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Sogni lucidi: definizione e comprensione

Il dibattito tra gli esperti sui costi e i benefici dei sogni lucidi è ancora molto acceso: ci si interroga su quale sia il loro impatto sulla qualità del sonno e quali effetti possano portare.

 

 La maggior parte delle persone sogna per circa due ore a notte e ciò che accade durante questo periodo è principalmente inconscio. Tuttavia, acquisire coscienza durante un sogno, sebbene sia poco comune, non è impossibile: sperimentare un “sogno lucido” infatti significa rimanere in qualche modo coscienti mentre si sogna ed accedere ad uno stato ibrido di sonno e veglia (Kahn & Gover, 2010). Ciò è possibile sia in maniera spontanea che attraverso delle strategie di stimolazione, come il monitoraggio metacognitivo (ad esempio, il “test di realtà”) e la memoria prospettica (Baird et al., 2018).

Sogno lucido e aree cerebrali

È stato osservato come il cervello subisca un mutamento nella sua attività quando il sognatore acquisisce lucidità durante il sonno REM, ovvero essa sembra essere più simile ai periodi di veglia. Infatti, affinché il sognatore diventi cosciente di essere a letto e di star sognando, diverse regioni cerebrali, normalmente silenti durante il sonno REM, come il circuito cerebrale necessario per le funzioni esecutive, il richiamo della memoria autobiografica e la selezione degli obiettivi e il precuneo, devono riattivarsi. Secondariamente, durante il sogno lucido è stato osservato un aumento della connettività corticale complessiva, così come l’attività delle frequenze della banda gamma (circa a 40Hz), note per essere associate all’elaborazione cosciente (Voss et al., 2009).

Baird e colleghi (2018) hanno condotto uno studio che ha mostrato una connessione tra l’attivazione della corteccia prefrontale anteriore (aPFC), regione legata alle funzioni metacognitive, tra cui la valutazione dei propri pensieri e sentimenti e la capacità di esprimere giudizi metacognitivi accurati e la frequenza di comparsa dei sogni lucidi. In più, questi ultimi sembrano anche essere collegati ai sistemi neurali che regolano le funzioni esecutive, come la rete di controllo frontoparietale, la quale è interconnessa sia con il default mode network, legatp agli aspetti interni della cognizione (ad esempio la memoria autobiografica e il pensiero spontaneo), sia con il dorsal attention network, coinvolto nell’attenzione percettiva visuo-spaziale. Questo studio (Baird et al., 2018) ha sottolineato un aumento della connettività funzionale in stato di riposo tra l’aPFC sinistra e il giro angolare bilaterale, il giro temporale medio bilaterale e il giro frontale inferiore destro negli individui sperimentanti sogni lucidi frequenti rispetto a coloro che non ne fanno esperienza. In aggiunta, ha sottolineato il fatto che il sogno lucido è associato a un aumento della connettività funzionale tra l’aPFC e le aree di associazione tempoparietali, normalmente silenti durante tutte le fasi del sonno. D’altra parte, non ha mostrato differenze significative nella struttura cerebrale tra i due gruppi.

Sogni lucidi indotti e spontanei

Il dibattito tra gli esperti sui costi e i benefici dei sogni lucidi è ancora molto acceso: è stato dimostrato come numerose delle strategie di induzione alterino i pattern e la durata del sonno, impattandone notevolmente l’igiene. Ad esempio, la tecnica di induzione mnemonica dei sogni lucidi (MILD; Levitan e LaBerge, 1994; Neuhäusler et al., 2018) prevede che l’individuo si svegli durante la notte e trascorra da 30 a 120 minuti sveglio prima di potersi riaddormentare (Stumbrys et al., 2012); ciò porta alla frammentazione del sonno e ne modifica l’andamento riducendone la durata.

 Per l’induzione dei sogni lucidi possono anche essere utilizzate sostanze che aumentano l’acetilcolina intracerebrale, spesso utilizzate in combinazione con la tecnica MILD. Questa pratica aumenta il rischio di alterare l’equilibrio tra i sistemi serotoninergici e colinergici, entrambi attivamente coinvolti nella regolazione del sonno e questa alterazione può interferire con l’integrità della sua struttura e portare ad effetti negativi sulla salute (Biard et al., 2016).

Similmente, è possibile aumentare i livelli di consapevolezza autoriflessiva durante i sogni mediante la stimolazione fronto-temporale transcranica a corrente alternata (tACS). Tuttavia, l’utilizzo di questa strategia è molto controversa in quanto non vi è sufficiente letteratura sui possibili effetti di uno strumento agente sull’attività corticale in questo ambito (Voss et al., 2014).

Infine, i sogni lucidi possono anche verificarsi spontaneamente e in questo caso il dibattito si concentra sulla frequenza di comparsa del fenomeno e come ciò possa impattare sull’igiene del sonno. Ad ogni modo, sebbene i sogni lucidi spontanei sembrino arrecare meno danni rispetto a quelli indotti, la letteratura al riguardo non è sufficiente per una valutazione esaustiva del fenomeno.

Conclusione

Gli esperti si chiedono quale impatto possa avere la sostituzione di una fase di sonno regolare con una ibrida sulla salute generale, considerando l’influenza che il “buon sonno” ha sulla buona salute e, in particolare, l’impatto del sonno REM sulla regolazione emotiva e sul consolidamento della memoria (Plailly et al., 2019). È ormai ampiamente noto che il cervello umano funzioni in modo diverso durante il sonno REM non lucido e lucido (Dresler et al., 2012) e infatti i pochi studi sulle possibili implicazioni di quest’ultimo sui processi di regolazione cerebrale suggeriscono di procedere con cautela e ne scoraggiano l’induzione (Tempesta et al., 2018).

 

Se chiudo gli occhi, non vedo nulla. Una panoramica sull’afantasia

I soggetti con afantasia, pur avendo una memoria intatta degli eventi occorsi nella propria vita, possono trovare difficile, se non addirittura impossibile, riviverli in prima persona.

Cosa si intende per afantasia?

 Il termine mental imagery indica la rappresentazione mentale di informazioni sensoriali in assenza di reali stimoli esterni (Pearson et al., 2015). Queste informazioni possono assumere la forma di immagini, suoni, odori, gusti o sensazioni tattili. La capacità di creare intenzionalmente una rappresentazione interna può variare notevolmente da una persona all’altra. Nel XIX secolo, Francis Galton (1880) fu il primo a notare la presenza di un’ampia differenza interindividuale nella vividezza soggettivamente percepita dell’immaginario visivo. Tuttavia, è solo nell’ultimo decennio che il panorama scientifico sembra essersi interessato profondamente a questo fenomeno.

Grazie ai dati raccolti da Zeman e collaboratori (Zeman et al., 2015), oggi sappiamo che è possibile individuare soggetti con afantasia (a-phantasia) e iperfantasia (hyper-phantasia). Per afantasia si intende una condizione in cui le immagini sensoriali rappresentate mentalmente sono del tutto assenti. Per questo motivo viene anche chiamata immaginazione cieca (blind immagination) o incapacità di vedere con l’occhio della mente. L’iperfantasia, al contrario, indica una condizione in cui l’immaginario mentale individuale è estremamente nitido, vivido e ricco. La maggior parte delle persone si colloca a metà di questo spettro, con leggere variazioni verso un polo piuttosto che l’altro. Le indagini epidemiologiche affermano che circa il 2-3% della popolazione riconosce di essere afantasica (Zeman et al., 2020). Molto spesso il soggetto diviene solo tardivamente e casualmente consapevole della propria condizione.

Uno degli strumenti più semplici ed efficaci per comprendere quanto vivido sia il proprio immaginario sensoriale è il Vividness of Visual Imagery Questionnaire (VVIQ; Marks, 1973). Un questionario che valuta la vividezza delle rappresentazioni mentali attraverso semplici indicazioni scritte che esortano il soggetto a immaginare oggetti, persone, situazioni, suoni, profumi, movimenti.

Trattandosi di un fenomeno che può coinvolgere aspetti eterogenei dell’esperienza umana, la letteratura suggerisce la presenza di sottocategorie differenti su base qualitativa (tipologia sensoriale coinvolta) e quantitativa (grado di alterazione rispetto alla norma). Ad esempio, una distinzione particolare merita di essere fatta tra condizioni in cui l’afantasia colpisce limitatamente i processi volontari (come immaginare attivamente un oggetto o il viso di una persona) e condizioni in cui vengono altresì compromessi i processi involontari, rendendo sterile persino l’attività del sognare (Zeman et al., 2020).

È importante sottolineare come la forma di afantasia studiata da Zeman e colleghi sia per definizione congenita, ovvero presente sin dalla nascita. Inoltre, essa si caratterizza per una vera e propria mancanza di immagini sensoriali e fenomenologiche differenziandosi dalle casistiche più prettamente temporanee o funzionali in cui le rappresentazioni mentali sono presenti ma il soggetto non è in grado di accedervi o manca di capacità introspettiva (Keogh & Pearson, 2018).

Afantasia e rievocazione dei ricordi

L’afantasia influisce su tutta una serie di processi cognitivi essenziali come la memoria episodica. I ricordi autobiografici vengono spogliati delle caratteristiche sensoriali (visive, uditive, olfattive) assumendo così la forma di una conoscenza piuttosto che di un’esperienza. Ciò può portare con sé inevitabili ripercussioni sul piano emotivo e identitario. La frase “I remember things, but I can’t picture them” ci permette di entrare in contatto con il vissuto dei soggetti afantasici. Quest’ultimi, pur avendo una memoria intatta degli eventi occorsi nella propria vita, possono infatti trovare difficile, se non addirittura impossibile, riviverli in prima persona (Ganczarek et al., 2020).

Il tono e il significato emotivo dei ricordi sono saldamente connessi agli aspetti fenomenologici dell’esperienza: un colore, una forma, un profumo o un suono specifici. Le memorie autobiografiche di individui con afantasia sono invece caratterizzate da uno stile narrativo logico, focalizzato sulle azioni dei singoli personaggi e organizzato secondo relazioni successive di causa-effetto. In questo modo, la valenza personale degli eventi risulta per lo più neutra ed emotivamente distante, con implicazioni per il senso del sé (Ganczarek et al., 2020).

In mancanza di rappresentazioni mentali anche la pianificazione futura può risultare compromessa (Watkins, 2017). La visualizzazione di obiettivi, traguardi e desideri è uno dei fattori che più alimentano la motivazione personale. La classica domanda “come ti vedi tra 5 anni?”, può suscitare difficoltà non indifferenti in un soggetto con afantasia. Non perché quest’ultimo non abbia chiare ambizioni o potenzialità, ma perché non potersi visualizzare nel futuro inibisce anche il significato personale delle proprie aspirazioni.

 Al tempo stesso, esistono delle capacità alternative che spontaneamente sembrano svilupparsi in individui con afantasia (Ganczarek et al., 2020). Il dominio verbale, matematico e logico sono spesso particolarmente evoluti in questi soggetti (Zeman et al., 2015), tanto da indirizzare verso occupazioni che hanno a che fare con la matematica, la fisica e la programmazione (Zeman et al., 2020). Sorprendentemente, grazie all’ampia rete online “Aphantasia Network” fondata da Tom Ebeyer (uno tra i primi casi riportati di afantasia congenita) apprendiamo inoltre che la creatività non è affatto preclusa a questi individui come invece ci si potrebbe aspettare. Se è vero che un’immaginazione vivida permette di accedere a un mondo di fantasia, è altrettanto vero che gli insight creativi possono essere contattati attraverso mezzi collaterali come la trasformazione di una forma esterna già presente o la creazione passo passo di forme esternalizzate e impresse su carta. È questo il caso di Glen Keane, uno dei migliori animatori Walt Disney.

Le cause dell’afantasia

Le ipotesi eziologiche che cercano di identificare le cause dell’afantasia si concentrano maggiormente su aspetti organico-biologici anziché su aspetti più prettamente psicologici, che pure possono concorrere e interagire (Zeman et al., 2016). Le neuroscienze si sono interessate alla struttura cerebrale e al funzionamento neurale collegati con la produzione di rappresentazioni mentali, soprattutto di tipo visivo (visual imagery), spinte dalla convinzione che tali aspetti potessero spiegare l’origine dell’afantasia. Una delle maggiori difficoltà incontrate dai ricercatori riguarda la parziale sovrapposizione e interconnessione fisiologicamente presente tra network cerebrali deputati alla percezione e all’immaginazione. Studi di neuroimaging hanno mostrato come entrambi questi processi coinvolgano la corteccia visiva, la corteccia parietale e la corteccia frontale, differenziandosi nei segnali ascendenti (bottom-up), prevalentemente di tipo percettivo, ma condividendo una simile connettività discendente (top-down) (Dijkstra et al., 2019). Ciò significa che le rappresentazioni sensoriali originate dall’esterno (percettive) e dall’interno (mentali) possiedono dei substrati neurali concomitanti e potenzialmente interagenti.

Un’indagine condotta nel 2020 (Keogh et al., 2020) ha individuato nei livelli di eccitabilità corticale il meccanismo potenzialmente responsabile delle differenze individuali nella forza delle rappresentazioni mentali. Un pattern di ridotta eccitabilità della corteccia visiva e di elevata eccitabilità delle aree prefrontali sembrerebbe associarsi alla presenza di immagini più vivide. Ciò significa che il segnale esterno di tipo percettivo potrebbe agire come fonte di rumore ostacolando la disponibilità e/o la sensibilità delle informazioni connesse con le rappresentazioni mentali interne. Al contrario, l’attività elaborativa della corteccia prefrontale, retaggio evolutivo tipicamente umano che permette l’integrazione e la sintesi di informazioni, sembrerebbe alimentare la creazione di un immaginario mentale più vivido (Keogh et al.2020).

Conclusioni

L’esistenza di fenomeni come questo sembra invitare gentilmente a interrogarsi su quali siano le funzioni evolutive delle rappresentazioni mentali. Ad oggi, sono diversi gli interrogativi aperti riguardanti l’afantasia. Le sue implicazioni sul piano emotivo e cognitivo sono state solo marginalmente affrontate e le possibili cause solo parzialmente comprese. Ulteriori studi sono quindi essenziali per comprenderne al meglio i meccanismi coinvolti e le conseguenze associate. Lo sviluppo di abilità collaterali e la tarda presa di consapevolezza da parte degli individui afantasici suggeriscono la non invasività di questa condizione nella vita quotidiana e il buon adattamento soggettivo.

 

I bambini e la metacognizione (2022) di Gianna Friso e Paola Palladino – Recensione

Il libro “I bambini e la metacognizione. Metodi e attività per la scuola dell’infanzia” di Gianna Friso e Paola Palladino è stato pubblicato da Carocci nel 2022.

 

 Il manuale si rivolge ad insegnanti della scuola dell’infanzia ed educatori che si occupano di bambini in età prescolare ed è diviso in cinque capitoli più un’appendice, nella quale vengono forniti materiali utili a stimolare le abilità metacognitive dei bambini tramite attività laboratoriali in classe.

La metacognizione è la “conoscenza della conoscenza” ovvero la capacità di trovare la strategia migliore per avere un controllo sui propri processi mentali e di apprendimento e permette di raggiungere un punto di vista originale sugli eventi esterni. Le abilità metacognitive, di conoscenza e di riflessione sui propri pensieri e di quelli altrui viene acquisita fin dalla scolarizzazione primaria. È importante, perciò, che insegnanti ed educatori prendano in considerazione questa abilità cognitiva per porsi come guida e come stimolo di riflessione nella quotidianità del bambino. Infatti, educatori e genitori hanno un ruolo significativo nel processo di acquisizione delle competenze, dell’immagine del sé, della metacognizione e motivazioni legate a queste, nonché nella co-costruzione delle teorie delle abilità personali.

La metacognizione

I primi capitoli del libro introducono il concetto di metacognizione. Questa si suddivide in metacognizione dichiarativa (“conosco il mio pensiero”) e metacognizione procedurale di monitoraggio (“controllo il mio pensiero”). Se da una parte il bambino impara a cogliere gli elementi contestuali che favoriscono oppure ostacolano un processo cognitivo-comportamentale, che gli permette di raggiungere in modo efficace un obiettivo, dall’altra parte utilizza i segnali che giungono dall’esterno per correggere e modificare il comportamento stesso. In questo modo vengono sviluppati i processi di pianificazione delle attività, la ricerca degli errori e l’autocorrezione, che devono essere promossi dagli insegnanti in classe (per esempio, attraverso la Conversation Analysis, ovvero lo studio dei meccanismi e dell’organizzazione delle conversazioni nel mondo sociale).

È fondamentale sottolineare che queste capacità vengono raggiunte nel momento in cui il bambino sviluppa quella che viene definita “Teoria della Mente” (ToM), ovvero la capacità di riflettere sulla propria mente e quella altrui attribuendo contenuti specifici e distinti. In particolare, la ToM permette di riconoscere convinzioni e pensieri e come questi influenzano il comportamento. Il gioco simbolico –ovvero il “fare finta che”– è un precursore della Teoria della Mente e si può osservare nei bambini dall’età di due anni. Man mano che il bambino cresce sarà in grado di controllare il proprio comportamento in funzione della capacità di riflettere su di sé e sui propri pensieri. La Teoria della Mente si estende anche alla comprensione empatica delle emozioni altrui, che favorisce a sua volta la comprensione dei pensieri e delle azioni annessi. Per questo motivo vengono consigliate agli insegnanti delle attività che permettano di sviluppare tali competenze (per esempio, invitando gli alunni a “mettersi nei panni di”).

Una tappa fondamentale dello sviluppo della Teoria della Mente è la comprensione della falsa credenza, ovvero il riuscire a comprendere che l’altro può avere una idea differente dalla propria. Se in un primo momento il bambino avverte queste forme di pensiero come entità indipendenti, solo più avanti riuscirà a trovarne somiglianze e differenze per categorizzare in maniera ordinata la conoscenza del mondo che lo circonda e riconoscere la mente come un sistema di elaborazione di informazioni. Sono necessarie attività di memorizzazione, lettura e capacità fonologiche per implementare lo sviluppo di tale capacità.

La didattica metacognitiva

Nella seconda parte del libro viene illustrata la didattica metacognitiva che dovrebbe essere implementata nelle scuole. Questa prevede attività di discussione e insegnamento reciproci, modellamento dell’uso delle strategie e monitoraggio dei comportamenti, per aumentare le capacità di riflessione e consapevolezza delle attività cognitive. Ciò permette al bambino di focalizzarsi sulle proprie difficoltà e punti di forza cognitivi ed emozionali per favorire la crescita personale.

La ricerca ha evidenziato che tali insegnamenti producono delle prestazioni migliori nei bambini, che a loro volta acquisiscono un’attitudine migliore al compito e una maggiore motivazione all’apprendimento. Oltre a ciò, il bambino acquisisce la capacità di adattarsi alle situazioni nuove che incontrerà nel suo percorso di crescita. Analizzare insieme al bambino errori e successi è un’occasione per riflettere su quanto l’azione che viene compiuta è conseguenza del proprio pensiero, e sottolinea quindi l’importanza di riflettere su quest’ultimo.

L’utilizzo delle “situazioni ipotetiche” porta il bambino a compiere scelte positive e costruttive riconoscendo che ci sono regole e limiti da seguire che non sempre riflettono il loro punto di vista personale, ma che devono essere prese in considerazione quando si mette in atto un comportamento, per riuscire ad adattarsi alla situazione.

In ottica di interventi psicoeducativi è quindi importante aiutare il bambino a riflettere sulle proprie abilità mentali, per aumentare la fiducia in sé stessi e saper utilizzare le strategie cognitive con efficacia. Queste riflessioni dovrebbero essere svolte sia in fase preliminare (es. “come si potrebbe fare?”) sia in fase finale (es. “quanto è stato efficace?”) di un dato comportamento.

Successivamente, il manuale si focalizza sul rapporto tra l’alfabetizzazione e l’apprendimento della letto-scrittura nei bambini tra i 4-7 anni, tenendo anche in considerazione le abilità numeriche.

 Lo sviluppo delle capacità di letto-scrittura e precalcolo risultano fondamentali in ambito interpersonale, in quanto permettono ai bambini di relazionarsi e condividere informazioni all’interno del contesto sociale in cui si trovano. Alla luce dell’importanza che la letto-scrittura ricopre nel contesto culturale è possibile quindi affermare che il processo di alfabetizzazione non abbia inizio con l’apprendimento istituzionalizzato ma inizia a svilupparsi già in età prescolare grazie alle influenze del contesto sociale. Infatti, questa fase di sviluppo è ricca di interrogativi sulla propria esperienza, dunque la figura dell’insegnante gioca un ruolo significativo nella risposta a tali quesiti. Inoltre, l’insegnante attraverso un atteggiamento critico consente ai bambini di sviluppare una maggiore capacità di riflessione e promuove l’apprendimento di ulteriori strategie utili per l’inizio della scuola primaria.

