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La presa in carico globale della persona con ADHD

Nel trattamento dell'ADHD bisogna sempre concepire una rete complessa di interventi, ricalibrati di volta in volta sull’unicità irripetibile della persona

Di Francesco Luigi Gallo

Pubblicato il 07 Mar. 2023

Aggiornato il 10 Mar. 2023 12:26

Ogni educatore, pedagogista o insegnante dovrebbe determinare accuratamente tutti quei fattori fisici ostacolanti o facilitanti che influiscono in qualche modo nelle attività e, in generale, nella vita della persona con ADHD.

 

Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD)

 Il principio cardine dell’antropologia filosofica (e in generale di tutte le discipline che si occupano dell’uomo) prevede di prendere in considerazione, in ottica sistemica, l’essere umano considerato in tutta la sua complessa architettura. Sia in scenari normotipici, sia in condizioni di psicopatologia conclamata, nessuno dovrebbe avvicinarsi all’uomo con l’intento di frazionare fenomeni che, invece, per la loro complessità, hanno bisogno di considerazioni altrettanto globali.

La complessità è ormai il principio paradigmatico (ontologico ed epistemologico) irrinunciabile non soltanto per chi si occupa delle scienze fisico-biologiche, ma anche –forse soprattutto– per chi svolge la propria professione in ambito medico-psichiatrico e psicoterapeutico, e si occupa quindi di particolari condizioni psicopatologiche.

Sulla base di questa premessa di carattere epistemologico, anche per la persona con disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder – ADHD) non è opportuno parlare di intervento al singolare, ma bisogna sempre concepire una rete complessa di interventi, ricalibrati di volta in volta sull’unicità irripetibile delle sue particolari condizioni.

È questo, ad esempio, il principio epistemologico e antropologico su cui si basa il modello bio-psico-sociale dell’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF-CY), sviluppato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2001).  Tale principio considera il pensiero della complessità indispensabile per realizzare un’ermeneutica autentica del disagio, delle difficoltà e dei bisogni speciali della persona, intercettata nella sua unicità.

La persona torna, nella logica dell’ICF-CY al centro dell’attenzione genitoriale e pedagogico-assistenziale, conservando il suo insostituibile valore umano senza rischiare nessuna forma di riduzionismo biologistico e senza finire vittima di perturbanti alienazioni sociali. Il pensiero complesso ci spinge, quindi, a mettere in relazione gli aspetti medico-biologici coinvolti nel disturbo del soggetto con i fattori contestuali (ambientali e relazionali) che a ben vedere risultano imprescindibili per una piena presa in carico del soggetto.

L’analisi del contesto ambientale risulta un aspetto assai significativo per i casi di ADHD. Ogni educatore, pedagogista o insegnante dovrebbe determinare accuratamente tutti quei fattori fisici barrieranti o facilitanti che influiscono in qualche modo nelle attività e, in generale, nella vita della persona con ADHD.

È opportuno, inoltre, considerare anche i fattori contestuali sociali (l’insieme delle relazioni significative che la persona con ADHD vive ogni giorno con i familiari, e con le figure scolastiche e specialistiche di riferimento) e comprendere se i suoi bisogni siano sempre messi nella giusta prospettiva e siano sempre valorizzate le azioni della cura, del dialogo autentico e della relazione umana.

Contrariamente alla logica dell’imperante paradigma medico-riduzionista del nostro tempo, bisogna entrare nell’ottica (antropologica, prima ancora che pedagogica e terapeutica) che i disagi e i disturbi più o meno severi della persona non sono realtà ontologiche immutabili, ma si costruiscono in relazione ad un insieme di fattori sui quali le figure preposte alla cura possono, con coscienza e determinazione, intervenire attivamente.

In altri termini, il peso che una determinata condizione neuropsichiatrica può avere nell’esistenza di una persona dipende molto dal modo in cui il contesto intorno a lui si predispone al suo accoglimento. Questo vale sicuramente per tutte le esistenze disturbate da condizioni psicopatologiche e neuropsichiatriche, ma vale ancor di più per quelle persone i cui problemi –ed è la fattispecie dell’ADHD– si attestano soprattutto sul piano comportamentale e socio-relazionale.

