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La formulazione condivisa del caso nella terapia cognitivo-comportamentale standard

Il nucleo della formulazione condivisa del caso si riferisce al fatto che ogni passo è attuato al fine di aumentare la consapevolezza del paziente della formulazione stessa e del razionale del trattamento.

Gli assunti della CBT

Secondo la terapia cognitivo-comportamentale standard i disturbi emotivi dipendono da contenuti mentali distorti che possono essere rielaborati attraverso la riattribuzione verbale cosciente. In accordo con Dobson e Dozois (2010), gli approcci CBT (cognitive behavioral therapy) storici (tra cui ritroviamo la terapia cognitivo comportamentale standard) condividono i seguenti assunti:

  • a) Il ruolo di mediazione della cognizione: c’è sempre un’elaborazione cognitiva degli eventi interni ed esterni che possono influenzare la risposta dell’individuo a questi eventi;
  • b) La possibilità che l’attività cognitiva sia accessibile alla coscienza e può essere monitorata, valutata, misurata e rielaborata attraverso scelte consapevoli all’interno di una collaborazione esplicitamente negoziata tra paziente e terapeuta;
  • c) Il cambiamento dei comportamenti può essere mediato e incoraggiato da queste valutazioni cognitive.

La formulazione condivisa del caso

Il capitolo di Ruggiero, Caselli e Sassaroli intitolato “La formulazione del caso nella Terapia Cognitivo Comportamentale standard” (Ruggiero, Caselli e Sassaroli, 2022) e pubblicato all’interno del libro edito dagli stessi autori, affronta la tematica della formulazione condivisa del caso tra paziente e terapeuta nella terapia cognitivo-comportamentale standard, in cui le credenze cognitive negative sul sé giocano un ruolo chiave nella formulazione del caso e nella condivisione di esso con il paziente stesso.

È importante sottolineare che formulare il caso in maniera condivisa con il paziente consente di evitare il rischio di ridurre il processo terapeutico a una mera identificazione delle credenze distorte del paziente da parte del terapeuta: secondo tale modello il paziente non viene “passivamente istruito delle proprie credenze disfunzionali e distorsioni cognitive per poi abbandonarle a seguito di un processo di riapprendimento cognitivo in seduta”. Anzi, in un’ottica che tecnicamente viene definita “empirismo collaborativo” (Hollon e Beck 1979) il paziente stesso è chiamato ad assumere un ruolo attivo in cui la valutazione dei meccanismi disfunzionali viene visto come uno strumento condiviso per un cambiamento consapevole.

Gli autori del capitolo sottolineano che vi sono state critiche di razionalismo (Guidano 1987, 1991; Mahoney 1995, 2003) mosse alla terapia cognitivo-comportamentale standard, come se presupponesse “l’imposizione non condivisa di un software da impiantare nella mente del paziente e che può funzionare senza la sua attiva cooperazione” (Ruggiero, Caselli e Sassaroli, 2022).

Altri autori Tee e Kazantzis (2011) hanno risposto a tali critiche affermando che l’empirismo collaborativo di Beck “non è semplicemente volontà di coinvolgimento del paziente né solo un accordo sui compiti o sugli obiettivi. Piuttosto, il terapeuta cognitivo mira a coinvolgere il paziente in una genuina condivisione del lavoro di definizione degli obiettivi e di creazione attiva dei compiti terapeutici, incoraggiandolo progressivamente ad assumere il ruolo principale in queste attività, per quanto possibile” (Tee e Kazantzis 2011, p. 49).

In tal senso, l’empirismo collaborativo può agire come un processo di cambiamento specifico poiché il cambiamento delle credenze disfunzionali accadrà più facilmente se la spinta al cambiamento proviene da uno sforzo collaborativo, piuttosto che da un insegnamento didattico del terapeuta (Dattilio e Padesky 1990).

Secondo Ruggiero, Caselli e Sassaroli (2022) la formulazione condivisa del caso presuppone l’empirismo collaborativo e anzi ne rappresenta un’evoluzione in termini operativi: da un punto di vista operativo condividere con il paziente la formulazione del caso significa condividere un modello della sua disfunzione emotiva, del razionale del cambiamento comportamentale e degli interventi.

Il ruolo attivo del paziente

La comprensione condivisa deve essere ricercata in un accordo iniziale in cui il paziente accetta di sperimentare il modello di terapia proposto. Come sottolinea Beck è necessario negoziare un accordo tra le aspettative del paziente e quelle del terapeuta (Beck 1976) riconoscendo la tensione tra la speranza del paziente di trovare sollievo emotivo senza impegno attivo e il compito del terapeuta di incoraggiare il paziente a cercare questo sollievo attraverso un impegno attivo. Secondo questo modello, la speranza del paziente di ricevere passivamente un sollievo emotivo non è attribuibile ad una resistenza più o meno inconscia, ma a credenze errate sul funzionamento mentale, come ad esempio credenze secondo cui il paziente sottovaluta la propria capacità di gestire il proprio funzionamento mentale. Allora ecco per quale motivo diventa fondamentale la condivisione attiva con il paziente della conoscenza consapevole della propria disfunzionalità cognitiva e comportamentale, che è poi la condivisione della formulazione del caso.

Ad esempio, uno strumento concreto di condivisione del caso nella terapia cognitiva di J. Beck è il Diagramma di Concettualizzazione Cognitiva (Cognitive Conceptualization Diagram, CCD, Beck 2011), in cui il terapeuta utilizza le credenze centrali, le credenze intermedie e le strategie di coping, per trovare insieme al paziente un’interpretazione psicopatologica e una ristrutturazione terapeutica delle situazioni problematiche riferite. Il termine “condivisione” sottolinea il compito del terapeuta di comunicare e condividere costantemente con il paziente gli aspetti emergenti della formulazione e di utilizzarla come strumento per gestire la terapia.

Formulazione condivisa del caso e alleanza terapeutica

In tal senso, il nucleo della formulazione condivisa del caso si riferisce al fatto che ogni passo è attuato al fine di aumentare la consapevolezza del paziente della formulazione stessa e del razionale del trattamento: in questo modo si promuove un’alleanza terapeutica in termini emotivi, cioè un’atmosfera di fiducia e cooperazione, e in termini pratici, cioè condividendo con il paziente un’ipotesi generale del suo disagio psicologico e del meccanismo del trattamento. Anche in termini di monitoraggio della terapia è più che auspicabile che questo venga eseguito in una modalità condivisa: monitorando congiuntamente l’andamento, il terapeuta e il paziente ritornano regolarmente sulla formulazione del caso, che diventa sempre più la cartina tornasole del progresso terapeutico.

Quindi, secondo gli autori, la formulazione condivisa del caso diviene lo strumento principe per la gestione dell’alleanza terapeutica tra paziente e terapeuta, fondamentale per lavorare in modo efficace in termini di trattamento.

 

La didattica metacognitiva: imparare a imparare

La didattica metacognitiva è un approccio di insegnamento che mira a sviluppare la consapevolezza, la comprensione e la regolazione dei propri processi cognitivi, nonché la capacità di valutare criticamente le proprie prestazioni.

Introduzione

 L’apprendimento è una parte essenziale della vita di tutti noi, è la base delle nostre conoscenze e abilità, ci permette di interagire con la realtà intorno a noi e di evolvere come individui e come società per adattarci ai cambiamenti dell’ambiente. Apprendiamo fin dalla nascita: dai nostri genitori, a scuola, al lavoro, dai nostri amici e da internet. A scuola, all’università o al lavoro ci viene costantemente richiesto di apprendere informazioni e abilità, e siamo subito chiamati alla verifica di tale apprendimento. Tuttavia, di rado ci viene spiegato come apprendere, quali sono i meccanismi e i processi più efficaci per noi. E molto spesso non siamo neanche consapevoli dei processi di apprendimento che mettiamo in atto.

Per apprendere in modo efficace, è necessario avere una buona consapevolezza e comprensione delle nostre capacità cognitive e dei nostri processi di apprendimento. Questo atto di conoscenza è definito dagli studiosi come metacognizione (per esempio, Wells, 2002; Velzen, 2016).

Essendo la metacognizione così basilare per massimizzare una facoltà altrettanto basilare come l’apprendimento, la didattica metacognitiva mira a spiegare e insegnare strategie metacognitive in modo esplicito, piuttosto che presumere che le persone sviluppino queste abilità in modo naturale nel corso della vita.

In questo articolo esploreremo la didattica metacognitiva sulla base di quanto esposto da Joke van Velzen nel suo libro “Metacognitive Learning” (2016).

La metacognizione e la didattica metacognitiva

Nella teoria dell’apprendimento, la metacognizione è un concetto chiave, che sottolinea l’importanza della consapevolezza che gli individui hanno del proprio processo di apprendimento.

Adrian Wells (2002), psicologo e principale teorico in questo ambito, definisce la metacognizione come la capacità di riflettere e monitorare i propri processi cognitivi, emotivi e comportamentali, per comprendere meglio come funzioniamo e come possono influenzare il nostro modo di pensare e di agire. Possiamo utilizzare questa consapevolezza per regolare e adattare questi processi –nel nostro caso, legati all’apprendimento– in modo efficace per raggiungere i nostri obiettivi e migliorare il nostro apprendimento, e per estensione la qualità della nostra vita quotidiana.

Il ruolo della metacognizione nell’apprendimento è cruciale poiché permette agli individui di diventare attivi e responsabili del proprio apprendimento. Essa aiuta gli studenti a capire come funzionano i loro processi cognitivi e a sviluppare abilità di autovalutazione, autocontrollo e autoriflessione. La metacognizione permette anche di sviluppare una maggiore consapevolezza delle proprie lacune di conoscenza e, di conseguenza, di attivarsi per colmarle.

La didattica metacognitiva è un approccio di insegnamento che mira a stimolare l’acquisizione di conoscenze, abilità e strategie metacognitive negli studenti. Nell’ottica di promuovere l’apprendimento efficace e autonomo, l’obiettivo è quello di sviluppare capacità di comprensione e regolazione dei propri processi cognitivi, nonché fornire agli studenti gli strumenti necessari per acquisire maggiori competenze metacognitive.

I principi fondamentali della didattica metacognitiva includono: l’autoregolazione, la riflessione, l’autovalutazione e l’autoefficacia:

  • l’autoregolazione fa riferimento alla capacità di monitorare e di controllare il proprio apprendimento, ad esempio, tramite l’uso di strategie di studio efficaci;
  • la riflessione, invece, implica la capacità di riflettere sulle proprie conoscenze, sul proprio processo di apprendimento e sulle proprie strategie, in modo da identificare punti di forza e debolezza;
  • l’autovalutazione permette agli studenti di valutare le proprie prestazioni in modo critico e obiettivo;
  • l’autoefficacia si riferisce alla fiducia che gli studenti hanno nella propria capacità di apprendere e di raggiungere i propri obiettivi di apprendimento.

Le strategie metacognitive e il loro utilizzo in classe

Le strategie metacognitive sono essenziali per l’apprendimento e la didattica metacognitiva si concentra sul loro insegnamento e sul loro utilizzo efficace. Le tre principali strategie metacognitive sono la pianificazione, il monitoraggio e la valutazione dell’apprendimento.

  • La pianificazione consiste nella definizione degli obiettivi di apprendimento, nella scelta delle strategie di apprendimento più efficaci e nella valutazione dei progressi. Ad esempio, uno studente che sta per scrivere un saggio potrebbe pianificare la ricerca di fonti, la definizione della tesi e l’organizzazione della struttura del saggio.
  • Il monitoraggio dell’apprendimento è il processo di valutazione continua dei propri progressi e del proprio livello di comprensione. Questa strategia può includere la verifica della comprensione durante la lettura di un testo, la revisione della propria scrittura durante la stesura di un saggio o la verifica della risposta a un’attività in classe.
  • La valutazione dell’apprendimento riguarda la riflessione critica sull’esperienza di apprendimento, compresa la valutazione della propria comprensione, delle proprie abilità e delle strategie utilizzate. Ad esempio, uno studente potrebbe valutare il proprio saggio in base alla coerenza dell’argomentazione, all’uso delle fonti e alla correttezza grammaticale.

Queste strategie metacognitive possono essere insegnate e integrate nelle attività di apprendimento in classe in vari modi. Per esempio, i docenti possono insegnare esplicitamente le strategie metacognitive, fornendo istruzioni dettagliate su come pianificare, monitorare e valutare l’apprendimento. Oppure, possono utilizzare attività di apprendimento collaborative tra gruppo classe, richiedendo agli studenti di condividere e riflettere sulle proprie strategie di apprendimento e di valutazione. Ancora, i docenti possono fornire feedback regolari agli studenti sulla loro pianificazione, monitoraggio e valutazione dell’apprendimento.

Per esemplificare, l’insegnante potrebbe assegnare la lettura di un testo e successivamente chiedere di scrivere una breve sintesi in cui gli studenti valutano la propria comprensione del contenuto. Potrebbero, inoltre, lavorare in piccoli gruppi per confrontare le proprie sintesi e riflettere su come migliorare la propria comprensione del testo. Alla fine del lavoro, il docente potrebbe fornire un feedback dettagliato su come gli studenti possono migliorare la loro pianificazione, il monitoraggio e la valutazione dell’apprendimento.

Implementazione della didattica metacognitiva

L’implementazione della didattica metacognitiva richiede una pianificazione accurata e una consapevolezza degli obiettivi di apprendimento. Inizialmente, è importante che i docenti valutino il livello di conoscenza metacognitiva degli studenti e poi pianifichino l’implementazione della didattica metacognitiva in modo graduale.

Il primo passo è quello di presentare ai propri studenti l’idea di metacognizione e di come essa possa essere utilizzata per migliorare il proprio apprendimento. Ciò può essere fatto attraverso la presentazione di esempi e la discussione di casi reali in cui gli studenti hanno utilizzato la metacognizione per migliorare le loro prestazioni.

Successivamente, i docenti possono iniziare a insegnare le diverse strategie metacognitive, come la pianificazione, il monitoraggio e la valutazione dell’apprendimento, attraverso esempi specifici e il coinvolgimento degli studenti in attività pratiche. Per esempio, pianificare una strategia di studio per un esame o valutare le loro prestazioni rispetto ad una prova precedente.

Inoltre, i docenti possono utilizzare strumenti specifici per facilitare l’implementazione della didattica metacognitiva in classe. Ad esempio, creare dei “quaderni di lavoro metacognitivo” può essere utile per incoraggiare gli studenti a riflettere sulla propria attività di apprendimento e sui processi metacognitivi utilizzati in una certa attività. I docenti possono anche utilizzare schede di autovalutazione per aiutare gli studenti a valutare le proprie prestazioni e a identificare le aree di miglioramento.

È importante che in questo percorso i docenti incoraggino gli studenti a diventare consapevoli dei propri processi di apprendimento e a utilizzare le strategie metacognitive in modo autonomo. Questo può essere fatto attraverso il coinvolgimento degli studenti nella definizione degli obiettivi di apprendimento e nella pianificazione delle attività di studio. Se utilizzata correttamente, la didattica metacognitiva può aiutare gli studenti a diventare più consapevoli dei propri processi di apprendimento e a migliorare le loro prestazioni.

Applicazione della didattica metacognitiva in contesti diversi

La didattica metacognitiva è una metodologia di insegnamento che mira a sviluppare le capacità metacognitive degli individui attraverso l’acquisizione di conoscenze sulla propria capacità di apprendere e sull’organizzazione dei propri processi cognitivi. Questa metodologia può essere applicata in diversi contesti di apprendimento, come la scuola, l’università e il lavoro, e può contribuire allo sviluppo di competenze trasversali, come la capacità di risolvere problemi e di prendere decisioni.

Come esplorato in precedenza, in ambito scolastico, la didattica metacognitiva può essere utilizzata per insegnare agli studenti come pianificare, monitorare e valutare il proprio apprendimento. Ad esempio, gli insegnanti possono proporre agli studenti di pianificare il proprio studio, di monitorare i propri progressi attraverso l’uso di diari di apprendimento, e di valutare i risultati ottenuti utilizzando griglie di autovalutazione.

In un contesto di studio avanzato come quello universitario, la didattica metacognitiva può essere applicata per aiutare gli studenti a sviluppare la capacità di gestire la propria formazione e di apprendere in modo autonomo. Per esempio, gli studenti possono essere incoraggiati a sviluppare abilità di ricerca, a valutare le fonti e le informazioni, e a sviluppare strategie di studio efficaci.

Nel contesto lavorativo, la didattica metacognitiva può essere utilizzata per sviluppare la capacità di apprendere in modo continuo e di adattarsi a nuove situazioni prodotte dai cambiamenti nel mondo del lavoro; per esempio, formare i collaboratori all’acquisizione di abilità di problem solving e di decision making, per sviluppare la capacità di monitorare e valutare il proprio lavoro, per apprendere in modo collaborativo nuove competenze o per migliorare le proprie prestazioni.