Infine, vengono fornite delle indicazioni pratiche su come insegnanti ed educatori possano mettere in atto una didattica di tipo metacognitivo. In primo luogo, ci si focalizza sul ruolo dell’insegnante nel consentire un adeguato sviluppo della Teoria della Mente e sulla comprensione di come essa sia legata ai processi di apprendimento. In secondo luogo, si sottolinea l’importanza di implementare nel bambino l’autoconsapevolezza sul proprio funzionamento di apprendimento. In terzo luogo, è predominante la regolazione dei processi cognitivi connessi all’apprendimento. Come ultimo aspetto ci si sofferma sulla percezione, sull’autoefficacia, sull’autostima e sulla motivazione, le quali permettono al bambino di riflettere sui processi metacognitivi. Dal punto di vista pratico, ci si focalizza sull’importanza delle storie che presentano componenti metacognitive, e di come l’insegnante svolga un ruolo fondamentale nel raccontare le storie e stimolare la riflessione tramite l’uso di domande guidate, ma anche nello stimolare i bambini alla creazione e allo sviluppo dei propri racconti. Pertanto, il manuale si conclude con delle indicazioni specifiche per lo sviluppo di un progetto laboratoriale utilizzabile con bambini in età prescolare, che funge da esempio di come sia possibile mettere in atto la didattica metacognitiva nella scuola dell’infanzia.

Conclusioni

In conclusione, di questo manuale sono apprezzabili gli interessanti spunti di riflessione sia teorici che pratici riguardo l’importanza della metacognizione, il modo in cui si sviluppa, le sue declinazioni nell’ambito della didattica, ed in particolare lo sviluppo di laboratori di didattica metacognitiva. Inoltre, questo libro risulta utile nel fornire strumenti pratici per la stimolazione delle abilità metacognitive dei bambini in età prescolare, adatti sia all’utilizzo in classe, che come esempi modificabili dai docenti a seconda delle proprie esigenze.

Il disturbo schizoaffettivo negli individui senza dimora

Un recente studio Europeo pubblicato nel 2022 (Monteiro Fernandes et al., 2022) che ha preso in considerazione 500 individui senza dimora, ha riscontrato una prevalenza dell’11% di disturbo schizoaffettivo tra questi ultimi.

Il disturbo schizoaffettivo

 Secondo il DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013) il disturbo schizoaffettivo è caratterizzato da una combinazione di sintomi psicotici e di disturbi dell’umore (depressione e/o mania).

I criteri diagnostici prevedono un periodo ininterrotto di malessere durante il quale è presente un episodio depressivo e/o mania, in concomitanza con il primo criterio della schizofrenia, ovvero, la presenza di deliri o allucinazioni per due o più settimane. Le attuali definizioni del disturbo schizoaffettivo sono state identificate come insufficienti e poco definite, (Marneros, 2003a, 2003b) ma alcuni studi longitudinali hanno riscontrato l’esistenza di due tipologie di disturbo schizoffettivo che vanno al di là delle attuali descrizioni presenti nel DSM-5 o nell’ICD-11. La prima tipologia può essere definita “concomitante” ed è caratterizzata dalla concorrenza di episodi di schizofrenia e di bipolarismo; la seconda tipologia, “sequenziale”, è caratterizzata da cambiamenti longitudinali, che vedono l’alternarsi di episodi di schizofrenia e di bipolarismo e/o viceversa. Infatti, alcuni studi (per esempio, Marneros, 2003a, 2003b; Marneros et al., 1991a, 1991b) che hanno seguito per decenni pazienti con disturbo schizoaffettivo, hanno suggerito la presenza di episodi polimorfi.

I pazienti con questa diagnosi sembrano essere caratterizzati da grande instabilità, con episodi psicotici, simili a quelli del disturbo schizofrenico, accompagnati o in concomitanza ad episodi dell’umore, caratteristici invece del disturbo bipolare classico; questo ha portato ad una scissione che ha visto, da una parte, alcuni autori classificare questo disturbo come parte dello spettro della schizofrenia, mentre dall’altra come spettro del bipolarismo.

Più recentemente gli studiosi si vedono concordi nell’assunzione di una terza ipotesi che considera la psicosi schizoaffettiva ed i disturbi correlati uno spettro indipendente e a sé stante, che includerebbe un insieme di disturbi con caratteristiche emozionali e psicotiche, quali personalità borderline, psicosi ciclotimica e disturbo schizoaffettivo (Gama Marques & Ouakinin, 2021).

Gli individui senza dimora

Le persone senza-tetto sono comunemente esposte ad elevato stress psicologico ed è stato stimato che circa un terzo di queste persone presenta malattie mentali gravi (Tessler et al., 1989).

Secondo l’ETHOS (European Typology of Homelessness and House Exclusion; FEANTSA, 2005, 2017) esistono quattro situazioni principali sotto la classificazione di “senza dimora”: senza tetto (senza nessuna dimora, coloro che dormono in sistemazioni approssimative); senza casa (coloro che vivono nei centri istituzionali/nei rifugi); sistemazioni inadeguate (abitazioni non convenzionali, quali roulotte e alloggi sovraffollati) e sistemazioni insicure (sistemazioni temporanee in cui gli individui sono esposti a minacce di violenza domestica e sfratti; FEANTSA, 2005, 2017).

Un recente studio Europeo pubblicato nel 2022 (Monteiro Fernandes et al., 2022) che ha preso in considerazione 500 individui senza dimora, ha riscontrato una prevalenza dell’11% di disturbo schizoaffettivo tra questi ultimi.

La revisione sistematica

Vista la scarsa presenza di studi riguardanti questo argomento, la revisione sistematica condotta nel 2023 (Spranger Forte et al., 2023), che ha preso in considerazione 28 articoli, ha avuto come scopo l’analisi delle caratteristiche degli individui senza fissa dimora, controllando anche la prevalenza di disturbo schizoaffettivo tra questa popolazione.

Uno degli studi (Ries & Comtois, 1997) considerati nella revisione della letteratura di Spranger Forte e colleghi (2023) ha mostrato che i pazienti con malattie psichiatriche di gravità elevata avevano maggiori probabilità di essere maschi, di avere una diagnosi di disturbo schizoaffettivo o di schizofrenia e di essere senza dimora.

Inoltre, prendendo in considerazione uno studio (Boyer et al., 2011) che ha valutato 1285 pazienti che erano stati nel reparto d’emergenza ospedaliero più di una volta nel corso dei 6 anni precedenti, si è riscontrato che il gruppo di individui con 6 o più visite nel reparto aveva una probabilità significativamente maggiore di essere senza fissa dimora rispetto alle persone che avevano condotto dalle 2 alle 5 visite. Nello stesso studio (Boyer et al., 2011) è stato osservato che più del 50% dei pazienti del primo gruppo raggiungeva alcuni dei criteri diagnostici di schizofrenia, disturbo schizoaffettivo e disturbo bipolare, suggerendo l’ipotesi di diagnosi di disturbo schizoaffettivo.

Un altro studio (Lorine et al., 2015) che ha preso in considerazione 207 pazienti ricoverati per gravi disturbi psichiatrici ha rilevato che circa il 50% di essi aveva una diagnosi di disturbo schizoaffettivo o schizofrenia e, di questi, il 24% era senza dimora. Inoltre, lo studio ha mostrato che i pazienti con diagnosi di schizoaffettività avevano maggiori probabilità di essere riammessi in ospedale entro 15 giorni dalla dimissione, e tale probabilità aumentava ancora di più per coloro che erano senza dimora.

Uno studio (Olfson et al., 2000) che ha valutato la non-aderenza alla terapia di 213 adulti con diagnosi di schizofrenia o schizoaffettività, ha riscontrato che circa il 19,2% dei pazienti non aveva aderito al trattamento; si è visto che questi ultimi presentavano maggior probabilità di essere individui senza fissa dimora, di essere riospedalizzati, di avere alle spalle una storia di non aderenza ai farmaci e di non riuscire a riconoscere i propri sintomi. Anche l’abuso o la dipendenza da sostanze e lo scarso sostegno dei familiari si sono viste essere caratteristiche maggiormente associate ai pazienti con diagnosi di schizoaffettività o schizofrenia. È importante sottolineare che i risultati degli studi suggerivano che fosse l’abuso di sostanze la causa dell’instabilità abitativa e non il contrario (Montross et al., 2005), infatti tutti i soggetti dichiaravano di aver sviluppato una problematica di abuso di sostanze prima di diventare individui senza dimora.

Conclusione

In conclusione, la revisione (Spranger Forte et al., 2023) ha riportato grandi limiti a livello clinico nella concettualizzazione e nella differenziazione, da parte dei professionisti della salute, del disturbo schizoaffettivo rispetto alla schizofrenia o al bipolarismo. Inoltre, la popolazione di individui senza dimora con disturbo schizoaffettivo risulta essere particolarmente difficile da seguire; infatti queste persone antepongono alle problematiche di assistenza sanitaria l’alloggio e l’alimentazione. Tutto questo aumenta la difficoltà rispetto ad un disturbo già di per sé complesso. Pertanto, la combinazione di una diagnosi difficile studiata su una popolazione ancor più difficile, porta ad una letteratura limitata per via della mancanza di dati e delle variabili poco stabili (Gama Marques, 2021). È chiara la necessità di maggiori studi di chiarificazione rispetto alla diagnosi del disturbo schizoaffettivo e di più analisi rispetto a questo disturbo in una popolazione così complessa come quella degli individui senza dimora.

I falsi ricordi: come una parola può alterare la nostra memoria

Il falso ricordo, o false memory, è un fenomeno per cui si ricordano avvenimenti non accaduti o particolari di un evento che si è verificato, che però non risultano veritieri (D’Ambrosio e Supino, 2014).

 Si ha la convinzione erronea che tutto quello di cui sono composti i nostri ricordi sia vero. Il nostro cervello essendo plastico, invece, è soggetto a innumerevoli condizionamenti provenienti dall’esterno, che possono permettere una modifica dei ricordi, i quali, essendo delle ricostruzioni, possono essere facilmente distorti. I nostri ricordi sono così fragili e malleabili che addirittura il modo in cui viene posta una domanda può condizionare e alterare il nostro preciso ricordo della situazione (Jarrett, 2021).

Come creiamo un ricordo?

Partiamo innanzitutto dal descrivere come si forma un ricordo, cioè l’apprendimento di nuovi fatti e/o eventi. Il processo di apprendimento avviene attraverso tre fasi: codifica, consolidamento e richiamo. La codifica è la registrazione iniziale dello stimolo proveniente dall’esterno, il quale viene analizzato dalle strutture cerebrali del lobo temporale e frontale. La codifica dello stimolo esterno è influenzata da diversi fattori: l’attenzione nel registrare l’informazione, la profondità di elaborazione di questa e il tipo di apprendimento che abbiamo utilizzato in quella situazione. La seconda fase è il consolidamento, dove le informazioni, una volta processate, vengono immagazzinate sotto forma di ricordo. L’aspetto più importante della memoria però, è costituito dalla capacità di richiamo o recupero, che può essere sollecitato da un singolo indizio, come guardare il volto di una persona o ascoltare una melodia. Il recupero dei ricordi che in precedenza sono stati immagazzinati è gestita dalla parte mediale del lobo temporale, in particolare dall’ippocampo (Legrenzi et al., 2012).

Il falso ricordo

Il falso ricordo, o false memory, è un fenomeno per cui si ricordano avvenimenti non accaduti o particolari di un evento che si è verificato, che però non risultano veritieri (D’Ambrosio e Supino, 2014). Molti falsi ricordi confondono frammenti di eventi che possono essersi verificati in tempi diversi, ma che vengono ricordati come se fossero accaduti nello stesso momento, mescolano sogni come eventi realmente accaduti o possono essere il risultato di un condizionamento esterno da parte di terzi.

I falsi ricordi possono classificarsi in:

  • falsi ricordi testimoniali: cioè quando un evento, a cui si è assistito, è soggetto a modifica e quindi viene ricordato in modo distorto, parziale o impreciso;
  • falsi ricordi autobiografici: cioè quando si crede, in buona fede, di aver vissuto in prima persona un evento (D’Ambrosio e Supino, 2014).

La teoria dei falsi ricordi secondo Elizabeth Loftus

Elizabeth Loftus, psicologa statunitense, è una dei principali fautori della sindrome dei falsi ricordi, ed ha partecipato come consulente in alcuni tra i più importanti processi negli USA, come quelli di Ted Bundy o di O.J. Simpson (Jarrett, 2021). La Loftus ha cominciato i suoi studi ponendo attenzione alla memoria e ai suoi legami con la semantica, focalizzandosi sullo studio dei ricordi di persone che avevano vissuto incidenti automobilistici, e ha scoperto che anche solo la variazione di una singola parola in una domanda, come “colpita” o “distrutta” e “un” o “il”, poteva produrre dei risultati completamente diversi nella rievocazione di una stessa situazione, sufficiente per condannare o assolvere un imputato (Jarrett, 2021). Tali ricerche dimostrano come siamo inclini alla creazione di falsi ricordi, in modo conscio e inconscio, specialmente se influenzati da figure autorevoli.

 Lei stessa ha vissuto sulla propria pelle questa teoria: trent’anni dopo che sua madre era morta annegata in una piscina, suo zio le raccontò di essere stato il primo a trovare il corpo, e lei ripercorrendo nella sua mente il ricordo di quell’evento ricordò che andò proprio così. Tre giorni dopo, però, la Loftus scoprì che in realtà non era accaduto questo, ma la prima persona a scoprire il corpo della madre fu in realtà sua zia: la Loftus stessa era stata indotta alla creazione di un falso ricordo (Jarrett, 2021).

Lo studio di Murphy et al.

Un’ulteriore conferma di questa teoria ci è stata fornita dal follow-up di Murphy et al. su un campione di 630 partecipanti, che sei mesi prima avevano partecipato a uno studio in cui erano stati esposti a notizie politiche inventate. Si sono messi a confronto i ricordi di questi “partecipanti continuativi”, sia introducendo notizie nuove che notizie ottenute in precedenza, con i ricordi di 474 partecipanti appena reclutati ed è emerso che, rispetto ai nuovi partecipanti, quelli “continuativi” avevano meno probabilità di segnalare un falso ricordo per una storia a cui erano stati precedentemente esposti, ed erano anche meno propensi a segnalare un falso ricordo per una nuova notizia falsa. Da questo studio, infatti, è emerso che la ripetuta esposizione a informazioni di verità illusoria, è probabile che possa aumentare la veridicità percepita e di conseguenza andare ad alterare il ricordo (Murphy et al., 2020).

I fattori che possono influenzare la creazione di un falso ricordo

Ci sono alcuni fattori che possono determinare la creazione di un falso ricordo (Meloni, 2021):

  • percezione: uno dei primi motivi dell’installazione di un falso ricordo è un’errata codifica della situazione che ci troviamo di fronte. Il ricordo originale può presentare dei vuoti, i quali vengono colmati con qualcosa che crediamo di aver visto o vissuto quando in realtà non è così;
  • interferenza: può essere reattiva, quando le esperienze più recenti influenzano quelle passate, o proattiva, quando sono invece i ricordi del passato ad intaccare quelli nel presente;
  • disinformazione: può capitare che informazioni veritiere siano contaminate da informazione inattendibili, e questo è un fattore molto importante da prendere in considerazione, soprattutto in ambito giuridico e processuale;
  • errata attribuzione: vengono uniti erroneamente più ricordi di diverse situazioni, anche immaginarie, in un unico evento;
  • approssimazione: secondo la teoria del fuzzy trace, ossia “traccia sfuocata”, la nostra memoria cattura tutti i dettagli e i significati di un evento e, nel momento in cui un significato di qualcosa di mai accaduto si sovrappone a un’esperienza reale, si forma il falso ricordo.
  • emozione: parlando precedentemente di apprendimento abbiamo detto che l’immagazzinamento di un ricordo è influenzato anche dall’emozione che viviamo in quel momento, infatti gli eventi molto intensi emotivamente sono più difficili da ricordare, e l’incidenza di falsi ricordi è proporzionale al livello di eccitazione che stavamo vivendo in quel dato istante;
  • temporalità: il tempo è il peggior nemico per un ricordo, infatti maggiore sarà il tempo trascorso dal ricordo che vogliamo rievocare, maggiori saranno le imprecisioni e la probabilità di alterare tale ricordo (Meloni, 2021).

Conclusioni

Nessuno è infallibile o immune alla creazione di un falso ricordo, sia esso conscio o inconscio, costruito individualmente o influenzato dall’esterno. Il nostro cervello è plastico, e come tale risulta essere malleabile e soggetto alle suggestioni e alle modificazioni. Bisogna prendere coscienza che la nostra memoria non è sempre efficace, ma anzi la non informazione circa questi “effetti” può determinare un campo fertile in cui l’individuo facilmente può diventare un soggetto influenzabile e quindi dominabile.

 

Sindrome di Down e malattia di Alzheimer: destini incrociati

Stime recenti indicano un rischio di demenza nel corso della vita superiore al 90% nelle persone con sindrome di Down e identificano la demenza di Alzheimer come la principale causa di morte in questa popolazione.

L’invecchiamento nelle persone con sindrome di Down

 La sindrome di Down e la malattia di Alzheimer sono due condizioni che per quanto possano apparire diverse e disconnesse condividono, invece, un destino incrociato.

Un destino che può essere definito infelice o crudele, a cui è difficile rassegnarsi, non solo per l’individuo che lo sperimenta sulla sua pelle, ma anche per la famiglia che viene inevitabilmente coinvolta in questo percorso.

Infatti, sebbene la malattia di Alzheimer si sviluppi, generalmente, dopo i 65 anni di età, diversi studi condotti dall’Università del Connecticut, hanno dimostrato come nei pazienti affetti da sindrome di Down questa patologia insorge precocemente, anche prima dei 30 anni d’età.

L’invecchiamento dei pazienti con sindrome di Down è di recente interesse: oggi, rispetto al passato, circa l’80% degli individui con Sindrome di Down supera l’età di 30 anni ed una percentuale pari al 25% di essi raggiunge l’età di 50 anni.

Questo aumento della longevità ha dato origine ad una popolazione di persone anziane con sindrome di Down mai visto in precedenza.

La longevità di questi pazienti, sebbene sia un traguardo, che pone in risalto i numerosi progressi compiuti in ambito medico e sanitario, d’altra parte porta con sé un’inesorabile realtà: una buona percentuale di soggetti che presentano sindrome di Down presenta segni clinici di demenza in età adulta.

L’invecchiamento, quindi, che si configura come una fase già delicata di per sé, si configura maggiormente delicata per questi soggetti.

Stime recenti indicano un rischio di demenza nel corso della vita superiore al 90% nelle persone con sindrome di Down e identificano la demenza di Alzheimer come la principale causa di morte in questa popolazione.

Diverse ricerche hanno evidenziato come le modificazioni neuropatologiche che avvengono nel sistema nervoso di adulti con Sindrome di Down siano simili a quelli osservati nella malattia di Alzheimer, ponendo in luce lo studio comparativo della malattia di Alzheimer e della sindrome di Down ed evidenziandone una duplice importanza: da una parte risulta necessario identificare metodi diagnostici affidabili e sviluppare servizi adeguati per questa popolazione; e, d’altra parte, una comprensione di questa associazione può dare un’ulteriore spiegazione sulle cause della malattia di Alzheimer.

L’accumulo di beta-amiloide nella malattia di Alzheimer e nella sindrome di Down

La letteratura scientifica ha evidenziato che l’accumulo extracellulare di beta-amiloide, che si configura come il principale elemento costitutivo dei filamenti che compongono le placche senili, nel cervello dei soggetti con sindrome di Down inizia nell’infanzia a partire dagli 8 anni, e aumenta esponenzialmente con il crescere dell’età, presentando degenerazione neurale e un deterioramento cognitivo rapido, aspetti caratteristici della malattia di Alzheimer.

Il peptide beta-amiloide deriva dalla frammentazione di una proteina precursore ovvero l’Amyloid Precursor Protein (APP) e, secondo quanto riportato dall’Alzheimer Association, i geni contenuti all’interno del cromosoma 21 risultano essere più di 400; tra questi ritroviamo anche il gene che codifica la produzione di APP, che se eccessivamente presente nella corteccia cerebrale viene considerata una delle principali cause dell’insorgere dell’Alzheimer.

Gli individui con sindrome di Down costituiscono pertanto una popolazione ad altissimo rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer a causa della trisomia del cromosoma 21, che ospita il gene APP e che si configura come causa di molte malattie neurodegenerative, in particolare come causa della malattia di Alzheimer.