In questi casi l’ambiente sociale circostante patisce molte pressioni, a cominciare dallo stress causato dal tentativo di gestire i comportamenti travolgenti (tale gestione non deve perdere mai la sua umanità e mai deve venir meno al rispetto autentico per la persona con ADHD).

La logica della complessità ci invita inoltre a considerare anche la prospettiva del soggetto iperattivo. Non possiamo infatti ignorare che anche la persona iperattiva, a sua volta, accumula una gran quantità di pressioni ambientali causate principalmente dalla frustrazione dei suoi impulsi e dalla mancata realizzazione dei suoi –pur disordinati– desideri. Questo potrebbe accrescere la rabbia nella persona con ADHD, aggravando quindi un quadro già di per sé assai delicato. Non si dimentichi, infatti, che una percentuale stimata tra il 40% e il 50% dei soggetti con ADHD tende a sviluppare un disturbo oppositivo-provocatorio (DOP) che s’innesta nel già difficile quadro del soggetto, concorrendo a peggiorare la qualità delle sue relazioni.

Una percentuale stimata tra il 10-15% tende a sviluppare un disturbo della condotta (DC), che spesso assume la forma di manifestazione di aggressività diretta verso cose e persone, animali o proprietà proprie e altrui (Muratori, 2005).

Ben oltre, però, la logica schematica e asettica delle categorie nosografiche, ciò che è importante evidenziare è che al fondo di tali condotte c’è una persona sofferente, la cui esistenza lacerata trova nel disordinato e violento rifiuto delle regole una certa forma di malsana realizzazione (fintantoché gli interventi rieducativi messi in atto non abituino il soggetto a realizzare nuove strategie comportamentali).

In queste delicate circostanze è importante stabilire fin da subito un’accurata pianificazione degli interventi, e organizzarli in modo tale da non lasciar scoperta alcuna dimensione della vita della persona con ADHD. L’aspetto fondamentale da tener sempre presente in sede di programmazione degli interventi, è che essi dovranno per l’appunto adeguarsi ad un soggetto incapace –per ragioni determinate neurobiologicamente– di pianificare, programmare, mantenere l’attenzione e restare nel qui ed ora del compito.

Interventi sulla sfera relazionale delle persone con ADHD

La cura delle persone con ADHD non può certamente prescindere da un approccio relazionale che faccia dell’empatia il suo cardine principale. È opportuno ribadire energicamente una tesi che, sebbene sia valida universalmente, acquista particolare rilievo in alcune complicate circostanze: il rapporto con i soggetti con ADHD è, prima di ogni altra cosa, una relazione umana. Nessuno, né insegnante, né educatore, né specialista, può derogare, all’imperativo morale del rispetto della persona. Inoltre, non soltanto ogni intervento educativo o terapeutico deve basarsi su una relazione fondata sull’empatia, ma è importante anche far sì che il soggetto iperattivo, realizzando con tali figure una relazione di forte spessore umano, impari col tempo a sviluppare relazioni più sane.

Tutto ciò diventa tanto più doveroso quanto più il soggetto stesso, nella dirompenza dei suoi comportamenti impulsivi, tende a trascinare i protagonisti impegnati nella cura ai limiti del burnout. Pertanto è assai raccomandabile che la comunicazione verbale e non verbale degli attori in gioco mantenga elevati i livelli di affabilità, assertività e umanità. È necessario che il tono della voce, quando ci si rivolge al soggetto con ADHD, sia rassicurante e disteso, e bisogna estromettere dall’azione pedagogico-terapeutica ogni tipo di punizione e umiliazione.

L’empatia è la capacità umana di poter provare in prima persona –automaticamente oppure volontariamente, con una immedesimazione voluta e consapevole– gli stati interni di un altro. È la capacità di sentire ciò che l’altro sente e sintonizzare così i vissuti emotivi. L’empatia è sì una capacità innata sulla quale si basa la relazionalità umana, ma è anche una virtù da affinare e, in un certo senso, da allenare con la pratica effettiva della cura insieme all’altro. Imparare a mettere da parte il proprio io per sentire ciò che l’altro sente è importante indistintamente per tutti, sebbene acquisti grande importanza soprattutto per chi è impegnato in relazioni di aiuto.