 A questo proposito, la didattica metacognitiva può anche contribuire allo sviluppo di competenze trasversali, come appunto la capacità di risolvere problemi e di prendere decisioni. Infatti, può essere insegnato agli studenti l’utilizzo di strategie di problem solving, come la scomposizione del problema e la valutazione delle possibili soluzioni, e la capacità di prendere decisioni in modo autonomo, valutando i pro e i contro delle diverse opzioni disponibili. Quindi, l’uso di strategie metacognitive può essere utile nell’identificazione e nell’analisi dei problemi, nella generazione delle idee e nella valutazione delle opzioni disponibili. Inoltre, l’autovalutazione e la riflessione metacognitiva possono aiutare le persone a prendere decisioni consapevoli e a sviluppare la capacità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

I benefici della didattica metacognitiva

La didattica metacognitiva può portare molti benefici agli studenti e al sistema educativo nel suo complesso.

Uno dei principali vantaggi è il miglioramento delle prestazioni accademiche degli studenti. Come detto, la metacognizione aiuta gli studenti a comprendere meglio il proprio processo di apprendimento e a utilizzare strategie efficaci per raggiungere i propri obiettivi di apprendimento. Ad esempio, un’attività di autovalutazione può aiutare gli studenti a identificare le loro aree di forza e di debolezza e a concentrarsi su come migliorare.

Un altro vantaggio è la maggiore consapevolezza delle proprie capacità di apprendimento. Gli studenti che allenano la metacognizione imparano a valutare le proprie abilità e a prendere decisioni informate sulla loro formazione e sulla loro carriera. Ad esempio, un’attività di auto-riflessione può aiutare gli studenti a identificare gli interessi e le passioni e a pianificare il percorso educativo e professionale in modo più mirato e coerente con le proprie attitudini.

L’applicazione di una didattica di questo tipo può apportare diversi benefici anche nel sistema educativo nel suo complesso. Innanzitutto, gli insegnanti che utilizzano la didattica metacognitiva sono in grado di personalizzare l’apprendimento per gli studenti e di aiutarli a sviluppare abilità trasversali utilizzabili in vari contesti, dalla scuola alla vita quotidiana. Inoltre, la didattica metacognitiva può aiutare a ridurre il divario tra gli studenti di diversi livelli socio-economici poiché, sviluppando la metacognizione, essi sono in grado di diventare maggiormente autonomi e di assumere un ruolo più attivo nel loro processo di apprendimento, indipendentemente dalle loro circostanze socio-economiche.

Conclusioni

In sintesi, la metacognizione è un’abilità fondamentale che permette di comprendere come funzionano la propria mente e il proprio modo di apprendere. La didattica metacognitiva è un approccio educativo che mira a sviluppare le competenze metacognitive degli studenti che, attraverso lo sviluppo di competenze metacognitive, sono in grado di monitorare e regolare il proprio apprendimento in modo più efficace, migliorando le loro prestazioni accademiche e lavorative future. In definitiva, la didattica metacognitiva può rappresentare un approccio efficace per promuovere l’apprendimento attivo e consapevole di contenuti specifici, nonché competenze trasversali riguardo i propri processi cognitivi e comportamentali, utili non solo in campo scolastico ma anche lavorativo.

Attualmente, il grado di diffusione e l’adozione della didattica metacognitiva varia da Paese a Paese e da istituzione a istituzione. Tuttavia, dato che l’implementazione della didattica metacognitiva richiede una pianificazione attenta e una costante riflessione sugli obiettivi di apprendimento, è necessaria un’adeguata formazione dei docenti, in modo da fornire agli insegnanti gli strumenti necessari per integrare la metacognizione in classe. Proprio per il suo grande potenziale è importante che la didattica metacognitiva sia considerata un approccio complementare alla didattica tradizionale e che sia utilizzata in modo equilibrato.

Senza rimpianti. Liberarsi dagli errori del passato (2023) di Robert L. Leahy – Recensione

La finalità del testo “Senza rimpianti. Liberarsi dagli errori del passato” è quella di fornire suggerimenti e strumenti per utilizzare il rimpianto in maniera funzionale.

 

 Siamo costantemente chiamati a prendere delle decisioni, ad agire delle scelte e spesso ritorniamo sulle stesse cominciando a nutrire dei rimpianti.

Ruminazione, sensi di colpa, rabbia, frustrazione, ansia, spesso generano, mantengono e peggiorano il rimpianto.

Ma che funzione svolge tale vissuto emotivo nella nostra vita? Il rimpianto è un qualcosa di negativo o positivo?

All’interno del presente testo “Senza rimpianti. Liberarsi dagli errori del passato” l’autore offre un’ampia panoramica e approfondimento dell’argomento, mettendo in risalto le variabili che più entrano in gioco; viene evidenziato come il rimpianto non sia per sua natura connotato positivamente o negativamente sul nascere, ma tutto dipende dall’approccio e dall’uso che ne fa la persona. In tal senso si può rimanere intrappolati nel rimpianto oppure farne un uso costruttivo sfruttandolo come aspetto motivazionale, come elemento essenziale per favorire nuovi apprendimenti.

L’autore ricorda infatti che il rimpianto può esserci d’aiuto per:

  • regolare il comportamento;
  • imparare;
  • pianificare;
  • migliorarci;
  • chiedere scusa;
  • aumentare la motivazione;
  • fare esperimenti mentali invece che nella vita reale.

La finalità del testo è dunque quella di fornire suggerimenti e strumenti per utilizzare il rimpianto in maniera funzionale.

Il primo suggerimento dell’autore è quello di evitare di rimanere intrappolati all’interno dello stesso.

In tal senso ci offre un elenco di alcune modalità attraverso cui il rimpianto può divenire disfunzionale:

  • Ripercorrere la nostra vita, pensare a come saremmo stati di gran lunga meglio, se avessimo compiuto scelte diverse.
  • Continuare a ripensare a tutte le esperienze negative che abbiamo vissuto, ignorando quelle positive.
  • Idealizzare le scelte che non abbiamo compiuto.
  • Ripetere a noi stessi che avremmo dovuto sapere come sarebbe andata a finire.
  • Riempirci di critiche
  • Valutare le nostre scelte in base al miglior risultato che possiamo immaginare.
  • Non accettare compromessi.
  • Valutare una scelta, pretendere di dover sapere ogni cosa per certo prima di decidere (p.46-47).

Dunque nella seconda parte del testo, l’autore sottolinea come è importante usare a nostro vantaggio il rimpianto e come farselo alleato: possiamo decidere se sfruttare lo sbaglio a nostro vantaggio o meno.

Qualcuno potrebbe domandarsi perché mai non dovremmo limitarci a ignorare l’errore e andare avanti con la nostra vita. Perché perdere tempo con questo fastidioso esame di coscienza? Non c’è forse il rischio che alimenti autocritica e depressione?

 Non necessariamente. Anzi, se reinterpretiamo i nostri errori come esperienze di apprendimento, esperimenti e opportunità di crescita personale, l’effetto sarà l’opposto della depressione. Concepire questo processo come un’occasione per guardarsi dentro, per dialogare con se stessi in modo sincero, così da poter fare buon uso di uno sbaglio effettivamente commesso, può diventare un’iniezione di ottimismo e di forza (p.238).

Non mancano pagine dove il lettore è invitato a mettersi in gioco ed infine piccoli suggerimenti pratici per utilizzare in modo costruttivo il rimpianto, come:

  • Considerare gli errori come una cosa del tutto normale nell’essere umano;
  • Concentrarsi su ciò che possiamo imparare, non su quello che abbiamo sbagliato;
  • Valutare cosa è stato trascurato;
  • Chiedersi in che modo possiamo usare le informazioni che abbiamo raccolto attraverso il rimpianto di una determinata scelta;
  • Domandarsi in che modo possiamo evitare di commettere lo stesso errore in futuro.

Lettura piacevole e scorrevole, rivolta all’ampio pubblico, utile spazio di riflessione su come errare sia umano ed il “perseverare diabolico”. A noi la scelta!

Prevenzione della suicidalità tramite l’uso di tecnologie d’ informazione e comunicazione

Il suicidio è una delle principali cause di morte a livello globale (WHO, 2022). Esiste una complessa combinazione di fattori individuali, sociali e sanitari che porta al suicidio. Infatti, rilevare la presenza di ideazione o comportamenti suicidari è una sfida, anche per i medici (Nutting et al., 2005).

 

 La prevenzione del suicidio è un processo che richiede l’utilizzo di diverse strategie, come per esempio screening dei soggetti a rischio, interventi mirati e follow-up per i sopravvissuti al suicidio e le persone in lutto (Larsen et al., 2015). Gli screening consistono nell’identificazione dei pazienti più a rischio, grazie a un’anamnesi accurata nel momento della presa in carico del paziente, mentre i follow-up presuppongono dei contatti ripetuti nel tempo, a distanza di settimane o mesi, per valutare se lo stato di salute del paziente sia cambiato o meno, in modo da tenere sotto controllo le ipotetiche ricadute (Stanley et al., 2018).

La prevenzione in uno stato di pre-crisi è fondamentale, infatti si stima che fino al 66% delle persone che muoiono per suicidio hanno avuto contatti con il servizio sanitario nel mese precedente il decesso, ma spesso il rischio suicidario non viene rilevato (Mann et al., 2005).

Le tecnologie d’informazione e comunicazione: definizione e applicazione

L’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione (information and communication technology – ICT), ovvero strumenti tecnologici adibiti alla comunicazione e lo scambio di dati nella prevenzione del suicidio è progredito rapidamente nell’ultimo decennio. Le tecnologie d’informazione e comunicazione comprendono tutti quei dispositivi che consentono agli individui di interagire tra loro nella vita di tutti i giorni. In linea generale, ad oggi, le tecnologie d’informazione e comunicazione più comunemente utilizzate sono: computer, cellulari, internet, robots, intelligenze artificiali, tv digitali, videoconferenze, pagamenti online/online banking, radio, tecnologie satellitari (Heeks, 2010).

Le tecnologie d’informazione e comunicazione hanno generato numerosi cambiamenti in diversi ambiti, come quello culturale, sociale, economico ed educativo. Esse infatti possono essere utilizzate per migliorare la comunicazione e aumentare la produttività di business e organizzazioni. Allo stesso modo, svolgono un ruolo importante nella prevenzione del suicidio (Rassy et al., 2021).

Oltre alle tecnologie d’informazione e comunicazione vere e proprie appena elencate, è importante sottolineare che esistono dei metodi di raccolta dati, tramite le tecnologie d’informazione e comunicazione, più sottili e meno evidenti. Infatti, qualsiasi smartphone è dotato di sensori passivi, ovvero sensori in grado di raccogliere informazioni in background, dal momento in cui vengono accettate le condizioni di utilizzo, durante tutto l’arco della giornata. I social media offrono diverse informazioni come i pensieri e le idee degli utenti, che spongono interagendo tra loro, ma anche informazioni che permettono l’elaborazione paralinguistica, ovvero l’analisi delle modalità comunicative degli utenti, per esempio quali parole vengono usate più frequentemente e in quale contesto. Tutte queste modalità offrono molte opportunità, tra cui il rilevamento della suicidalità e dei fattori di rischio associati (Larsen et al., 2015).

Lo sviluppo di strumenti per la prevenzione del suicidio rimane una sfida. Questo tipo di popolazione a rischio risulta di difficilmente accessibile e che richiede un alto grado di sensibilità.

Il ritiro sociale è un segnale di allarme fondamentale per individuare i soggetti ad alto rischio di comportamenti suicidari e può essere rilevato da altri membri della rete sociale  di un individuo (Van Orden et al., 2010). Tuttavia, l’emergere di questo comportamento non è sempre evidente. Il monitoraggio passivo tramite smartphone fornisce uno strumento in grado di rilevare tale fenomeno. Diversi studi hanno utilizzato la localizzazione come dato indicativo dei legami sociali ma, sebbene il potenziale di sviluppo sia alto, non è ancora del tutto chiaro quali siano le migliori pratiche per prevenire attivamente i suicidi, nel limite della privacy dei dati raccolti (Eagle et al., 2010; Lee, 2014).

L’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione in letteratura

La revisione di Rassy e colleghi (2021) ha esplorato la letteratura esistente sull’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione su tutti i livelli di prevenzione del suicidio, sulla base di quanto stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: livello universale (intera popolazione), livello selettivo (sottopopolazioni specifiche) e livello indicato (individui ad alto rischio).

 Sono stati selezionati 115 studi pubblicati tra il 1° gennaio 2013 e il 31 dicembre 2018. Di questi, 10 riguardavano l’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione nelle strategie di prevenzione universale del suicidio, 53 si riferivano all’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione nelle strategie di prevenzione selettiva del suicidio e 52 trattavano l’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione nelle strategie indicate di prevenzione del suicidio.

Gli studi sulle strategie di prevenzione universale del suicidio hanno utilizzato programmi di promozione della salute e prevenzione del suicidio attraverso l’uso di siti web educativi e campagne di sensibilizzazione e psicoeducazione sui social media. Questi programmi online erano informativi e interattivi, con forum e chat. I social media coinvolti sono stati Facebook, Twitter e blog personali e professionali.

Gli studi sulle strategie di prevenzione selettiva del suicidio hanno utilizzato strategie di identificazione delle persone a rischio e programmi online di formazione e informazione a distanza, con l’obiettivo di migliorare la conoscenza, la comprensione e gli atteggiamenti relativi alla prevenzione e all’intervento sul suicidio. Per identificare gli individui a rischio di suicidio sul web sono stati sviluppati degli algoritmi, come Google Ads, basati sull’analisi di diversi elementi, tra cui le caratteristiche vocali e linguistiche, le note mediche, i clic sugli annunci dei motori di ricerca e i profili online o sui social media. Alcuni programmi erano progettati per essere utilizzati individualmente, altri invece facevano parte di un programma di intervento più ampio che prevedeva il contatto diretto tra le persone con rischio suicidario e le risorse per la prevenzione del suicidio (per esempio, professionisti della salute mentale).

Per quanto riguarda gli studi sulle strategie di prevenzione del suicidio indicate, i programmi sono stati offerti da professionisti della salute o da servizi di assistenza psicosociale e hanno riguardato la valutazione del rischio di suicidio, l’intervento in caso di crisi, gli interventi psicologici a bassa intensità, la psicoterapia per gli individui a rischio di suicidio, il monitoraggio e gli strumenti tecnologici a supporto degli interventi condotti in presenza (per esempio, Coach Mobile, un’app di supporto alla terapia dialettico comportamentale).

I risultati estrapolati da questi studi sottolineano l’importanza e l’utilità delle tecnologie d’informazione e comunicazione nella prevenzione del suicidio. Tuttavia, gli autori sottolineano l’importanza di ulteriori studi su larga scala, per esaminare ulteriormente l’efficacia di questi programmi e le relative strategie. Inoltre, si raccomandano protocolli di sicurezza ed etici per gli interventi basati sulle tecnologie d’informazione e comunicazione.

Psicoterapia ed efficacia: ricerche condotte negli ultimi 10 anni con il supporto della fMRI

Negli ultimi 10 anni sono state condotte numerose ricerche per indagare gli effetti della psicoterapia sul funzionamento cerebrale mediante l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI). L’obiettivo principale di queste ricerche è stato quello di comprendere come i cambiamenti psicologici e comportamentali indotti dalla psicoterapia possano influire sulle attività neuronali del cervello.

CBT per la Depressione

 Uno studio condotto da Linden et al. (2012) ha utilizzato la fMRI per esaminare l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) per il trattamento della depressione. I risultati hanno dimostrato che dopo la CBT, i pazienti hanno mostrato una riduzione dell’attività nella corteccia prefrontale ventromediale, una regione associata alla risposta emotiva e all’autoreferenzialità.

Psicoterapia interpersonale e regolazione emotiva

Un altro studio condotto da McEvoy et al. (2016) ha utilizzato la fMRI per indagare gli effetti della psicoterapia interpersonale (IPT) sulle reti cerebrali coinvolte nell’elaborazione delle emozioni. I risultati hanno evidenziato come dopo la psicoterapia interpersonale, i pazienti mostravano un aumento dell’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale, una regione coinvolta nella regolazione emotiva.