La presenza di tre copie del gene APP ha come conseguenze un’eccessiva produzione e deposito nel cervello della proteina amiloide.

I cambiamenti neuropatologici correlati alla triplicazione della proteina precursore dell’amiloide (APP) contribuiscono principalmente ai primi segni clinici della malattia di Alzheimer in individui con sindrome di Down.

Il gene APOE nella malattia di Alzheimer e nella sindrome di Down

Un’ulteriore relazione riscontrabile nello sviluppo della malattia di Alzheimer nei pazienti con sindrome di Down è caratterizzata dal gene APOE.

L’apolipoproteina E (ApoE) è uno dei geni principali candidati nello sviluppo della malattia di Alzheimer.

L’ApoE esiste in tre forme alleliche denominate APOEɛ2, APOEɛ3 (la più frequente) ed APOEɛ4, che differiscono tra loro solo per pochi amminoacidi che sono, tuttavia, responsabili di un cambiamento sia a livello della struttura che della funzione dell’apolipoproteina, con conseguenze psicologiche.

 L’allele APOEɛ4, a conferma di numerosi studi, sembra favorire maggiormente, rispetto alle altre forme, la precipitazione e l’aggregazione della beta-amiloide, rivestendo un ruolo attivo nella genesi delle alterazioni neuropatologiche della malattia di Alzheimer, ed è frequentemente associato ai sintomi dell’Alzheimer, mentre la forma APOEɛ 2 sembra conferire protezione nei confronti dell’insorgenza del processo dementigeno.

A conferma del ruolo fondamentale dell’allele APOEɛ4 nello sviluppo della malattia di Alzheimer uno studio condotto dall’Università di Cambridge tramite tecniche di neuroimaging su 464 adulti con sindrome di Down, di cui 97 erano portatori dell’allele APOE ɛ4 e 367 non portatori, ha evidenziato che i portatori dell’allele APOEɛ4 presentavano sintomi della malattia di Alzheimer in misura nettamente maggiore rispetto ai non portatori dell’allele.

Inoltre, alla luce dei numerosi studi non è stato confermato che tutti gli individui portatori dell’allele ε4 sviluppino questa malattia e non tutti coloro che sviluppano l’Alzheimer sono portatori dell’allele e pertanto è importante sottolineare che, nonostante la presenza dell’allele ε4 sia un importante predittore dello sviluppo della malattia di Alzheimer, la sola presenza non può fare diagnosi in quanto potrebbe essere presente anche in una piccola percentuale di persone sane.

I grovigli di proteina tau nella malattia di Alzheimer e nella sindrome di Down

Inoltre, la malattia di Alzheimer risulta correlata anche a grovigli neurofibrillari (NFT) costituiti da proteina tau iperfosforilata nella forma di filamenti elicoidali appaiati.

Le conseguenze intracellulari della presenza di grovigli neurofibrillari sono la disintegrazione dei microtubuli e la disfunzione della comunicazione neuronale, per il collasso del sistema di trasporto, che alla fine provoca anche l’attivazione della morte cellulare.

Nei pazienti con sindrome di Down la presenza di grovigli neurofibrillari è fortemente predittiva dello sviluppo della malattia di Alzheimer, sebbene la loro comparsa sia più tardiva rispetto alla presenza di placche amiloidi.

Alterazioni del volume cerebrale nella malattia di Alzheimer e nella sindrome di Down

Ulteriori ricerche hanno evidenziato il ruolo decisivo dell’ippocampo e del corpo calloso in persone con sindrome di Down che convivono con la malattia di Alzheimer.

Questi subiscono cambiamenti patologici precoci manifestando volumi ridotti nelle aree cerebrali colpite dalla malattia di Alzheimer specialmente nell’ippocampo e nel corpo calloso, in associazione con un importante declino cognitivo.

Da questi studi è emerso che le persone con sindrome di Down che presentano anche la malattia di Alzheimer hanno volumi significativamente ridotti in regioni del cervello quali l’ippocampo e ì altre strutture del lobo temporale, le stesse che sono coinvolte anche nei cervelli di persone che presentano l’Alzheimer ma non la sindrome di Down.

Queste riduzioni di volume hanno un’associazione con il declino cognitivo in entrambi i gruppi. Le riduzioni del volume dell’ippocampo e del lobo temporale sono tipiche della malattia di Alzheimer e di persone con sindrome di Down che convivono con demenza.

Gli esami istopatologici mostrano che la struttura dell’ippocampo è una delle prime e più gravemente colpite dalla malattia di Alzheimer.

Nonostante queste somiglianze, sono state riportate differenze sia nella natura che nella manifestazione della patologia di Alzheimer nei soggetti con sindrome di Down rispetto alla popolazione generale.

È stato riscontrato ad esempio che la densità di placche senili nella corteccia temporale delle persone con sindrome di Down era inferiore a quella riscontrata nei pazienti con Alzheimer nella popolazione generale.

Se infatti nella popolazione generale il primo sintomo della malattia di Alzheimer è costituito dalla comparsa di disturbi della memoria, nei pazienti con sindrome di Down che presentano diagnosi di Alzheimer i primi sintomi ad emergere sono quelli a carico delle funzioni mediate dalle aree frontali quali: indifferenza, apatia, irritabilità, modificazioni della personalità e ridotta interazione sociale.

I sintomi comportamentali e psicologici possono essere osservati molto prima rispetto alla diagnosi clinica di demenza e una loro identificazione accurata può fungere da indicatore precoce dei soggetti a rischio, fornendo, dunque, nuove possibilità di trattamento al fine di migliorare la qualità di vita, oltre che offrire un nuovo modo non invasivo per monitorare la progressione verso l’Alzheimer in soggetti con sindrome di Down.

 

Tratti di personalità nella popolazione carceraria

Lo studio di Yousefi e Talib (2022) si è posto l’obiettivo di indagare i fattori legati ai disturbi di personalità nei detenuti della prigione centrale di Sanandaj, in Iran.

La classificazione dei disturbi di personalità

 I disturbi di personalità vengono definiti come un pattern pervasivo e persistente di tratti disadattivi che coinvolgono due o più delle seguenti aree di funzionamento: cognitiva, affettiva, interpersonale e controllo degli impulsi. Causano disagio clinicamente significativo e/o compromissione del funzionamento in una o più aree di vita, come l’idea di sé, le relazioni interpersonali e l’ambito lavorativo (APA, 2013). Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali nella sua quinta edizione (DSM-5; APA, 2013) sottolinea come questi disturbi siano legati principalmente a due sfere di problematicità: auto-identità e funzionamento interpersonale. Le problematiche relative all’auto-identità riguardano un’immagine di sé instabile, autostima, incoerenza nei valori/ obiettivi e aspetto/modi di vestire peculiari. Per quanto riguarda il funzionamento interpersonale invece, ci si riferisce alla difficoltà nello sviluppare e/o mantenere relazioni interpersonali stabili e intime. Generalmente è possibile effettuare una diagnosi dopo i 18 anni di età. La prevalenza di questi disturbi nella popolazione mondiale è di circa il 6% (Hart et al., 2018).

Nel DSM-5 i dieci disturbi di personalità elencati al suo interno vengono suddivisi in tre gruppi, detti cluster (A, B e C), in base alle somiglianze e differenze con cui questi disturbi si manifestano. Di seguito è riportato un breve elenco con le caratteristiche principali di ogni condizione.

Cluster A (eccentrico):

Cluster B (drammatico):

Cluster C (timoroso/pauroso):

I disturbi di personalità –se in forma severa– possono avere un ruolo importante nello sviluppo e messa in atto di comportamenti violenti (Esbec & Echeburùa, 2010). Fin dall’inizio del XIX secolo, gli individui affetti da disturbi mentali sono stati identificati come più frequentemente coinvolti in crimini violenti rispetto a individui che non presentano questi disturbi (Nederlof et al., 2013). La letteratura ha identificato il legame tra crimini violenti e diversi tratti di personalità, come quelli propri dell’antisociale, del borderline, del narcisistico e del paranoide (Esbec & Echeburúa, 2010; Alevizopoulos & Igoumenou, 2016).

 Per esempio, il disturbo antisociale, che nelle sue forme più severe può evolvere nella psicopatia, è frequentemente associato a crimini violenti proprio per le caratteristiche che conferisce agli individui con questa diagnosi: i soggetti con questo disturbo sono caratterizzati da egocentrismo patologico, mancanza di empatia e di rimorso, aggressività (de Pádua Serafim et al., 2014).

Sebbene i disturbi di personalità differiscano notevolmente nelle loro manifestazioni, si ritiene che siano esito di una combinazione e interazione tra fattori genetici e ambientali (Eysenck & Rachman, 2013; APA, 2013). Dunque, la personalità sembra giocare un ruolo importante nello sviluppo di comportamenti criminali, rafforzando l’ipotesi che alcuni individui avrebbero una maggior propensione a commettere atti criminali (Eysenck & Rachman, 2013; Boduszek et al., 2013).

I disturbi di personalità tra i detenuti

Lo studio di Yousefi e Talib (2022) si è posto l’obiettivo di indagare i fattori legati ai disturbi di personalità nei detenuti della prigione centrale di Sanandaj, in Iran.

I partecipanti selezionati per questo studio erano 343 detenuti, di cui 329 uomini e 14 donne. I partecipanti hanno compilato il Millon Clinical Multiaxial Inventory (MCMI), un test che valuta i disturbi di personalità e le patologie psichiatriche.

I risultati maggiormente rilevanti hanno messo in luce la presenza di disturbi di personalità del cluster B (narcisistico, istrionico, borderline, antisociale) in 99 partecipanti (ovvero 29% del campione totale). Il cluster B è risultato avere una relazione significativa con il livello di istruzione elementare. È interessante notare come l’impulsività sia una caratteristica che generalmente inficia sul successo scolastico; inoltre, impulsività, instabilità emotiva e uno stile di vita irresponsabile sono tipici dei disturbi del Cluster B (Mateus et al., 2021).

Il genere maschile e il livello di istruzione elementare sono risultati significativamente correlati ai disturbi di personalità del Cluster A (paranoide, schizoide, schizotipico).

Il Cluster C (evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo) è risultato avere una relazione significativa con il genere maschile, il livello di istruzione elementare, la disoccupazione, il reato di furto e aggressione.

Sulla base di questi risultati, potrebbero essere molto utili interventi psicologici e psichiatrici mirati alla gestione di questi aspetti di personalità disadattivi, per favorire una più efficace re-integrazione dei detenuti nella società.

Libera. Comprendere e trattare gli effetti della violenza sulle donne (2023) – Recensione

Nel saggio “Libera. Comprendere e trattare gli effetti della violenza sulle donne” Dolores Mosquera introduce e descrive una delle tematiche più attuali e presenti nel panorama sociale nazionale ed internazionale.

 La violenza sulle donne non solo risulta essere un fenomeno sempre più dilagante, ma al contempo è il riflesso di uno stile relazionale e comportamentale che nel quotidiano –tra le mura domestiche e non solo– rischia di tradursi in qualcosa di normativo, giustificando ciò che al contrario si dovrebbe contrastare, dando voce a quei silenzi che non tarderanno ad assumere la fisionomia di segnali inequivocabili di violenza. Queste pagine vogliono rappresentare un valido spunto di riflessione; l’autrice invita chiunque desideri leggerla a prendere consapevolezza circa le dinamiche che prendono vita nelle persone autrici di questo drammatico reato.

Specializzata nel trattamento dei traumi complessi e della dissociazione, attraverso queste pagine, Dolores Mosquera offre al clinico un valido e schematico strumento circa il percorso da proporre, e nondimeno da personalizzare, proprio in base all’individualità dell’esperienza che la donna porta con sé. E che immancabilmente riflette una modalità di stare al mondo, nonché uno stato mentale che rischia di invalidare e/o limitare la propria sfera relazionale ed intrapsichica.

Dare voce al silenzio

 Le donne vittime di violenza non sempre e nell’immediato riescono a dar voce a quel dolore che in maniera sottile inizia a prendere forma sia nella mente che nel corpo. Quanto di più drammatico avviene risulta essere proprio quel processo di convincimento che pian piano traduce la sofferenza in una colpa, oppure in un qualcosa che si pensa di aver meritato. Proprio dinanzi alle molteplici forme di espressione, verbale o fisica, il silenzio e la chiusura riflettono quei meccanismi difensivi rispetto ai quali la ribellione cede il posto alla negazione e all’arrendevolezza di un comportamento che, in maniera silente, inizia a impadronirsi di una vita che non dovrebbe cessare di fiorire.

 

Mente e corpo nello sviluppo (2022) a cura di Chiara Turati ed Eloisa Valenza – Recensione

Il libro “Mente e corpo nello sviluppo” curato da Chiara Turati ed Eloisa Valenza, rispettivamente professoresse ordinarie di Psicologia dello sviluppo all’Università degli studi di Milano Bicocca e dell’Università di Padova, offre una panoramica sul tema importante della relazione tra la mente e il corpo nello sviluppo del bambino.

Il concetto di embodiment

 Il focus trasversale ai vari capitoli è quello dell’embodiment che descrive “come i processi cognitivi emergono nello sviluppo grazie a una conoscenza che si costruisce attraverso il corpo e al suo agire nell’ambiente”. In questa prospettiva il corpo diventa un sistema in movimento che si compone di materia, spazio e relazione: un divenire “evolutivo” in cui il corpo, come descrive nella prefazione Pier Francesco Ferrari – direttore di ricerca dell’Institut des Sciences Cognitives Marc Jeannerod, cnrs/Université Claude Bernard Lyon – “è il centro di gravità attorno al quale i processi mentali prendono forma, mentre l’ambiente è la dimensione spaziale su cui il corpo agisce ed interagisce”.

Ecco che il concetto di embodiment, ovvero di una mente incorporata, strettamente connessa alle esperienze senso motorie, diventa l’elemento trasversale della relazione tra azione e cognizione, azione ed emozioni, della distinzione tra sentire con il corpo e con la mente nell’analisi psico-socio-emotiva della pelle e dell’interazione corporea in funzione della relazione.

La riflessione si presenta come un percorso che inizia dalla presentazione con il primo capitolo delle curatrici sulla “prospettiva embodied sullo sviluppo della mente” evidenziando come la visione dominante sulla relazione corpo – mente le ha ritenute due entità distinte. Le autrici affermano come “nella nostra cultura, la mente si rivela unicamente attraverso capacità logiche, deduttive, referenziali, intellettuali, di alto livello, distinte dalle sensazioni corporee, mentre al corpo sono relegati compiti prevalentemente di natura sensoriale e motoria. Questa visione implica una mente nascosta dalla maschera del corpo che la contiene, scorporata dall’involucro che la avvolge, talvolta rivelata dai nostri comportamenti talvolta no.” Sulla base di questa prima considerazione proseguono nella presentazione e analisi dell’embodied cognition. In questo percorso vengono affrontati dei temi storici di studio della mente come quello di ambiente e patrimonio genetico o cervello e comportamento, per arrivare a esplorare l’influenza della dimensione corporea nel corpo della mamma come ambiente prenatale e nelle interazioni precoci, allo stesso tempo, focalizzando l’attenzione sul gioco come esperienza chiave del processo di sviluppo.

Azione e cognizione

Il secondo capitolo, di Eloisa Valenza e Giorgia Lettere, affronta la relazione tra azione e cognizione. Un approfondimento sull’esperienza prenatale e post natale sullo sviluppo comunicativo-linguistico del bambino. Le autrici iniziano ad analizzare la relazione del percorso evolutivo dal gesto alla parola, attraversando le evidenze filogenetiche e ontogenetiche. Ecco che il gesto si radica nell’esperienza senso motoria che determina l’esperienza del linguaggio scritto, della conoscenza numerica-matematica sino alle implicazioni dell’esperienza senso-motoria nello sviluppo atipico.

Azioni ed emozioni

Il terzo capitolo di Ermanno Quadrelli tratta l’interessante tema della comprensione delle azioni e emozioni altrui attraverso la relazione/osservazione del corpo, affrontando i concetti della nascita delle abilità di comprensione delle azioni e delle emozioni in relazione al tema della risonanza motoria e dello sviluppo delle competenze sociali. L’autore analizza la complessità dei processi nel momento in cui una persona inizia a comunicare, agire e interagire in funzione dell’imprevedibilità e della condivisione dello spazio che rappresenta la caratteristica di ogni relazione sociale. La comprensione delle azioni e del nostro interlocutore è legata ad un processo che coinvolge la risonanza motoria che quello specifico gesto ha verso di noi. L’autore analizza quali sono i processi che determinano la possibilità di compiere decisioni così rapide in funzione dell’osservazione del comportamento dell’altro inteso anche come spostamento in uno spazio condiviso.

Il ruolo della pelle e del tatto nello sviluppo del bambino

 Il quarto capitolo, di Margaret Addabbo, dal titolo “Sentire con il corpo, sentire con la mente”, studia il ruolo della pelle nello sviluppo della persona e, nello specifico, della percezione tattile. L’autrice afferma che “il tocco non è solo una semplice esperienza cutanea ma, piuttosto, una esperienza intercorporea e multidimensionale, fondamentale sin dalle primissime fasi di vita e in grado di guidare lo sviluppo del bambino”. Da questa affermazione inizia un excursus di analisi in cui analizza la dimensione relazionale e informativa: la pelle è considerata come l’esperienza del confine e della relazione con il mondo esterno. Viene affrontata un’interessante analisi sulle due vie del tocco e come la pelle, di fatto, sia un organo “sociale”, veicolo per dirigere l’attenzione dei bambini verso stimoli sociali e processo che permette di differenziarsi e connettersi con gli altri e, prima ancora, di distinguere il sé dall’altro. Il capitolo termina con la presentazione delle atipie legate al contatto tattile nei disturbi del neurosviluppo e al delicato tema della deprivazione tattile nella relazione madre-bambino.

L’intersoggettività

Il quinto capitolo “Dall’interazione corporea alla relazione” di Dolores Rollo avvia la riflessione sulla relazione trasformativa che collega l’intercorporeità all’intersoggettività. L’autrice illustra la relazione tra la prospettiva embodied e lo sviluppo dell’intersoggettività. Afferma come il modello della mente incarnata offre una chiave di lettura innovativa per l’osservazione e la comprensione dell’intersoggettività, intesa come capacità di condividere stati mentali soggettivi. Questa reciprocità si struttura proprio dalla condivisione di gesti, azioni che si legano come in una danza e avviano l’esperienza dell’intersoggettiva. L’analisi attraversa anche la descrizione dei mediatori biologici, interpersonali e dei processi neurali alla base dell’intersoggettività, sino ai processi che portano dall’imitazione alla relazione e al passaggio evolutivo dal corpo al sé e alla mente culturale.

Conclusioni

Il libro “Mente e corpo nello sviluppo” apre nuove frontiere di studio nel campo dell’infant research, per esempio il ruolo dell’azione e dell’esperienza sensomotoria e affettiva nella formazione delle competenze sociali e dei processi cognitivi più complessi. Allo stesso tempo la concettualizzazione dell’embodiment in relazione non solo allo sviluppo dei processi cognitivi, ma alla prospettiva dell’intersoggettività ha accompagnato all’analisi della funzione degli stimoli sensoriali complessi, superando in modo definitivo il modello di sistema esecutivo che riceve ed esegue gli ordini che arrivano da un sistema di ordine “superiore”. Un’analisi che accoglie le riflessioni di Merleau-Ponty (1945, trad. it.) sulla relazione corpo e spazio peripersonale ben espressa nella frase “[…]non solo il mio corpo non è per me un semplice frammento di spazio, ma per me non ci sarebbe spazio se non avessi un corpo”. In questo senso, l’approccio embodied restituisce a tutti gli stati corporei senso-motori o affettivi la loro rilevanza nello sviluppo socio-cognitivo ed emotivo-relazionale, evidenziando come siano gli elementi costitutivi nell’organizzazione delle esperienze con cui il bambino entra in contatto e che influenzano il suo sviluppo, determinando il processo di attribuzione del significato che il bambino vive nelle diverse esperienze di vita.

Un campo di studi affascinanti che ribalta l’osservazione dei processi di sviluppo del bambino e che esorta ad avviare future ricerche, riflessioni e applicazioni in ambito clinico, formativo, educativo e sociale a partire dalla centralità del modello della mente incarnata.

 

Quando la normalità diventa anormale: il caso dei “normotici” 

È questo il nucleo patologico del normotico: non riuscire a distaccarsi da un eccesso di normalità con il quale contamina ogni aspetto della sua esistenza.