 Collocarsi al centro del mondo del soggetto con ADHD non è certamente semplice. Bisognerebbe infatti riuscire a immedesimarsi al punto da sperimentare la triade dei sintomi primari (impulsività, disattenzione e iperattività) per cercare di comprendere l’estrema difficoltà che egli incontra nello svolgimento anche del più semplice compito quotidiano. Ma porsi al centro del mondo ADHD aiuta anche a comprendere gli aspetti sui quali è più urgente lavorare con interventi mirati. Forse al lettore basterà un solo esempio per comprendere come ciò che a noi –in condizioni normali– può sembrare normale, come lo scorrere del tempo durante un compito più o meno significativo, per la persona con ADHD può facilmente diventare, invece, una situazione particolarmente ansiogena e perturbante. La percezione del tempo per il soggetto con ADHD è assai peculiare, soprattutto a causa della scarsa resistenza attentiva che li contraddistingue. Dal punto di vista fenomenologico si potrebbe dire che la loro percezione del tempo è assai frammentata e discontinua, poiché anche in un arco temporale assai breve, molto spesso ogni loro attività è sospesa e perturbata da impetuosi impulsi pressoché ingovernabili. Il loro tempo non scorre in modo continuativo, ma si dissolve in un’infinità disparata di direzioni diverse, prive molto spesso di logiche comprensibili e di coerenza.

Questo genere di immedesimazione fenomenologica provoca un brivido a noi che al tempo –pur sprecandone tanto– riusciamo comunque a dare una direzione (non certo cronologica, ma di senso). Si tratta di esperienze che non di rado raggiungono punte di profonda drammaticità. Eppure tutto ciò ci conferma che una delle strategie di elezione è proprio quella di una strutturazione del tempo ben precisa che sia resa nota al soggetto con ADHD, unitamente ad altre preziose informazioni (durata di ogni singola fase di lavoro, difficoltà del compito, prima pausa utile) in grado di alleviare la paura dell’imprevedibilità, il senso di impotenza e l’ansia anticipatoria.

L’importanza di un lavoro mirato sulla componente emotiva del disturbo

In questo quadro già assai ricco va compreso anche l’importante capitolo del lavoro sugli aspetti emotivi della persona con ADHD. I soggetti con particolari difficoltà attentive e con gravi disregolazioni emotive necessitano di un importante lavoro sulle componenti emotive, che prenda le mosse da un’adeguata conoscenza delle emozioni, la cui natura è da loro frequentemente ignorata. Questa ignoranza è dovuta al fatto che i loro vissuti emotivi sono esperiti in modo assai turbolento, caotico e disordinato e in simili circostanze è davvero difficile riuscire a riconoscere e classificare nel proprio vocabolario emotivo le emozioni sperimentate e sperimentabili colte nelle loro sottili differenze e sfumature. È importante quindi insegnare al soggetto iperattivo a saper riconoscere le più basilari manifestazioni dell’attivazione emotiva e a saper interpretare correttamente il proprio linguaggio corporeo. Nelle prime fasi del lavoro psico-pedagogico è importante far acquisire al soggetto con ADHD un buon vocabolario emotivo, prendendo le mosse dalle emozioni di base per poi procedere progressivamente e cautamente verso un’alfabetizzazione emotiva più complessa. In questa fase è importante che la figura di riferimento che ha in cura il soggetto riesca a strutturare una relazione sufficientemente sana da consentire, in una consolidata atmosfera di fiducia, di fargli vivere  –magari grazie alla realizzazione di giochi di ruolo e di realtà– tutto il ventaglio esperibile delle emozioni primarie.

Questa sperimentazione controllata delle emozioni primarie è in grado di creare una familiarità della persona con ADHD con la propria sfera delle manifestazioni emotive, togliendo ad esse quell’aura misteriosa di fenomeni incontrollabili, e rendendoli quindi episodi fisiologici che vanno invece gestiti e vissuti con la massima consapevolezza. Il beneficio derivante da questo genere di interventi consiste nel fatto che la sperimentazione controllata delle emozioni offre al soggetto iperattivo l’occasione preziosa di apprendere, in modo positivo e costruttivo, strategie comportamentali diverse rispetto a quelle che usualmente, alla prima attivazione emotiva, avrebbe impulsivamente messo in atto.