CBT e ansia sociale

 Oltre agli studi menzionati sopra, altri ricercatori hanno esaminato gli effetti della psicoterapia su specifiche condizioni cliniche. Ad esempio, uno studio condotto da Dichter et al. (2015) ha utilizzato la fMRI per valutare gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) sulla risposta emotiva in individui con ansia sociale. I risultati hanno mostrato che la CBT ha indotto una riduzione dell’attività nella corteccia insulare, una regione coinvolta nella risposta emotiva. Questa regione è coinvolta in diverse funzioni cognitive, tra cui l’elaborazione delle emozioni, la consapevolezza corporea, la regolazione dell’omeostasi e la cognizione sociale.

CBT e ansia generalizzata

Un altro studio condotto da Lueken et al. (2016) ha utilizzato la fMRI per valutare gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) sulle reti cerebrali coinvolte nell’ansia generalizzata. I risultati hanno mostrato che la CBT ha indotto un aumento dell’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale, la quale svolge molte funzioni cognitive importanti per la nostra capacità di pensare, agire e interagire con il mondo intorno a noi.

Terapia cognitivo-analitica e depressione maggiore

Infine, uno studio condotto da Fonzo et al. (2020) ha utilizzato la fMRI per esaminare gli effetti della terapia cognitivo-analitica (CAT) sulla risposta emotiva in individui con depressione maggiore. I risultati hanno mostrato che la terapia cognitivo-analitica ha indotto una riduzione dell’attività nella corteccia prefrontale ventromediale, una regione che svolge molte funzioni cognitive e comportamentali importanti per la comprensione delle emozioni, la regolazione emotiva, la presa di decisioni e l’empatia.

Conclusioni

Complessivamente, questi studi indicano che la psicoterapia può indurre cambiamenti nella struttura e nell’attività del cervello in individui con diverse condizioni cliniche. Tuttavia, ulteriori ricerche sono necessarie per comprendere i meccanismi specifici sottostanti questi cambiamenti e per identificare le differenze nella risposta cerebrale alla psicoterapia tra le diverse condizioni cliniche.

 

Prevalenza e impatto psicosociale dello Stalking sugli operatori della salute mentale

L’impatto o le conseguenze dello stalking sono ben documentati, in particolare gli effetti di ordine relazionale che privilegiano l’effetto emotivo/fisico sulla vittima e i costi finanziari.

Cos’è lo stalking e qual è il movente?

 Lo stalking è un fenomeno complesso, comunemente descritto come una costellazione di comportamenti in cui un individuo attua nei confronti di un altro individuo intrusioni indesiderate e ripetute, tra cui: seguire o osservare qualcuno, scrivere lettere, telefonare, fare regali non richiesti o/e fastidiosi (Mullen et al., 2000). Questo viene quindi definito come quel fenomeno in cui le azioni dell’autore di stalking sono percepite dal soggetto colpito come non richieste, persistenti, e potenzialmente in grado di provocare paura e angoscia sia nella vittima che nei suoi cari (Harris et al., 2022). La percezione del comportamento come minaccioso o indesiderato da parte della vittima è considerato quindi come un fattore fondamentale per la definizione dello stalking (Emerson et al., 1998).

Lo stalking, nella popolazione generale, è presente in molti paesi sviluppati. Una meta-analisi che raccoglie e riassume 175 studi sullo stalking, ha rilevato tassi di prevalenza nel corso della vita per le vittime di sesso maschile tra il 2% e il 13% e per quelle di sesso femminile tra l’8% e il 32% (Spitzberg & Cupach, 2007). Una parte sostanziale dello stalking nasce da una relazione esistente, guidato da motivazioni e fattori scatenanti diversi, in particolare: ricerca di intimità, abbandono, fine della relazione, riconciliazione, infatuazione e gelosia (Harris, 2000; Meloy, 1998; Nicastro et al., 2000), aggressione o vendetta (Dressing et al., 2005; Meloy, 1998), controllo e possesso (Meloy, 1998; Tjaden & Thoennes, 1999), o discussioni (Harris, 2000; Meloy, 1998). Il movente dello stalking e l’evento scatenante possono influenzare il metodo successivo di stalking, la sua gravità e la sua durata.

L’impatto dello stalking sulla popolazione generale

L’impatto o le conseguenze dello stalking sono ben documentati, in particolare gli effetti di ordine relazionale (Spitzberg & Cupach, 2007) che privilegiano l’effetto emotivo/fisico sulla vittima e i costi finanziari per cercare di mantenersi al sicuro (ad es., trasferirsi in una nuova casa o richiedere assistenza legale). Gli effetti di secondo e terzo ordine si riferiscono all’impatto dello stalking su persone care e amici. Gli effetti di terzo ordine comprendono anche un’altra persona che diventa inavvertitamente un bersaglio dopo aver aiutato una vittima. Gli effetti duraturi sulle vittime sono stati sempre più documentati (Cox, 2006; Cox & Speziale, 2009; Johansen & Tjørnhøj-Thomsen, 2016): l’impatto di azioni di stalking prolungato e le attività imprevedibili degli stalker generano confusione, paura e un senso di minaccia continua.

Il fenomeno dello stalking nei confronti dei professionisti della salute mentale

 La letteratura precedente ha sottolineato che i professionisti della salute mentale (MHP; Mental Health Professionals) sembrano essere a maggior rischio di subire stalking nonostante l’evidenza di tassi di prevalenza nell’arco della vita simili a quelli della popolazione generale; per esempio, il 24% di psicoterapeuti subisce stalking da parte di ex o attuali pazienti (Hudson-Allez, 2002), e il 25% da parte dei pazienti di un ente sanitario (Clarke et al., 2016). L’analisi di Galeazzi e De Fazio (2006) rivela il costo emotivo dello stalking da parte dei clienti, con il 70% dei partecipanti in 22 studi che hanno riferito rabbia, ansia e impotenza, oltre che a conseguenze pratiche come il cambiamento delle abitudini, la perdita di reddito e il cambio di lavoro (Galeazzi & De Fazio, 2006). I partecipanti hanno cercato il sostegno di colleghi e amici, e fino al 40% ha denunciato le proprie esperienze alla polizia.

La ricerca nel campo

La ricerca della letteratura scientifica in questo campo ha incluso tutti i gruppi di professionisti sanitari che lavorano in un contesto di salute mentale (per esempio, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri), riuscendo a identificare 11 articoli totali. Gli studi esaminati hanno riportato tassi di prevalenza tra il 10% e il 50%: questo divario riflette probabilmente una diversa definizione dello stalking e/o una diversa dimensione del campione considerato. Questa sostanziale variabilità, che include anche una diversa qualità della metodologia adottata dai singoli studi, ha precluso una stima precisa della prevalenza.

L’impatto dello stalking sui professionisti della salute mentale

I partecipanti degli studi inclusi hanno esperito un impatto significativamente negativo sulla fiducia e sulla competenza sul lavoro in seguito alle loro esperienze. Il personale ha richiesto cambiamenti sostanziali nel luogo di lavoro e nello stile di vita per mitigare l’impatto dello stalking. Tuttavia, gli studi hanno riportato che il personale ha rivelato di aver subito stalking anche da parte di autori diversi dai pazienti, in particolare colleghi e partner intimi, con la stessa o maggiore frequenza rispetto ai clienti.

Deficit cognitivo e disregolazione emotiva: il progetto Alteya di alfabetizzazione emotiva

La disregolazione emotiva è spesso presente nel deficit cognitivo ed è una delle cause della comparsa di comportamenti disfunzionali.

Deficit cognitivo e disregolazione emotiva

 Diversi autori (Hatton, 2000; Castellani et al., 2010; Hatton, 2002; Contini, 1992; Trentin 1990;  Lazarus et al., 1980; Ruggerini et al., 2013) hanno documentato la possibilità, per i soggetti con disabilità intellettiva, di imparare a connettere pensieri ed emozioni.

Si possono definire le emozioni come il risultato dell’attivazione di specifici circuiti neuronali, provocata da particolari stimoli interni od esterni al soggetto. Le principali strutture anatomiche coinvolte nelle risposte emotive sono alcune regioni sottocorticali, tra cui l’amigdala, il nucleo striato ventrale e grigio periacqueduttale ed alcune aree corticali, quali la corteccia insulare anteriore e la corteccia cingolata anterodorsale (Damasio, 2011). Le emozioni sono quindi fenomeni complessi in cui intervengono la valutazione cognitiva dello stimolo, l’attivazione fisiologica del sistema nervoso e dell’intero organismo a cui segue la comparsa di una risposta comportamentale (Etkin et al., 2015). L’attivazione, conseguente allo stimolo che genera un’emozione, si manifesta attraverso alcuni fenomeni fisiologici quali la variazione della frequenza cardiaca, il rossore od il pallore, la comparsa di sudorazione, la variazione della pressione arteriosa e la comparsa di particolari espressioni facciali o verbali. Il comportamento che compare a seguito di un’emozione ha il fine di mantenere o modificare l’equilibrio del soggetto (Etkin et al., 2015).

Secondo Gross (2007) si può definire la regolazione emotiva come “la capacità di monitorare, valutare e modulare le proprie reazioni emotive, siano esse positive o negative”. I dati presenti in letteratura indicano che problemi di regolazione emotiva sono presenti in vari quadri clinici. Diversi studi hanno evidenziato la presenza di disregolazione emotiva nel disturbo borderline di personalità, nel disturbo bipolare, nei disturbi psicosomatici e nelle demenze (Flasbeck et al., 2017; Sifneos, 1973; Katz, 2000). Nel deficit cognitivo una delle abilità compromesse è quella di giudizio; questa compromissione può rendere fallace la comprensione e la consapevolezza delle emozioni. Inoltre, in tale deficit risulta spesso inadeguata la capacità di servirsi di strategie di regolazione emotiva e tutto ciò genera la comparsa di comportamenti disfunzionali (Hatton, 2000). La promozione della salute mentale, nella disabilità intellettiva, passa anche attraverso un processo di alfabetizzazione emotiva (Castellani et al., 2010).

L’alfabetizzazione emotiva può essere considerata un valido intervento psicoeducativo per affrontare comportamenti disfunzionali, aggressività e conflitti nelle relazioni interpersonali, spesso determinati dall’assente o carente capacità di regolazione emotiva. Diversi autori hanno documentato la possibilità, per i soggetti con deficit cognitivo, di imparare a connettere pensieri ed emozioni (Hatton, 2000; Castellani et al., 2010; Hatton, 2002; Contini, 1992; Trentin 1990; Lazarus et al., 1980; Ruggerini et al., 2013).

Deficit cognitivo e alfabetizzazione emotiva: il progetto Alteya

Il servizio residenziale estensivo denominato Villa Albani, rivolto a persone con deficit cognitivo e disturbi del comportamento, è una struttura pubblica appartenente Asl Roma 6, gestita dalla cooperativa sociale onlus Alteya. Sono diversi i progetti che sono stati attivati all’interno di questa struttura con lo scopo di migliorare i sintomi cognitivi e comportamentali dei pazienti ricoverati.

Recentemente è stato attivato un programma di alfabetizzazione emotiva, motivato dall’osservazione clinico-empirica che l’incapacità di gestire gli stati emozionali è spesso la causa di comparsa di conflitti ed atti auto ed etero aggressivi tra i pazienti.

Il progetto attraverso giochi, letture ed attività mirate, condotte con vari gruppi di pazienti, si pone l’obiettivo di:

  • far apprendere ai pazienti ricoverati la differenza tra sensazione fisica e sensazione emotiva
  • far comprendere che esiste un rapporto tra emozioni e comportamento conseguente
  • far capire la distinzione tra emozioni e comportamenti
  • fornire strategie di gestione dell’emozione
  • far conoscere il valore e la funzione legata ad ogni emozione, anche quelle che sembrano meno positive

 Le attività previste dal progetto sono organizzate e condotte da una equipe multidisciplinare (educatori, psicologo clinico, operatori assistenziali) e vengono proposte tre volte alla settimana a gruppi di pazienti omogenei per situazione clinica e livello di deficit cognitivo. Ciascuna attività è finalizzata a raggiungere uno o più obiettivi del progetto. Tutte le attività sono state progettate dall’equipe tenendo conto delle capacità attentive dei pazienti coinvolti e delle loro inclinazioni per favorirne la compliance.

Tra le attività di gioco sono state inserite il “memory delle carte emozionali”, semplice gioco di memoria che consiste nel formare delle coppie con carte che rappresentano la medesima emozione.

Un’altra attività proposta consiste nel “gioco dei mimi” da effettuare a squadre con la consegna, data da un operatore, di mimare una determinata emozione: rabbia, paura, tristezza, gioia e ad ogni emozione mimata verrà associata una canzone o una filastrocca.

Le attività del progetto prevedono anche la lettura animata, effettuata dagli operatori, in cui si narrano storie i cui protagonisti sperimentano determinate emozioni a seguito degli eventi che vivono o dei pensieri che fanno.

Inoltre, è stato progettato un laboratorio teatrale, condotto da un regista e formatore, con l’obiettivo di utilizzare l’analogia teatro-vita e permettere ai pazienti di sperimentare, nell’ambiente protetto del palcoscenico, situazioni emotive collegate a diversi aspetti della vita.

Il monitoraggio dell’efficacia dell’intervento è effettuato attraverso la registrazione degli eventi conflittuali/aggressivi e delle circostanze in cui si manifestano. Prima dell’attivazione del programma di alfabetizzazione emotiva sono state analizzate le diarie di ciascun paziente per valutare la frequenza con cui compaiono comportamenti disfunzionali collegabili a una mancata capacità di gestione delle emozioni.

La Dott.ssa Daniela Rebecchi su servizi di salute mentale, farmaci e psicoterapia

È possibile tutelare la salute mentale dei cittadini, ricorrendo quasi esclusivamente all’uso di psicofarmaci?

Le linee guida sottolineano ormai da anni la comprovata efficacia della psicoterapia nella cura dei disturbi psichici, perché allora nei servizi di salute mentale risulta ancora notevolmente ridotta l’erogazione di interventi di psicologia e psicoterapia?

Raccomandiamo, a tal proposito, la lettura dell’articolo “I servizi di salute mentale non possono erogare solo farmaci, serve psicologia e psicoterapia” pubblicato su Quotidiano Sanità del 02 Maggio 2023. In questa lettera aperta al Direttore, la dott.ssa Daniela Rebecchi invita a riflettere sull’ancora scarso investimento, da parte dei servizi di salute mentale, nei percorsi di psicoterapia da offrire ai cittadini con difficoltà psicologiche.

La dott.ssa Daniela Rebecchi, psicologa psicoterapeuta, già direttrice dell’U.O.C. Psicologia Clinica, del dipartimento di salute mentale della Ausl di Modena, Membro del GdL Sanità CNOP, è attualmente responsabile della sede di Studi Cognitivi Modena e Direttore scientifico della Clinica Disturbi di Personalità di Modena.

Curatrice del libro “I percorsi clinici della Psicologia – Metodi strumenti e procedure nel SSN” (2018), la dott.ssa Rebecchi è inoltre stata parte attiva, in qualità di Esperto, del progetto della Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione.

Gli ultimi dati SISM disponibili (2020) non mostrano significativi cambiamenti in quanto l’attività psicologica/psicoterapica continua a rappresentare solo il 6,2% del totale delle prestazioni erogate nei servizi della salute mentale e quella relativa alle prestazioni psicologiche rivolte agli utenti con diagnosi gravi si attesta al 3,2%.

Una situazione che va contro le evidenze scientifiche, le linee guida internazionali e i desideri dei cittadini, che, soprattutto nei disturbi di ansia e depressione più comuni, preferiscono e richiedono in oltre sette casi su dieci un trattamento di tipo psicologico/psicoterapico.

LEGGI L’ARTICOLO

 

 

Il lavoro cognitivo e metacognitivo con l’individuo iperattivo

Ndr – dello stesso autore, su State of Mind, abbiamo precedentemente pubblicato altri due contributi sugli interventi per bambini con ADHD, ovvero: La presa in carico globale della persona con ADHD e Il parent training. La gestione familiare dell’ADHD

 

Giunti a questo punto della disamina sugli interventi realizzabili per i soggetti ADHD, è necessario –per ragioni di completezza scientifica– far riferimento a importanti dimensioni come quella cognitiva e metacognitiva che, generalmente, nelle persone con ADHD appaiono deficitarie in varia misura (Cornoldi et al. 2001).

La metacognizione e le strategie metacognitive

 La metacognizione è la capacità del soggetto di distanziarsi dai processi o stati mentali e porsi in autoriflessione e automonitoraggio. Si tratta, dunque, di una capacità che trascende (meta) la cognizione e ha come scopo quello di rendere edotta la persona sui propri stati mentali. Interventi di didattica metacognitiva hanno il merito di promuovere nello studente con ADHD sia lo sviluppo di competenze trasversali quali l’attenzione, la memoria e il metodo di studio, sia competenze specifiche come la lettura, il calcolo, la comprensione del testo e la scrittura (Cottini, 2017). È ancora Cottini a rilevare che “l’approccio metacognitivo tende a formare la capacità di essere gestori dei propri processi cognitivi, dirigendoli attivamente con valutazioni e indicazioni operative personali” (Cottini, 2017). Si tratta quindi di un approccio assai utile per diverse situazioni di disabilità, rendendo il soggetto una sorta di capitano consapevole del proprio comportamento.