 La credenza collettiva associa al concetto di normalità un’accezione prettamente positiva, identificando in essa caratteristiche affini al benessere, alla tranquillità, al buon vivere civile. È normale ciò che è giusto, socialmente adeguato, conforme alla legge e alla prassi consolidata. Alla normalità si accompagna un senso di sicurezza, che mette al riparo da sensi di colpa, minaccia ed estraneità, dovuto alla convinzione di aver compiuto il proprio dovere. Di converso, allontanarsi da comportamenti collettivamente approvati costringe a confrontarsi con una dimensione non conosciuta e potenzialmente stigmatizzante. Conseguenza particolarmente critica, quest’ultima, soprattutto per certi individui che avvertono con intensità maggiore il bisogno di adeguarsi alle regole sociali, per non violare quell’accettabile livello di conformismo che li fa sentire parte di un gruppo.

Ma in certi casi l’adeguamento sociale può diventare un pensiero ossessivo, un dovere al quale non si può derogare, e non soltanto per una questione di buon vivere civile: essere e sentirsi normali si tramuta in una condizione indispensabile alla sopravvivenza.

È il caso dei c.d. normotici (Bollas, 1989).

“Malati” di normalità: chi sono i normotici

La psicologia considera patologico un eccesso di normalità. È Bollas, (1989) nel suo testo “L’ombra dell’oggetto”, a definire normotica una dimensione esistenziale in cui la normalità diventa l’espressione sintomatica di un disagio, data la connotazione di rigidità compulsiva con cui viene applicata. In un simile contesto la normalità perde le proprie connotazioni funzionali e degenera in un fattore patologico tutt’altro che adattivo, risultando unicamente finalizzato all’elusione dell’identità individuale.

Nei soggetti normotici l’esigenza primaria è volta a mantenere un pedissequo conformismo, un’adesione ai canoni del comportamento sociale necessaria a sentirsi inseriti in una massa nella quale si identificano totalmente, annullando in essa il Sé individuale. Si verifica così un’abdicazione – totale ed egosintonica – del proprio nucleo identitario, che va a confluire in un coacervo indifferenziato in cui ogni elemento soggettivante perde valore e riconoscibilità, per venir sacrificato alla causa di un’omologazione indiscriminata (MacDougall, 1992).

Una persona normotica è “anormalmente normale”: troppo stabile, sicura, tranquilla ed educata. Sempre di buon umore, senza passioni particolari, equilibrata perché priva di emozioni e attenta ai soli aspetti materiali dell’esistenza. Agli oggetti, che colleziona in una routine rassicurante proprio perché inflessibile. Immutabile. Sempre uguale e se stessa.

Il normotico si immerge inconsapevolmente in una dimensione di vita banale e prosaica, improntata all’agire più che al fare, al compiere più che all’elaborare, all’imitare più che al creare (Bollas,1989; Mac Dougall, 1992).

Giovacchini (1972) parla a ragione di Sé vuoti, personalità organizzatrici in grado soltanto di raccogliere, enumerare, collezionare dati di fatto. Egli non crea comportamenti, piuttosto li imita. Non decide, non crea, non agisce. Più che vivere esegue la vita, muovendosi all’interno di scenari stereotipati costruiti ad hoc, sulla base di esperienze che si limita a mutuare dagli altri, in una volontà emulativa dietro la quale cela una nudità di intenti e di pulsioni.

Tutto è programmato, tutto è meccanizzato nella sua condizione vitale: all’inizio di ogni giornata sa esattamente cosa mangerà, come si vestirà, quali acquisti effettuerà, nel timore di andare incontro ad una perdita di controllo che potrebbe destabilizzarlo. Le sue condotte non si discostano, in contenuti e orientamenti, da quelle della collettività: lavorare, sposarsi, fare figli, ma anche semplicemente fare acquisti o andare in vacanza, sono azioni che compie sotto l’influenza di una richiesta sociale cui si adegua adesivamente, in ottemperanza ad un istinto di emulazione che lo invade senza riserve.

Vivendo sulla scia delle opinioni e delle azioni altrui, egli costruisce un modello comportamentale parassitario che attinge passivamente da ciò che la maggioranza ha compiuto prima di lui. È il comportamento degli altri a designare l’andamento del proprio, così da rendere ogni sua decisione, anche apparentemente riflettuta, la mera replica di abitudini socialmente consolidate. Per questo non matura opinioni o punti di vista autonomi, preferendo utilizzare frasi fatte, espressioni di convenienza, luoghi comuni condivisi dalla massa, dai quali è sicuro di ricevere facile approvazione.

Egli rifugge il pensiero, la vita onirica, la dimensione emotiva e persino le pulsioni aggressive – non si arrabbia facilmente –  lasciandosi inghiottire in un vortice di ovvietà privo di stimoli.

Per quanto cortese e ben educato, è un interlocutore assolutamente banale. Se si ammala si preoccupa più di cercare informazioni concrete che una cura alla malattia, se perde qualcuno di caro si consolerà dicendo che prima o poi a tutti tocca morire. Parlando del tempo dirà probabilmente che non ci sono più le mezze stagioni, se accade una tragedia dirà che gli dispiace, ma si sa, in fondo, che certe cose non si possono evitare, se c’è una crisi dirà che tutti attraversiamo, in fondo, degli alti e bassi.

Il suo linguaggio si mostra in linea con questo connotato di impersonalità, essendo costruito su parole svuotate di ogni significato simbolico, per divenire la rappresentazione stereotipata di termini meccanici privi di ispirazione. Le conversazioni vengono ridotte così a cortesi scambi di convenevoli, inconsistenti e privi di contenuti saturanti, la replica avvilente di espressioni già dette (Bollas, 1989).

E se mai si arrischia a produrre un pensiero meno artificiale, è solo in conformità a quel mondo inautentico che lo ispira. Dunque può chiedersi cosa può fare per risultare più uguale agli altri, cosa può comprare per sentirsi nella norma, o con quali beni materiali può riuscire ad acquietare la sua insaziabile sete di normalità.

È capace di trascorrere ore all’interno di supermercati, magazzini, negozi colmi di quella concretezza che riempie il suo vuoto esistenziale e lo avvolge in una sorta di reverie, piacevole e tuttavia superficiale, come è superficiale l’ammirazione che prova verso oggetti di cui può apprezzare soltanto l’aspetto estetico – e che alla fine deciderà di acquistare non per il loro valore intrinseco o per l’utilizzo che potrà farne, ma soltanto per la loro gradevolezza estetica, o per la capacità che avranno di farlo sentire più uguale agli altri.

Incapace di vivere i propri stati soggettivi, egli manca di fantasia e di capacità rappresentativa. Per lui esiste solo ciò che riesce a percepire con i canali sensoriali. Un colore è un colore, una forma è una forma. Non c’è nulla oltre a ciò che può essere visto o toccato. Nulla riesce a scalfire la superficialità dietro cui si trincera, e che lo rende capace soltanto di imitare, di riprodurre, poiché teme letteralmente di creare qualcosa di esclusivamente suo.

…Vi sono persone che possono essere malate in senso psichiatrico per uno scarso senso della realtà. per equlibrare questo, si dovrebbe asserire che vi sono altri così fermamente ancorati alla realtà percepita oggettivamente da esser malati nella direzione opposta, di non essere in contatto con il mondo soggettivo e con l’approccio creativo alla realtà (Winnicott, 1971, pp. 121-122).

Il normotico è “straordinariamente vuoto” (Bollas, 1989). Così non esiste nulla che gli appartenga davvero: il suo stesso Sé diventa il mero prolungamento di una massa dominante, rappresentata come un oggetto superegoico che punisce ogni velleità differenziante, e il Sé dell’altro perde ogni valenza individuale per venir inserito all’interno di questa massa informe, nella quale lui stesso si dissolve alla ricerca di un rifugio, un’imago paterna idealizzata che protegge e rassicura dalla terribile “minaccia identitaria”.

Incapace di realizzare, ma anche di desiderare qualcosa di più profondo, egli si sente in dovere di ritrarsi ogniqualvolta un legame sociale rischia di valicare quel confine di normale conoscenza che tanto lo rassicura, facendolo sentire nulla più di un’identità mescolata in mezzo a tante altre.

Non c’è dunque da stupirsi se non riesce a costruire amicizie e neppure inimicizie. Un pensiero ossessivamente conformistico lo preserva dallo stesso concetto di invidia, intesa come quella pulsione di odio distruttivo che spinge a desiderare i beni altrui per sentirsi ed apparire migliori. L’invidia presuppone infatti il riconoscimento di un confine tra il Sé e l’oggetto invidiato, e soprattutto implica la consapevolezza di un Sé narcisistico che ambisce ad emergere, a superare gli altri in potere e dominio (Klein, 1957).

 Al contrario il normotico non vuole apparire migliore di nessuno. Vuole essere come gli altri. Nulla di più, né di meno. Il suo desiderio non è ispirato da un narcisismo autocompiacente, ma soltanto alla volontà di lasciarsi inghiottire in un vuoto privo di identità che, avviluppandolo, lo rassicura, mettendolo al riparo da quell’elemento creativo imprescindibilmente connesso alla vita.

La sua è un’esistenza massificata, in cui la massa non rappresenta soltanto una parte del Sé, ma è lo stesso Sè, in una sovrapposizione patologica che impedisce la relazione oggettuale e la simbolizzazione, rendendolo ostaggio di una bidimensionalità ontologica, epistemofilica ed emotiva.

Più che alla norma, il normotico è fedele alla normalità. E in questo “cimitero dell’immaginario” la normalità la sua unica legge.

L’origine del non Sé normotico. L’infanzia e i genitori

La nudità identitaria del normotico rappresenta il retaggio di una disfunzionalità dell’ambiente evolutivo, originata da un oggetto genitoriale incapace di costruire una dimensione relazionale sintonizzante, in cui l‘emozione viene conosciuta, riconosciuta e soprattutto ricambiata. Se la nascita del Sé non può prescindere da una intersoggettività funzionale, è infatti ovvio come la presenza di legami emotivamente inconsistenti provochi il consolidarsi di un Sé altrettanto vuoto, una sorta di contenitore senza contenuto, in cui ogni potenzialità o sfumatura creativa viene abortita da istanze siderate e sideranti (Bowlby, 1988; Stern, 1992; Stern, 1987).

La madre del bambino normotico non mostra verso di lui alcuna tensione desiderante. Non lo fa sentire presente all’interno della propria mente, mostrandogli una partecipazione affettiva costruita sulla mera esteriorità e priva di una reale partecipazione empatica. Lo sguardo vede ma non riconosce, l’abbraccio tiene e non riscalda, l’holding non contiene. Sorrisi e carezze, ove presenti, vengono semplicemente eseguiti, mancando di ogni connotazione empatica (Fava Vizziello, Stern, 1992; Stern, 1979).

Tuttavia il genitore normotico non è totalmente assente, né il suo atteggiamento può essere definito maltrattante, perlomeno non nel senso più distruttivo. È più corretto affermare che egli oggettivizza il figlio, gratificandone soltanto i bisogni materiali. Molto probabilmente se ne prende cura, ma lo fa attraverso condotte stereotipate, meccanizzate, prive di ogni identità affettiva, ispirate da parametri educativi in linea con una personalità prosaica in cui i bisogni affettivi e di vicinanza vengono totalmente ignorati, pur senza nessun intento sadico o dispregiativo.

La cosa di cui si preoccupa di più è che il bambino sia normale, e non vuole che si comporti in modi che possano essere interpretati come strani o irregolari, e per questo diverso dagli altri (Bollas, p. 121).

Il genitore normotico costruisce una genitorialità coerente con il proprio Sé: in altre parole, è genitore nel solo modo in cui riesce ad esserlo. Così non è per noncuranza se non interagisce con le invenzioni del figlio, se non partecipa responsivamente ai suoi giochi, se non nutre una dimensione immaginativa da cui può originarsi il pensiero simbolico. Se di fronte ad una sedia egli dirà semplicemente questa è una sedia….elaborando una biblioteca di oggetti concreti e senza identità (Bollas, 1989, p. 127); è soltanto perché egli stesso non riesce ad oltrepassare il confine di una mera esteriorità valutativa, né può ammettere che esista un’altra realtà al di là di quella materialmente percepita.

L’inosservanza del codice emotivo è assoluta. Ma ad ispirarla non è la compiacenza adesiva che ritroviamo nel Falso Sé, in cui un nucleo identitario, per quanto schermato da una dimensione difensiva fittizia, è comunque presente (Winnicott, 1971). Nel caso del disturbo normotico il Sé fa difetto in toto, essendo stato abortito da un sabotaggio inconsapevole – un attacco al Sé, secondo la definizione di Bollas – con cui il genitore ha scotomizzato la dimensione emotiva dalla vita del figlio, impendendogli di riconoscerla in se stesso e negli altri. Le emozioni sono state così svilite alla categoria di oggetti, elementi beta evacuabili unicamente a mezzo di condotte alessitimiche e acting out, come escreto di un disagio non verbalizzato e non riconosciuto perché neppure pensato ( Ogden, 2016).

Lo stile educazionale, all’interno di una famiglia normotica, è in linea con un ossessivo rispetto della normalità e dell’apparenza: ci si comporta bene soltanto se si fa quello che fanno gli altri, stando bene attenti a non distinguersi da nessuno.

L’ossequio a questa dimensione omologante è anche la condizione per ricevere l’apprezzamento dei genitori: ed è questo aspetto che contribuisce a conferire alla normalità una connotazione superegoica, trasformandola in un legislatore interno da cui far dipendere la stessa dimensione di autostima.

Il bambino si sente in pace con se stesso soltanto ove avrà ottemperato fedelmente il codice normotico che ha appreso. La sua massima aspirazione è quella di essere considerato, dagli adulti e dai pari, una persona amabile e cortese, di cui fa piacere essere amici e di cui tutti hanno una buona opinione. Qualcuno di normalmente buono, normalmente piacevole, normalmente intelligente (Bollas, 1989). Tutto quello che oltrepassa questa banalità depauperante viene rifuggito come una minaccia.

Ad un simile “affollamento” di concretezza consegue la totale assenza di oggetti affettivi, intesi come entità cui relazionarsi tensivamente. Al bambino normotico non vengono forniti modelli affettivi da introiettare, ma soltanto da imitare esteriormente, per rispecchiarne il riflesso nella propria superficie. Trattato come un oggetto, alla fine lui stesso si percepisce come tale, e come tale si presenta al mondo, elencando le proprie doti come se si trattasse di beni da annoverare e di cui far bella mostra per convincere gli altri del proprio status di normalità. E sono questi stessi modelli che una volta adulto trasmetterà al proprio figlio, dando vita ad un circolo vizioso transgenerazionale in cui la tridimensionalità viene soppiantata da un bidimensionale senza spazio in cui nulla può essere realmente contenuto.

La vita del normotico diventa così il mero riflesso di se stessa. Il banale replicarsi di contenuti decisi da qualcun altro e presi in prestito solo per essere imitati.

La fuga dalle profondità del Sé come angoscia di separazione

L’intuizione di Bollas ha consentito di identificare un concetto di normalità anormale, perché inflessibile ed invasiva. Ed è esattamente questo il nucleo patologico del normotico: non riuscire a distaccarsi da un eccesso di normalità con il quale contamina ogni aspetto della sua esistenza, finendo col trincerarsi dietro un artificialismo in cui l’elemento differenziante ostacola il mantenimento di un equilibrio intra ed interindividuale (Pesare, 2016).

Il riconoscimento del nucleo identitario potrebbe comportare l’allontanamento dai propri confini psichici, e con esso la traumatica scoperta del non Sé. Dunque viene rifuggito. Questo non soltanto comporta l’impossibilità di costruire relazioni con il Sé e con l’altro, ma impedisce anche una lettura del proprio mondo emotivo che, totalmente scotomizzato nei suoi aspetti più autentici, viene sostituito da una materialità compensativa, posta in essere al solo fine di difendersi dalla minaccia di scoprire il Sé autentico. Quello che differenzia gli uni dagli altri, rendendo unici.

Ma al di là della fuga dal proprio nucleo identitario, dietro questo disturbo potrebbe celarsi un’arcaica angoscia di separazione, una solitudine non addomesticata in cui la vicinanza con l’altro, inteso come massa non personificata, consente di sentirsi parte di un gruppo onnipotente, una sorta di genitore idealizzato che custodisce e guida, pur a scapito del Sé individuale e di ogni istanza narcisistica.

L’affiliazione, che in un utilizzo funzionale contribuisce alla costruzione di un buon adattamento sociale, in questo caso viene svilita ad omologazione desertificante, finalizzata non a rafforzare, ma ad annullare il Sé (Madeddu e Lingiardi, 1999).

La fuga nell’apparenza come “non pensabilità” del mondo emotivo

Il disturbo normotico è piuttosto trascurato per la sua attitudine a celarsi dietro atteggiamenti conformistici considerati, per l’appunto, “normali” (Winnicott, 1965). È difficile riconoscere un normopatico in una persona che agisce esclusivamente sulla base dell’agito altrui. È più facile scambiarlo con qualcuno che segue la moda e le tendenze del momento, un soggetto sensibile all’adattabilità sociale o caratterialmente tendente ad omologarsi alla maggioranza, ma senza nessun significato patologico.

In una società come quella attuale, votata al rispetto di canoni estetici oggettivanti e all’osservanza di un perfezionismo idealizzante, è anzi la mancata osservanza di condotte socialmente approvate ad essere considerata fuori dal normale, e per questo patologica.

Il culto della normalità post moderna è indubbiamente legato al rispetto di una dimensione in cui l’apparire conta più dell’essere, e spesso si sostituisce a quest’ultimo, riducendo l’esistenza al riflesso di qualcosa che può essere soltanto visto, ma non afferrato. Ed è possibile che dietro questa fame di esteriorità si celi l’esigenza difensiva di nascondersi negli altri per sfuggire a se stessi, ed evitare il confronto con un’emotività minacciosa perché priva di un’apparenza percepibile. L’iperinvestimento compensativo nell’esteriorità potrebbe così rappresentare l’effetto degenerato di una società meramente apparente, spaventata da una profondità che teme di esprimere ma ha il coraggio cancellare.

Il normotico richiama l’immagine dell’“uomo senza lacrime” che, non essendo capace di piangere il proprio dolore psichico, lo soffoca al di là di meccanismi artificialmente acquisiti, arrendendosi ad un’avvilente superficialità che lo appaga e lo rassicura (Pesare, 2016). Terrorizzato dal buio di un’interiorità inconoscibile egli si rifugia nel fulgore illusorio della luce esterna, accettando di percorrere sentieri già battuti, di cui altri hanno deciso il nome e la direzione. Il suo nucleo mortifero sembra allora prendere vita, tingendo di colori sbiaditi un’esistenza che potrebbe scoprire l’arcobaleno, ma si accontenta del bianco e nero.

 

Prevalenza e correlati clinici di tricotillomania e disturbo da escoriazione

La prevalenza e i correlati clinici del disturbo da strappamento di peli (tricotillomania) e del disturbo da stuzzicamento della pelle (disturbo da escoriazione) in un campione psichiatrico acuto.

In cosa consistono la tricotillomania e il disturbo da escoriazione?

 Il disturbo da strappamento dei capelli (HPD; hair pulling disorder – tricotillomania) e il disturbo da stuzzicamento della pelle (SPD; skin picking disorder – disturbo da escoriazione) sono caratterizzati, rispettivamente, da strappamento dei capelli e da stuzzicamento della pelle ricorrenti, che generano angoscia e/o compromettono lo svolgimento della vita quotidiana (APA, 2022).

Esiste un consenso emergente sul fatto che la tricotillomania e il disturbo da escoriazione siano condizioni strettamente correlate e che i due disturbi siano spesso concettualizzati come disturbi della cura di sé o disturbi da comportamento ripetitivo focalizzato sul corpo (insieme ad altre abitudini focalizzate sul corpo come l’eccessivo mangiarsi le unghie; Snorrason et al., 2023).

Storicamente, i teorici hanno spesso valutato se la tricotillomania e il disturbo da escoriazione avessero associazioni con l’autolesionismo non suicidario (NSSI; Non Suicidal Self-lnjury), la suicidalità o il disturbo borderline di personalità (DBP; Favazza, 1998; Kimbrel et al., 2014; Mann et al., 2020; Mathew et al., 2020; McKay & Andover, 2012; Neziroglu & Mancebo, 2001). Tuttavia, l’esame empirico dei tassi di occorrenza di queste condizioni nei campioni con tricotillomania o disturbo da escoriazione è molto scarso (Snorrason et al., 2023). Più in generale, si ritiene che tricotillomania e disturbo da escoriazione siano spesso associati a disturbi emotivi, tra cui disturbi depressivi e d’ansia (APA, 2022). Diversi studi, infatti, hanno documentato alti tassi di comorbilità con disturbi d’ansia e depressivi in alcuni campioni di persone con tricotillomania o disturbo da escoriazione, sebbene i risultati siano piuttosto variabili tra gli studi (Houghton et al., 2016; Keuthen et al., 2014). Un limite notevole della letteratura esistente è però la mancanza di un confronto con campioni psichiatrici generali (Snorrason et al., 2023).

