al., 2021). Ciò potrebbe spiegare la presenza di una tendenza specifica alla rabbia, senza che si verifichi per forza una associazione con la disregolazione emotiva.

Prospettive future

Nel complesso, l’attuale studio ha confermato l’emotività negativa nelle donne con disturbo borderline in generale e ha inoltre rivelato uno specifico aumento della rabbia indotto dalla frustrazione, che era significativamente più forte in quelle donne che hanno riportato comportamenti aggressivi più frequenti nella loro vita quotidiana e hanno sperimentato più frustrazione durante l’esperimento. Tale frustrazione si è tradotta in maggiori livelli di rabbia a cui però non sono risultati associati maggiori livelli di disregolazione emotiva.

Sarebbero interessanti ulteriori ricerche che vadano ad indagare gli obiettivi frustrati dai compiti e le emozioni negative indotte, per una misurazione più dettagliata riguardante la durata e l’intensità di esse, prima del ritorno alla baseline e dopo l’esperienza frustrante. Esistono terapie mirate alla regolazione emozionale dei pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità, come la Terapia Dialettico Comportamentale (Linehan, 1995, p. 19), che si focalizza sul monitoraggio delle emozioni, sull’aumento della consapevolezza dei fattori scatenanti e sul differenziare e riconoscere gli schemi maladattivi appresi nel corso della vita. Gli ultimi studi, assieme a quello attualmente valutato, hanno posto l’accento sulla rilevanza della rabbia causata dalla frustrazione, che risulta avere una durata prolungata (Jacob et al., 2008) e che può causare un aumento della ruminazione rabbiosa, correlata ad una maggior probabilità di sfoghi aggressivi (Martino et al., 2015, 2018). Alla luce di questo studio, le future ricerche dovrebbero considerare diverse fonti di rabbia e aggressività nel disturbo borderline e approfondire ulteriormente l’intensità e la durata della rabbia indotta dalla frustrazione, nonché il processo di ritorno alla baseline. La rabbia sembra giocare un ruolo fondamentale e prominente negli individui con questa diagnosi e sarebbe necessaria l’introduzione di nuove tecniche mirate alla riduzione e al trattamento di quest’ultima.

Una panoramica sulla paralisi del sonno e le variabili associate

Denis et al. (2018) hanno condotto una revisione sistematica della letteratura sulle variabili associate alla paralisi del sonno.

La paralisi del sonno

 La paralisi del sonno è uno stato di immobilità transitoria che compare fra la veglia e il sonno, o fra il sonno e la veglia. In tali condizioni, durante il sonno REM (Rapid Eye Movement) il nostro cervello produce sogni bizzarri e intensi, causando una paralisi dei muscoli volontari che cessa una volta usciti completamente dal sonno REM. La funzione di tale processo è quella di impedirci di agire nei nostri sogni, ovvero seguirne le azioni con il nostro corpo rischiando di farci potenzialmente del male. L’alterazione della sincronizzazione dei meccanismi che separano la veglia dal sonno REM provoca le tanto temute paralisi del sonno (Plazzi, 2019). La persona inizia a svegliarsi ma non è in grado di muoversi o di parlare e frammenti di sogno producono allucinazioni ipnagogiche (al momento dell’addormentamento) o ipnopompiche (al risveglio), che possono verificarsi in tutte le modalità sensoriali. Le caratteristiche della paralisi del sonno includono comunemente l’udire passi e voci, nonché la levitazione, l’autoscopia (cioè esperienze extracorporee) e il “percepire una presenza terrificante”, di vedere una figura o una forma amorfa “intimidatoria” avvicinarsi al corpo durante l’evento (Jalal et al., 2021). In molti paesi, le esperienze di paralisi del sonno sono intrecciate con il folklore culturale e sono state proposte come spiegazione di presunti fenomeni paranormali come la stregoneria, la possessione demoniaca e il rapimento di alieni dallo spazio (French & Santomauro, 2008). Denis et al. (2018) hanno condotto una revisione sistematica della letteratura sulle variabili associate alla paralisi del sonno.