Potrebbe risultare assai utile tenere presenti le dieci caratteristiche distintive della persona che è in grado utilizzare al meglio le strategie cognitive e metacognitive (identificato con l’acronimo inglese “GUS” da Good User Strategy) messo a punto da Borkowski (Borkowski et al., 2011). Secondo l’autore uno studente dovrebbe:

  • Disporre di un ampio ventaglio di strategie di apprendimento;
  • Comprendere quale sia il momento più idoneo per metterle in atto;
  • Saper scegliere le strategie secondo una capacità di pianificazione ben strutturata;
  • Avere fiducia nella crescita delle proprie capacità mentali;
  • Investire nell’impegno;
  • Possedere una forte motivazione, essere orientato sul compito e padroneggiarlo;
  • Non avere paura del fallimento;
  • Poter disporre di varie “possibili immagini di Sé”;
  • Avere una vasta conoscenza approfondita e ben strutturata e poter accedere ad essa in modo rapido;
  • Poter contare sul sostegno dei genitori, della scuola e della società.

Come lavorare con alunni ADHD

Si tratta di un modello assai articolato e complesso, che è in grado di offrirci un ottimo quadro di riferimento circa le direzioni che è importante seguire –sotto il profilo pedagogico, didattico e di apprendimento– anche con lo studente con ADHD. In effetti, in questo modello sono contenuti una serie di fattori particolarmente importanti e che spesso risultano deficitari e compromessi nei quadri dell’ADHD come l’autostima, l’autoefficacia, le convinzioni attribuzionali, un’adeguata conoscenza di sé, la gestione ottimale delle proprie risorse e capacità.

Pertanto, dal punto di vista delle facoltà mentali, il lavoro cognitivo e metacognitivo con allievi ADHD deve dispiegarsi su quattro versanti: pianificazione, organizzazione, flessibilità e monitoraggio.

La pianificazione richiede diverse abilità cognitive quali la destrutturazione dell’obiettivo finale in varie componenti più gestibili, una corretta valutazione del tempo richiesto per portare a termine l’attività, la stima delle risorse necessarie per realizzarla (anche in termini di sforzo cognitivo necessario). Alcuni autori suggeriscono la possibilità di usare una simbologia facilmente comprensibile per rendere edotto il bambino della durata delle attività e del grado di difficoltà che si troverà ad affrontare. Un esempio assai utile potrebbe essere quello illustrato nell’immagine seguente. L’organizzazione richiede la strutturazione di un ordine di priorità così da promuovere una corretta esecuzione delle azioni necessarie.

ADHD come impostare il lavoro cognitivo e metacognitivo Fig 1

Sulla flessibilità è importante insistere in modo assai particolareggiato tenendo presente che:

“La flessibilità cognitiva e comportamentale è alla base della capacità di spostarsi da un set di risposte a un altro, in relazione alle richieste del compito, e di interpretare le informazioni che provengono da fonti diverse. Questa capacità, denominata anche shifting, viene richiesta nella gran parte delle attività didattiche, per favorire la comprensione e il passaggio rapido da un piano generale a uno specifico o da una strategia a un’altra. Le difficoltà a questo livello sono evidenti in molti allievi con BES e vanno oltre il deficit mentale. Si pensi, ad esempio, all’allievo con deficit di attenzione e iperattività che tende a perseverare in strategie di risoluzione di problemi del tutto inefficaci” (Cottini, 2017, pp. 251-252).

Infine, l’automonitoraggio è una capacità esecutiva preposta all’autovalutazione del proprio operato e all’individuazione degli errori commessi. In questa prospettiva è importante che l’allievo venga aiutato nell’autocomprensione del proprio funzionamento. Si tratta di un passaggio assai complesso che non può non adeguarsi alle capacità di comprensione del soggetto. Educatori e insegnanti, pertanto, devono quindi fornire dei “feedback sulle prestazioni dell’alunno” e stimolarlo ad “indagare aspetti connessi al modo in cui i compiti sono condotti e i processi personali vengono attivati” (Cottini, 2017). Questi feedback servono a “stimolare un’autoanalisi sui processi cognitivi implicati” (Cottini, 2017).

Innanzitutto, è essenziale che educatori e insegnanti lavorino sulle capacità di problem solving del bambino iperattivo e disattento. Il soggetto dovrà acquisire e consolidare man mano le seguenti capacità:

  • Riconoscimento del problema;
  • Pianificazione e organizzazione del piano di lavoro per la sua risoluzione;
  • Verifica finale del lavoro svolto.

Un lavoro sul secondo punto è finalizzato all’ipercompensazione dei deficit delle funzioni esecutive –tipiche, come abbiamo visto, dei soggetti ADHD–; mentre un intervento sul terzo punto è finalizzato al consolidamento delle capacità autoriflessive e attentive, assai carenti in questi quadri neuropsichiatrici.

Al fine di migliorare le capacità metacognitive, invece, particolarmente efficace risulta il training di autoistruzione verbale che è finalizzato all’acquisizione e al consolidamento di un efficace dialogo interno che risulti in grado di orientare e direzionare il comportamento.

È previsto che ogni insegnante, inoltre, si impegni in una sorta di addestramento del bambino alla gratificazione personale e all’auto-valutazione. La persona, cioè, deve progressivamente imparare ad auto-gratificarsi per interrompere la dipendenza dalle gratificazioni degli adulti di riferimento.

È importante che il soggetto rompa l’automatico riconoscimento nell’immagine di se stesso che si è costruito nel tempo, a seguito di reiterati richiami, rimproveri e punizioni. Solitamente il soggetto ADHD si riconosce in questo ruolo e finisce per autopercepirsi come un soggetto destinato irrimediabilmente ai panni –peraltro assai alienanti– “dell’elemento di disturbo, della mina vagante, dell’incapace cronico”.

Non si tratta di un compito facile, e le possibilità di riuscita aumentano se gli interventi in questa direzione vengono realizzati precocemente, quando cioè l’immagine di sé non è ancora così strutturata. Spesso gli aspetti positivi dell’individuo con ADHD sono poco valorizzati. Il compito dell’insegnante, pertanto, è quello di riuscire ad individuare questi elementi positivi, grazie proprio alle accurate osservazioni delle quali si parlava sopra, e a valorizzarli e rinforzarli. È anche vero che nella pratica effettiva per gli insegnanti è complesso riuscire a costruire un buon equilibrio tra l’evitamento dei rinforzi negativi e la promozione dei comportamenti positivi. Nella logica dell’inclusione, infatti, risulterebbe inappropriato estromettere il soggetto con ADHD dall’ambiente della classe. Non soltanto aumenterebbe il senso di alienazione del soggetto stesso, ma si verrebbe meno allo scopo stesso dell’inclusione, tornando ad esacerbare le differenze tra soggetti normali e soggetti pericolosi per la quiete della classe. D’altra parte, però, l’inclusione a tutti i costi potrebbe determinare anche un incremento dello stress dovuto principalmente al fatto di dover riuscire a tenere insieme, nello spazio ridotto dell’aula, uno studente con il resto della classe. Il rischio è ambivalente: da un lato, infatti, i compagni potrebbero fungere da rinforzo negativo dei comportamenti del soggetto con ADHD (ciò vuol dire che i compagni più turbolenti potrebbero rinforzare i comportamenti inadeguati dello studente con ADHD provocando condotte inopportune e disturbanti). Per converso, anche il soggetto in questione potrebbe mettere in atto comportamenti disturbanti in grado di far distogliere l’attenzione ai compagni.

Bisogna perciò che l’insegnante comprenda che ogni qualvolta interrompe innervosito per riprendere il bambino con ADHD in qualche modo agisce da rinforzo negativo, consentendo al bambino stesso di sperimentare una sorta di successo della sua azione disturbante (Marzocchi, 2003).

Ancora: l’insegnante agisce da rinforzo negativo anche quando propone la realizzazione di un desiderio del bambino iperattivo per placarne l’azione di disturbo (ciò accade, ad esempio, se l’insegnante troppo accondiscendente accetta che gli studenti siano impegnati con i propri cellulari, onde evitare chiasso e turbolenze). Si tratta di una concessione che al momento dà l’illusione di raggiungere l’obiettivo (che può essere il silenzio oppure l’ordine della classe, o anche la neutralizzazione di un comportamento potenzialmente pericoloso), ma che dal punto di vista psico-pedagogico risulta controproducente, dal momento che è come se il docente contrattasse (e accontentasse) con la parte patologica del soggetto, ai danni della parte sana. In altri termini: è come se l’insegnante si alleasse con il disturbo del soggetto.

Conclusioni

La trattazione appena conclusa ha mostrato la complessità del disturbo dell’ADHD e soprattutto l’impossibilità di ridurre questa condizione neuropsichiatrica ad un mera e superficiale tendenza alla disattenzione.

Ci troviamo di fronte, invece, un disturbo assai pervasivo in grado di poter ostacolare la vita dell’individuo in tutte le sue dimensioni, se non trattato. Come per ogni disturbo neuropsichiatrico, anche per l’ADHD risolutivo è l’approccio multimodale, fondato, come abbiamo visto, sul principio ontologico ed epistemologico della complessità.

Più è pervasivo il disturbo arrivando ad intaccare più aree della vita di una persona, più è necessario che la rete di interventi sia adeguata ad affrontare situazioni così prismatiche e articolate. È quindi importante costruire una rete di interventi in grado di arginare i comportamenti problema, di riorganizzare la vita del soggetto, di impedire la realizzazione di atteggiamenti pericolosi e di donargli la percezione di essere un soggetto capace di padroneggiare le proprie scelte e la propria vita (nella misura del possibile e considerando i limiti e le capacità relative all’età anagrafica del soggetto di cui ci si prenda cura).

 Nessun approccio eccessivamente analitico e selettivo, da solo, è in grado di giungere all’obiettivo sperato. Ad oggi, ad esempio, i farmaci più utilizzati per l’ADHD sono l’atomoxetina e il metilfenidato, entrambi autorizzati in Italia fin dal 2007. Questi farmaci (inibitori e stimolanti) possono essere prescritti dal neuropsichiatra solo dopo un’accurata anamnesi, dopo aver consultato i genitori, valutato attentamente e scrupolosamente tutto il quadro ed escluso la presenza di altre malattie potenzialmente pericolose (come quelle a carico del sistema cardiocircolatorio). Per questi farmaci anche gli effetti collaterali sono molto limitati, alla sola condizione però che il loro dosaggio sia perfettamente stabilito tenendo conto di tutti gli altri parametri. Tuttavia, l’azione psicofarmacologica da sola risulterebbe insufficiente se intorno al bambino iperattivo non si creasse una rete di interventi educativi, psicosociali e terapeutici in grado di lavorare su ogni aspetto dimensionale del soggetto (Taylor et al., 1996). In particolare, ricapitolando quanto già è emerso nel corso dell’articolo, è su questi aspetti specifici che bisogna intervenire in modo continuo, sinergico e perseverante:

  • Problem solving: riconoscere il problema, generare soluzioni alternative, pianificare la procedura per risolvere il problema;
  • Autoistruzioni verbali: questo è target assai importante degli interventi psicoeducativi, finalizzato all’acquisizione di un dialogo interno che guidi alla soluzione delle situazioni problematiche;
  • Stress inoculation training: indurre il bambino/adolescente ad auto-osservare le proprie esperienze e le proprie emozioni, soprattutto in coincidenza di eventi stressanti e, successivamente, aiutarlo ad attuare una serie di risposte alternative adeguate al contesto. L’acquisizione di queste risposte alternative ha l’obiettivo di sostituire gradualmente gli atteggiamenti impulsivi e aggressivi (tratto da Linee guida SINPIA, 2002, 24 giugno 2002, p. 19).

È essenziale, dunque, che intorno al bambino si crei una pluralità di interventi che, nel pieno rispetto della sua persona, lo aiutino a iper-compensare le deficienze che il disturbo neuropsichiatrico in questione ha creato in termini di attenzione, controllo degli impulsi, padronanza della condotta, pianificazione e realizzazione delle attività. Per questo è assai importante che nessun intervento abbia la supremazia, ma che ognuno di essi si incastri con gli altri in un’ottica di sinergia profonda positivamente rinforzante. Ad esempio è stato sottolineato come l’efficacia della terapia cognitivo comportamentale (CBT) nei bambini iperattivi può essere incrementata qualora sia associata con altre tecniche “come la ripetizione di nuove abilità dentro e fuori il setting clinico”, grazie “al sistema di rinforzo” degli adulti “dei comportamenti socialmente appropriati” (Linee guida Sinpia, p. 8).

Non si può ignorare, infine, anche l’importanza di reti di intervento più vaste nelle quali i genitori di bambini con ADHD possono trovare aiuto, supporto e orientamento. Per ragioni di completezza riporto qui le più importanti, con la ferma consapevolezza che tali associazioni rivestano un ruolo di primo piano nell’economia complessiva della presa in carico del soggetto con questo disturbo. Innanzitutto, è importante menzionare L’associazione italiana famiglie ADHD (Aifa Onlus) che è nata il 5 ottobre 2002 per iniziativa del pediatra Raffaele D’Errico e sua moglie Giulia D’Errico. È un’associazione costituita da psicologi, medici, psicopedagogisti, insegnanti, educatori e operatori. Le finalità di Aifa Onlus sono assai nobili: solidarietà sociale, aiuto, sostegno e divulgazione scientifica. E ancora, tra gli scopi vanno annoverati il coordinamento tra le figure professionali e tra le famiglie con problemi di ADHD, oltre alla ricerca di coinvolgimenti con gli Enti locali e statali. Vale la pena menzionare anche L’associazione italiana disturbi di attenzione/iperattività (Aidai), che è nata in Italia nel 1998 proprio come supporto delle persone con ADHD. L’idea è nata da un’intuizione di Cesare Cornoldi e dal Servizio di neuropsichiatria dell’Asl di San Donà di Piave. Nel tempo questa associazione si è estesa, e dal 2005 ha modificato il proprio statuto per costituire due distinti comitati: il Comitato scientifico e il Comitato scolastico, formato da Dirigenti e operatori scolastici. Tra i suoi scopi compaiono la divulgazione scientifica in materia di ADHD e la promozione di ricerche in sinergia con le università interessate. Inoltre, l’associazione svolge un ruolo di supporto fornendo informazioni a genitori, insegnanti e adulti che si relazionano con soggetti con ADHD e organizzando congressi e incontri formativi (cfr. Marzocchi e Borganzone, 2019, pp. 147-149).

Nessuna persona con ADHD è dunque sola e soprattutto nessuna è destinata a vivere per sempre nel ruolo sociale assai alienante di “elemento di disturbo”. Il disturbo, per quanto pervasivo e limitante, si può –e si deve–  gestire con accorgimenti e interventi che coinvolgano la persona nella sua interezza e che rispettino le sue caratteristiche  trovando la soluzione migliore per un’adeguata compensazione dei deficit attentivi e dei comportamenti disfunzionali.

Quella gioia tinta di tristezza: l’ambivalenza della nostalgia

Leunissen (2022) ha analizzato 41 esperimenti presenti in letteratura che si sono focalizzati sullo studio della nostalgia e delle sue caratteristiche.

La nostalgia

 La parola “nostalgia” deriva da due radici greche: “nostos” che significa “ritorno alla terra natia” e “algos” che si riferisce a “dolore, sofferenza o lutto”. Fin dall’antichità, il concetto di nostalgia è stato un tema importante nel mito e nella poesia. Passando dalla Bibbia all’Odissea di Omero, la letteratura di tutte le epoche dà voce eloquente a questa condizione umana e, in effetti, difficilmente troveremo qualcuno che non l’abbia mai sperimentata.

A partire dagli scritti di Johannes Hofer (1678), la nostalgia è stata associata a molti sintomi fisiologici e psicologici; essa, come emozione, contiene componenti sia piacevoli sia spiacevoli e questa qualità “agrodolce” dell’emozione è una caratteristica distintiva della condizione nostalgica.

Infatti, Werman (1977) ha descritto la nostalgia come “un’esperienza affettiva-cognitiva sentita in modo ambivalente. I suoi aspetti cognitivi consistono tipicamente nel ricordo di un luogo particolare in un dato momento […]. Gli affetti associati a questi ricordi sono caratteristicamente descritti come agrodolci, indicando un piacere malinconico, una gioia che si tinge di tristezza”.