Prevalenza, co-occorrenza e caratteristiche cliniche di tricotillomania e disturbo da escoriazione

 Lo scopo dello studio condotto da Snorrason e colleghi (2023) è (1) esaminare la prevalenza, la co-occorrenza e le caratteristiche cliniche di tricotillomaniadisturbo da escoriazione in un campione di pazienti psichiatrici acuti e (2) esplorare in che misura essi siano associati a variabili cliniche e diagnostiche nel campione.

Sono state somministrate interviste semistrutturate a pazienti adulti facenti parte di un programma di ospedalizzazione parziale psichiatrica (Snorrason et al., 2023). Riguardo al primo obiettivo, gli autori si aspettavano che (1) le percentuali fossero simili a quelle dei campioni ospedalieri (cioè 1%-4% per l’HPD e 7%-12% per l’SPD) e (2) che la tricotillomania e il disturbo da escoriazione avessero una significativa co-occorrenza e somiglianza nelle caratteristiche cliniche (per esempio, rapporto tra i generi ed età di insorgenza; Snorrason et al., 2023). Il secondo obiettivo era quello di verificare in che misura le variabili cliniche/diagnostiche (ad esempio, NSSI e depressione maggiore) contribuissero alla previsione dello stato di tricotillomaniadisturbo da escoriazione nel campione. Data la scarsità di letteratura empirica che ne esamina i correlati clinici in campioni psichiatrici, non sono state fatte previsioni specifiche sulle associazioni tra le variabili cliniche/diagnostiche e tricotillomaniadisturbo da escoriazione (Snorrason et al., 2023).

La prevalenza di tricotillomaniadisturbo da escoriazione nel campione ospedaliero

I risultati dello studio hanno mostrato che lo stuzzicamento della pelle era piuttosto comune in questo contesto, con il 17,2% dei pazienti che presentava almeno alcuni problemi dovuti allo stuzzicamento della pelle e il 9% che rispondeva ai criteri completi del DSM-5 per lo stuzzicamento della pelle patologico (Snorrason et al., 2023). Per quanto riguarda la tricotillomania, invece, le percentuali diminuisconio con il 5,7% di pazienti che presentano strappamento di peli abituale e il 2,3% del campione con strappamento di peli patologico (Snorrason et al., 2023). Nel complesso, questi risultati sono paralleli a quelli di studi condotti su campioni psichiatrici ricoverati (Grant et al., 2005; Grant & Williams, 2007; Müller et al., 2011; Tamam et al., 2008). Dati i tassi di prevalenza relativamente elevati, potrebbe essere consigliabile effettuare uno screening per questi disturbi in ambito psichiatrico (Snorrason et al., 2023).

La co-occorrenza tra tricotillomania e disturbo da escoriazione

Coerentemente con la letteratura precedente (Snorrason et al., 2012), i risultati hanno mostrato che tricotillomania e disturbo da escoriazione presentano caratteristiche cliniche complessivamente simili (Snorrason et al., 2023). Infatti, è stata osservata anche una forte co-occorrenza tra i due disturbi. I pazienti con disturbo da escoriazione avevano una probabilità 7,6 volte maggiore rispetto agli altri pazienti di soddisfare i criteri per la tricotillomania e i pazienti con tricotillomania avevano una probabilità 8,7 volte maggiore rispetto agli altri pazienti di soddisfare i criteri per il disturbo da escoriazione (Snorrason et al., 2023). Questi risultati sono generalmente coerenti con l’idea che tricotillomania e disturbo da escoriazione siano condizioni strettamente correlate che possono condividere importanti basi (Monzani et al., 2014).

Associazione tra tricotillomania e disturbo da escoriazione e psicopatologia internalizzante 

Dai risultati è emerso che la tricotillomania e il disturbo da escoriazione hanno associazioni limitate con la psicopatologia internalizzante in questo campione (Snorrason et al., 2023). Non è stata riscontrata alcuna associazione tra tricotillomania/disturbo da escoriazione e suicidalità o l’autolesionismo non suicidario (NSSI). Ciò è coerente con l’evidenza che dimostra che la tricotillomania e il disturbo da escoriazione e NSSI hanno una presentazione dei sintomi piuttosto diversa (Mathew et al., 2020). Inoltre, i risultati hanno mostrato che la tricotillomania e il disturbo da escoriazione non presentano associazioni significative con i disturbi emotivi del campione, tra cui depressione maggiore, disturbo di panico, disturbo d’ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo e DBP (Snorrason et al., 2023).

Nel complesso, i risultati dello studio sono in linea con le ricerche precedenti che mostrano un’associazione relativamente debole tra la tricotillomania e il disturbo da escoriazione e condizioni internalizzanti (Christenson et al., 1992; Hartmann et al., 2020; Keuthen et al., 2015; Maraz et al., 2017; Snorrason et al., 2021, 2022; Watson et al., 2018).

In conclusione, la tricotillomania e il disturbo da escoriazione sono disturbi relativamente comuni e frequentemente co-occorrenti che sembrano avere associazioni limitate con la psicopatologia internalizzante, almeno in ambito psichiatrico (Snorrason et al., 2023).

Una nuova terapia per il disturbo schizotipico di personalità

Negli ultimi anni è stata sviluppata una terapia specifica per il disturbo schizotipico di personalità. Un nuovo trial clinico riporta risultati assai promettenti.

Caratteristiche del disturbo schizotipico

 La schizotipia rappresenta un’organizzazione di personalità che spazierebbe da stati adattivi, associati in alcuni casi ad elevata creatività, a condizioni psicopatologiche gravi. Tra queste ultime troviamo il disturbo schizotipico di personalità (DSP) come il disturbo forse più rappresentativo. Una cosa che mi ha sempre colpito di questo ambito della psicopatologia è il paradosso per cui esistono migliaia di articoli teorici e sperimentali e nessuna best practice per il trattamento.

Tale paradosso è oltremodo esasperato dalle stime sulla prevalenza: circa il 10% della popolazione generale riporterebbe tratti schizotipici e il 4.6% soddisferebbe una diagnosi di disturbo schizotipico di personalità. Al contempo la più recente meta-analisi pubblicata sui trattamenti esistenti individua solo tre interventi psicosociali per il disturbo schizotipico di personalità: due studi su casi singoli con pazienti con diverse comorbilità ed un trial danese in cui si è testata l’utilità di un piano di trattamento psichiatrico nel prevenire esordi psicotici (Kirchner et al., 2018).

In breve, non esistono linee guida per prevenire o trattare le più comuni manifestazioni cliniche di tratti presenti in circa una persona su dieci. Da qui nasce l’idea maturata in Tages Onlus e Centri Clinici Tages di sviluppare un intervento auspicabilmente efficace per questo 10%.

Grazie alla collaborazione con Centro TMI (Giancarlo Dimaggio), Compassionate Mind Italia (Nicola Petrocchi), Università Guglielmo Marconi (Francesco Mancini) e Academic College of Tel Aviv (Gil Goldzweig) abbiamo iniziato a formulare e testare delle ipotesi su quali meccanismi dovessero essere i target dell’intervento e quale format psicoterapeutico fosse più efficace.

Due cases series hanno suggerito come la compromissione delle funzioni metacognitive fosse centrale nel disturbo schizotipico di personalità, coerentemente con la visione di questo disturbo come a mezzo tra i disturbi di personalità e le psicosi, ovvero ambiti in cui la metacognizione è noto che svolga un ruolo centrale (Cheli, Lysaker, Dimaggio, 2019; Cheli, 2020). Due successive cases series hanno inoltre evidenziato la centralità della compassione, intesa come capacità di comprendere e fronteggiare la propria e altrui sofferenza (Cheli, Cavalletti, Petrocchi, 2020; Cheli, Petrocchi, Cavalletti, 2021). Infine due studi su ampi campioni, uno pubblicato (Cheli et al., 2020) e uno in revisione, hanno mostrato come metacognizione e compassione aiutino a predire l’insorgenza di psicopatologia in chi mostra tratti schizotipici.

L’Evolutionary Systems Therapy for Schizotypy

È stato quindi pubblicato un articolo in cui si è formulato il modello teorico e di concettualizzazione del caso alla base del nuovo protocollo di terapia, denominato Evolutionary Systems Therapy for Schizotypy (ESTS; Cheli, 2023). L’idea di fondo è che il disturbo schizotipico di personalità rappresenterebbe il fallimento nella socializzazione di una personalità caratterizzata da elevata apertura all’esperienza e introversione. In ottica evoluzionistica questa organizzazione di personalità non sarebbe né sana né patologica, ma esporrebbe ad una specifica vulnerabilità appunto schizotipica. La compromissione delle capacità metacognitive e di compassione fungerebbe da fattore centrale nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo.

 Il trattamento integra dunque una concettualizzazione condivisa del caso su base cognitiva ed evoluzionistica (modulo 1), interventi basati su approcci metacognitivi e Compassion Focused Therapy per lavorare sull’esperienza personale e interpersonale (modulo 2 e 3), nonché una fase conclusiva di consolidamento dei cambiamenti e di prevenzione delle ricadute (modulo 4).

Circa due anni fa abbiamo registrato un randomized controlled trial per testare l’efficacia di questo nuovo modello di terapia (ESTS) e confrontarlo con un good psychiatric management composto da terapia cognitiva per i disturbi di personalità per come manualizzata da Beck e colleghi (Beck, Davis, Freeman, 2015) e da una farmacoterapia psichiatrica. I risultati sono incoraggianti, per quanto lo studio sia solo pilota vista la limitata numerosità del campione (N=24).

In sintesi, l’outcome primario (riduzione della patologia di personalità lungo 9 misurazioni) ha confermato la non-inferiorità della ESTS rispetto al gruppo di controllo. In alcuni slot temporali (primi mesi e folow-up) si è addirittura evidenziata una riduzione maggiore nel gruppo sperimentale. Gli outcome secondari (sintomatologia generale e metacognizione) hanno mostrato invece una superiorità della ESTS con effect size elevati (eta>.50).

Sono sicuramente necessari nuovi studi per superare i vari limiti di questo primo trial (un secondo trial è già in fase di registrazione), ma incoraggia vedere come nel gruppo di soggetti trattati con ESTS i tassi di remissione erano al 75% e quelli di drop-out inferiori al 10%.

 

Credenze metacognitive e disturbi alimentari: una review sistematica della letteratura

La review sistematica di Palmieri, Mansueto e colleghi (2021) ha l’obiettivo di andare a esplorare sistematicamente gli studi empirici che hanno preso in esame le credenze metacognitive nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione.

Metacognizione e credenze metacognitive

Con il termine metacognizione ci si riferisce alla conoscenza stabile del proprio sistema cognitivo, alla conoscenza dei fattori che influenzano il funzionamento di questo sistema, alla regolazione e alla consapevolezza dello stato attuale della cognizione e alla valutazione del significato dei pensieri e ricordi (Wells, 1995). Le credenze metacognitive o metacredenze si possono definire come delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento cognitivo e alle strategie di coping generalmente utilizzate.

Secondo Wells e Matthews (1994) i disturbi psicologici insorgono e vengono mantenuti a causa di modalità cognitive ed emotive che interessano il pensiero, il monitoraggio delle minacce, comportamenti di prevenzione ed evitamenti. Queste modalità dipendono strettamente dalle credenze metacognitive sottostanti. Vi possono essere metacredenze positive (ad esempio, “Se rimugino, sarò pronto ad affrontare…”, “Ruminare mi aiuta a trovare una soluzione”) e negative ( ad esempio, “I miei pensieri possono essere incontrollabili e pericolosi”). A volte capita che queste metacredenze, sia che abbiano natura positiva che negativa, portano gli individui a mettere in atto strategie di coping disfunzionali.

Le credenze metacognitive sono state analizzate da molti studi nell’ambito di diversi disturbi psicopatologici, tra cui il disturbo d’ansia generalizzata, i disturbi depressivi, il disturbo ossessivo-compulsivo, PTSD e i disturbi legati alle dipendenze (Caselli et al., 2018; Hamonniere & Varescon, 2018; Rogier, Zobel, Morganti, Ponzoni, & Velotti, 2020; Spada, Caselli, et al., 2015; Spada, Giustina, et al., 2015).

Credenze metacognitive e disturbi dell’alimentazione

Una recente review della letteratura ha evidenziato un possibile legame tra le credenze metacognitive e i disturbi dell’alimentazione (Sun et al., 2017). Inoltre, una modalità di pensiero perseverante e ripetitiva del pensiero, nella forma della ruminazione e del rimuginio pare essere presente e correlata alla presenza di disturbi del comportamento alimentare: diversi studi hanno evidenziato che gli individui con un disturbo alimentare presentano livelli significativamente più elevati di ruminazione rispetto a soggetti di controllo (Smith et al., 2018; Sassaroli et al., 2005; Sternheim et al., 2012).

Alla luce del modello S-REF postulato da Wells e Matthews (1994, 1996) secondo cui il pensiero negativo ripetitivo perseverante sarebbe attivato e mantenuto dalle credenze metacognitive sottostanti, diventa allora importante approfondire la presenza di tali metacrederenze nei disturbi del comportamento alimentare.

Metacredenze e disturbi alimentari: la review di Palmieri, Mansueto et al. (2021)

La review sistematica di Palmieri, Mansueto e colleghi (2021) ha l’obiettivo di andare a esplorare sistematicamente gli studi empirici che hanno preso in esame le credenze metacognitive nell’ambito dei disturbi del comportamento alimentare, anche esaminando le similarità e le differenze in termini di credenze metacognitive all’interno dell’ampio spettro dei disturbi alimentari, in riferimento alle diverse categorie diagnostiche (anoressia nervosa, bulimia, etc).

Per rispondere a tale obiettivo, è stata effettuata una ricerca della letteratura internazionale completa ed esauriente, attraverso PubMed e PsychInfo e utilizzando le seguenti parole chiave: ‘eating disorders/ anorexia/ bulimia/ binge eating disorder/ binge eating’ AND ‘metacognitions/ metacognitive beliefs’. La review è stata svolta in accordo con il metodo Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses (PRISMA).

Dalla iniziale ricerca della letteratura che ha prodotto 82 citazioni, 11 studi sono stati identificati come elegibili e includibili nella review sistematica rispondendo a specifici criteri di inclusione, per un totale di 1850 soggetti. Di questi 11 studi, 8 sono stati volti su un campione clinico di soggetti con disturbo del comportamento alimentare (trattati in regime ambulatoriale, day-hospital o degenza) (Cooper et al., 2007; Davenport et al., 2015; McDermott & Rushford, 2011; Olstad et al., 2015; Palomba et al., 2017; Sapuppo et al., 2018; Sternheim et al., 2015; Vann et al., 2014), mentre 3 si sono svolti su campioni di popolazione generale (Konstantellou & Reynolds, 2010; Laghi et al., 2018; Quattropani et al., 2016).

La review sistematica ha evidenziato un’associazione positiva tra le credenze metacognitive e lo spettro dei disturbi dell’alimentazione. I risultati mostrano che sia le persone con una diagnosi specifica di disturbo alimentare, sia persone con comportamenti alimentari disfunzionali e problematici presentano credenze metacognitive disfunzionali relativamente al rimuginio e alla ruminazione.

In particolare, dai risultati della review sistematica è emerso che l’anoressia nervosa è il disturbo principalmente e maggiormente caratterizzato da elevati livelli di credenze metacognitive disfunzionali rispetto alla popolazione generale: in particolare sembrerebbero essere presenti in misura elevata le credenze metacognitive negative sul rimuginio e le credenze relative al bisogno di controllo dei pensieri.

Un secondo dato rilevato dalla review è che le metacredenze positive riguardo al rimuginio sarebbero maggiori nella condizione dell’Anoressia Nervosa rispetto alla Bulimia Nervosa e ad altri disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati. Nella comparazione tra Builmia Nervosa e Disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati, le metacredenze positive sul rimuginio si sono rivelate maggiori nella condizione di Bulimia Nervosa. Considerando le metacredenze negative sul rimuginio similmente i risultati degli studi ne evidenziano una maggiore presenza nell’Anoressia Nervosa rispetto alla Bulimia Nervosa. Inoltre, l’autoconsapevolezza cognitiva presentava livelli più disfunzionali nell’anoressia nervosa rispetto alla bulimia nervosa e alla categoria del disturbo del comportamento alimentare non altrimenti specificati.

In conclusione, la review sistematica di Palmieri, Mansueto e colleghi (2021) evidenzia come le metacredenze possano essere implicate nelle condizioni della patologia dei disturbi alimentari e nei comportamenti alimentari disfunzionali. Tali evidenze sono coerenti e in linea con i risultati di altri studi (Sun et al., 2017) che hanno sottolineato l’associazione tra metacredenze disfunzionali e disturbi del comportamento alimentare.

Pertanto, in termini clinici diventa rilevante effettuare un attento assessment delle credenze metacognitive nei pazienti con patologie del comportamento alimentare; in secondo luogo, la terapia metacognitiva può rappresentare un valido approccio terapeutico nel supportare gli individui con diagnosi di disturbo dell’alimentazione.

 

Josè Mourinho e gli assunti di base di Bion: fenomenologia dello “Special One”

L’allenatore portoghese Josè Mourinho è uno dei migliori al mondo nella sua categoria, imbattibile soprattutto sul piano comunicativo e sulla gestione del gruppo di lavoro.

Josè Mourinho: the special one

 Josè Mourinho non ha bisogno di presentazioni. Si tratta di un allenatore di calcio istrionico, caratteriale, sicuramente non maestro in quanto a modestia, indigesto e amato da molti. Celebre è la frase con cui si presentò come allenatore del Chelsea: ‘I am not one of the bottle..I think I am a special one’, da dove nacque il soprannome da cui divenne celebre nel mondo calcistico. Gli interisti ne sono innamorati per la vittoria del Triplete (che per i non addetti ai lavori calcistici è l’insieme di Campionato italiano, Coppa Italia e Champions League), gli juventini un po’ meno, per lo stesso motivo. Prima che un grande allenatore, il portoghese è innanzitutto un maestro nella comunicazione. Ogni sua intervista o dichiarazione sembra attentamente studiata e calcolata in ogni dettaglio. Da interisti, non possiamo che volere bene a Josè Mourinho per i risultati e per il modo in cui li ha raggiunti con i nerazzurri, nonostante siamo ancora un po’ arrabbiati per il passaggio alla Roma (però poteva andare peggio, dai…).

L’uomo è senz’altro uno “sbruffone”, ma ci sono “sbruffoni” che si valorizzano perché ne hanno motivi e altri che lo fanno anche senza questi. Il portoghese appartiene senz’altro alla prima categoria.

Ma prima un po’ di teoria: chi era Bion e cosa sono gli ‘assunti di base’?

Wilfred Bion (1898-1979) è stato uno psicoanalista britannico, considerato una figura di spicco nell’ambito della ricerca psicoanalitica ed artefice di importanti elaborazioni della teoria psicodinamica della personalità, tali da istituire un filone “bioniano” della moderna psicoanalisi.

Durante la seconda guerra mondiale, Bion fu incaricato di dirigere un reparto di riabilitazione in un ospedale psichiatrico militare. Fu in quell’occasione che egli sperimentò come un’attività di cooperazione gruppale potesse determinare un’attenuazione delle nevrosi post-traumatiche nei singoli. Forte di questa esperienza, egli pubblicò successivamente le ‘Esperienze nei gruppi’, una raccolta di saggi scritti da Bion tra il 1943 e il 1952 sul trattamento analitico dei gruppi (Bion, 1961).

In questo libro l’autore dialoga con il lettore, illustrando le sue teorie relative alle dinamiche gruppali mediante la narrazione di “momenti” della vita di vari gruppi da lui condotti.

Bion osservò che le persone nei gruppi mettevano in atto quelli che lui definì ‘assunti di base’, finalizzati a non far emergere le ansie primitive messe in moto dalla partecipazione al gruppo, agendo quindi come meccanismi di difesa gruppali.

Gli assunti di base identificati da Bion sono tre: dipendenza, attacco-fuga e accoppiamento.