Paralisi del sonno, stress e trauma

Una storia di abuso sessuale infantile è risultata significativamente correlata alla frequenza degli episodi di paralisi del sonno. La frequenza e l’intensità delle allucinazioni sono risultate maggiori in individui che hanno riferito abusi sessuali rispetto al gruppo di controllo (Abrams et al., 2008). Un altro studio ha rilevato che la prevalenza riferita di paralisi del sonno non differiva in modo significativo tra i gruppi di partecipanti che ricordavano il proprio abuso (47%) e quelli che ritenevano di aver vissuto un abuso ma non possedevano ricordi autobiografici (44%) (McNally & Clancy, 2005). Anche altre esperienze di eventi traumatici sembrano essere correlate alla paralisi del sonno. In un campione di immigrati Hmong che vivono negli Stati Uniti, le esperienze stressanti vissute durante la guerra del Vietnam (ad esempio, “sono stato esposto alla guerra chimica”, “ho perso familiari, parenti stretti o amici”) erano correlate a una maggiore probabilità di sperimentare la paralisi del sonno (Young et al., 2013). Esperienze generali con eventi potenzialmente traumatici (come aggressioni, morte di una persona cara, disastri, ecc.) sono risultate correlate alla paralisi del sonno in termini di occorrenza. È stato inoltre riscontrato un legame tra il numero di eventi traumatici vissuti e la paralisi del sonno (Mellman et al., 2008). In modo correlato, i livelli di stress auto-riferiti hanno mostrato associazioni simili con la paralisi del sonno (Denis & Poerio, 2016).

Paralisi del sonno, dissociazione e convinzioni anomale

I livelli di esperienze dissociative allo stato di veglia, che comportano depersonalizzazione, derealizzazione e amnesia, sono risultati correlati sia alla frequenza delle paralisi del sonno (McNally & Clancy, 2005) sia alla frequenza/intensità delle allucinazioni (Abrams et al., 2008). In un campione universitario, una misura composita di “immaginazione”, che comprendeva propensione alla fantasia, pensiero magico, vividezza delle immagini, credenze paranormali e mistiche ed esperienze sensoriali insolite, era risultata correlata alla frequenza e all’intensità della paralisi del sonno (Spanos et al., 1995). Nello stesso campione, coloro che riferivano paralisi del sonno mostravano una maggiore ipnotizzabilità, valutata sia soggettivamente che oggettivamente. La vividezza delle immagini sensoriali non è risultata correlata alla frequenza delle paralisi del sonno, ma ha predetto in modo significativo l’intensità delle allucinazioni (Denis & Poerio, 2016).

Paralisi del sonno e abitudini del sonno

 Particolari aspetti dell’igiene del sonno, che si riferisce alle abitudini e alle pratiche che favoriscono un sonno regolare, sono stati associati a una maggiore probabilità di riportare la paralisi del sonno. In particolare, una durata del sonno eccessivamente breve (<6 ore) o lunga (>9 ore) e il sonnecchiare, in particolare per più di 2 ore, sono stati associati a maggiori probabilità di paralisi del sonno. Anche l’orario in cui si va a letto ha mostrato una certa relazione col fenomeno (Munezawa et al., 2011). Nello studio di Ma et al. (2014) le probabilità di aver mai sperimentato la paralisi del sonno (rispetto a quelle di non averla mai sperimentata) sono risultate significativamente ridotte nei partecipanti che riferivano di essersi coricati tra le 22:00 e la mezzanotte e significativamente aumentate nei partecipanti che riferivano di essersi coricati oltre la mezzanotte.

Paralisi del sonno e disturbi mentali

Nello studio di Simard & Nielsen (2005) i partecipanti che hanno sperimentato la paralisi del sonno con un’allucinazione di “presenza percepita” hanno mostrato livelli più elevati di ansia sociale rispetto ai partecipanti che hanno sperimentato la paralisi del sonno senza allucinazioni. Le allucinazioni di presenza percepita sono state anche correlate alla quantità di angoscia associata all’episodio di paralisi del sonno e il livello di angoscia riportato è stato associato a immagini sociali disfunzionali (Solomonova et al., 2008). Nei pazienti con disturbo di panico, sono stati riportati tassi di prevalenza nell’arco della vita del 56% e del 59%, significativamente più alti rispetto a quelli senza disturbo di panico, la cui prevalenza era di circa il 19% (Yeung et al., 2005). Punteggi più elevati nelle misure di autovalutazione dell’umore depresso sono stati associati alla frequenza della paralisi del sonno ed è stato anche dimostrato che questa relazione rimane significativa dopo la correzione statistica adottata per ridurre l’effetto dei sintomi d’ansia (Szklo-Coxe et al., 2007). Un solo studio ha esaminato il disturbo bipolare e la paralisi del sonno. In questo caso si è riscontrato che il disturbo bipolare si verificava più frequentemente in un gruppo di paralisi del sonno gravi, definite in questo caso come almeno un episodio alla settimana (19%), rispetto a un gruppo senza paralisi del sonno (2%) (Ohayon et al., 1999).

Attualmente sono state condotte numerose ricerche sulle variabili associate alla paralisi del sonno. Di conseguenza, esiste un’enorme opportunità di ampliare questa letteratura al fine di approfondire le origini e le opzioni di trattamento del disturbo.

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