La nostalgia potrebbe dunque essere un’esperienza riconducibile all’”ambivalenza affettiva”, ovvero un’esperienza simultanea di stati affettivi o emozioni di valore opposto (positivo-negativo). Al fine di avvalorare questa ipotesi e stabilire delle prove sperimentali che confermino l’ambivalenza della nostalgia, la ricerca di Leunissen (2022) ha analizzato 41 esperimenti in cui questa condizione veniva studiata.

Gli studi sulla nostalgia in letteratura

Lo studio di Davalos e colleghi (2015) ha indagato la correlazione tra nostalgia e ambivalenza affettiva attraverso l’analisi di post nostalgici su Facebook. Gli autori hanno identificato i post di Facebook disponibili pubblicamente, ricercando parole o frasi chiave comuni all’esperienza nostalgica (ad esempio, “nostalgia”, “ricordi”, “bei tempi”). Hanno confrontato 10.000 post nostalgici (contenenti gli elementi chiave) con 10.000 post non nostalgici (non contenenti gli elementi chiave). II 30% dei post nostalgici era caratterizzato da frasi contenenti emozioni sia positive sia negative, rispetto al 13% dei post non nostalgici. Al contrario, tra i post che contenevano riferimenti a emozioni solo positive o solo negative, non c’era alcuna differenza tra i post nostalgici e quelli non nostalgici.

 Leunissen e colleghi (2021) hanno invece verificato gli effetti della nostalgia su emozioni positive e negative distinte. Hanno scoperto che la nostalgia aumenta la maggior parte delle emozioni positive (24 su 30) e aumenta solo tre emozioni negative (tristezza, mancanza e rimpianto). Sembra quindi che l’effetto della nostalgia sugli stati positivi sia generale per la maggior parte delle emozioni positive, mentre l’effetto della nostalgia sugli stati negativi sembra essere altamente specifico per le emozioni caratterizzate da tristezza e perdita.

In una serie di studi sulle concettualizzazioni della nostalgia (ovvero su ciò che le persone credono che sia la nostalgia), Van Tilburg e colleghi (2018) hanno chiesto ai partecipanti di valutare quanto la nostalgia fosse simile o diversa rispetto ad altri 10 concetti di emozioni rilevanti per il sé. I partecipanti hanno trovato la nostalgia più simile alle emozioni positive come l’autocompassione e l’orgoglio che a quelle negative come la vergogna e l’imbarazzo.

In uno studio successivo, sono state esaminate le valutazioni cognitive riguardanti le emozioni suscitate da eventi passati. Le valutazioni cognitive descrivono i pensieri e le interpretazioni della situazione (cioè la componente cognitiva) che genera tali emozioni. I partecipanti allo studio hanno valutato l’intensità di 32 emozioni (compresa la nostalgia) dopo aver ricordato e descritto un evento passato. Il posizionamento risultante della nostalgia mostra che essa è in qualche modo ambivalente, poiché situata tra le emozioni positive e negative (Van Tilburg et al., 2019).

Conclusioni

Dalla letteratura proposta si evince che la nostalgia ha una firma affettiva insolita in quanto aumenta contemporaneamente gli stati emotivi positivi e negativi. Ciò delinea il suo carattere agrodolce e, di conseguenza, la si potrebbe definire come un’emozione ambivalente.

Lutto e EMDR (2022) di Roger Solomon – Recensione

Roger Solomon accompagna il terapeuta nella concettualizzazione del caso in seguito a lutto, nella scelta accurata dei target EMDR e in generale nell’impostazione dell’intero trattamento.

 

 La perdita di una persona cara non è solo un momento di grande dolore, ma rappresenta la perdita di un pezzo di se stessi, di una parte del proprio mondo, del senso di equilibrio che la vita aveva fino a quell’istante.

Il nostro compito di terapeuti è accompagnare i pazienti attraverso questo difficile cammino, aiutarli ad adattarsi ai cambiamenti che la perdita inevitabilmente porta con sé e ricostruire il loro personale cosmo andato in frantumi.

In questo interessante volume Roger Solomon, esperto in EMDR di fama mondiale specializzato nel trauma e nel lutto, mostra come l’EMDR possa ancora una volta essere uno strumento prezioso per affrontare il trauma della perdita, facilitando i processi di assimilazione e adattamento, ristabilendo connessioni e aiutando il paziente nel passaggio “dall’amare in presenza all’amare in assenza” (p. 127) che caratterizza la risoluzione fisiologica del lutto.

Accompagnando spiegazioni chiare ed efficaci con molti esempi pratici di casi clinici, Solomon mette a disposizione del lettore la sua grande conoscenza ed esperienza, confermandosi ancora una volta non solo come abile clinico, ma anche come insegnante eccezionale, capace di presenza empatica e rassicurante tanto con i pazienti quanto con i terapeuti in formazione, anche attraverso queste pagine.

L’autore, infatti, guida con competenza e sensibilità il lettore nell’utilizzo dell’EMDR per aiutare i pazienti in lutto ad attraversare le emozioni intense e il difficile processo di elaborazione della perdita, integrando per questo scopo diverse cornici teoriche utili a orientare la concettualizzazione del caso e l’intervento clinico.

La terapia EMDR ha dimostrato in diversi studi la sua efficacia nel trattamento del lutto ed è particolarmente utile nel diminuire la carica emotiva dei ricordi negativi relativi alla persona amata, favorendo l’emergere di quelli positivi. L’EMDR non è una scorciatoia nel processo di elaborazione del lutto, ma si configura come una terapia “naturale”, nel senso che non toglie emozioni sane e appropriate, anche di sofferenza, ma favorisce il superamento di quegli ostacoli che possono complicare il lutto consentendo alla persona di viverlo con maggior senso di pace interiore e ritrovare un senso di connessione con il defunto.

La morte di una persona cara ha un impatto molto forte nella vita di un individuo e comporta reazioni intense e talvolta difficili da comprendere, anche per chi le sta vivendo. In questo passaggio delicato è importante essere accompagnati ad affrontare le varie fasi che il lutto comporta, dai primi momenti di shock, in cui non c’è bisogno di elaborare ma di interventi di primo soccorso psicologico che sorreggano e stabilizzino, prima di poter affrontare il vero impatto della perdita, attraverso la presa di coscienza, che può essere molto destabilizzante, fino alla riorganizzazione della relazione con la persona amata, trasformando il legame e adattandosi ai cambiamenti interni e di vita che la perdita ha generato.

In questo percorso sono molte le variabili che influenzano l’andamento del processo di elaborazione, secondo la natura della relazione, le circostanze della morte, la personalità, la storia di attaccamento e di sviluppo, la presenza o meno di rete sociale e altri elementi che possono rappresentare fattori protettivi o di rischio per un lutto traumatico o complicato.

Solomon analizza nel dettaglio tutti questi elementi, approfondendone gli intrecci e mostrando come la terapia EMDR sia uno strumento estremamente utile per identificare e sciogliere i nodi che impediscono la fisiologica risoluzione del lutto.

Uno degli elementi che sembra influire maggiormente nella reazione a una perdita è lo stile di attaccamento. Ed è proprio la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969) a rappresentare una delle cornici teoriche utilizzate dall’autore per comprendere meglio il processo del lutto e orientare la concettualizzazione del caso nella pianificazione dell’intervento.

Alla base di un lutto complicato e di blocchi nella sua elaborazione, infatti, ci sono frequentemente ricordi ed elementi legati a una storia di attaccamento insicuro o disorganizzato. La perdita della persona amata evoca la stessa reazione della separazione dal caregiver e innesca dunque risposte di iperattivazione o ipoattivazione, a seconda del tipo di adattamento che durante i primi anni di vita è stato necessario adottare in relazione allo stile del caregiver.

Durante il trattamento sarà pertanto necessario lavorare non solo sul trauma della perdita, ma anche sui ricordi infantili immagazzinati in maniera disadattiva che hanno portato allo sviluppo di uno stile di attaccamento insicuro o disorganizzato.

Obiettivo generale del trattamento non è il distacco dalla persona amata, ma la riorganizzazione e la trasformazione del legame: il rapporto non finisce, ma, facendo i conti con la realtà della morte fisica, si evolve verso un senso di connessione interiore. E’ infatti la “teoria dei continuing bonds” (Klass, Silverman, Nickman, 1996) il secondo modello teorico del lutto integrato da Roger Solomon nel suo trattamento del lutto.

Secondo questo modello il punto di arrivo del processo di lutto è appunto la formazione di un legame duraturo, lo sviluppo di una relazione interiorizzata col defunto che continua ad essere fonte di sicurezza e conforto e diventa parte integrante dell’identità della persona. In questo processo, l’EMDR, proprio per il suo essere “naturale”, promuove l’emergere e il consolidamento di questa nuova rappresentazione interna adattiva della persona amata. Non si tratta di una rappresentazione idealizzata, ma realistica, che integra aspetti positivi e negativi della relazione col defunto, facilitando la connessione di emozioni disturbanti con le informazioni adattive.

Per raggiungere questo nuovo sano adattamento alla perdita, la persona in lutto deve imparare a oscillare fra il tentativo di affrontare il dolore e il suo evitamento mentre si affrontano i compiti della vita quotidiana.

È il “Dual Process Model” di Stroebe e Schut (1999, 2010), che prevede appunto un alternarsi fra momenti cui si affronta la realtà della perdita e si attraversano le emozioni intense e dolorose che essa comporta (orientamento alla perdita – OP) e momenti in cui il dolore è messo temporaneamente da parte per concentrarsi sulle necessità di tutti i giorni e si cerca di ricostruire una vita senza la persona cara (orientamento alla risoluzione – OR). Solo quest’oscillazione, infatti, permette di affrontare adeguatamente il processo di lutto e di non rimanere bloccati nella negazione dell’impatto della perdita o in un infinito cordoglio senza risoluzione.

 Inquadrando il lavoro clinico in questa terza cornice teorica, Solomon rende bene evidente come i diversi stili di attaccamento e altri fattori predispongano alla prevalenza di uno o dell’altro orientamento e illustra dettagliatamente come identificare i target e impostare il trattamento con la terapia EMDR per accompagnare il paziente in quest’oscillazione e favorire l’adattamento alla perdita.

La quarta cornice teorica che Solomon introduce per inquadrare il lavoro sul lutto è il modello dei “processi R” di Rando (1993), che prevede 6 processi da attraversare per raggiungere un sano accomodamento del lutto.

Questi processi sono suddivisi in 3 fasi:

Fase I:

  • Riconoscere la realtà della perdita

Fase II:

  • Reagire alla separazione
  • Ricordare la persona amata e la relazione con lei
  • Rinunciare al vecchio legame di attaccamento e al precedente mondo di assunti

Fase III:

  • Riadattarsi in maniera adattiva al nuovo mondo dopo la perdita
  • Reinvestire

Concepiti non come passaggi rigidi e lineari, ma come processi da attraversare e riattraversare più volte durante l’elaborazione del lutto, sono un’ottima guida clinica per comprendere come la persona si muova in questo percorso e per individuare eventuali blocchi e ostacoli, su cui poi lavorare con l’EMDR per favorire un sano adattamento alla perdita.

Integrando questi modelli alla terapia EMDR e utilizzandoli come guida, Roger Solomon accompagna dunque il terapeuta nella concettualizzazione del caso, nella scelta accurata dei target e in generale nell’impostazione dell’intero trattamento, seguendo la classica impostazione a tre stadi dell’EMDR (passato – presente – futuro).

Grande attenzione è dedicata all’analisi di tutto ciò che può contribuire a bloccare il naturale processo del lutto, individuando nella storia del paziente, nelle caratteristiche contingenti della perdita e nel contesto, tutto ciò che può complicare il lutto, offrendo strategie efficaci e flessibili per affrontare questa sfida.

Corredando la spiegazione teorica di generosi e illuminanti esempi clinici e di alcune trascrizioni parziali di sedute in appendice, Solomon mostra come aiutare il paziente a reinvestire nella propria vita creando una nuova visione di sé e del mondo, non distaccandosi dalla persona cara, ma creando un nuovo legame, interno, capace di evolversi nel tempo e di continuare a offrire, se pure non più in presenza fisica, sicurezza e continuità.

Naturalmente far fronte a una perdita non richiede solamente l’elaborazione di ricordi negativi e il trattamento del lutto non si limita all’adattamento del protocollo standard. Ciò che emerge dal lavoro di Solomon, infatti, è quanto ancora una volta l’EMDR si presti in modo flessibile ad essere integrato in altri approcci, promuovendo un’impostazione al trattamento complessa, amalgamandosi con altri strumenti, non solo strettamente terapeutici, che favoriscono il naturale processo di lutto, come i memoriali, i rituali, le tecniche immaginative e le conversazioni immaginarie col defunto.

L’EMDR si conferma dunque paradigma di resilienza, in grado non solo di elaborare eventi traumatici, ma anche di favorire lo sviluppo di nuove abilità e risorse, un adattamento positivo e una crescita post-traumatica, permettendo alla persona in lutto di ricostruire il proprio mondo e far emergere nuove prospettive adattive.

 

Avere una relazione con un’intelligenza artificiale – Psicologia Digitale

I companion chatbot sono intelligenze artificiali che simulano un dialogo molto bene, sono disponibili 24 ore su 24, 7 giorni su 7, sono liberi da giudizi e puoi parlarci di qualsiasi cosa. Proprio come un amico, può aiutare a superare la solitudine o a esplorare emozioni e vissuti.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 39) Avere una relazione con un’intelligenza artificiale 

 

 I sistemi di intelligenza artificiale (IA) progettati per interagire con altri sistemi IA o con umani vengono chiamati robot sociali (social robots, SR). Ce ne sono di diversi tipi adatti a diversi scopi.

I robot sociali vengono utilizzati in molti contesti come, per esempio, i chatbot dei servizi clienti che forniscono informazioni su prodotti e servizi.

Negli ultimi anni sono stati sviluppati anche robot da compagnia, i companion robot (CRs), ovvero robot ideati per fare conversazione o migliorare le abilità sociali. La ricerca finora si è focalizzata principalmente sul rispondere a bisogni di cura di specifiche categorie come i più anziani o pazienti con disturbi dello spettro autistico (Sharkey & Sharkey, 2012; Coeckelbergh et al., 2016; Peca et al., 2016).

Si tratta di soggetti con delle fragilità relative soprattutto alle interazioni sociali. Ma i robot da compagnia non vengono utilizzati solo per questo. Esistono ad esempio i sexual robots (SexRs) che simulano interazioni di natura sessuale o, ancora, chatbot come Replika, che nascono principalmente per ‘parlare con qualcuno’ e riprodurre legami emotivi con l’utente.

Relazioni simulate

I companion chatbot vengono proposti come amici con cui “formare una vera connessione emotiva, condividere una risata con un’intelligenza artificiale così buona da sembrare quasi umana”, come recita la descrizione di Replika nell’app store.

Replika, come altre app simili (per citarne qualcuna: SimSimi o Anima), propongono di fare due chiacchiere con qualcuno che non ti giudica, con cui si può parlare di tutto, con qualcuno che ascolta e si interessa, come un caro amico o un partner con cui parlare e confrontarsi.

Replika è il companion chatbot più celebre e diffuso, è personalizzabile (si può scegliere un avatar 3D e dargli anche un nome) ed ha un sistema avanzato: può riconoscere le immagini e continuare la conversazione utilizzandole; supporta le chiamate vocali, quindi è possibile effettivamente “parlarci”; ha una modalità “realtà aumentata” che rende l’esperienza più realistica (infatti è disponibile oltre che negli app store e sul web anche per il visore Oculus).

Il rapporto con questo partner virtuale si alimenta e aggiorna ad ogni scambio: tutte le informazioni scambiate vengono memorizzate ed utilizzate in conversazioni successive. Questo gli consente di crearsi “una personalità” e “conoscere” quella dell’altro. Inoltre, nel corso del tempo si ottengono dei punti che servono per sbloccare interessi, tratti, vestiti o aspetto dell’”amico virtuale”, proprio come accade nei videogiochi.

Replika nasce nel 2017 con l’idea di fornire “un’amica solidale che sarebbe sempre stata lì”, con lo scopo in sostanza di poter dialogare. È con lo sviluppo di modelli di intelligenza artificiale generativa più raffinati che è diventato possibile conversare in maniera davvero realistica su qualsiasi argomento; ciò ha portato molti utenti a considerare l’avatar di Replika un vero e proprio partner con cui impegnarsi in relazioni romantiche.