  • Primo assunto di base: dipendenza. Si tratta della situazione secondo cui il gruppo si riunisce allo scopo di dipendere da qualcuno o da un capo, il quale diventa il risolutore di tutti i problemi. Il gruppo è irrazionalmente convinto dell’esistenza di un’entità esterna, capace di soddisfare tutte le proprie esigenze e proteggendolo da qualsiasi sforzo di adoperarsi per raggiungere l’obiettivo.
  • Secondo assunto di base: attacco-fuga. Questo assunto consiste nella convinzione magica e onnipotente che esista un nemico comune, e che le uniche tecniche possibili per perseguire l’autoconservazione del gruppo siano l’attacco e la fuga. Nel perseguire quest’assunto di base viene identificato un leader che diriga l’azione, e quando questo viene disatteso, lo si sostituisce con un altro membro appartenente al gruppo che persegua questa idea.
  • Terzo assunto di base: accoppiamento. Il clima emotivo del gruppo è guidato dalla convinzione magica secondo cui la risoluzione dei problemi del gruppo sia possibile per mezzo della nascita di un essere, una specie di messia. Questo gruppo non ha quindi un leader nell’attualità, ma vive un clima sereno nella speranza che qualcuno possa salvare tutti. È un gruppo che vive proiettato nel futuro e che rifiuta, perciò, il tempo presente del lavoro e dell’indagine (Ricci, 2019).

Josè Mourinho e gli ‘assunti di base’ di Bion

 Lasciando ad altre fonti il compito di una trattazione dettagliata della teoria di Bion sui gruppi, in questo articolo vorremmo tentare di spiegare perché Josè Mourinho sembri conoscere alla perfezione gli assunti di base bioniani, avendoli messi magistralmente in pratica nella sua esperienza da allenatore.

Mourinho è uno degli allenatori più vincenti e affascinanti sul piano comunicativo, nonché nella gestione del gruppo squadra. Cerchiamo di riassumere in cinque punti alcuni concetti cari al portoghese nella gestione del gruppo e in che modo potrebbe avere fatto “suoi” gli assunti di base bioniani, riprendendo la loro definizione.

  • Primo assunto di base: dipendenza. Si tratta della situazione secondo cui il gruppo si riunisce allo scopo di dipendere da qualcuno o da un capo, il quale diventa il risolutore di tutti i problemi. Josè ha una leadership innata, la sua carriera ha dimostrato che gli ambienti e le squadre in cui ha avuto più successo sono state quelle in cerca di un’identità, che avevano bisogno di un allenatore a tutto tondo, di un leader totalizzante. L’Inter era una squadra in cerca di una caratura europea, il Chelsea un team in fase di rilancio che non aveva ancora vinto il campionato inglese, il Porto una squadra “piccola” in ambito internazionale. Meno forte è stato l’impatto del portoghese in squadre già blasonate (Real Madrid, Manchester United, la seconda esperienza al Chelsea).
  • Secondo assunto di base: attacco-fuga. La convinzione magica e onnipotente è quella che esista un nemico e che le uniche tecniche possibili per perseguire l’autoconservazione del gruppo siano l’attacco e la fuga. Il portoghese ha più volte “applicato” a suo modo questo assunto bioniano. In una intervista nerazzurra, quando l’Inter dominava in campionato, Josè dichiarò di sentire il ‘rumore dei nemici’, riferendosi alle squadre avversarie che lo inseguivano in classifica. Sempre al tempo nerazzurro dichiarò, riferendosi agli allenatori avversari, che avrebbero concluso la loro stagione con ‘Zero tituli’. Josè ha compreso che un nemico cementifica e motiva il gruppo verso un obiettivo comune. Questa “tattica” lo ha aiutato in alcuni contesti, come quello interista, meno in altri, come al Real Madrid, dove alimentò forse eccessivamente la già molto accesa rivalità con il principale club avversario, il Barcellona.
  • Terzo assunto di base: accoppiamento. Il clima emotivo del gruppo è guidato dalla convinzione magica secondo cui la risoluzione dei problemi del gruppo sia possibile per mezzo della nascita di un essere, una specie di messia. Il portoghese ha sempre giocato sul suo ruolo di “salvatore” in squadre ed ambienti che hanno bisogno di un leader a cui affidarsi completamente. L’attuale esperienza romana è esemplificativa in tal senso, dove è riuscito a riportare un trofeo in contesto europeo che mancava da tempo (e chi è stato l’ultimo allenatore ad avere vinto con una squadra italiana un trofeo europeo dopo quest’anno? Sempre lo Special One, con l’Inter, nel 2010, ndr).
  • La conoscenza dell’ambiente: come un buon terapeuta deve conoscere il contesto socio-culturale da cui provengono i suoi pazienti, un buon allenatore deve conoscere la società, la lingua e la storia della città e della squadra in cui si trova ad allenare. Nell’estate del 2009, durante le sessioni di calciomercato, per sviare una domanda scomoda di un giornalista, Josè rispose, in un già fluente italiano, ‘Questa cosa me la hai già chiesta…ma io non sono pirla’ suscitando l’ilarità della platea. Quella frase fu geniale perché dimostrò che Josè dopo pochi mesi in Italia conosceva il lessico lombardo-milanese e perché fu un modo molto teatrale e intelligente di sviare una domanda scomoda di un giornalista. Per dirla con le parole di Beppe Severgnini, giornalista, interista e suo grande estimatore, l’uomo ‘studia ossessivamente uomini e cose. In un Paese di geniali improvvisatori risulta strano, sospetto o tutt’e due le cose’.
  • Altro elemento distintivo della politica di gruppo mourinhana è la valorizzazione di ogni singolo elemento del gruppo e la ricerca del rapporto umano con l’equipe calcistica. Marco Materazzi, ex-difensore dell’Inter, raccontò che Josè, mentre si trovava a Berlino in occasione di Werder Brema-Bayern Monaco, per “studiare” i bavaresi futuri avversari in finale di Champions, gli mandò un messaggio: ‘Sono nel tuo stadio (dove vincemmo i Mondiali del 2006 con gol di Materazzi, ndr), il difensore rispose ‘Mister, com’è il Bayern?’ e lui ‘Vinceremo 2-0’; la storia gli dette ragione.

Questo concetto è valido anche nelle situazioni negative: Carlton Cole, suo giocatore ai tempi del Chelsea, narrò che l’allenamento seguente una sconfitta 4 a 0 contro il Liverpool il portoghese dedicò a lui il suo discorso post-partita criticandolo duramente, nonostante questi non avesse neppure giocato. Il risultato fu di motivare il giocatore, valorizzarlo e “spiazzare” la squadra che si aspettava un’aspra critica alla prestazione sul campo.

Una tecnica che solo i terapeuti più esperti possono mettere in atto per “spiazzare” i pazienti più difficili: non fornirgli quello che si aspettano, che sia un rimprovero quando è necessario o un rinforzo positivo quando lo meritano. La logica del sottinteso (in questo caso, evitando rinforzi negativi pressoché scontati) rafforza, paradossalmente, ancora di più un concetto e la relazione, di qualunque tipo essa sia. Ciò non è accaduto con alcuni giocatori che non hanno seguito le “sue” regole, come ad esempio con il calciatore danese della Roma Karsdorp, ma non sappiamo che cosa il malcapitato abbia combinato. Le regole dello spogliatoio e della squadra sono sacre e chi non si comporta in modo professionale viene lasciato da parte.

Josè ha sempre cercato di difendere il gruppo squadra, facendo da “parafulmine” nelle situazioni stressanti, cercando di spostare la pressione mediatica dai calciatori all’allenatore o ai torti arbitrali subiti sul campo. Una tattica che ha la finalità di lasciare i giocatori il più tranquilli possibile nell’affrontare le prestazioni sul campo. Un metodo che forse qualche “capo” dovrebbe imparare a mettere in atto un po’ più spesso, anche in contesti extra-calcistici.

Perfino la sua metodologia di allenamento prevede difficilmente fasi di training singolo: Josè segue il credo della periodizzazione tattica, dove anche la parte atletica è incasellata in fasi di allenamento gruppale (Gatti & Vulcano, 2016). Questa metodologia di lavoro prevede quattro componenti principali: la dimensione tattica (quale scelta fare), tecnica (quale giocata eseguire), fisica e  psicologica, strettamente interconnesse l’una all’altra, e allenabili simultaneamente.

Questi concetti fanno, più di altri, di Josè Mourinho un allenatore “speciale”, forse non il migliore al mondo in questo momento (Pep Guardiola, Carlo Ancelotti e Jurgen Klopp stanno probabilmente una spanna sopra) ma il più interessante sul piano comunicativo, psicologico e di gestione del gruppo, fornendo elementi attitudinali che potrebbero essere utili a qualsiasi professionista che è coinvolto in contesti di lavoro di gruppo e nelle relazioni terapeutiche.

Le caratteristiche della depersonalizzazione secondo la CBT

Lo studio di Quigley e colleghi (2022) ha lo scopo di approfondire la fenomenologia della depersonalizzazione e i fattori di vulnerabilità ad essa correlati in ottica cognitivo-comportamentale. I sintomi della depersonalizzazione risultano associati a maggiori livelli di autoconsapevolezza, sensibilità all’ansia, controllo dei pensieri, rimuginio, emozioni negative, alessitimia e scarso senso di sé.

Cos’è la depersonalizzazione

 Con depersonalizzazione si intende l’esperienza soggettiva di distacco o irrealtà del sè (APA, 2013). È spesso accompagnata dalla derealizzazione, ossia da un senso di alienazione o irrealtà rispetto al mondo esterno. Queste esperienze si presentano lungo un continuum in cui un estremo è caratterizzato da episodi transitori, riscontrabili sia nella popolazione clinica sia in quella generale, e l’altro estremo è caratterizzato da un’esperienza cronica segnata da disagio significativo. Rispetto a quest’ultimo caso, persistenti e ricorrenti episodi di depersonalizzazione possono essere il sintomo primario di un disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione (DDD), che colpisce l’1%-2.4% della popolazione (Hunter et al., 2004). Nonostante l’elevata prevalenza della depersonalizzazione, la sua fenomenologia e la sua eziologia sono ancora poco conosciute. Gli studiosi hanno concettualizzato la depersonalizzazione come una risposta neurobiologica ad estrema ansia, in cui le regioni cerebrali coinvolte nel controllo e nell’inibizione della risposta emotiva, essendo iperattivate, producono i sintomi della depersonalizzazione (Mayer-Gross, 1935; Sierra e Berrios, 1998). Tuttavia, la comprensione del disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione rimane ancora poco studiata a livello empirico.

Il modello cognitivo-comportamentale

Anche se nel DSM-5 il disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione è classificato nella categoria diagnostica dei disturbi dissociativi, a livello sintomatologico e funzionale condivide maggiori similitudini con i disturbi d’ansia, in particolare col disturbo di panico e con l’ansia da malattia (Hunter et al., 2003). A questo proposito, Hunter e colleghi (2003) hanno sviluppato un modello di concettualizzazione cognitivo-comportamentale del disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione che pone al centro del modello l’errata valutazione dei sintomi di depersonalizzazione, esattamente come avviene nel meccanismo alla base del panico (Clark, 1997). Secondo tale modello, gli individui con disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione, tendendo ad essere ipervigili e focalizzati sui sintomi della depersonalizzazione, finirebbero per formulare interpretazioni catastrofiche in cui i sintomi sono visti come qualcosa di spaventoso e, così, ad acuirne l’intensità e la durata in un circolo vizioso di ansia e depersonalizzazione.

I fattori di vulnerabilità

Lo scopo dello studio di Ouigley e colleghi (2002) è quello di valutare i possibili fattori di vulnerabilità alla depersonalizzazione sulla base del modello cognitivo-comportamentale di Hunter (et al., 2003), espandere questa concettualizzazione testando le associazioni tra depersonalizzazione e altre rilevanti variabili e, infine, migliorare la comprensione della fenomenologia di questo disturbo. Sulla base di quanto trovato, gli autori enucleano l’esistenza di diverse categorie di fattori di vulnerabilità alla depersonalizzazione: cognitivi, emotivi ed identitari; li vediamo di seguito.

I fattori di vulnerabilità cognitivi

Per fattori di vulnerabilità cognitivi si intendono le seguenti caratteristiche.

  • Alta introspezione e alta concentrazione su di sé e sui propri pensieri, che innescano lo stato di ipervigilianza del paziente focalizzato sui sintomi.
  • Sensibilità all’ansia, che è la paura delle sensazioni dell’ansia e delle loro conseguenze, che potrebbe portare a interpretare sintomi innocui o transitori come minacciosi.
  • Bisogno di controllare i pensieri, per cui i pazienti, valutando i sintomi come minacciosi, possono credere che questi, di natura squisitamente cognitiva, debbano essere controllati (questo aspetto accomunerebbe il disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione al disturbo ossessivo-compulsivo).
  • Mancanza di fiducia nelle proprie capacità cognitive, incluse memoria e percezione.
  • Rimuginio, ossia un pensiero negativo ripetitivo sulle valutazioni catastrofiche e i pensieri che fanno da trigger all’ansia e alla depersonalizzazione.

I fattori di vulnerabilità emotivi

Anche se il disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione sembra condividere diverse caratteristiche cognitive con i disturbi d’ansia e ossessivo-compulsivo, i suoi aspetti emotivi appaiono distinti da tali diagnosi. Di fatto, i pazienti con disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione spesso riportano una soggettiva assenza di emozioni, seppur in presenza di una normale espressione emotiva (Mayer-Gross, 1935; Simeon e Abugel, 2006), e mostrano alti livelli di inibizione emotiva rispetto ai soggetti sani (Medford, 2012). Insieme a questi aspetti di smorzamento emotivo, tali individui si caratterizzerebbero per elevata alessitimia, ossia per una ridotta capacità di riconoscere le emozioni, mostrandosi meno sensibili alle espressioni di rabbia rispetto ai controlli (Montagne et al., 2007). Considerando assieme tutti questi risultati, sembra che il disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione sia associato ad alterazioni nella reattività emotiva sia rispetto alle emozioni negative e agli annessi stimoli avversivi, esperiti più frequentemente, sia nei confronti di attività piacevoli e sentimenti positivi, tesi ad essere soppressi (Simeon e Abugel, 2006).

I fattori di vulnerabilità identitari

 La definizione del DSM-5 descrive la depersonalizzazione come un disturbo dell’identità che si presenta sotto forma di una soggettiva esperienza di distacco o alienazione da se stessi (APA, 2013). Spesso i pazienti con disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione riportano di avere consapevolezza dei cambiamenti che avvertono nell’esperienza che hanno di sé (Meares e Grose, 1978; Sierra e David, 2011) con frasi come “Non sono la stessa persona di prima” o “Mi sento estraneo a me stesso”. Nonostante la centralità dell’identità, tuttavia, c’è poca ricerca rispetto a come questa dimensione venga effettivamente coinvolta nel disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione. In merito, lo studio di Ouigley e colleghi (2022) ha riscontrato una relazione significativa fra depersonalizzazione e mancanza di identità, ma non in termini di identità non consolidata; ciò suggerisce come nella depersonalizzazione esista un assente o ridotto senso di sé piuttosto che un’identità non integrata o mutevole, coerentemente con le confessioni cliniche di perdita di sé sopra riportate.

Conclusioni

Alla luce di questa panoramica è possibile sottolineare l’utilità clinica delle variabili di vulnerabilità alla depersonalizzazione riscontrate da Ouigley (et al., 2022): conoscere le caratteristiche cognitive, emotive e identitarie legate ai sintomi del disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione, di fatto, permette una comprensione dettagliata dei fattori di rischio legati all’eziologia e delle caratteristiche sintomatologiche legate alla fenomenologia. Inoltre, comprendere le somiglianze fenotipiche e processuali che la depersonalizzazione condivide con i disturbi d’ansia e ossessivo-compulsivo permette di affinare la concettualizzazione cognitiva-comportamentale di questo disturbo.

Il dispositivo interno (2022) di Giampaolo Salvatore – Recensione

Giampaolo Salvatore, psichiatra e psicoterapeuta, nel libro “Il dispositivo interno”, con una maestria disarmante ci conduce in un bellissimo viaggio nella mente.

 

 Cosa accade nel mondo interno di una persona quando vive una sofferenza? Che cosa la ostacola impedendole di trovare una via di uscita? Come può manifestarsi nella sua mente tutto questo attraverso emozioni, pensieri e percezioni sul mondo, quando se stesso e l’altro appaiono sempre legati da dinamiche relazionali opache e confuse? Cosa alimenta fino al tracollo una sofferenza che, mimetizzata da falsa realtà, come un meccanismo interno, pilota inesorabile l’esistenza rendendo qualcuno incapace di affrontarla? Che cosa può, invece, portare fuori da una realtà oscura una mente che non riesce a far fronte alle difficoltà della vita? È così che appare Alfonso, il protagonista del romanzo “Il dispositivo Interno” circondato da sabbie mobili inesorabili mentre tutta la bellezza che lo circonda si sporca fino ad essere percepita come il suo peggior incubo. Normalmente cercheremmo queste risposte su un manuale di psicoterapia, ma permettetemi, trovarle in un romanzo e viverle pagina per pagina accanto al protagonista non è un’occasione che si può incontrare con estrema facilità.

Giampaolo Salvatore, psichiatra e psicoterapeuta, la cui notorietà non necessita di essere sottolineata, con una maestria disarmante ci conduce in un bellissimo viaggio nella mente. Con un’impronta di verismo moderno, l’autore dà vita a una miscela narrativa composta da un personale e intenso modo di disegnare con le parole una realtà complessa e sofisticata che risiede dietro alla sofferenza di ognuno di noi. Lo fa unendo a tutto una profonda sensibilità e genuina ironia in grado di tenere il lettore in un equilibrio emotivo fatto di risate e momenti di commozione, mentre viene immerso pagina per pagina nella vita di Alfonso, agente letterario insicuro, ritirato, ipocondriaco e divorato dalla gelosia per la sua compagna Irene.

Una delle bellezze del romanzo sta nel fatto che il protagonista, tutto sommato, potrebbe essere una persona ordinaria, osservandolo dall’esterno, Alfonso, potremmo percepirlo come un po’ ripiegato su se stesso, introverso, mentre lascia spazio all’esuberanza degli altri nelle relazioni con i suoi amici. Una di quelle persone che invece nella propria realtà interna, nell’intimo tormentato, cerca con forza la propria direzione attaccandosi con ostinatezza a tutto ciò che è in grado di conferirgli energia, ma che poi, alla fine, finisce sempre per rovinare tutto perdendo il controllo della propria emotività.

La storia si snoda tra ricordi, intrisi di sensorialità ed emozioni, che costruiscono una pellicola mentale che tra le righe è possibile visitare a diverse velocità. Personalmente ho letto e riletto alcuni passaggi assaporandone l’intensità e fermandomi a riflettere più e più volte.

Durante la lettura è possibile infatti percorrere le scene descritte con una sinestesia emotiva così intensa da far percepire la sensazione di essere presenti nella scena facendo un’altalena costante dentro e fuori la mente di Alfonso. Le righe costituiscono uno spazio fisico che si disegna nell’immaginazione del lettore che può comodamente passeggiare tra i fotogrammi tridimensionali della narrazione, muovendosi con libertà tra varie angolazioni e punti di vista, cosa che non sempre accade in un romanzo.

 Giampaolo Salvatore ci conduce davanti una realtà specifica, entrando nella prospettiva di chi sta soffrendo e fatica a vedere una via d’uscita. La modalità con cui ci riesce è quella di chi sa davvero ascoltare ed entrare in contatto con quel tipo di malessere, quello che può dirottare la bussola della vita. L’effetto è proprio questo, in certi passaggi è come se Alfonso fosse plasmato di vetro così da permettere al lettore di osservare il suo inconscio con tutti i suoi ingranaggi stridenti in tempo reale all’interno dell’azione. Alfonso viene amato e odiato. Fa provare rabbia e sentimenti di tenerezza. Ci tiene con il fiato sospeso mentre vive con difficoltà la sua vita, una storia ordinaria fatta di prove e paure che tutti noi potremmo conoscere, come quello della malattia di un caro amico, Oreste.

La narrazione degli stati interni è epurata dal giudizio, infatti Giampaolo Salvatore ci ricorda, attraverso la storia di Alfonso, di quanto sia fondamentale non affrettarsi a giudicare per comprendere fino in fondo qualcuno. Ci fa percepire come, per poter entrare in contatto con un mondo interno di sofferenza, ci si avvicina gradualmente con rispetto e disciplina interiore, come quella della figura del terapeuta, ma ora lascio a voi la curiosità di approfondire questo personaggio.

Questo libro è una guida nel tormento, raccontato con chiarezza, polso fermo e assenza di filtri, che ci aiuta a capire che è possibile entrare nella sofferenza con rispetto e senza timore.

 

Il contributo di Roberto Lorenzini al cognitivismo clinico

Oggi ricorre il secondo anniversario della morte di Lorenzini, in questo articolo si ripercorrono le tappe principali del contributo teorico e clinico che Roberto Lorenzini ha sviluppato lungo l’arco di un quarantennio all’interno del movimento cognitivista.