A questo scopo potrebbe rivelarsi assai utile come attività di apprendimento emotivo quella del mimo (realizzazione sia a scuola sia a casa, in ambiente familiare). La figura di riferimento potrebbe preparare un certo numero di scenette, ognuna delle quali dovrebbe coinvolgere almeno un paio di protagonisti in reciproca interazione. Dopo aver spiegato al soggetto, con linguaggio semplice e diretto, il compito specifico, lo si dovrebbe invitare a mimarla cercando di immedesimarsi nell’emozione osservata. Si dovrebbe poi invitare il soggetto a descriverne le cause e le sensazioni e a riflettere su quanti modi diversi (funzionali e disfunzionali) ci sono per esprimere un’emozione.

Il secondo gruppo di interventi riguardano la tolleranza emotiva. Sempre nell’ambito di una relazione positiva e accogliente, il lavoro dovrebbe quindi orientarsi verso un maggiore consolidamento della capacità del bambino di riuscire a tollerare una crescente attivazione emotiva senza mettere in atto subito comportamenti disfunzionali. In questa fase è essenziale che il bambino cominci ad esporsi in modo sempre più prolungato alle emozioni intense imparando a viverle in modo controllato, consapevole e sereno senza lasciarsi passivamente travolgere da esse.

L’elaborazione delle emozioni è un altro passo importantissimo, da non sottovalutare. Non soltanto occorre individuare le situazioni elicitanti (quelle cioè che attivano i comportamenti disfunzionali), ma è importante anche che, ad un certo punto del percorso educativo, il soggetto con ADHD sia in grado di cominciare a riconoscere in autonomia, e a saper poi ricostruire, in quali situazioni e a causa di quali fattori scatenanti ha realizzato poi comportamenti irregolari e disfunzionali.

Il soggetto, cioè, deve saper riconoscere tutti quei fattori in grado di attivarlo oltremisura per poter intervenire su di essi in modo autonomo o, se non altro, per poterli evitare oppure, se ciò dovesse essere impossibile, per poter scegliere strategie comportamentali alternative.

Infine è importante che il soggetto impari a modulare le emozioni, la cui manifestazione troppo intensa potrebbe avere conseguenze negative. Questo è un lavoro che necessariamente dovrebbe svolgersi nell’ambito di un percorso psicoterapeutico, nel quale il soggetto potrebbe beneficiare di tecniche di rilassamento e di gestione della rabbia e della frustrazione.

Questo genere di interventi potrebbe basarsi sull’attività immaginativa del soggetto. Si potrebbe chiedere al bambino iperattivo di immaginare scene particolarmente stressanti e ansiogene. Si potrebbe poi chiedere quali emozioni proverebbe se si trovasse in una situazione simile, oppure come gestirebbe un’esperienza così stressante, o ancora che comportamento metterebbe in atto se si trovasse a vivere veramente una simile occasione. Si dovrebbero poi elaborare insieme a lui tutte le risposte fornite per cercare di realizzare una più funzionale ristrutturazione interiore, sostituendo le modalità disfunzionali di gestione emotiva con strategie di coping più adattive.

Sono queste, in definitiva, le grandi linee del lavoro sulla dimensione emotiva importanti per intervenire sulla qualità delle esperienze interiori della persona con ADHD.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • D. Ianes, S. Cramerotti, C. Scapin (2019). Profilo di funzionamento su base ICF-Cy e Piano educativo individualizzato, Erickson, Trento.
  • G. M. Marzocchi, E. Bongarzone (2019). Disattenti e iperattivi. Cosa possono fare genitori e insegnanti, Mulino, Bologna.
  • F. Muratori, Ragazzi violenti (2005). Il Mulino, Bologna.
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  • C. Ravazzolo, R. De Beni, A. Moe’ (2005). Stili attributivi motivazionali: percorsi per migliorare le capacità di apprendimento dei bambini dai 4 agli 11 anni, Erickson, Trento.
  • G. M. Marzocchi (2003). Bambini disattenti e iperattivi, Il Mulino, Bologna.
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