Un partner digitale

In una certa misura, tutti noi abbiamo a che fare con intelligenze artificiali tutti i giorni, per esempio con gli assistenti digitali Siri o Alexa. In questi casì però per noi sono solo uno strumento che ci semplifica la vita svolgendo al posto nostro compiti più o meno semplici ma che ci annoiano o che non vogliamo fare. Non ci aspettiamo (e forse non vogliamo) che ci rispondano diversamente, per esempio facendoci a loro volta domande.

I companion chatbot simulano un dialogo e lo fanno molto bene. Sono disponibili 24 ore su 24, 7 giorni su 7, sono liberi da giudizi e puoi parlarci di qualsiasi cosa. Proprio come un amico, può aiutare a superare la solitudine o a esplorare emozioni e vissuti.

Il punto cruciale di queste tecnologie è che gli esiti del loro uso dipendono proprio dall’utilizzo che se ne fa. Utilizzare Replika, così come altri companion chatbot, può mitigare la solitudine in momenti difficili, aiutare a comprendere pensieri e sentimenti, gestire lo stress, migliorare il benessere mentale, ma anche aiutare a tenere traccia di progressi nella costruzione di nuove abilità o nella sperimentazione di altre, come quelle comunicative e relazionali.

Le giuste misure

Avere una relazione con un companion chatbot ricorda un film di dieci anni fa, “Her”, in cui il protagonista Theodore ha una relazione affettiva (e, con macchinosi tentativi, anche sessuale) con una intelligenza artificiale. Nel film anche un altro personaggio, Amy, intrattiene una relazione con una intelligenza artificiale. Quello che accomuna Theodore ed Amy è che vivono un momento di profonda crisi e sfiducia nelle relazioni e che entrambi danno il via a questo rapporto virtuale dopo una separazione sofferta e non ancora accettata. Altri personaggi – che hanno relazioni con umani – condannano o accettano di buon grado che l’amico sia innamorato di una intelligenza artificiale.

Il messaggio implicito è che una relazione con un robot è un ripiego, un rifugio, un immaginario riparo dalle sofferenze delle relazioni con umani.

Utilizzando Replika o app simili il rischio di sviluppare una relazione emotiva con un’app è reale. Perdendo di vista che, per quanto realistica possa essere, si tratta di una tecnologia e non di un essere umano dotato di empatia, emozioni, coscienza, ma delle capacità linguistiche per simularli.

App e non persone

La relazione con il social chatbot Replika è gratificante, ha un impatto positivo perché è vista come accogliente, comprensiva e non giudicante (Skjuve et al., 2021). Se all’inizio si è motivati dalla curiosità, dal giocare con qualcosa di nuovo, man mano che si è più coinvolti e impegnati nel dialogo aumentano la fiducia e l’investimento affettivo.

È plausibile pensare che la stessa Replika sia utilizzata da alcuni come un gioco, da altri come un strumento per sfogarsi, da qualcuno come sostituto di una vera e propria relazione. Si tratta però di una scelta dell’utente utilizzarlo come una sorta di mentore, di amico, di partner virtuale e prendere le giuste misure in una relazione che, in ogni caso, è con un’app e non con una persona. Andrebbe valutato caso per caso se questa scelta sia dettata da problematiche di natura clinica da rimandare all’intervento di un professionista.

L’auspicio è che chi sviluppa queste tecnologie rifletta su come individuare casi complessi e problematici di utenti che avrebbero bisogno di supporto e non solo di “condividere una risata”.

 

Quali sono le reazioni del terapeuta ai diversi disturbi di personalità?

Lo studio di Stefana e colleghi (2020) ha lo scopo di indagare l’associazione tra i disturbi di personalità dei pazienti e le reazioni emotive, cognitive e comportamentali degli psicoterapeuti. È utile esplorare questa tematica perché i terapeuti che lavorano con pazienti difficili possono avere un rifiuto verso i propri stati emotivi e così influenzare negativamente la psicoterapia (Yakeley et al., 2014).

Le reazioni del terapeuta e il fenomeno del controtransfert

 Quando si parla delle reazioni del terapeuta non è possibile non citare il controtransfert, fenomeno psicologico teorizzato da Freud nel 1909 per far riferimento alle difficoltà che l’analista incontra nella relazione con il paziente (Stefana, 2015). Freud, concependo l’analista come uno schermo opaco in cui il paziente proietta il suo mondo interno, adottò una visione monopersonale della relazione terapeutica. A partire dal 1940, però, la letteratura iniziò a diffondere una nuova visione del fenomeno in cui la soggettività e l’identità dell’analista sono inseparabili dall’essere una persona con sentimenti e pensieri che, inevitabilmente, vengono attivati nella terapia. Quest’idea diede una svolta verso una visione bipersonale della situazione terapeutica (Stefana, 2017), dove la relazione terapeuta-paziente gode di una maggiore enfasi. A progredire in questa direzione, infine, fu la definizione di controtransfert complementare (Epstein e Feiner, 1988), secondo cui il controtransfert rappresenterebbe tutte le reazioni del terapeuta che completano lo stile relazionale del paziente. Tali reazioni sarebbero il risultato delle proiezioni del paziente sul terapeuta, che reagirebbe in modi comunemente attesi da altre persone nella vita quotidiana del paziente. Il terapeuta, in questo senso, dovrebbe utilizzare queste reazioni per comprendere meglio le dinamiche relazionali del paziente e per non metterle in atto.

Lo studio di Stefana e colleghi (2020)

La letteratura è concorde nel riportare che i disturbi di personalità tendono ad evocare reazioni emotive più fastidiose e problematiche nei terapeuti (Bateman e Fonagy, 2006; Gabbard, 2009, 2014; Kernberg, 1975, 2004; McWilliams, 2011). Questi pazienti mostrerebbero dei pattern interpersonali ricorrenti che, nella relazione terapeutica, metterebbero a dura prova il clinico (Hopwood, 2018). Tuttavia, i risultati sono discordanti in merito a se e come i differenti disturbi di personalità scatenino reazioni differenti fra i terapeuti. Conoscere le reazioni di quelli che lavorano con pazienti difficili è importante dal momento in cui esse possono servire a comprendere il mondo psicologico del paziente e assumere così utilità diagnostica.

In questa direzione, Stefana e colleghi (2020) si sono posti lo scopo di fornire una valutazione complessiva delle associazioni fra i diversi disturbi di personalità e le reazioni emotive, cognitive e comportamentali dei terapeuti nel contesto della psicoterapia individuale. Ciò che è emerso dai risultati è una forte convergenza nel mostrare che i differenti funzionamenti di personalità suscitano reazioni diverse ma abbastanza coerenti fra tutti gli psicoterapeuti partecipanti. In particolare:

  • sono emerse associazioni tra il cluster A (caratterizzato da disturbi di personalità tipicamente eccentrici e bizzarri) e sentimenti di non apprezzamento e svalutazione da parte del terapeuta (Betan et al., 2005; Meehan et al., 2012);
  • sono emerse associazioni tra il cluster B (caratterizzato da disturbi di personalità tipicamente drammatici, emotivi e disregolati) e sentimenti di inadeguatezza, incompetenza, mancanza di speranza, ansia, desiderio di evitare il paziente o forti affetti negativi (come repulsione o risentimento) da parte del terapeuta (Betan et al., 2005; Tanzilli et al., 2017);
  • sono emerse associazioni tra il cluster C (caratterizzato da disturbi di personalità tipicamente ansiosi e fobici) e desiderio di protezione o affetti negativi da parte del terapeuta (Betan et al., 2005; Meehan et al., 2012).

 Questi risultati sono in accordo con quanto suggerito dalla letteratura clinica che afferma che i pazienti con disturbi di personalità appartenenti al cluster A o al cluster B tendono ad evocare reazioni emotive più problematiche nei terapeuti rispetto ai disturbi del cluster C (Gabbard, 2014; McWilliams, 2011). In generale, quindi, i risultati ottenuti sono concordi nel suggerire che i pazienti che condividono gli stessi disturbi di personalità (e che quindi condividono modi simili di sentire, pensare e comportarsi) tendono a scatenare reazioni cognitive, emotive e comportamentali specifiche e simili negli psicoterapeuti. Inoltre, queste associazioni sembrano essere indipendenti sia dalle caratteristiche non diagnostiche dei pazienti sia dagli approcci degli psicoterapeuti e dai loro anni di esperienza professionale. Ciò consente di ipotizzare l’esistenza di reazioni in qualche modo “oggettive” che costituiscono la risposta tipica del terapeuta al paziente sulla base dello specifico disturbo di personalità di quest’ultimo. Parallelamente, il riscontro di lievi differenze nelle reazioni ai pazienti con profili di personalità simili ha portato gli autori a ipotizzare anche l’esistenza di reazioni “soggettive”, in linea col concetto di controtransfert: tali reazioni, di fatto, si baserebbero più sulla storia di vita del singolo terapeuta e sulla qualità della formazione psicoterapeutica ricevuta.

Conclusioni

In conclusione, è possibile assumere che se le reazioni oggettive possono essere utili per comprendere i tratti di personalità del paziente e il suo impatto sugli altri, la gestione efficace delle reazioni soggettive (che può avvenire solo se il terapeuta è sufficientemente in grado di riconoscere e tollerare le sue vulnerabilità) può dirsi correlata a migliori risultati psicoterapeutici (Hayes et al., 2018). In questa direzione, future ricerche avranno il compito di indagare longitudinalmente il peso specifico degli elementi interconnessi della reazione del terapeuta (cioè, il soggettivo e l’oggettivo), considerando le caratteristiche professionali, personali e interpersonali sia del terapeuta che dei pazienti; solo così si avrà una migliore comprensione di ciò che è all’interno della reazione complessiva del terapeuta e del suo valore diagnostico e/o terapeutico (Stefana et al., 2020).

 

Albert Camus. L’inferno e la ragione (2023) di Domenico Canciani – Recensione

È apparso per Castelvecchi Editore un imponente volume dedicato alla vita e all’opera letteraria di Albert Camus, con l’accattivante e suggestivo sottotitolo: L’inferno e la ragione”.

 

 L’autore è Domenico Canciani, già docente di Lingua e cultura francese presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, con una proficua e seguita produzione editoriale. Negli anni, oggetto dei suoi studi sono state la storia intellettuale della Francia e del Maghreb nel XX secolo, con uno sguardo attento alle minoranze, ai conflitti linguistici e culturali, al confronto interreligioso. Inoltre, per anni ha approfondito e divulgato in Italia l’opera di Simone Weil, scrivendo numerosi saggi su di essa, tra cui “Simone Weil. Le Courage de penser” (Beauchesne, 2011), sintesi delle sue ricerche, che ha ricevuto il prestigioso Prix Biguet de l’Académie Française. Collabora regolarmente con i “Cahiers Simone Weil” e pubblica per lo più in francese e in italiano. I suoi lavori sono stati tradotti in tedesco, spagnolo e polacco.

Il volume è una poderosa biografia intellettuale e politica di Albert Camus, verso cui Canciani non nasconde la propria ammirazione. Tra i numerosi intellettuali politicamente attivi in Francia nel periodo tra le due grandi guerre mondiali, in una fase di straordinaria vivacità culturale, la sua predilezione va all’autore de “La peste”, anche per la singolarità della vicenda biografica che lo contraddistinse. Infatti, l’appartenenza originaria allo strato più povero della comunità francese d’Algeria ha accordato al suo impegno un’urgenza e un senso di responsabilità che altri intellettuali e scrittori, soprattutto parigini, non avrebbero potuto avere con lo stesso rigore e analoga intensità. Camus non ha mai evitato il confronto con il contesto coloniale dove si è formato, successivamente con la guerra d’Algeria, alla quale proverà a ribellarsi in ogni modo, ma anche con il terrorismo e con i totalitarismi derivati da iniziali idee di liberazione. Proprio la sua integrità morale con la schiettezza che lo caratterizzò, la coerenza tra le sue azioni e le sue idee, lo posero spesso in una posizione di sofferta solitudine, solo parzialmente attenuata dall’assegnazione del premio Nobel per la letteratura avvenuta nel 1957. In ogni caso, osserva Canciani, Camus non ha mai smesso di proclamarsi innanzitutto uno scrittore, impegnato con i suoi mezzi a realizzare opere d’arte capaci di assumere su di esse il peso delle vicende umane, a partire da quelle degli ultimi e dei più deboli. Come dirà proprio nel discorso di ringraziamento per il Nobel, il destino dell’artista è quello di chi, spinto a questa vocazione magari proprio perché inizialmente si sentiva diverso, deve imparare che può alimentare la propria arte solo riconoscendo la sua somiglianza con tutti gli esseri umani, non isolandosi e sottomettendosi alla verità più umile e universale. Un altro aspetto che rivela la profondità del suo pensiero, da attento conoscitore –tra gli altri– di Dostoevskij, è che per lui ogni rivolta storica ha in sé la possibilità di innalzarsi dal proprio piano naturale, ovvero quello delle lotte di emancipazione sociale, per poter giungere al piano metafisico, ove sono racchiuse le domande ineludibili sul significato del male.

Nel libro, la vita di Camus viene ricostruita con larga dovizia di particolari e risulta evidente il gran lavoro di ricerca che ha preceduto la stesura del testo. Oltre alle opere letterarie, sono state utilizzate  la consultazione della produzione giornalistica e anche le corrispondenze epistolari avute da Camus con altri intellettuali con cui si confrontò a lungo quali Jean Grenier, René Char, Jean Sénac e il nostro Nicola Chiaromonte, con cui vi fu amicizia e un fitto dialogo dal 1945. La ricchissima bibliografia è completata dalla sezione dedicata alle opere su Camus (biografie, testimonianze, monografie, saggi e articoli) e da un ulteriore settore, concernente gli scritti di autori che hanno interagito con lui o influenzarono il suo pensiero e il suo periodo storico, valutati pertinenti con gli scopi e la mole del presente lavoro.

 Il poderoso libro di quasi 400 pagine consta di 10 capitoli, oltre ad un preludio e un prologo, dedicati alle varie fasi della vita di Camus, dalle sue vicende private, alle sue amicizie, al suo impegno, alla sua ricca produzione scritta. Il primo capitolo è rivolto all’infanzia, vissuta vicino al mare a Belcourt, un quartiere povero di Algeri, dove prima la scuola e poi la scrittura gli consentirono un destino assai diverso da quello segnato per tanti suoi coetanei nella stessa condizione sociale. Mentre punto d’approdo conclusivo del volume è “Il primo uomo”, il romanzo incompiuto pubblicato postumo, in cui Camus ha voluto tutto ricapitolare recuperando la propria storia, quella dei piccoli coloni e dell’Algeria. Il manoscritto venne ritrovato sul luogo dell’incidente stradale che nel gennaio del 1960 costerà la vita allo scrittore, ad appena 47 anni, e verrà pubblicato per la prima volta in Francia, da Gallimard, nel 1994, a cura della figlia Catherine.

Mentre altri proprio oggi si dedicano alla riscoperta dell’attualità di Sartre, trovo particolarmente meritorio e giusto aver voluto fissare l’attenzione su un vero gigante del pensiero, la cui modernità ha contribuito a renderlo parzialmente incompreso. Sono certo che il lavoro di Canciani dedicato a Camus, un autore profondamente algerino e anche francese ma soprattutto universale, susciterà l’interesse sia degli specialisti che degli appassionati di storia culturale e politica del XX secolo, ricevendo il consenso che merita.

La paura dei clown: cos’è e come si sviluppa la coulrofobia

La coulrofobia è una paura persistente, anormale e irrazionale dei clown, solo di recente entrata nel dominio della ricerca scientifica.

 

 Se si pensa alla figura del clown, facciamo normalmente riferimento a figure amichevoli e di divertimento, spesso rappresentate da quelle che si possono trovare in un circo o ad una festa per bambini. Tuttavia, il comportamento imprevedibile mostrato dai clown, combinato con il loro aspetto stravagante, può mettere in agitazione il pubblico, tanto che per alcune persone rappresentano figure spaventose. In effetti, nel corso della storia, i clown hanno ricoperto un ruolo più ambiguo e multiforme rispetto al semplice intrattenitore. Alcuni studiosi (Bala, 2010; Durwin, 2004) ipotizzano che i clown e simili (ad es., buffoni e giullari) incarnino l’archetipo dell’imbroglione, una forza che cerca di bilanciare il bene e il male e che può quindi essere benevola o maligna apparentemente per capriccio. Esiste quindi incertezza sul potenziale del clown di essere in grado di nuocere oltre che affascinare.