Riassunto

 È riassunto il suo pensiero, i primi contributi in collaborazione con Sandra Sassaroli relativi all’inquadramento dei disturbi d’ansia che prefigura la svolta processuale, dei disturbi di personalità con il collegamento tra i pattern di attaccamento e la personalità attraverso la mediazione dello stile di conoscenza e della patologia grave riguardante principalmente la dimensione delirante, dimensione che, secondo l’autore, attraversa tutta la psicopatologia ed è presente anche nel pensiero comune.

Nell’excursus si ricapitolano altri contributi che riguardano la psicologia evolutiva “scopi-credenze”, la massimizzazione della capacità predittiva che presuppone, attraverso l’eliminazione degli errori, la gestione delle invalidazioni, la terapia modulare con il superamento dell’applicazione rigida dei protocolli per trattare processi e credenze presenti nei disturbi d’ansia con moduli d’intervento specifici, la formulazione del caso con l’importanza attribuita alla storia di vita del paziente e vari contributi su temi specifici.

Si sottolinea l’importanza del lascito culturale e morale di questo autore, recentemente scomparso, che ha fatto parte per lungo tempo del mainstream del cognitivismo clinico.

Il contesto culturale

Roberto Lorenzini, dopo aver conseguito la Laurea in Medicina e la specializzazione in Psichiatria, dal 1983 al 1986 frequentò il corso quadriennale di formazione alla psicoterapia cognitivo comportamentale della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) con Cesare De Silvestri, uno dei maggiori artefici della diffusione in Italia della Rational Emotive Behaviour Therapy (REBT). Entrò così a far parte di un gruppo di psichiatri romani, Francesco Mancini, Sandra Sassaroli e Antonio Semerari, che costituivano la scuola romana cognitivista, tra i cui esponenti di spicco vi erano Vittorio Guidano e Giovanni Liotti di una decina di anni più anziani degli altri. In quegli anni, dopo la prima diffusione del comportamentismo importato da Victor Meyer, si andava diffondendo la seconda ondata del cognitivismo sulla scia dei paradigmi di Aaron Beck e Albert Ellis con una vena di originalità, molto apprezzata a livello internazionale, illustrata in “Cognitive processes and emotional disorders: a structural approach to psychotherapy” che vinse il premio Guilford Press negli Stati Uniti come miglior volume di psicoterapia pubblicato nel 1983. Il libro di Guidano e Liotti ha rappresentato uno dei nuclei teorici da cui sono partiti i successivi sviluppi del cognitivismo italiano. Era presente lo sforzo di unire una dimensione strutturale-organizzativa ed evolutiva alla spiegazione della psicopatologia e una dimensione, forse meno marcata, integrativa e regolativa-processuale. Sicuramente, il contributo di Guidano e Liotti ha stimolato il dibattito e la riflessione sia a livello nazionale, sia a livello internazionale e favorito una temperie culturale in cui nasce la collaborazione stretta tra Roberto Lorenzini e Sandra Sassaroli, sua relatrice alla tesi di specializzazione in Psichiatria all’Università Cattolica Agostino Gemelli nel 1982, che produce il primo contributo rilevante, tradotto in più lingue, “La paura della paura” (Lorenzini e Sassaroli, 1987).

Nel 1983, il nostro, aveva iniziato a lavorare nel servizio pubblico con passione e dedizione verso quelli che chiamava “i matti veri”. Eravamo agli albori della Riforma Sanitaria (L. 833/78) e della Legge Basaglia (L. 180/78) che disegnava la chiusura degli Ospedali Psichiatrici e l’organizzazione di una psichiatria territoriale volta all’inclusione e alla riabilitazione dei malati, più attenta alla prevenzione e alla salute mentale che al controllo sociale. L’entusiasmo dei professionisti della salute mentale che si sono trovati a lavorare in psichiatria è stato l’elemento che più di ogni altro ha caratterizzato la prassi operativa in questo periodo storico.

Questo entusiasmo e la sua riconosciuta autorevolezza, qualche anno più tardi, portarono Lorenzini al vertice del Dipartimento di Salute Mentale della ASL di Viterbo, ma non essendo molto contiguo alle dinamiche di potere, sarà questo per lui un periodo molto stressante che culminerà con il primo episodio di malattia.

Al nostro piaceva sporcarsi le mani con quell’umanità traviata che percorreva traiettorie stigmatizzate. Nell’ultima parte della sua, purtroppo, breve vita raccolse molte storie di pazienti e terapie in alcuni libri (“Psicopatologia Generale”, 2010; “Storie di Terapie”, 2013; “Trame di Vita Intrecciate”, 2016; Scampoli, 2018), che traspirano tutta la sua abnegazione e il suo sense of humor, mai contrapposti a un rigore tecnico e a un’appropriata competenza con cui affrontava la psicopatologia, sempre con il massimo rispetto del malato.

Era arrivato al cognitivismo leggendo Matte Blanco, quella lettura era stata per lui una folgorazione, giacché la psicodinamica non l’aveva mai conquistato. Diceva spesso che era intrisa di spiegazioni ad hoc, qualsiasi interpretazione poteva essere plausibile, e lui, appassionato di epistemologia – era un cultore di Popper, ma conosceva bene anche Kuhn, Fayerabend e Lakatos –, non poteva accettare spiegazioni astruse, molte delle quali erano dal suo punto di vista incomprensibili. Per carità, massimo rispetto per Freud e i suoi epigoni per il ruolo storico svolto, ma lui, appassionato di matematica e logica, aveva una prospettiva meno soggettiva e romantica, più aperta all’autenticità dell’incontro che non doveva certo penalizzare le linee guida di trattamento validate empiricamente.

Il primo periodo: la collaborazione con Sandra Sassaroli

Ripartiamo, però, dal primo lavoro che suscitò un grande interesse, “La paura della paura: Riconoscere e curare le proprie fobie” edito da La Nuova Italia Scientifica nel 1987. Nel libro si mettevano in evidenza i circoli viziosi del panico in una prospettiva di costruttivismo realista. Infatti, Lorenzini e Sassaroli avevano all’epoca pubblicato diversi articoli su riviste nazionali e internazionali sulla teoria dei costrutti personali di George Kelly. I nostri sostenevano che “La sofferenza psicologica si verifica se, dopo una previsione o dopo molte previsioni errate, dopo che le ipotesi sulla realtà si dimostrano false, il sistema non riesce a integrare questa falsificazione, ma in diversi modi la ignora o la rifiuta o la disconosce” (Sassaroli e Lorenzini, 1987, p. 102). I riferimenti citati erano Karl Popper, Jean Piaget e George Kelly. Così la lettura errata dell’emozione che non è riconosciuta come tale, l’evitamento, il controllo, il rimuginio fanno si che” la paura della paura cresca e si innesti così il circolo vizioso che fa sperimentare al soggetto un’ansia sempre più crescente e un pericolo sempre più forte” (Sassaroli e Lorenzini, 1998, p. 76). Se vogliamo, possiamo riscontrare in questa impostazione i germi di un approccio processualista che si svilupperà nel mondo cognitivo-comportamentale molti anni dopo. Infatti, i due parlavano di stili di conoscenza piuttosto che di credenze sul sé, e questi concetti saranno sviluppati più tardi, soprattutto nel lavoro del 1995 su “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità”. Come sostiene Giovanni Maria Ruggiero “preferendo la nozione funzionalista di stili di conoscenza a quella contenutistica di credenze sul sé, prefiguravano la svolta processuale” (Ruggiero, 2022, p. 189).

Il costruttivismo di Lorenzini e Sassaroli (1987, 1995) ha consentito anche di recuperare alcuni aspetti importanti trascurati dalla terapia cognitiva standard: il ruolo dei significati personali e della storia di vita all’interno della formulazione del caso clinico. Questa impostazione riprendeva una tradizione del comportamentismo (Meyer e Turkat 1979; Turkat, 1985) permettendo di condividere con il paziente il suo funzionamento e concordare gli obiettivi del trattamento e la gestione del processo terapeutico. In anni recenti il nostro ha avuto modo di illustrare un modello di formulazione del caso in cui l’evoluzione verso una psicologia “scopi-credenze” è ampiamente e dettagliatamente illustrata (Lorenzini et al., 2021).

Attaccamento, Conoscenza e Disturbi di Personalità

Tracciando le tappe principali di un’elaborazione teorico-concettuale sviluppatasi nell’arco di un quarantennio dobbiamo rilevare che il punto più alto della collaborazione tra Lorenzini e Sassaroli fu raggiunto con il volume “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità” del 1995, nel quale i due autori mettono in relazione lo stile di conoscenza personale, la relazione d’attaccamento e le diverse caratteristiche stabili di personalità.

L’idea portante è la motivazione del comportamento degli esseri viventi volta alla costruzione di mappe sempre migliori di sé stessi e dell’ambiente. La costruzione della conoscenza che avviene per congetture e confutazioni, in quest’ottica, è fondamentale e dovrebbe portare alla massimizzazione della capacità predittiva che presuppone, attraverso l’eliminazione degli errori, la gestione delle invalidazioni. Così il sistema cognitivo si arricchisce utilizzando creatività e imitazione. Sono definiti quattro stili cognitivi: la ricerca attiva che esplora e allarga i confini della conoscenza; l’evitamento che restringe il campo e cerca di non incorrere in invalidazioni; l’immunizzazione che annulla gli effetti dell’invalidazione; l’ostilità che scredita la fonte dell’invalidazione.

La crescita della conoscenza è dovuta alla capacità di relazionarsi degli esseri umani, in primis con la figura d’attaccamento, anche se alcuni criteri epistemologici si stabilizzano ancor prima che si possa parlare di relazione d’attaccamento, e della nascita degli Internal Working Model per effetto della conoscenza innata concernente quattro domini: gli scopi, le percezioni, le azioni, le emozioni che determinano gli stati di benessere e di malessere e gli schemi d’azione che li riproducono.

Gli stili cognitivi sono comunque in relazione agli stili d’attaccamento: stile ricerca attiva/attaccamento sicuro; stile immunizzante/attaccamento insicuro-evitante; stile evitante/attaccamento insicuro-resistente; stile ostile/attaccamento disorganizzato. La personalità si articola sullo stile cognitivo e nei disturbi di personalità è particolarmente evidente. Esiste quindi una via che collega i pattern di attaccamento e la personalità attraverso la mediazione dello stile di conoscenza (Lorenzini e Sassaroli 1995, p. 8-10).

Anche l’approccio di questo libro in fondo è processualista perché non accetta una visione dei problemi dell’attaccamento come problemi di tipo deficitario o strutturale ma li colloca su modalità di apprendimento del rapporto con la realtà e della gestione delle emozioni.

Spunti molto interessanti che avrebbero avuto bisogno di una validazione empirica rispetto alla correlazione dei tre fattori, stile di attaccamento, stile di conoscenza e caratteristiche di personalità. Ultimamente Peter Fonagy e i suoi collaboratori (2019) stanno portando avanti uno studio su un fattore, definito epistemic trust (ET) che si riferisce alla fiducia nella conoscenza comunicata. Secondo l’autore la posizione epistemica svolge un ruolo importante nel minare l’adattamento e aumentare il rischio di sviluppo di problemi di salute mentale. Alcuni studi hanno rilevato che diversi stili di attaccamento sono associati a differenze di posizione epistemica (Campbell et al., 2021).

Per Fonagy l’epistemic trust rappresenta un elemento transdiagnostico, insieme all’apprendimento sociale e al miglioramento della mentalizzazione, importante per trattare qualsiasi tipo di psicopatologia. Questo concetto di fiducia epistemica ha molte analogie con gli stili di conoscenza di “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità”. Le ricerche e gli studi empirici condotti dal suo gruppo sono ancora in una fase preliminare e sarà molto interessante seguirne gli sviluppi.

La terapia modulare e l’approccio “scopi-credenze”

Le strade di Sassaroli e Lorenzini iniziarono a divergere nel 2006, l’una imboccò decisamente il percorso del processualismo e dei modelli clinici formalizzati in protocolli, mentre l’altro, pur apprezzando gli interventi supportati empiricamente, rifuggì una modalità rigida di applicazione di procedure e tecniche e seguì linee guida flessibili e un modello di terapia modulare. Nel libro del 2000 “La mente prigioniera” questa differenziazione iniziò a manifestarsi. Il libro definiva un modello semplice e comprensibile con linee strategiche d’intervento per diversi disturbi, un modello che si era andato definendo negli anni di collaborazione e di lavoro clinico. Erano utilizzate categorie d’analisi che avevano suscitato l’interesse dei due da sempre: le credenze e i processi implicati nei disturbi d’ansia, la massimizzazione della capacità predittiva, il falsificazionismo popperiano, gli studi sull’attaccamento, l’approccio scopistico, gli insegnamenti della REBT, le teorie psicologiche naif. L’elaborazione successiva di questo lavoro pubblicata in “Psicoterapia cognitiva dell’ansia” (Lorenzini, Sassaroli e Ruggiero, 2006) presenta ancor più gli accenti di questa differenziazione. Infatti, è in questo volume che Sassaroli accenna per la prima volta al rimuginio e alla ruminazione e Lorenzini alla terapia modulare.

Le diagnosi non sono persone e le persone non sono le loro diagnosi” (Lorenzini, 2006, p. 371). Lorenzini espone la sua proposta di una terapia commisurata a ogni paziente che tenga in considerazione la sua specificità e complessità senza rinunciare al rigore scientifico, alla manualizzazione dell’intervento e alla valutazione dell’efficacia. Spinge verso un superamento dell’applicazione rigida dei protocolli per trattare processi e credenze presenti nei disturbi d’ansia con moduli d’intervento specifici. Quindi, non fa riferimento al trattamento completo applicando il protocollo per l’intero disturbo, ma applica nel tempo diversi moduli per i diversi aspetti specifici di malfunzionamento del paziente, “mini protocolli d’intervento trasversali ai vari disturbi che agiscono a livello molecolare piuttosto che molare del disturbo” (Lorenzini, 2006 p. 374).

La psicologia evoluzionistica, la teoria dell’attaccamento, la psicologia “scopi-credenze”, la terapia modulare, la psicopatologia come disfunzione del normale processo di crescita della conoscenza caratterizzerà ancora il lavoro di Lorenzini, che ha sempre manifestato una forte avversione verso regole assolute, categorie, protocolli, setting rigidi che vadano a intralciare “l’incontro tra due anime, fulcro vitale di ogni psicoterapia” (Lorenzini, 2020).

L’uomo è un agente cognitivo orientato da scopi e guidato da credenze. Le conoscenze orientano le scelte e incrementano la capacità predittiva.

 Le credenze guidano al raggiungimento degli scopi e se si articolano in teorie efficaci, migliorano l’adattamento. Se si rivelano inefficaci in un sistema ben funzionante sono modificate continuamente e ricorsivamente quando le emozioni forniscono informazioni sul posizionamento rispetto allo scopo perseguito, in modo da aggiustare le strategie e cambiare o abbandonare lo scopo stesso. Le invalidazioni producono l’accrescimento della conoscenza e un buon adattamento (Lorenzini, 2010).

Vedremo in seguito come partendo da questa concettualizzazione Lorenzini spiegherà anche la psicopatologia grave.

Il contributo alla sessuologia

Nel 1991 Lorenzini si era occupato di sessuologia con diversi articoli, e sempre in quegli anni registrò degli audiovisivi educativi condotti con Giorgia Della Giusta e pubblicò con Antonio Fenelli –con cui gestiva la Scuola di Sessuologia Clinica del Centro Italiano di Sessuologia– “Clinica delle disfunzioni sessuali” (Lorenzini e Fenelli, 1991), testo sull’approccio mansionale integrato che reinterpreta secondo una prospettiva cognitivo-costruttivista le tradizionali terapie sessuali d’impronta comportamentista. Il libro ha avuto numerose ristampe, l’ultima è del 2016. Lorenzini continuerà a svolgere formazione e attività clinica in quest’ambito durante tutta la sua carriera professionale.

La patologia grave e il delirio

Prima di muoversi su “convergenze parallele”, utilizzo questo ossimoro preso in prestito dal linguaggio politico della Prima repubblica poiché, in definitiva, una certa collaborazione c’è sempre stata tra Lorenzini e Sassaroli, il lavoro sul campo con i malati psichiatrici portò nel 1992 i due a concettualizzare la genesi e il mantenimento dei disturbi del pensiero: il delirio paranoico, la schizofrenia, le ossessioni. Prese la luce il volume “Cattivi Pensieri” (Lorenzini e Sassaroli, 1992) con la premessa di Mario Rossi Monti. I due colleghi e amici, mentre in macchina attraversavano l’Italia, ebbero all’improvviso l’idea di andare a scambiare qualche idea con il professore Rossi Monti di cui avevano letto. Il professore, quando vide sull’uscio questi due sconosciuti, li accolse un po’ sorpreso e davanti a una bottiglia di vino si confrontò ben volentieri constatando l’arguzia e la perspicacia dei suoi interlocutori.

Il tema di “Cattivi pensieri” è il senso profondo della follia che sgomenta l’interlocutore e la motivazione degli autori è quella di avvicinare un mondo da esplorare e comprendere.

La prospettiva epistemologica è la riduzione della capacità predittiva di un sistema cognitivo, è una posizione costruttivista non “argomentabile in termini di verità o falsità, quanto piuttosto di capacità euristica e di produrre teorie con alto contenuto empirico” (Lorenzini e Sassaroli, 1992, p. 15).

Anche in questo lavoro, come già in precedenza in altri, i processi di costruzione del mondo, del sé e degli altri partono dalla conoscenza e la psicopatologia si manifesta attraverso l’incapacità del sistema cognitivo di imparare dalle invalidazioni, la delusione di un’aspettativa, un errore previsionale, un’incongruenza tra ciò che ci si aspettava e ciò che è accaduto.

Le tre sindromi sono accomunate dal significato del sintomo “che appare come il tentativo di mantenere un minimo di previsionalità, costi quel che costi con una rinuncia alla verosimiglianza delle previsioni nel caso della paranoia; con la vaghezza e l’inconsistenza nel caso della schizofrenia; con il restringimento esasperato in una ristretta area del sistema nel caso delle ossessioni.” (Lorenzini e Sassaroli 1992, p. 15). In definitiva il sistema schizofrenico accomoda minacciando l’identità, il sistema paranoico ipertrofizza l’assimilazione e l’ossessivo mostra un funzionamento duplice nell’area sintomatica del sé e nell’area delle relazioni interpersonali.

Gli obiettivi strategici generali della terapia sono tracciati intorno alla costruzione di spiegazioni alternative che abbiano tre caratteristiche: spieghino quello che già spiegava il delirio; spieghino quello che il delirio non spiegava; che siano falsificabili e non falsificate, e allo sviluppo dell’ombra, nuove costruzioni ipotizzate applicate al sé per scoprire come esse consentano un adattamento migliore.

Anche il contributo sulla patologia grave si completerà anni più tardi, nel 2008, con la pubblicazione in collaborazione con la sua compagna di vita, Brunella Coratti, di “La dimensione delirante” (Coratti e Lorenzini, 2008).

Il contributo si pone in contrasto con la tradizione che considera il delirio incomprensibile, perché questa tesi produce un effetto paralizzante sugli sforzi terapeutici, abbraccia viceversa la tesi che sia psicologicamente comprensibile e radicato nella storia evolutiva del paziente che riceve un’invalidazione concernente gli schemi centrali della propria identità.

Si parla di dimensione perché attraversa tutta la psicopatologia ed è presente anche nel pensiero comune. I significati personali con cui ordiniamo la nostra esperienza diventano in alcune circostanze impermeabili al confronto, inattaccabili e la tendenza all’autoreferenzialità della conoscenza favorisce l’intuizione delirante che spiega tutto.

La crescita della conoscenza avviene solo e proprio nel momento dell’invalidazione altrimenti i meccanismi confermazionisti rafforzano le mappe già esistenti. I viventi temono la mancanza di previsionalità, una sorta di “horror vacui” per cui è meglio avere una brutta idea che non averne alcuna. In questa condizione si presenta l’umore predelirante con smarrimento e confusione. Di fronte ad una tale invalidazione inassimilabile, se gli schemi cognitivi non sono in grado di accomodarsi alla nuova sconosciuta prospettiva, saranno loro a imporre una loro verità privata manipolando i dati di realtà e rinunciando alla consensualità con gli altri e alla verosimiglianza pur di mantenere una residua comprensione del reale.

In sintesi, il delirio è in continuità con il pensiero normale ed è una potenzialità presente in tutti gli esseri umani, consistente nel rifugiarsi in un autoinganno quando non si hanno strumenti per comprendere e gestire la realtà che ci si presenta.