Coulrofobia

Il termine coulrofobia indica una paura persistente, anormale e irrazionale dei clown e solo di recente questa fobia è entrata nel dominio della ricerca scientifica. Questo termine è composto da due parole e ha un’etimologia incerta: il prefisso “coulro” deriva dal greco antico (klobathrists) e significa “colui che va sui trampoli” che in questo caso è usato come sinonimo di clown. Il termine fobia deriva dal greco: φόβος, Phóbos, e significa “paura”. La fobia è una paura irrazionale ed eccessiva di un oggetto o di una situazione e appartiene a un tipo specifico di disturbo d’ansia: per essere diagnosticata è necessaria la presenza di alcuni criteri specifici. Esistono diversi tipi di fobia e la paura dei clown, tecnicamente nota come coulrofobia, non è specificatamente menzionata all’interno del DSM-5, ma può essere inserita all’interno della categoria “altro” di “Fobie specifiche” (American Psychiatric Association, 2013). Di seguito sono riportati alcuni dei criteri più frequenti mostrati dalle persone affette da fobia:

  • a) Paura marcata e persistente, eccessiva o irragionevole, provocata dalla presenza o dall’anticipazione di uno specifico oggetto o situazione;
  • b) L’esposizione allo stimolo fobico provoca quasi invariabilmente una risposta ansiosa immediata; nei bambini, l’ansia può essere espressa con pianto, scoppi d’ira, congelamento o attaccamento;
  • c) La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole; nei bambini, questa caratteristica potrebbe essere assente;
  • d) La/e situazione/i fobica/e viene evitata oppure viene sopportata con intensa ansia o angoscia.

Come si sviluppa la paura dei clown?

Un nuovo studio che indaga sulle origini della coulrofobia (o paura dei clown) ha rilevato che l’incertezza di intenti aggressivi, le influenze dei media e l’imprevedibilità del comportamento sono i fattori chiave di questa paura (Tyson et al., 2023). Nell’eziogenesi del disturbo prevalgono quindi due ipotesi specifiche: esperienze personali negative e influenza dei media.

Esperienze personali negative

Per alcuni, la coulrofobia è radicata in un’esperienza personale negativa con un clown, specialmente se avvenuta in giovane età. I clown sono intrattenitori vestiti con i tradizionali costumi e con un trucco esagerato. Da secoli sono parte integrante di eventi di intrattenimento, in particolare spettacoli circensi e feste per bambini. Sono tipicamente raffigurati come figure amichevoli di divertimento e commedia. Tuttavia, le esibizioni dei clown sono anche caratterizzate da comportamenti irregolari che possono facilmente spaventare.

Di solito, sono i bambini più piccoli a mostrare una maggiore paura. Per un bambino, infatti, il clown può essere una figura imponente e insolita. Molti bambini hanno paura di personaggi mascherati come, ad esempio, Babbo Natale e possono sviluppare paura dei clown dopo aver vissuto una situazione drammatica con un clown. Tra queste situazioni troviamo il convincere insistentemente un bambino timido a partecipare a un trucco magico o avvicinarsi troppo velocemente creando ansia.

Gli abiti e gli oggetti di scena del clown tendono ad amplificare i tratti del viso e parti del corpo come mani e piedi: questi elementi modificati possono apparire mostruosi. I clown sono personaggi colorati e divertenti che sorridono costantemente, il viso bianco e il grande sorriso sono le caratteristiche che possono spaventare di più i bambini. La maschera o il trucco del clown serve a nascondere la vera identità del soggetto dietro un volto dipinto ed è proprio a causa del trucco pesante che appaiono strani e diversi dal viso normale. Dai 3 anni, i bambini sviluppano delle paure legate alla crescita, tra queste la paura dell’estraneo e l’angoscia della separazione sono quelle più presenti: per questo l’espressione esagerata del clown è anormale per i bambini e può fare molta paura. Per prevenire questa paura, e per adattare la sua arte al pubblico più giovane, il clown dovrebbe adottare precauzioni specifiche: essere ben rasato, usare un trucco leggero e utilizzare colori più chiari e non creare volti dipinti che possono sembrare tristi o spaventosi.

Influenza dei media

 Nel corso degli anni c’è stato un numero crescente di film con clown malvagi. Per questo motivo, anche i bambini che non sono esposti direttamente ai clown imparano ad esserne spaventati (Cantor, 2004). In questi film i personaggi dei clown sono spesso orribili e spaventosi e guardando questi film i bambini potrebbero sviluppare una fobia specifica. Basti pensare che facendo una semplice ricerca utilizzando le parole “clown”, “horror”, e “film”, ha portato a un elenco di “21 film horror di clown spaventosi” (Tyson et al., 2023). Secondo Stott (2012), lo sviluppo del clown in una figura apertamente malvagia iniziò verso la fine del XIX secolo, forse in modo più evidente nell’opera “Pagliacci” del 1892, in cui il personaggio centrale, Canio, uccide sua moglie e il suo amante mentre è vestito da pagliaccio. Da queste prime rappresentazioni emerge il carattere moderno dei “pagliacci assassini”, come il clown Pennywise, il famoso personaggio del romanzo di Stephen King “It” (1986) e dai successivi adattamenti cinematografici e televisivi. Tali sinistri clown ora abbondano nella cultura popolare: esempi importanti includono la bambola pagliaccio posseduta nel film Poltergeist (Hooper,1982) e la nemesi di Batman, Joker.

Questi personaggi di fantasia hanno avuto controparti nella vita reale, quali ad esempio il serial killer John Wayne Gacy soprannominato il “Killer Clown”, che ha rapito, torturato e ucciso 33 vittime. Il nome con cui è diventato noto questo serial killer deriva dal fatto che si procurava le sue vittime dopo aver intrattenuto i bambini durante feste di compleanno, vestendo i panni del “Clown Pogo”.

Ricerca scientifica sulla fobia dei clown

Al momento attuale gli studi che affrontano il tema della fobia dei clown sono scarsi, ma stanno aumentando negli ultimi anni. Un recente studio è stato condotto per indagare la frequenza della paura dei clown in un campione di 987 adulti composto da 790 femmine e 197 maschi, di età compresa tra i 18 e i 77 anni. Di questi, il 27,6% del campione (n=272) ha riferito di avere paura dei clown, con 50 soggetti (5,1%) che hanno valutato questa paura come estrema. Una maggiore prevalenza della paura dei clown è stata riscontrata per le femmine rispetto ai maschi (29,6 vs. 19,3%) e con una gravità maggiore (Tyson et al., 2022).

Un altro studio, condotto in Israele, analizzando in particolare la paura dei clown dottori nei bambini ricoverati (Meiri et al., 2017), ha riferito che dei 1160 bambini partecipanti allo studio, solo 14 bambini (1,2%) hanno sperimentato la paura dei clown durante il loro intervento in ospedale. L’età media dei bambini che hanno riferito paura dei clown era di 3,5 anni, per la maggior parte di sesso femminile (85,7%). Gli autori hanno ipotizzato che una frequenza così bassa possa essere dovuta alla competenze psicologiche e artistiche dei clown dottori, che tendono ad utilizzare un trucco leggero e a relazionarsi in maniera adeguata e attenta allo stato emotivo dei pazienti ricoverati.

Recentemente è stato pubblicato un nuovo studio che ha indagato le possibili le origini della coulrofobia e che ha coinvolto 528 persone, per lo più dal Regno Unito. L’età media dei partecipanti era di 28 anni, prevalentemente di genere femminile (85%) (Tyson et al., 2023). Inoltre, gli autori hanno voluto testare una nuova scala per valutare la coulrofobia ed esaminare le differenze di genere ed età. I partecipanti hanno quindi completato il questionario Origin of Fear of Clowns (OFCQ) creato per valutare specifiche variabili importanti nell’eziologia di questa fobia quali gli aspetti legati alla fisicità dei clown (“Penso che i clown sembrino inquietanti”) e ai segnali emotivi nascosti (“Non riesco a leggere l’espressione facciale di un clown”). Il questionario valuta, inoltre, anche aspetti legati al comportamento imprevedibile dei clown (“Temo che un clown farà qualcosa di inaspettato”), quelli basati su rappresentazioni nei media (“Ho visto scene spaventose in film che coinvolgono clown”) e la generale tendenza ad avere reazioni fisiologiche quando si incontrano queste figure (“Sento il mio cuore battere forte quando vedo un clown”).

I risultati di questo studio evidenziano come i fattori che contribuiscono maggiormente alla paura dei clown siano i segnali emotivi nascosti e le rappresentazioni negative dei media. In maniera inaspettata, i partecipanti hanno riportato che la fobia dei clown è solo marginalmente associata all’aver vissuto un’esperienza diretta spaventosa con un clown. Questi dati mostrano che il condizionamento semplice e diretto da solo è una spiegazione insufficiente per spiegare l’eziologia della paura dei clown nella maggior parte degli individui. Le differenze tra maschi e femmine nel questionario erano marginali e sono scomparse quando sono stati introdotti ulteriori controlli statistici nelle analisi. I partecipanti più anziani hanno riportato una preoccupazione leggermente maggiore per i segnali emotivi nascosti dei clown rispetto ai partecipanti più giovani. Tuttavia, nonostante lo studio abbia fatto luce su un fenomeno raramente indagato, non è stato ancora chiarito il livello di paura associato a ciascuna categoria di origine. Inoltre, visto che la maggior parte dei partecipanti era di sesso femminile, i risultati sui maschi potrebbero non essere gli stessi.

 

Affetti e relazioni nell’infanzia. La socialità nei contesti 0-6 (2023) – Recensione

Il libro di Emma Baumgartner “Affetti e relazioni nell’infanzia. La socialità̀ nei contesti 0-6” edito da Carrocci esplora il tema dell’affettività e delle relazioni sociali nei servizi per l’infanzia in un percorso di analisi che pone in relazione la ricerca in psicologia dello sviluppo e l’esperienza degli educatori e docenti che accolgono e si prendono cura dei bambini nei nidi e nelle scuole dell’infanzia.

 

 Una proposta teorica che intende offrire modelli e spunti in grado di guidare e orientare il lavoro educativo nei servizi educativi sul tema degli affetti e delle relazioni. Il focus di osservazione sono le molteplici relazioni che si sviluppano nei diversi momenti della giornata dei servizi educativi dall’accoglienza, al rapporto con le educatrici, con il gruppo e i pari, dai momenti della cura, a quelli di esplorazione e gioco prestando attenzione anche a quelle verso i bambini con bisogni speciali e con background migratorio.

La finalità dell’autrice è di accompagnare il lettore in un percorso di conoscenza e riflessione attraverso tre parole chiave: “osservare”, “riflettere” e “restituire”, che dovrebbero guidare il lavoro educativo e che rappresentano anche la struttura della riflessione pedagogica in ogni ambito e livello di lavoro, da quello con i bambini, con il gruppo, a quello con le famiglie.

A partire da questa premessa, il libro sviluppa il tema dell’affettività e della socialità del bambino nei contesti educativi in sette capitoli che esplorano le diverse esperienze e sfaccettature relazionali.

Il primo capitolo affronta l’affascinante tema degli affetti nella prima infanzia: il punto da cui si muove la riflessione pone in relazione l’affettività, le prime interazioni sociali anche attraverso l’esperienza motoria, sino al significato e alla funzione del legame di attaccamento nei servizi per l’infanzia. Centrale è l’analisi del ruolo dell’adulto in particolare nelle situazioni di cura in funzione della prospettiva dell’attaccamento, passaggio decisivo rispetto al tema della persona di riferimento al nido e nella scuola dell’infanzia.

Il secondo capitolo presenta il concetto delle cornici di interazione dagli “affetti consapevoli sé-altro”, alla matrice interpersonale della soggettività descrivendo le prime interazioni sociali del bambino nella relazione con la madre come i processi che fondano l’esperienza dello sviluppo di sé come persona. Analizza il fenomeno del “dice che” nell’ambito della relazione madre e bambino durante l’allattamento, ovvero il modo in cui il caregiver entra in relazione con il bambino come una persona dotata di intenzionalità. In particolare, si evidenzia la capacità della madre di comprendere il suo stato, di denominarlo (“è stanco”, “vuole mangiare”), di adattarsi al suo ritmo di suzione creando, di fatto, “la grammatica della comunicazione umana”. In questi scambi relazionali il caregiver è in grado di agganciare il bambino e di iniziare un dialogo attraverso le “preziose parole senza senso”. Successivamente, l’autrice analizza la relazione tra adulti e bambini e in particolare il ruolo di predisporre una cornice di allevamento che il bambino riconosce nella sua esperienza e che rappresenta un patto implicito.

Il terzo capitolo affronta il tema del linguaggio degli adulti nella delicata processualità che coinvolge le parole con e sui bambini: un tema interessante e molto importante nella formazione del bambino, dall’affettività e alla socialità, che spesso non viene osservato, rilevato e monitorato.

Il quarto capitolo entra nel merito della qualità della relazione con l’adulto nei servizi 0-6, con un’attenzione particolare alla scuola dell’infanzia. L’osservazione e l’esperienza dimostrano la centralità di una relazione educativa per sostenere il bambino nell’esplorazione dell’ambiente fisico e sociale. L’analisi delle relazioni tra insegnante e bambino nella scuola dell’infanzia conduce alla definizione delle diverse dimensioni di qualità affettiva, dalla dimensione del supporto, alla dimensione del conflitto, alla dimensione della dipendenza. L’autrice si addentra nei criteri per la valutazione della qualità affettiva della relazione insegnante-bambino passando dall’analisi dell’osservazione “Con gli occhi dell’insegnante“ e “Con gli occhi dei bambini”.

 Si prosegue nel quinto capitolo ad analizzare le relazioni sociali tra i bambini esplorando i comportamenti e le relazioni che si creano tra i bambini: ecco che il gruppo di pari si presenta come un luogo relazionale in cui sono connessi processi relazionali multipli, quelli propriamente di imitazione, di riconoscimento reciproco, di condivisione, di conflitto, di segregazione di genere nelle diverse connotazioni possibili.

È da questa riflessione che si entra nel tema della sensibilità interpersonale presentata nel sesto capitolo dove si affronta il comportamento di gentilezza, della premurosità e della sensibilità interpersonale, sino alla descrizione delle azioni e di interventi di potenziamento socio-affettivo.

Nel settimo capitolo si presenta il tema della cura verso i bambini con bisogni speciali o con esperienza di migrazione, analizzando anche le esperienze e gli studi sperimentali che dimostrano come il bambino percepisce le diversità ed è in grado di adattare il proprio comportamento sociale. Un tema chiave in funzione delle relazioni con i bambini con bisogni speciali sino al confronto con la disabilità, le diversità culturali e tutti i processi legati all’inclusione e interculturalità.

Al termine del libro l’autrice propone un’appendice rivolta a presentare alcune indicazioni per l’osservazione e per la riflessione-apprendimento per la propria esperienza di adulto “educante”, nello sforzo di osservare la realtà anche dal punto di vista dei bambini. Un approccio che consente di osservare e focalizzare l’attenzione non solo sul comportamento del bambino ma anche sul suo mondo interno. L’autrice propone uno schema che riprende il format del “diario” libero, aperto a racconti, annotazioni senza alcuna finalità di esaustività o di controllo in categorie, se non l’indicazione procedurale di definizione del tempo e dello spazio (situazione, data e ora). A questo punto l’autrice presenta i diversi punti dell’osservazione che possono essere riportati nel diario e che rappresentano uno schema guida, note metodologiche su come iniziare un diario: il primo anno di vita, gli anni a seguire (relazioni sociali, affetti, attività motoria, parole, esplorare, abitare lo spazio, tempi, ritmi e attenzione, gioco simbolico e tecnologie).

Un excursus teorico ed esperienziale che sollecita continuamente a un lavoro di conoscenza, apprendimento e riflessione, consolidando i modelli di osservazione e analisi del comportamento del bambino nei diversi livelli e ambiti relazionali con il bambino, il gruppo e le famiglie.

 

Tratti della Triade Oscura e infedeltà

Alcuni studi empirici (Brewer et al., 2015; Jones & Weiser, 2014), esaminando i tratti di personalità della Triade Oscura, hanno riportato delle associazioni tra questi ultimi e l’infedeltà.

L’infedeltà

 L’infedeltà, includendo differenti tipologie di comportamenti, dai flirt agli atti sessuali, ha un range di variabilità molto ampio; infatti, la prevalenza di relazioni che riportano atti di infedeltà si stima che vada dal 20 al 70% (Birnbaum et al., 2019) ed è stato riportato che alcune persone sono più inclini, rispetto ad altre, a commettere tradimenti (Urganci & Sevi, 2019).

Ci sono vari fattori che si sono mostrati avere delle associazioni con questa propensione, tra cui l’esposizione all’infedeltà genitoriale, lo stile di attaccamento e il numero di partner avuti prima del matrimonio (DeWall et al., 2011; Fincham & May, 2017). Inoltre, è stato osservato che la personalità e l’interazione della personalità con le altre variabili hanno un’influenza sull’attuazione di questi comportamenti. Numerosi sono gli studi che mettono in relazione i Big-Five, ossia i cinque grandi fattori della personalità (estroversione, amicalità, coscienziosità, nevroticismo e apertura all’esperienza) con la tendenza all’infedeltà. Per esempio, alti livelli di nevroticismo (ovvero la tendenza a vulnerabilità e instabilità emotiva) assieme a bassi livelli di amicalità (la tendenza alla cortesia, all’altruismo e alla cooperatività) sembrano predire l’infedeltà motivata dalla rabbia; mentre bassi livelli di coscienziosità (ovvero la tendenza alla scrupolosità, alla affidabilità ed alla autodisciplina) assieme a bassi livelli di amicalità sono stati associati a minor soddisfazione matrimoniale, collegata ad un alta probabilità di relazioni extraconiugali (Shackelford et al., 2008).

La triade oscura

Oltre ai Big-Five, negli studi sui fattori che potrebbero predisporre all’infedeltà, sono stati analizzati anche i tratti di personalità caratteristici della Triade Oscura, tre tratti tra loro collegati, ma concettualmente distinti uno dall’altro, ovvero: Machiavellismo, Narcisismo e Psicopatia (Paulhus & Williams, 2002).

Nello specifico, il Machiavellismo fa riferimento al tratto patologico della “manipolatorietà” (APA, 2013), che porta gli individui ad utilizzare qualsiasi mezzo ed escamotage (seduzione, fascino, lamentele) per controllare ed avere un effetto sugli altri, con l’unico scopo di soddisfare i propri fini. Il tratto Narcisistico, invece, si riferisce ad individui con sentimenti di grandiosità verso se stessi, che sono in costante ricerca di attenzione e che possono mancare di empatia. L’ultimo, il tratto della Psicopatia, è caratteristico degli individui che hanno una marcata difficoltà nel rispettare ogni forma di regola sancita dalla legge o dagli individui della società di riferimento; spesso non riescono a provare empatia verso gli altri, mostrandosi anche insensibili e agendo impulsivamente ed irresponsabilmente senza preoccuparsi degli altri individui (APA, 2013).

 

Triade oscura e infedeltà

Alcuni studi empirici (Brewer et al., 2015; Jones & Weiser, 2014), esaminando i tratti di personalità della Triade Oscura, hanno riportato delle associazioni tra questi ultimi e l’infedeltà.

Per quanto concerne la Triade Oscura in letteratura sono presenti numerosi studi riguardo all’argomento, ma non si sa molto rispetto al lato benevolo della personalità. A questo proposito, è stato creato un test per la valutazione dei tratti considerati “benevoli” che sono risultati essere associati a differenti aspetti positivi quali compassione, empatia, entusiasmo positivo, maggior soddisfazione nelle relazioni e maggior qualità e soddisfazione di vita. Questi tratti sono stati raggruppati sotto il nome di Triade Chiara (Kaufman et al., 2019) e comprendono: il “kantismo”, ovvero il trattare gli altri in modo fine a sé stesso e non come mezzo per il raggiungimento di un obiettivo; “l’umanesimo”, riguarda la valorizzazione della dignità e del valore di ogni persona; la “fede nell’umanità”, consiste nell’accettazione degli altri e nella credenza nella benevolenza degli esseri umani.

Lo studio di Sevi e colleghi (2020) ha voluto osservare la relazione tra infedeltà e tratti della Triade Oscura e della Triade Chiara.

Uno studio su infedeltà, Triade Oscura e Triade Chiara

 Coerentemente con studi condotti precedentemente (per esempio, Brewer et al., 2015; Jones & Weiser, 2014), dallo studio di Sevi et al., 2020 è emerso che gli individui che risultavano avere alti livelli nei tratti di personalità della Triade Oscura, riportavano anche un atteggiamento e comportamenti più positivi nei confronti dell’infedeltà; in particolare, la psicopatia si è mostrata essere il tratto più fortemente associato ad un numero maggiore di rapporti extraconiugali; la mancanza di empatia e di preoccupazione nei confronti degli altri, l’insensibilità, la ricerca del brivido e l’impulsività potrebbero portare gli individui con alti livelli di psicopatia ad attuare atteggiamenti più permissivi nei confronti del tradimento.

Rispetto alla Triade Chiara, i risultati sono andati in direzione opposta. Infatti, gli individui con alti livelli nei tratti di personalità della Triade Chiara hanno mostrato posizioni meno positive nei confronti del tradimento; per quanto riguarda i comportamenti di infedeltà, invece, solo gli alti livelli di kantismo sono risultati essere associati a minori atti di tradimento. Questi risultati sarebbero in linea con un precedente studio (Sevi & Doğruyol, 2020) che ha osservato l’associazione tra il tratto del kantismo e una minore motivazione ad usare le app di incontri online per i rapporti a breve termine. Questo potrebbe essere dovuto dal fatto che questo tratto è caratterizzato da elementi della personalità che implicano l’essere onesti e autentici nelle interazioni con gli altri senza manipolarli.

Lo studio (Sevi et al., 2020), inoltre, ha riportato che gli atteggiamenti (positivi o negativi) verso l’infedeltà risultavano predire un maggior numero di comportamenti di tradimento, coerentemente ai risultati di un’altra ricerca (Toplu-Demirtaş & Fincham, 2018).

Nel complesso, lo studio di Sevi e collaboratori (2020) ha mostrato la rilevanza sia dei tratti oscuri che di quelli chiari nel determinare il tipo di atteggiamento verso l’infedeltà, mentre per quanto riguarda i comportamenti concreti, solo la psicopatia si è mostrata essere rilevante. Questi dati risultano avere importanti implicazioni pratiche per i clinici che si occupano di psicoterapia di coppia e che lavorano con gli effetti dannosi dell’infedeltà sulle relazioni sentimentali. Sarebbero necessarie ulteriori ricerche con un maggior numero di partecipanti che prendano in considerazione le differenze di genere o le caratteristiche delle relazioni per una valutazione più accurata delle relazioni tra tratti di personalità e tradimento.

Le terapie digitali per la cura della depressione nel Servizio Sanitario Nazionale

“Oggi l’innovazione digitale può aiutare il Servizio Sanitario Nazionale a rispondere ai crescenti bisogni di salute della popolazione, abilitando nuove potenzialità terapeutiche e modelli di cura”.

Segue un approfondimento sulle Digital Therapeutics.

Cosa sono le Digital Therapeutics (DTx)?

 All’interno dell’innovativo ambito della sanità digitale si trovano soluzioni mediche digitali che riguardano anche la cura delle malattie mentali, per esempio l’internet-based CBT (i-CBT).

L’acronimo Dtx deriva dal termine inglese “Digital Therapeutics”, che descrive le terapie digitali, ovvero tutte quelle terapie effettuate tramite programmi software di alta qualità, supportati da evidenze scientifiche e cliniche. L’azione terapeutica erogata dalle DTx è riconducibile ad approcci di tipo cognitivo comportamentale e psico-educativo. Questi programmi web-based vengono utilizzati per trattare, gestire o prevenire disturbi -in questo caso- mentali. Le DTx possono essere usate sia in maniera indipendente, sia combinandole con farmaci sia con altre terapie.

In base alle normative locali e regionali, le digital therapeutics sono certificate come dispositivi medici, ovvero strumenti di vario tipo che possono essere utilizzati sia in ambito clinico, per diagnosi, terapia, controllo e attenuazione della malattia, sia in ambito di ricerca.

Il Panel

Recentemente Healthware Group ha pubblicato l’esito del panel di esperti multistakeholder, ovvero un gruppo di analisi e discussione sul tema del potenziamento dei processi di cura per la depressione nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN) con le digital therapeutics composto da rappresentanti dei diversi attori coinvolti in questi percorsi. Il panel ha coinvolto esperti in economia sanitaria, sanità digitale, psichiatri, psicologi, infermieri, nonché un paziente, anch’esso preparato in materia. Gli esperti hanno analizzato la letteratura scientifica in merito alle terapie digitali, formulato e votato le cinque proposte migliori per l’integrazione delle DTx a potenziamento del consueto processo di cura della depressione in Italia.

Le motivazioni

Il tema affrontato risulta rilevante principalmente per due ragioni: l’impatto socioeconomico della depressione e la parziale risposta del Servizio Sanitario Nazionale al crescente bisogno di cura della popolazione.

In Italia, sono oltre 3 milioni le persone che soffrono di depressione, sono circa 4 miliardi di euro l’anno dovuti alla perdita della produttività per la depressione, è pari al 3,3% del PIL l’impatto dei costi diretti e indiretti della depressione.

Nonostante questi dati, solo il 3% del fondo sanitario nazionale è destinato alla salute mentale, sebbene per i paesi ad alto reddito il target stimato sia del 10% (OECD, 2021). Date le carenze economiche e di personale, si stima che il Servizio Sanitario Nazionale potrebbe soddisfare solo il 20% del fabbisogno stimato delle richieste di cura per ansia e depressione. Oltre al fatto che ci sono numerose criticità lungo i percorsi di cura.

Di seguito capiremo le criticità dei processi clinici-organizzativi e le potenzialità delle DTx.

I percorsi di cura per la depressione nel Servizio Sanitario Nazionale: struttura e criticità

Il panel di esperti ha individuato quattro momenti principali rispetto al percorso di cura per la depressione.

  • Consapevolezza & Accesso: momento in cui la persona diventa consapevole del bisogno di aiuto e accede ad un servizio sanitario, spesso rivolgendosi al Medico di Medicina Generale o ai Centri di Salute Mentale.
  • Diagnosi & Referral: il paziente viene indirizzato al servizio specialistico di salute adeguato, dove viene formulata la diagnosi. Se si tratta di diagnosi di depressione, vengono distinti tre livelli di gravità: lieve, moderata o severa.
  • Trattamento: seguendo un approccio Stepped Care, come da Indicazioni Nazionali, viene quindi erogato in prima linea il trattamento più efficace ed appropriato. Secondo le più recenti linee guida internazionali e consensus nazionale, nella fase di trattamento è possibile integrare anche interventi erogati digitalmente.
  • Monitoraggio & Follow-up: la terapia continua con visite meno frequenti per monitorare l’andamento dei progressi e intervenire precocemente in caso di ricadute.

All’interno del percorso di cura così delineato, sono stati individuati dieci punti critici che necessitano di miglioramenti.

  • Barriere e diseguaglianze al primo accesso, legate alla scarsa consapevolezza del proprio stato di salute, alla disinformazione e al timore dello stigma. Barriere economiche e strutturali, come differenze geografiche in termini di disponibilità dei servizi sul territorio e liste d’attesa. Tutti questi aspetti comportano una latenza significativa per l’accesso, che spesso determina un peggioramento dei sintomi. Infatti, solo il 40% circa delle persone con sintomi si rivolge a professionisti sanitari.
  • Bassa integrazione tra cure primarie e servizi specialistici, dati i canali di comunicazione frammentati, che ritardano o limitano l’accuratezza della diagnosi e dell’intervento terapeutico e riabilitativo.
  • Barriere e diseguaglianze all’accesso alla terapia, di tipo strutturale ed economico, socio-culturale e cognitivo.
  • Latenza fra diagnosi e trattamento: spesso si registra un arco di tempo troppo ampio tra il momento della diagnosi e l’inizio del trattamento.
  • Il trattamento somministrato non corrisponde al più appropriato. Infatti, solo l’8% dei pazienti che accedono ai servizi pubblici di salute mentale per depressione ricevono una psicoterapia; inoltre, spesso l’intervento è esclusivamente farmacologico.
  • Limitata capacity di erogazione della psicoterapia: il Servizio Sanitario Nazionale non riesce a soddisfare la richiesta di cure mediche.
  • Limitata continuità e personalizzazione terapeutica: difficoltà di accedere alle cure con continuità e ad un trattamento multidisciplinare da parte del paziente.
  • Difficoltà di monitoraggio e di intervento di precisione.
  • Limitato accompagnamento all’autonomia del paziente.
  • Frammentazione dei servizi e barriere all’accesso a visite di follow-up.

Potenzialità delle digital therapeutics

Le innovazioni di salute digitale possono permettere una presa in carico del paziente più integrata, continua, accessibile e personalizzata.

 Da diversi anni le più importanti linee guida internazionali (per esempio, NICE, APA), sulla base delle evidenze scientifiche, hanno raccomandato l’uso delle DTx per il trattamento e la gestione della depressione. In Italia, la recente consensus conference organizzata dall’Istituto Superiore di Sanità ha sottolineato l’importanza di implementare le nuove tecnologie nei percorsi di cura per i disturbi depressivi, soprattutto nelle situazioni lievi e nei primi livelli dello Stepped Care.

Alla luce delle raccomandazioni internazionali, alcuni paesi europei come la Germania, il Belgio, la Francia e l’Inghilterra hanno approvato o stanno elaborando soluzioni terapeutiche digitali anche per la salute mentale, prescrivibili e rimborsabili in varia misura. Ad oggi, in Italia non sono stati ancora elaborati percorsi di cura rimborsabili di tipo digitale.

Gli esperti, sulla base delle evidenze e raccomandazioni scientifiche, ritengono che l’impiego delle DTx potrebbe potenziare il processo di presa in carico e cura della depressione nel Servizio Sanitario Nazionale, nei termini di migliorare l’efficacia, l’accessibilità, l’esperienza del paziente e dell’operatore sanitario e l’efficienza.

Le proposte degli esperti

Considerando le evidenze scientifiche e i bisogni del Servizio Sanitario Nazionale, le proposte che gli esperti hanno discusso e votato per l’integrazione delle DTx a potenziamento degli interventi nel contesto del Servizio Sanitario Nazionale riguardano il trattamento della depressione lieve, moderata e severa, nonché la forme di depressione sottosoglia e l’attività di prevenzione delle ricadute.

Il panel di esperti ha prodotto lo schema che segue, rappresentativo delle fasi del percorso di cura in cui le DTx sarebbe auspicabile venissero integrate.

Digital Therapeutics terapie digitali per la cura della depressione nel SSN - Imm. 1

Il panel di esperti ha poi considerato il caso deprexis per stabilire un possibile flusso clinico-organizzativo per l’integrazione delle DTx nei percorsi di cura per la depressione nel contesto del Servizio Sanitario Nazionale, con l’obiettivo di massimizzare l’efficacia, l’appropriatezza clinica e l’esperienza di cura.

Deprexis è una terapia digitale evidence based per il trattamento della depressione, è già adottata in alcuni paesi come Germania, Francia, Inghilterra e USA. Si tratta di un software accessibile tramite connessione internet e si basa su interventi validati di terapia cognitivo-comportamentale e altri approcci terapeutici, come la psicologia positiva, erogati tramite dieci moduli, disponibili al paziente per tre mesi. In aggiunta, fornisce esercizi e attività giornaliere per supportare il progresso del paziente. Integrando un questionario validato e compilabile per la valutazione dell’intensità della depressione (il PHQ-9) supporta il monitoraggio della malattia e della progressione terapeutica.

La possibilità di accedere ad una terapia digitale, raccomandano gli esperti, deve essere valutata e concordata tra medico e paziente, a seguito di accurata e specifica diagnosi di depressione maggiore (lieve, moderata o grave). Il clinico deve prestare particolare attenzione al livello di autonomia e di motivazione del paziente; appurando anche l’idoneità delle condizioni tecnologiche di cui il paziente dispone e la capacità di utilizzare lo strumento digitale. Un volta valutata l’idoneità all’utilizzo della DTx, quest’ultima potrà essere prescritta tramite ricetta medica e di conseguenza scaricata, per esempio, tramite portale Nazionale/Regionale. Successivamente sarà necessaria un’informazione e formazione all’utilizzo della DTx e una pianificazione della sua integrazione al piano terapeutico consueto. L’utilizzo della DTx potrebbe accompagnare il paziente verso una maggiore autonomia e, eventualmente, ridurre la necessità dell’intervento dell’operatore sanitario. L’adozione della DTx potrebbe permettere anche l’identificazione precoce di eventuali ricadute tramite il monitoraggio regolare dei sintomi e la valutazione dei progressi terapeutici.

Conclusioni

Visto l’impatto sociosanitario della depressione in Italia, viste le criticità dei flussi di clinici-organizzativi nel Servizio Sanitario Nazionale, visti i vantaggi dell’integrazione di terapie digitali, raccomandate dalle più autorevoli linee guida nazionali ed internazionali, sostenute da un crescente corpo di ricerca, e già applicate in altri paesi, “diventa fondamentale delineare anche in Italia un percorso regolatorio e criteri di valutazione, accesso e rimborso che permettano la selezione e l’adozione delle DTx in modo adeguato, equo e tempestivo” (Spreafico et al., 2023, p. 18).

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