La stessa difficoltà di cambiamento la ritroviamo in tutta la psicopatologia senza che alcuni disturbi assumano una forma così pervasiva e massiccia.

Nella vita di tutti i giorni il confermazionismo spinge a trovare i dati a sostegno delle proprie convinzioni e ignorare selettivamente le disconferme. Insomma, si tenta in tutti i modi di aver ragione e si è tendenzialmente testardi nati. Quando un’invalidazione più consistente bussa alla porta e ci chiede di fare i conti con una realtà diversa dalle attese si usa l’autoinganno e si è bravissimi a raccontarsi favole autoconsolatorie per salvare la propria immagine o l’idea che si ha delle cose più importanti (Lorenzini e Sassaroli, 1992; Coratti e Lorenzini, 2008).

Il periodo seguente la malattia

Un evento importante nella vita di Lorenzini è stata la sua malattia, nel 2006 fu colpito da un ictus che ne minò la motricità, ma non la lucidità mentale. Non rappresentò per nulla un impedimento nel continuare a formare giovani psicoterapeuti, soprattutto delle scuole di Sandra Sassaroli e Francesco Mancini, a partecipare a congressi e seminari, a produrre ulteriori importanti contributi. Nel corso della degenza per la riabilitazione lo si trovava a correggere le bozze dei suoi libri.

Finita la convalescenza, nel 2010 cura “Errare umanum est” (Lorenzini e Scarinci, 2010) un testo sull’errore nella pratica psicoterapeutica in cui si sostiene che l’errore è ineludibile e lo si ritrova nei processi che danno origine alla psicopatologia e costantemente in agguato nell’operare degli psicoterapeuti. La tesi centrale è che, se accettato e utilizzato terapeuticamente, può portare a un cambiamento di ordine tale da rappresentare un’opportunità di progettazione del reale in termini più adattivi e di crescita personale del paziente e del terapeuta.

Nel 2012 pubblica “Territori dell’incontro. Strumenti di psicoterapia” (Coratti, Lorenzini, Scarinci e Segre, 2012) un volume in cui per ogni disturbo descritto si elencano una serie di film e libri utili in terapia e nella formazione degli allievi. Sono proposte linee guida e schede operative sulle tematiche e le patologie per la pratica clinica.

Nel 2013, vede la luce per Franco Angeli “Dal Malessere al benessere. Attraverso e oltre la psicoterapia” (Lorenzini e Scarinci, 2013) in cui è proposto un intervento che può collocarsi come un modulo di una più ampia psicoterapia, ma può interessare anche persone senza una specifica psicopatologia che vogliono migliorare la qualità della loro vita. L’obiettivo è quello di riappropriarsi di una pienezza esistenziale e per questo sono illustrate quelle che Lorenzini chiama “tribolazioni”, sofferenze che amareggiano l’esistenza senza esitare in una vera e propria patologia. Nel testo se ne descrivono i meccanismi comuni e alcune strategie di risoluzione. Di pari passo si prendono in considerazione il concetto di benessere e le sue determinanti, il bisogno di significato, la relazionalità correlati a una dimensione di trascendenza, consapevolezza e accettazione, indicando una proposta specifica finalizzata alla promozione di esso.

Nel 2015 l’attenzione è posta a una prima importante sistematizzazione del Disturbo di dismorfismo corporeo (Scarinci e Lorenzini, 2015) che manifesta una sintomatologia clinica al crocevia nosografico di diversi disturbi e con compromissioni nelle aree di vita molto importanti. Sono fornite indicazioni per la diagnosi e il trattamento secondo il modello cognitivo-comportamentale anche negli sviluppi di terza ondata. Una parte innovativa riguarda il trattamento di soggetti in cui l’insight è assente, con una serie di tecniche e procedure che Lorenzini mette a punto per i pazienti con delirio.

La formazione degli psicoterapeuti

Per lunghi anni il nostro si è occupato di formazione in diversi contesti, definendo anche linee guida didattiche per le scuole di specializzazione in psicoterapia.

L’esperienza pluriennale nel campo della didattica e della formazione è compendiata in un contributo molto originale e creativo che propone come gioco, “Psychogame” (Lorenzini, 2018), con una prima parte teorica sul fare psicoterapia e una seconda parte pratica in cui è illustrato il gioco dell’intervisione, una specie di gioco da tavola con lo scopo di allenare al ragionamento clinico.

D’altra parte la creatività, l’originalità e la genialità erano caratteristiche che gli erano riconosciute da molti e sicuramente dal mainstream cognitivista.

È proprio nel libro “Ciottoli. Minute certezze e grandi dubbi che un vecchio terapeuta a fine corsa propone ai colleghi giovani” (Lorenzini, 2020) che raccoglie l’esperienza di tanti anni di lavoro sia nel pubblico, sia nel privato e con la sua generosità propone una serie di riflessioni sulla teoria e la prassi della psicoterapia. L’autore dichiaratamente si pone fuori dalla tendenza verso la protocollizzazione e la scelta d’interventi di Evidence Based Medicine e ribadisce la sua visione organica e unitaria della psicopatologia come disfunzione del normale processo di crescita della conoscenza. Nelle sue riflessioni, qualche volta ironiche e spesso dissacranti, non dobbiamo però vedere una sfida al metodo scientifico, anzi, risalta solo una profonda diffidenza per l’assoluto, per il fondamentalismo.

Lorenzini, popperiano da sempre, era pronto a rimettere in discussione ogni assunto, ogni teoria, pronto a confutare qualsiasi certezza, persino la sua fede religiosa, perché era aperto alla conoscenza e riteneva che questo fosse il metodo che consentiva di farla crescere.

Era, peraltro, anche pragmatico nell’affrontare la psicopatologia, si era imbattuto nel lavoro pubblico in situazioni concrete di disagio e marginalità che difficilmente potevano essere affrontate secondo canoni e procedure suggerite dai “testi sacri” della professione e le caratteristiche di questo suo approccio pragmatico sono state raccolte in un volume postumo “Piccole lezioni di pratica clinica” (Lorenzini e Coratti, 2022). Nelle conclusioni del volume, tra l’altro, sono svolte alcune riflessioni sulla funzione e il ruolo della psicoterapia nel più ampio contesto culturale e sociale, che hanno una certa similitudine rispetto alle riflessioni di Semerari (2022) relativamente alla visione dell’uomo e alla concezione del soggetto, influenzate dal contesto sociale e culturale, che emergono nelle teorie della relazione terapeutica dei vari orientamenti psicoterapeutici.

Lorenzini riafferma l’importanza dell’ascolto e della comprensione del modo con il quale il paziente ha costruito il suo equilibrio instabile e dolente senza avere la presunzione di offrirgli il “golden standard” della sanità mentale, “non c’è un solo modo sano e giusto di essere uomini…e la normalità non può essere commisurata ai valori della cultura weired e a una prospettiva che potremmo definire egocentrismo edonico“ (Lorenzini e Coratti, 2022, p. 105). Anche perché “la definizione di qualcosa che si presume essere nella realtà esterna a noi, si trascina appresso gli enormi problemi epistemologici sulla possibilità di una conoscenza oggettiva”. La fisica quantistica ci insegna che gli oggetti si manifestano solo nell’entrare in relazione e quindi “un matto da solo non esiste. Ci vuole qualcun’altro che non lo capisce e lo definisce tale” (Lorenzini e Coratti, 2022, p. 105).

In sostanza, “anche la scientificità non è una caratteristica assoluta, ma uno strumento” (Lorenzini e Coratti, 2022, p. 105). Ogni teoria, così come ogni psicoterapia, è destinata a essere superata da una teoria più omnicomprensiva in un processo evolutivo in cui l’errore e l’imperfezione sono il motore del cambiamento.

Le ultime opere

Prima di lasciare un grande vuoto con la sua morte Lorenzini ha dato vita ad altre due opere. Un volume curato in collaborazione con Mariapina Accardo, “Pestare i Piedi all’Anima” (Accardo, Lorenzini, 2020), un testo sull’offesa nelle relazioni significative con contributi di molti colleghi con i quali si confrontava assiduamente, Francesco Mancini, Nicola Petrocchi, Barbara Barcaccia, Cristiano Castelfranchi, Giuseppe Romano, Carlo Buonanno e altri. I temi presi in considerazione sono questioni cui Lorenzini aveva iniziato a strizzare l’occhio negli ultimi tempi. Aveva partecipato con molto interesse a un training sulla Compassion Therapy ad esempio, ma anche il perdono, e l’offesa, che com’è detto nella quarta di copertina del libro è un “prequel”, l’antefatto del perdono stesso, lo interessava molto. D’altra parte i temi del rispetto della dignità della persona per lui che aveva tanto combattuto contro lo stigma e aveva con tanta amorevolezza e gentilezza accolto tanti pazienti gravi, anche quando qualche volta lo avevano inseguito con intenzioni non proprio benevole fin sotto la sua abitazione, non gli potevano essere indifferenti.

L’ultimo contributo è un volume curato con Clarice Mezzaluna e Antonio Scarinci con la Prefazione di Antonio Semerari su “Orientamenti in psicoterapia cognitivo-comportamentale” (Scarinci, Lorenzini e Mezzaluna, 2020) che illustra i temi controversi su cui si sta dibattendo non solo in ambito cognitivista. Anche questo libro è stato scritto da Lorenzini insieme a tanti colleghi con cui intratteneva una interlocuzione continua, Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli, Marika Ferri, Valeria Valenti, Sofia Piccioni e altri con i quali ha discusso i problemi concernenti la concettualizzazione del caso, la relazione e l’alleanza terapeutica, l’utilizzo delle tecniche, la formazione degli allievi e la supervisione, l’integrazione tra approcci di prima, seconda e terza ondata, i problemi legati alla diagnosi categoriale o dimensionale, la preminenza da dare ai contenuti o ai processi, il rapporto tra terapie manualizzate e ragionamento clinico, i problemi della ricerca sull’efficacia e l’utilizzo dei farmaci.

Conclusioni

Riguardo ai temi sui quali mi sono soffermato, Lorenzini ha pubblicato anche numerosi articoli a livello nazionale e internazionale che approfondiscono le sue principali concettualizzazioni. Sicuramente nel tempo l’importanza del suo contributo, che spero di aver riassunto se non in modo esaustivo almeno avendo centrato sufficientemente gli aspetti preminenti, potrà essere messo maggiormente in evidenza.

In questi anni, i molti che hanno avuto l’onore e il piacere di collaborare con Roberto, hanno potuto apprezzare la sua fervida intelligenza, il suo umorismo, la sua competenza e perizia, ma soprattutto la sua costante disponibilità a mettere a disposizione di chiunque le sue conoscenze e la sua esperienza. Ha formato centinaia di psicoterapeuti che hanno appreso da lui, oltre alla teoria e alla pratica di cui era un formidabile e geniale maestro, la capacità di rispettare ogni persona con un sentimento di altruismo che lo portava a essere sempre disponibile soprattutto nei confronti di chi si trovava in una condizione di fragilità, angosciato da qualche problema e dal malessere che intratteneva.

Non credo sia un’esagerazione se dovessimo considerare la scomparsa di Lorenzini, insieme con quella quasi contemporanea di Giovanni Liotti, con il quale negli ultimi tempi aveva stretto un rapporto confidenziale e quasi intimo, una grande perdita umana e culturale per tutto il cognitivismo.

La speranza è che il suo lascito morale e culturale possa essere conservato e ancora sviluppato negli anni a venire dal movimento cognitivista.

 


Lorenzini è uno degli autori più letti e più amati di State of Mind, consigliamo la lettura delle sue rubriche e dei suoi articoli, testimonianza diretta dell’ironia, della professionalità e della genialità di Roberto. 

Le rubriche di Roberto Lorenzini:

Gli articoli più letti:

 

“Mamma, mi prendo io cura di te”: inversione di ruolo genitore-figlio

A volte mi capita di essere il confidente della mia mamma, soprattutto da quando mamma e papà hanno divorziato…e quante cose brutte mi dice sul mio papà! La mia mamma è spesso triste e a me non piace vederla così, quindi invece di giocare, le sto sempre vicino e cerco di farla ridere. Alla fine, nessuno capisce la mia mamma come la capisco io: mi posso prendere io cura di lei.

Questo bimbo ci sta mostrando forme di inversione di ruolo: ma che cos’è questo fenomeno? Vediamolo insieme.

La relazione genitore-bambino

 I bambini, durante il loro sviluppo, sperimentano un lungo periodo di dipendenza fisica e psicologica da chi li accudisce (Bellow et al., 2005) e così, nel tempo, si sviluppa una relazione genitori-figlio, estremamente importante per un sano sviluppo del bambino (Macfie et al., 2015). Infatti, il modo in cui i genitori (o altri caregiver primari) interagiscono con il loro bambino influenza il suo sviluppo socio-emotivo (Macfie et al., 2015). Può capitare però che l’adulto, nell’accudire il figlio, fatichi a soddisfare i bisogni socio-emotivi del suo bambino o non sia in grado di soddisfare tali bisogni in modo ragionevolmente efficace (Bellow et al., 2005). Di conseguenza, il bambino potrebbe sviluppare un modello comportamentale chiamato “inversione di ruolo” (Macfie et al., 2015).

Che cos’è l’inversione di ruolo?

Come dicevamo, può succedere che ci sia una rottura dei ruoli attesi tra genitore e figlio: il bambino viene così elevato a un ruolo simile a quello di un adulto, incaricato di soddisfare i bisogni del genitore (Jurkovic, 1997; Kerig, 2005; Minuchin, 2012). Quando questo avviene, si assiste a ciò che fu definito negli anni Sessanta con il termine “inversione di ruolo” (Morris & Gould, 1963).

Nel tempo sono stati poi coniati diversi termini per riferirsi a questo fenomeno come: “bambino genitore” (Earley & Cushway, 2002), “parentificazione” (Bellow et al., 2005; Boszormenyi-Nagy & Spark, 1973), “genitore come coetaneo” (Earley & Cushway, 2002; Kerig, 2005) e “genitore come coniuge” o “spousification” (Kerig, 2005; Macfie et al., 2015).

Tutti i termini sopra citati evidenziano un cambiamento nei ruoli genitore-figlio in cui il bambino sacrifica i propri bisogni di attenzione, conforto e guida per soddisfare e prendersi cura dei bisogni strumentali (ad esempio, cucinare, pulire, occuparsi dei fratelli più piccoli) e/o emotivi del genitore (ad esempio, dare consigli, confortare e rassicurare, tenere compagnia al genitore; Alexander, 2003; Mayseless et al., 2004).

L’inversione di ruolo tra normalità e disfunzionalità

In generale, l’inversione di ruolo non è considerata patologica di per sé (Jurkovic, 1997; Robinson & Chase, 2001): questo fenomeno fa parte di un processo normativo nella socializzazione dei bambini, che li porta a diventare membri responsabili e moralmente adatti delle famiglie e della società (Jurkovic, 1997). Si è evidenziato, infatti, l’appropriatezza dell’assunzione di responsabilità familiari che rientrano nelle capacità di sviluppo del bambino e che non interferiscono con il suo sviluppo, contribuendo alla formazione di un’identità sana, di una buona autostima e di un senso di autoefficacia e di competenza (Bellow et al., 2005; Macfie et al., 2005, 2015). Di conseguenza, è considerato sano e appropriato che il bambino soddisfi, in qualche misura, i bisogni emotivi del genitore, ma questo deve essere bilanciato dalle cure che il bambino riceve dal genitore stesso (Earley & Cushway, 2002).

Questo processo normativo diventa inversione di ruolo distruttiva quando la relazione genitore-figlio manca di reciprocità emotiva e/o quando le richieste e le aspettative superano le capacità del bambino (essendo inadeguate alla sua età) verificandosi a spese del soddisfacimento dei suoi bisogni di sviluppo (Bellow et al., 2005; Macfie et al., 2005, 2015). Il bambino si trova quindi a tenere il “carico emotivo della relazione”, aumentando il rischio di psicopatologia (Jurkovic, 1997).

Precursori dell’inversione di ruolo: il contesto

L’inversione di ruolo è stata associata a molti tipi di disfunzioni familiari (Alexander, 2003). I fattori che, ad oggi, risultano associati all’inversione di ruolo sono principalmente: il genere del bambino, il conflitto coniugale, il maltrattamento infantile, la storia di perdita o trauma dei genitori e la malattia organica e/o mentale dei genitori (Macfie et al., 2015).

Per quanto riguarda il genere del bambino, sembrerebbe che le figlie femmine abbiano un maggiore propensione all’inversione di ruolo, poiché ci si aspetta che le donne nutrano e mantengano le relazioni (Buchanan et al., 1991). Nonostante ciò, essa può avere un effetto più deleterio sugli uomini (Chodorow, 1999).

Anche il conflitto coniugale sembrerebbe essere associato all’inversione di ruolo, soprattutto nella relazione madre-figlia: quando i genitori sono impegnati in un conflitto, aumenta la probabilità che i figli si alleino con le madri contro i padri (triangolazione; Alexander, 2003; Macfie et al., 2015). In particolare, questo fenomeno risulta associato anche a disfunzioni familiari tra cui il divorzio e stili genitoriali “intrusivi” (Alexander, 2003; Jacobvitz & Sroufe, 1987; Weiss, 1979).

 L’inversione di ruolo, inoltre, sembrerebbe più probabile in famiglie maltrattanti: abusi e maltrattamenti dei genitori rappresentano tipologie di disfunzioni familiari a cui si associa l’inversione di ruolo del bambino (Morris & Gould, 1963), soprattutto l’abuso fisico e l’abuso sessuale (Burkett, 1991; Macfie et al., 1999). A tal proposito, si è visto anche che i genitori che hanno subito abusi da bambini hanno una maggiore probabilità di dipendere dai figli per la cura emotiva, soprattutto se esperiti dalle madri (Bellow et al., 2005; Burkett, 1991). Infatti, storie parentali di traumi o perdite infantili (come abusi subiti dai genitori e la morte di un genitore), sembrerebbero potenziare la confusione di ruoli poiché il genitore, faticando ad elaborare la propria esperienza, si affida al figlio per trovare conforto (Burkett, 1991).

Un ultimo fattore che può creare un contesto di inversione di ruolo è la malattia mentale dei genitori come alcolismo, abuso di sostanze, sintomi depressivi e ansiosi, disturbo borderline di personalità, schizofrenia (Earley & Cushway, 2002; Macfie et al., 2015; Mayseless et al., 2004), mostrando il genitore come una figura vulnerabile e bisognosa di aiuto.

Esiti nel breve termine e nel lungo termine dell’inversione di ruolo

In generale, l’inversione di ruolo rappresenta un importante fattore di rischio che può portare a compromissioni sullo sviluppo del bambino (Macfie et al., 2005, 2015): sembrerebbe che l’inversione di ruolo interferisca con lo sviluppo dell’autonomia e dell’individuazione (sviluppo del sé) nel periodo della prima infanzia e questo può a sua volta influenzare futuri problemi di sviluppo, come problemi di autoregolazione nel periodo prescolare (Jacobvitz & Sroufe, 1987; Macfie et al., 2015). In caso di inversione di ruolo patologica, sono state associate conseguenze significative per il bambino come depressione, bassa autostima, pensieri suicidari, isolamento sociale, sintomi psicosomatici e sintomi esternalizzanti come il disturbo della condotta o l’iperattività (Bellow et al., 2005).

Alcuni studi (per esempio, Earley & Cushway, 2002) hanno poi dimostrato l’esistenza di effetti a lungo termine dell’inversione di ruolo: la responsabilità di accudimento da bambini sembrerebbe influenzare il funzionamento di un individuo nelle relazioni adulte. In particolare, è stato osservato che da adulti tendono a continuare ad adottare comportamenti di cura compulsivi nelle relazioni con altre persone adulte in età più avanzata: questo fenomeno viene definito come “sindrome del prendersi cura” (Earley & Cushway, 2002). Inoltre, sembrerebbero mostrare una formazione dell’identità meno coesa con livelli inferiori di esplorazione della propria identità ed essere esposti ad un maggior rischio di disturbi di personalità, depressivi e ansiosi (Bellow et al., 2005; Macfie et al., 2005; Mayseless et al., 2004).

Conclusione

In definitiva, l’inversione di ruolo può essere sia normale, sia disfunzionale e ha una maggiore probabilità di presentarsi in contesti specifici (Bellow et al., 2005). Questo fenomeno si manifesta nei primi anni di vita, può influenzare lo sviluppo dall’infanzia all’età adulta e si trasmette da una generazione all’altra (Macfie et al., 2015). Tuttavia, ad oggi, non è ancora chiaro come la traiettoria evolutiva differisca per l’inversione di ruolo patologica rispetto a quella non patologica (Bellow et al., 2005).

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